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Bersani: «Pd diviso? Siamo i soli a discutere», di Adriana Comaschi

Pier Luigi Bersani, il giorno dopo l’incontro con Monti, è «più ottimista» sull’articolo 18. E a Bologna respinge le descrizioni del Pd come un partito diviso: «Siamo gli unici che discutiamo». Lo spettro che troppo spesso, ancora, agita i democratici lo liquida così: «È diventato uno straccio da brandire, chiediamoci perché». Pier Luigi Bersani ieri a Bologna torna a tracciare quelli che per lui sono i confini di un confronto sull’articolo 18: «Cancellarlo non esiste, si può aggiustare qualcosa nella sua applicazione, per un reintegro ci vogliono anche sei anni». Il tema però «non è centrale», sottolinea il leader, e allora basta parlare di «un Pd diviso: sembra che abbiamo dei problemi perché siamo solo noi a discuterne».
Il leader Pd arriva sotto le due torri per una lunga giornata tutta centrata sui temi dell’occupazione e trova il ferro già caldo: da giorni le cronache registrano le polemiche seguite all’“outing” del presidente di Legacoop Bologna, Gianpiero Calzolari, sulla cooperazione che «non ha parlato abbastanza dell’articolo 18, non possiamo fare finta che la crisi non ci sia». Uscita subito stoppata dal numero uno nazionale Giuliano Poletti, ma il dibattito è aperto: il senatore Pd Gian Carlo Sangalli sposa la linea Calzolari argomentando, «l’articolo 18 è stato introdotto in un’altra era, in Italia c’è troppa resistenza al cambiamento».
Facile capire perché Bersani tradisca l’impazienza a chi gli chiede conto di questo nuovo sommovimento dentro il partito e in un’area del mondo del lavoro tradizionalmente considerata “vicina”. Specie in terra emiliana. Di certi temi «discutiamo solo noi», ecco perché passa il messaggio di un Pd dalle mille anime sulla riforma del mondo del lavoro. Invece la direzione è tracciata, e il confronto in aula renderà giustizia ai democratici: «Nel Pd c’è libertà di parola, ma siamo gli unici ad aver presentato proposte precise in Parlamento». Ovvero «lotta alla precarietà e ammortizzatori sociali, incentivi all’occupazione femminile», ecco cosa c’è nero su bianco, «condiviso negli organismi dirigenti, nelle assemblee».
C’è poi chi già declina sul territorio: i democratici bolognesi, forti di un’indagine Ires-Cgil presentata ieri con Bersani, lanciano una campagna contro «la precarietà, male assoluto». Anche senza aspettare interventi nazionali: agli amministratori locali verrà proposto di concedere agevolazioni sulla fiscalità locali alle aziende che assumono in pianta stabile. Il primo cittadino di Bologna Virginio Merola ci sta, «potremmo differenziare le tarifffe Imu». Esempi concreti di come aggiustare il tiro, insomma, di un confronto difficile sul mercato del lavoro. Perchè, riassume il segretario Pd, «la flexsecurity non si fa con i fichi secchi». Intanto saluta come un passo avanti il faccia con il premier Monti: «Oggi sono più ottimista ammette qualche giorno fa mi sembrava ci fosse un’aria da “liberi tutti”, ognuno fa quel che vuole». E alla tavola rotonda in casa delle cooperative, a cui partecipa con Pier Ferdinando Casini, Bersani trova la sponda del leader Udc: «L’articolo 18 non è un problema centrale detta Casini -, si può discutere sui suoi effetti negativi che sono però acuiti dalla lungaggine del contenzioso giudiziario». Rilancio anche su un altro capitolo difficile: «Se si stabiliscono nuovi ammortizzatori sociali sono totalmente d’accordo con Bersani, serve il contributo del Governo».
IL RAPPORTO CON IL GOVERNO
Al premier, Bersani aveva presentato anche un ragionamento più ampio, che torna a commento dei risultati della ricerca bolognese. I questionari disegnano il ritratto di lavoratori poco pagati, insicuri, insoddisfatti anche per la scarsa possibilità di incidere sull’organizzazione del lavoro. Invece «la gente non lavora solo per mangiare, c’è un diritto a condizioni soddisfacenti, sono gli stessi concetti che ho sottoposto a Monti». Le liberalizzazioni? «Amerei che il governo si mettesse con chi vuole rafforzarle». Allo scadere dei primi 100 giorni dell’esecutivo Monti, Bersani comunque lo promuove, «ne penso bene, ci ha evitato il baratro del rischio Grecia. Noi sosteniamo questo governo: ma con le nostre idee torna a puntualizzare -. E mi capita di alzare la voce, quando vengono fuori cose pericolose». Monti resisterà oltre il 2013? «No, penso che ci sarà un bipolarismo più civilizzato». Ora però c’è altro di cui preoccuparsi. In Parlamento «non c’è una maggioranza politica, va cercata tutte le volte, ogni provvedimento va discusso un po’». E «abbiamo davanti mesi non semplici, specie per la gente comune. Questo governo può darci solo alcune cose, non tutte. Ora comincio un viaggio in Italia perché bisogna guardare con i propri occhi».

L’Unità 25.02.12

"I partiti devono rinnovarsi altrimenti non c´è democrazia non possiamo fermarci a Monti", di Goffredo De Marchis

Atteggiamenti acritici, Monti o non Monti, non sono consoni alla democrazia che è un regime critico. Il Parlamento è delegittimato. Sarebbe buona cosa avere comunque un voto popolare per la riforma. Il professor Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte Costituzionale, firma, a nome di tutta l´associazione Libertà e Giustizia, il primo manifesto del dopo-Berlusconi. Un modo per celebrare i dieci anni di vita di L&g e «per progettare l´avvenire».
Nel suo documento, professore, lei sembra non accodarsi alla Monti-mania. Perché?
«Perché l´atteggiamento acritico è in ogni caso, Monti e non Monti, non consono alla democrazia che è un regime per definizione critico, dove tutti pensano con la propria testa ed è escluso il culto della personalità. Tempo fa in un librettino, trattando del processo di Gesù – uno scandalo della democrazia – si è contrapposta la democrazia dogmatica e la democrazia populista alla democrazia critica. Quest´ultima è la versione liberale della democrazia. Quindi, con tutto il rispetto per le fatiche del governo tecnico e con la speranza che si ripone nell´operazione Monti, la rinuncia alla politica, alla lunga, mi pare un pericolo».
Siamo alla democrazia sospesa?
«Il governo tecnico di Mario Monti è probabilmente il meglio che il tempo presente ci può offrire. Ma occorre riportare in onore la politica. Certo, i partiti attuali offrono un pessimo spettacolo. L´esecutivo deve fronteggiare altri interlocutori: lobby, associazioni, sindacati. Le forze politiche sono ridotte al mugugno o al mugolio. La ripresa della democrazia e della politica però ha bisogno di partiti rinnovati. Sono l´unico strumento che conosciamo per unificare la società e tenerla insieme».
Sbaglia allora chi a destra e a sinistra invoca Monti a Palazzo Chigi anche dopo le elezioni del 2013?
«Assistiamo a due fenomeni contemporaneamente. Da una parte al tentativo di impadronirsi del fenomeno Monti; dall´altra al desiderio di nascondere dietro ai tecnici la propria impotenza politica. Ma questo è un problema. In generale, siamo di fronte ad eventi che devono farci riflettere. Le istituzioni europee, mesi fa, hanno imposto alla Grecia di non fare un referendum e ora sembra che vogliano imporre a quel paese di non votare ad aprile. In Italia sento ipotesi di rinvio delle elezioni amministrative. E nessuno osa dire che a qualcuno piacerebbe rinviare pure le politiche del 2013. Siamo tutti impazziti?».
Vede per noi un rischio Grecia non solo economico ma anche democratico?
«Non vedo, ma temo. Consideriamo che l´articolo 11 della Costituzione, su cui si basa la nostra adesione alla Ue, consente rinunce alla nostra sovranità solo in condizioni di parità con gli altri Stati e solo a favore di istituzioni sovranazionali che operino per la giustizia tra le nazioni, non per favorire le operazioni di investitori – spesso speculatori – che operano sui mercati finanziari. Limitazioni della sovranità sì ma non a occhi chiusi. L´arduo doppio compito del governo è salvarci dalla bancarotta e salvare la sovranità nazionale. Per questa seconda parte la tecnica non basta: occorre la politica».
Perché Leg non vuole che questo Parlamento faccia le riforme costituzionali? La riduzione del numero dei parlamentari come si realizza?
«Prima si deve andare a votare, poi si mette mano alle riforme istituzionali con un Parlamento nuovo. Quella per la riduzione del numero dei parlamentari è una battaglia giusta ma tutto sommato marginale. Come si diceva una volta? I problemi sono ben altri. Aggiungo: la revisione della Costituzione, quando è autoriforma della politica, risulta molto difficile. Un antico testo anonimo firmato “il vecchio oligarca” – “La costituzione degli ateniesi” – sosteneva che la democrazia degenera senza avere le energie per autoriformarsi. È come il barone di Munchausen che cade nelle sabbie mobili e vuole tirarsi fuori aggrappandosi ai codini della parrucca. Tragicamente quel testo dice che alla fine la democrazia può solo essere abbattuta. Ho ritegno a dirlo. Allora diciamo così: la sfida della nostra classe politica è dimostrare che il vecchio oligarca aveva torto».
E il Porcellum con quale formula va spazzato via?
«Esistono tante idee di giustizia elettorale, come la chiamo io. È giusto il proporzionale, lo è il sistema uninominale dove si elegge il migliore, lo è anche il maggioritario che premia il più forte per permettergli di governare. Sono tutti sistemi che hanno una logica chiara. L´elettore sa come viene usato il suo voto. L´unica cosa che i partiti non dovrebbero fare sono i pasticci cioè mescolare sistemi eterogenei solo per soddisfare il loro interesse».
Voi proponete di sottoporre comunque a referendum eventuali riforme istituzionali. Anche se il Parlamento le approva con la maggioranza di due terzi. Ma è contro la Costituzione.
«La nostra richiesta nasce in un contesto di democrazia rappresentativa debole e delegittimata. All´assemblea costituente si disse: se c´è una maggioranza tanto ampia non c´è bisogno di interpellare i cittadini. Ma la premessa qual era? Che quei partiti rappresentassero davvero il popolo italiano. Oggi viviamo una crisi della rappresentanza. Quel presupposto è diventato fragile. Sarebbe buona cosa avere comunque un voto popolare. Che o tolga di mezzo la riforma o la legittimi in maniera solenne».
Come se la caverà Libertà e giustizia senza Berlusconi?
«Possiamo riempire due armadi con l´attività svolta in dieci anni. L´armadio di Berlusconi resta aperto per quel che si dice essere il “berlusconismo”, qualcosa di più pervasivo del suo fondatore. Ci sono decine di leggi ad personam che andrebbero riviste. E non solo: la condanna della Corte di Strasburgo per la politica anti-immigrati non dice niente? Il secondo armadio è il futuro della politica. Ci dicono: cosa proponete oltre a manifestare esigenze e bisogni? Ma, diciamo noi, la risposta tocca alla classe dirigente proporre, è lì per questo. Noi manifestiamo esigenze. Una proposta che ci pare fondamentale, però l´abbiamo: la politica si apra alla società civile. Che non è il salotto buono, ma sono cittadini di ogni età, ceto sociale, professione che dedicano tempo, competenza, denaro ad attività d´interesse pubblico per pura dedizione al bene comune. Abbiamo bisogno di altre facce, d´altre energie, d´altri carismi. Soprattutto, di parole nuove. Non vede che quelle di oggi sono solo ripetizioni?»

“I partiti devono rinnovarsi altrimenti non c´è democrazia non possiamo fermarci a Monti”, di Goffredo De Marchis

Atteggiamenti acritici, Monti o non Monti, non sono consoni alla democrazia che è un regime critico. Il Parlamento è delegittimato. Sarebbe buona cosa avere comunque un voto popolare per la riforma. Il professor Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte Costituzionale, firma, a nome di tutta l´associazione Libertà e Giustizia, il primo manifesto del dopo-Berlusconi. Un modo per celebrare i dieci anni di vita di L&g e «per progettare l´avvenire».
Nel suo documento, professore, lei sembra non accodarsi alla Monti-mania. Perché?
«Perché l´atteggiamento acritico è in ogni caso, Monti e non Monti, non consono alla democrazia che è un regime per definizione critico, dove tutti pensano con la propria testa ed è escluso il culto della personalità. Tempo fa in un librettino, trattando del processo di Gesù – uno scandalo della democrazia – si è contrapposta la democrazia dogmatica e la democrazia populista alla democrazia critica. Quest´ultima è la versione liberale della democrazia. Quindi, con tutto il rispetto per le fatiche del governo tecnico e con la speranza che si ripone nell´operazione Monti, la rinuncia alla politica, alla lunga, mi pare un pericolo».
Siamo alla democrazia sospesa?
«Il governo tecnico di Mario Monti è probabilmente il meglio che il tempo presente ci può offrire. Ma occorre riportare in onore la politica. Certo, i partiti attuali offrono un pessimo spettacolo. L´esecutivo deve fronteggiare altri interlocutori: lobby, associazioni, sindacati. Le forze politiche sono ridotte al mugugno o al mugolio. La ripresa della democrazia e della politica però ha bisogno di partiti rinnovati. Sono l´unico strumento che conosciamo per unificare la società e tenerla insieme».
Sbaglia allora chi a destra e a sinistra invoca Monti a Palazzo Chigi anche dopo le elezioni del 2013?
«Assistiamo a due fenomeni contemporaneamente. Da una parte al tentativo di impadronirsi del fenomeno Monti; dall´altra al desiderio di nascondere dietro ai tecnici la propria impotenza politica. Ma questo è un problema. In generale, siamo di fronte ad eventi che devono farci riflettere. Le istituzioni europee, mesi fa, hanno imposto alla Grecia di non fare un referendum e ora sembra che vogliano imporre a quel paese di non votare ad aprile. In Italia sento ipotesi di rinvio delle elezioni amministrative. E nessuno osa dire che a qualcuno piacerebbe rinviare pure le politiche del 2013. Siamo tutti impazziti?».
Vede per noi un rischio Grecia non solo economico ma anche democratico?
«Non vedo, ma temo. Consideriamo che l´articolo 11 della Costituzione, su cui si basa la nostra adesione alla Ue, consente rinunce alla nostra sovranità solo in condizioni di parità con gli altri Stati e solo a favore di istituzioni sovranazionali che operino per la giustizia tra le nazioni, non per favorire le operazioni di investitori – spesso speculatori – che operano sui mercati finanziari. Limitazioni della sovranità sì ma non a occhi chiusi. L´arduo doppio compito del governo è salvarci dalla bancarotta e salvare la sovranità nazionale. Per questa seconda parte la tecnica non basta: occorre la politica».
Perché Leg non vuole che questo Parlamento faccia le riforme costituzionali? La riduzione del numero dei parlamentari come si realizza?
«Prima si deve andare a votare, poi si mette mano alle riforme istituzionali con un Parlamento nuovo. Quella per la riduzione del numero dei parlamentari è una battaglia giusta ma tutto sommato marginale. Come si diceva una volta? I problemi sono ben altri. Aggiungo: la revisione della Costituzione, quando è autoriforma della politica, risulta molto difficile. Un antico testo anonimo firmato “il vecchio oligarca” – “La costituzione degli ateniesi” – sosteneva che la democrazia degenera senza avere le energie per autoriformarsi. È come il barone di Munchausen che cade nelle sabbie mobili e vuole tirarsi fuori aggrappandosi ai codini della parrucca. Tragicamente quel testo dice che alla fine la democrazia può solo essere abbattuta. Ho ritegno a dirlo. Allora diciamo così: la sfida della nostra classe politica è dimostrare che il vecchio oligarca aveva torto».
E il Porcellum con quale formula va spazzato via?
«Esistono tante idee di giustizia elettorale, come la chiamo io. È giusto il proporzionale, lo è il sistema uninominale dove si elegge il migliore, lo è anche il maggioritario che premia il più forte per permettergli di governare. Sono tutti sistemi che hanno una logica chiara. L´elettore sa come viene usato il suo voto. L´unica cosa che i partiti non dovrebbero fare sono i pasticci cioè mescolare sistemi eterogenei solo per soddisfare il loro interesse».
Voi proponete di sottoporre comunque a referendum eventuali riforme istituzionali. Anche se il Parlamento le approva con la maggioranza di due terzi. Ma è contro la Costituzione.
«La nostra richiesta nasce in un contesto di democrazia rappresentativa debole e delegittimata. All´assemblea costituente si disse: se c´è una maggioranza tanto ampia non c´è bisogno di interpellare i cittadini. Ma la premessa qual era? Che quei partiti rappresentassero davvero il popolo italiano. Oggi viviamo una crisi della rappresentanza. Quel presupposto è diventato fragile. Sarebbe buona cosa avere comunque un voto popolare. Che o tolga di mezzo la riforma o la legittimi in maniera solenne».
Come se la caverà Libertà e giustizia senza Berlusconi?
«Possiamo riempire due armadi con l´attività svolta in dieci anni. L´armadio di Berlusconi resta aperto per quel che si dice essere il “berlusconismo”, qualcosa di più pervasivo del suo fondatore. Ci sono decine di leggi ad personam che andrebbero riviste. E non solo: la condanna della Corte di Strasburgo per la politica anti-immigrati non dice niente? Il secondo armadio è il futuro della politica. Ci dicono: cosa proponete oltre a manifestare esigenze e bisogni? Ma, diciamo noi, la risposta tocca alla classe dirigente proporre, è lì per questo. Noi manifestiamo esigenze. Una proposta che ci pare fondamentale, però l´abbiamo: la politica si apra alla società civile. Che non è il salotto buono, ma sono cittadini di ogni età, ceto sociale, professione che dedicano tempo, competenza, denaro ad attività d´interesse pubblico per pura dedizione al bene comune. Abbiamo bisogno di altre facce, d´altre energie, d´altri carismi. Soprattutto, di parole nuove. Non vede che quelle di oggi sono solo ripetizioni?»

"Chi assiste a scuola i ragazzi disabili", di Franco Buccino

La scuola ha chiamato la nonna di Luca, un ragazzo disabile, perché il nipote se l’è fatta addosso. La signora si precipita a scuola con l’occorrente, anche se salviette e ricambio stanno sempre nella cartella del nipote. Lo pulisce e lo cambia sotto gli occhi dell’assistente materiale, che sta lì in piedi, a braccia conserte, con uno sguardo tra severo e accigliato. L’assistente si rivolge alla signora facendole notare che è quasi mezzogiorno e le chiede se si porta via il nipote. E no – sbotta la nonna – c’è ancora un’ora e mezza di scuola; vengo a prenderlo alla fine delle lezioni. Mentre va via, già si pente per quello scatto. Sia chiaro, la signora ha energia e risorse per mettere in riga assistente materiale, insegnanti e preside. Teme per suo nipote. Non che lo maltrattino, ma che lo prendano in antipatia. A pensare, dice, che il mattino il papà lo obbliga a stare seduto sul water anche per un’ora. Proprio per evitare quell’inconveniente e soprattutto l’umiliazione al figlio. Insomma, tornando battagliera, chiede quali siano i compiti dell’assistente materiale. Una bella domanda. Che però dovrebbe essere preceduta da un’altra. Qual è il diritto allo studio dei ragazzi diversamente abili nel nostro paese.

Per principio occorre parlar bene della scuola pubblica, compresi quanti in essa lavorano, perché da anni è troppo maltrattata dai governanti, perché molti scaricano su di essa le proprie responsabilità e perché gli operatori fanno spesso più del loro dovere. Ma in situazioni come questa, una scuola diventa indifendibile: e con essa il dirigente, gli insegnanti, i bidelli e l’assistente materiale. Ci sono scuole, neanche poi in numero così insignificante, per le quali l’handicappato è merce preziosa quando si formano le classi, le cattedre e i posti, ma poi diventa un peso, un fastidio, perfino un elemento negativo per “l’appetibilità” sul territorio. Per avere più ore di sostegno alcune scuole sono pronte a fare carte false, salvo poi ad affidare agli insegnanti di sostegno i disabili perché li portino in qualche auletta o in giro per la scuola, purché fuori dalla classe. Gli insegnanti di sostegno, in gran numero precari, sono in genere preparati e formati, soprattutto da questa relazione speciale con i disabili e il loro mondo; ma purtroppo l’Amministrazione scolastica tenta di inquinare tale categoria con le riconversioni coatte di insegnanti in esubero, allettandoli con poche ore di corso e la prospettiva di una sede più stabile e vicino casa.

All’inizio delle lezioni, se non c’è l’assistente materiale, per i ragazzi più gravi neanche comincia l’anno scolastico. Manifestazioni e scioperi delle cooperative, con il sostegno di genitori e insegnanti, in genere portano alla stipula della convenzione. Poi, spesso, escono tutte le contraddizioni. Le persone, a volte, non sono tagliate per quel compito dell’assistenza materiale. Persone che si sono messe per sbarcare il lunario, ma poi ritengono umiliante quell’attività; più spesso persone “sprecate” in quella mansione. Magari hanno diplomi e lauree; si sono inseriti nella cooperativa per fare, che so, i sociologi o gli psicologi. Hanno un occhio rivolto alle aziende partecipate del comune che di tanto in tanto, miracolosamente, assorbono e stabilizzano qualcuno. S’interessano dei ragazzi diversamente abili loro affidati, ma sono negati per la mera assistenza materiale. In entrambi i casi, e non sono rari, il problema ritorna ai familiari dei disabili. I quali, come la stragrande maggioranza dei genitori, anche i più agguerriti e rivoluzionari, diventano moderati e prudenti nei contati con la scuola dei loro figli. Loro magari con qualche ragione in più.

Sull’integrazione dei ragazzi disabili la scuola si gioca la sua reputazione, e l’intero paese il grado di civiltà. Se pure, per assurdo, si dovessero fare altri tagli nell’istruzione, chiediamo di lasciare in pace i ragazzi disabili. E le scuole, nella programmazione e organizzazione delle loro attività, li tengano in grande considerazione. Parafrasando il celebre Quintiliano, potremmo dire: ”Si deve ai fanciulli disabili il massimo rispetto”. E magari anche alle loro nonne.

da ScuolaOggi 25.02.12

“Chi assiste a scuola i ragazzi disabili”, di Franco Buccino

La scuola ha chiamato la nonna di Luca, un ragazzo disabile, perché il nipote se l’è fatta addosso. La signora si precipita a scuola con l’occorrente, anche se salviette e ricambio stanno sempre nella cartella del nipote. Lo pulisce e lo cambia sotto gli occhi dell’assistente materiale, che sta lì in piedi, a braccia conserte, con uno sguardo tra severo e accigliato. L’assistente si rivolge alla signora facendole notare che è quasi mezzogiorno e le chiede se si porta via il nipote. E no – sbotta la nonna – c’è ancora un’ora e mezza di scuola; vengo a prenderlo alla fine delle lezioni. Mentre va via, già si pente per quello scatto. Sia chiaro, la signora ha energia e risorse per mettere in riga assistente materiale, insegnanti e preside. Teme per suo nipote. Non che lo maltrattino, ma che lo prendano in antipatia. A pensare, dice, che il mattino il papà lo obbliga a stare seduto sul water anche per un’ora. Proprio per evitare quell’inconveniente e soprattutto l’umiliazione al figlio. Insomma, tornando battagliera, chiede quali siano i compiti dell’assistente materiale. Una bella domanda. Che però dovrebbe essere preceduta da un’altra. Qual è il diritto allo studio dei ragazzi diversamente abili nel nostro paese.

Per principio occorre parlar bene della scuola pubblica, compresi quanti in essa lavorano, perché da anni è troppo maltrattata dai governanti, perché molti scaricano su di essa le proprie responsabilità e perché gli operatori fanno spesso più del loro dovere. Ma in situazioni come questa, una scuola diventa indifendibile: e con essa il dirigente, gli insegnanti, i bidelli e l’assistente materiale. Ci sono scuole, neanche poi in numero così insignificante, per le quali l’handicappato è merce preziosa quando si formano le classi, le cattedre e i posti, ma poi diventa un peso, un fastidio, perfino un elemento negativo per “l’appetibilità” sul territorio. Per avere più ore di sostegno alcune scuole sono pronte a fare carte false, salvo poi ad affidare agli insegnanti di sostegno i disabili perché li portino in qualche auletta o in giro per la scuola, purché fuori dalla classe. Gli insegnanti di sostegno, in gran numero precari, sono in genere preparati e formati, soprattutto da questa relazione speciale con i disabili e il loro mondo; ma purtroppo l’Amministrazione scolastica tenta di inquinare tale categoria con le riconversioni coatte di insegnanti in esubero, allettandoli con poche ore di corso e la prospettiva di una sede più stabile e vicino casa.

All’inizio delle lezioni, se non c’è l’assistente materiale, per i ragazzi più gravi neanche comincia l’anno scolastico. Manifestazioni e scioperi delle cooperative, con il sostegno di genitori e insegnanti, in genere portano alla stipula della convenzione. Poi, spesso, escono tutte le contraddizioni. Le persone, a volte, non sono tagliate per quel compito dell’assistenza materiale. Persone che si sono messe per sbarcare il lunario, ma poi ritengono umiliante quell’attività; più spesso persone “sprecate” in quella mansione. Magari hanno diplomi e lauree; si sono inseriti nella cooperativa per fare, che so, i sociologi o gli psicologi. Hanno un occhio rivolto alle aziende partecipate del comune che di tanto in tanto, miracolosamente, assorbono e stabilizzano qualcuno. S’interessano dei ragazzi diversamente abili loro affidati, ma sono negati per la mera assistenza materiale. In entrambi i casi, e non sono rari, il problema ritorna ai familiari dei disabili. I quali, come la stragrande maggioranza dei genitori, anche i più agguerriti e rivoluzionari, diventano moderati e prudenti nei contati con la scuola dei loro figli. Loro magari con qualche ragione in più.

Sull’integrazione dei ragazzi disabili la scuola si gioca la sua reputazione, e l’intero paese il grado di civiltà. Se pure, per assurdo, si dovessero fare altri tagli nell’istruzione, chiediamo di lasciare in pace i ragazzi disabili. E le scuole, nella programmazione e organizzazione delle loro attività, li tengano in grande considerazione. Parafrasando il celebre Quintiliano, potremmo dire: ”Si deve ai fanciulli disabili il massimo rispetto”. E magari anche alle loro nonne.

da ScuolaOggi 25.02.12

"I cento giorni all'americana", di Francesco Merlo

Sono cento giorni di virtù e di potenza, con i tic d´inglese che sostituiscono il briffare della Minetti con la cloud computing, la nuvola dei dati; al posto del nerd e del geek di Publitalia qui arrivano la spending review e la “gestione in house”. E ci sono pure le guasconate berlusconesche: «diamoci un taglio!», «diventeremo un modello per l´Europa». Torna, infine, il politichese doroteo ma solo per definire «rimodulazione delle aliquote di accisa» il rincaro della benzina. Of course.Mario Monti, con una retorica che ricorda la funesta lavagna di “Porta a Porta”, ha raccontato sul sito web della presidenza del Consiglio i suoi primi cento giorni come, da Franklin Roosevelt in poi, fanno solo i presidenti americani. Ma non c´è niente di più italiano del “tu vo´ fa l´americano” e ciascun Paese ha i suoi simboli e le sue cabale: da noi i cento giorni rimandano, come vedremo, a destini diversi dal new deal.
Ma così va nell´Italia all´inglese: con l´e-governement e le smarts communities «l´Italia è più forte», «finalmente il Mediterraneo unisce», «il cittadino entra nel governo», e sono previste meraviglie per «le metropolitane delle grandi città», «le reti idriche del Mezzogiorno», «il sistema ferroviario del Sud», «l´edilizia carceraria», «il processo penale e la politica della sicurezza». Il tutto open date.
Certo, sono stati pesantemente tagliati i costi delle consulenze (99 alla presidenza del Consiglio: chi erano?), l´uso degli aerei di Stato, e tutti gli sprechi del governo più affaristico che mai abbia avuto l´Italia, ma riga dopo riga, il lettore si sente riscaldato dal nuovo benessere, rinfrancato dal «rilancio della crescita», rassicurato dalle «misure per l´equità». Poi un vero disagio dell´abbondanza si è impadronito di me quando ho scoperto che sono stati ridisegnati «porti e trasporti», «è stato facilitato l´accesso alle professioni», «l´Italia è semplificata» e sono stati rilanciati il turismo e persino «gli itinerari enogastronomici». Basta con tutta questa prosperità, mi sono detto. Ci sono troppe delizie! Ci sono persino le gioie domestiche e il piano-vaccini.
È un libro dei miracoli che fa saltare dopo soli cento giorni quel linguaggio della sobrietà operosa che aveva guadagnato a Monti il rispetto spontaneo di tutti noi, tutti in soggezione come scolari davanti al maestro.
Capita ai professori durante l´anno scolastico più severo di svelare un punto debole e di cedere alla vanità e farsi gigioni, abbandonarsi al birignao, esagerare per voglia di seduzione, un po´ come quegli scienziati che, pur di smentire il genio dei geni, hanno fatto correre i neutrini più veloci della luce, poi hanno chiamato i giornalisti e ne hanno dato annunzio (falso) al mondo trasformando così l´errore in orrore: la politica-annuncio è sì promozione e marketing, ma è rischio.
La politica-annuncio, che non è perdere ma prendere tempo, è la propaganda che occupa un altro spazio, è una droga che confonde, inebetisce e rintrona. Certo, Berlusconi si spingeva sino ad inaugurare da Vespa il “futuro” ponte sullo Stretto e tagliava il nastro della futura autostrada Palermo-Monaco. Ma il genere è lo stesso: il governo mette a bilancio dei suoi primi cento giorni «2 miliardi per nuove case per il Mezzogiorno», «la tutela, la gestione e la valorizzazione del sito archeologico di Pompei», «un programma straordinario di modernizzazione della formazione in Sicilia», «la riqualificazione di 1500 edifici scolastici …», la trasformazione di uno dei Paesi più malandati d´Europa in un «Paese modello per l´Europa». È poco più di una finta, ed è la più raffinata delle demagogie, persino simpatica nella sua artificiosità artistica, l´esatto rovescio della famosa gag di Nino Taranto e Totò che si piazzavano davanti a un bar e prendevano le misure di un futuro vespasiano che sarebbe stato – dicevano – sistemato in quel punto. E al proprietario del bar spiegavano che in origine il gabinetto era stato previsto davanti alla macelleria, ma poi il macellaio, anziché protestare, aveva fatto un´offerta per le orfanelle. E ora forse con un´altra offerta.
Non siamo in America e i cento giorni così enfatizzati non evocano la virtù del new deal ma l´eterno manicomio metafisico della solita politica italiana, anche perché nella nostra storia non c´è Roosevelt e i cento giorni sono quelli del “car”, centro addestramento reclute, o quelli degli studenti goliardi che raccolgono soldi per strada, o ancora quelli terribili del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa a Palermo o, per gli ex giovani della generazione Adelphi, sono quelli di Napoleone, i cento giorni raccontati da Jospeh Roth: dalla fuga dall´Elba sino alla disfatta di Waterloo e all´imbarco per Sant´Elena.

La Repubblica 25.02.12

“I cento giorni all’americana”, di Francesco Merlo

Sono cento giorni di virtù e di potenza, con i tic d´inglese che sostituiscono il briffare della Minetti con la cloud computing, la nuvola dei dati; al posto del nerd e del geek di Publitalia qui arrivano la spending review e la “gestione in house”. E ci sono pure le guasconate berlusconesche: «diamoci un taglio!», «diventeremo un modello per l´Europa». Torna, infine, il politichese doroteo ma solo per definire «rimodulazione delle aliquote di accisa» il rincaro della benzina. Of course.Mario Monti, con una retorica che ricorda la funesta lavagna di “Porta a Porta”, ha raccontato sul sito web della presidenza del Consiglio i suoi primi cento giorni come, da Franklin Roosevelt in poi, fanno solo i presidenti americani. Ma non c´è niente di più italiano del “tu vo´ fa l´americano” e ciascun Paese ha i suoi simboli e le sue cabale: da noi i cento giorni rimandano, come vedremo, a destini diversi dal new deal.
Ma così va nell´Italia all´inglese: con l´e-governement e le smarts communities «l´Italia è più forte», «finalmente il Mediterraneo unisce», «il cittadino entra nel governo», e sono previste meraviglie per «le metropolitane delle grandi città», «le reti idriche del Mezzogiorno», «il sistema ferroviario del Sud», «l´edilizia carceraria», «il processo penale e la politica della sicurezza». Il tutto open date.
Certo, sono stati pesantemente tagliati i costi delle consulenze (99 alla presidenza del Consiglio: chi erano?), l´uso degli aerei di Stato, e tutti gli sprechi del governo più affaristico che mai abbia avuto l´Italia, ma riga dopo riga, il lettore si sente riscaldato dal nuovo benessere, rinfrancato dal «rilancio della crescita», rassicurato dalle «misure per l´equità». Poi un vero disagio dell´abbondanza si è impadronito di me quando ho scoperto che sono stati ridisegnati «porti e trasporti», «è stato facilitato l´accesso alle professioni», «l´Italia è semplificata» e sono stati rilanciati il turismo e persino «gli itinerari enogastronomici». Basta con tutta questa prosperità, mi sono detto. Ci sono troppe delizie! Ci sono persino le gioie domestiche e il piano-vaccini.
È un libro dei miracoli che fa saltare dopo soli cento giorni quel linguaggio della sobrietà operosa che aveva guadagnato a Monti il rispetto spontaneo di tutti noi, tutti in soggezione come scolari davanti al maestro.
Capita ai professori durante l´anno scolastico più severo di svelare un punto debole e di cedere alla vanità e farsi gigioni, abbandonarsi al birignao, esagerare per voglia di seduzione, un po´ come quegli scienziati che, pur di smentire il genio dei geni, hanno fatto correre i neutrini più veloci della luce, poi hanno chiamato i giornalisti e ne hanno dato annunzio (falso) al mondo trasformando così l´errore in orrore: la politica-annuncio è sì promozione e marketing, ma è rischio.
La politica-annuncio, che non è perdere ma prendere tempo, è la propaganda che occupa un altro spazio, è una droga che confonde, inebetisce e rintrona. Certo, Berlusconi si spingeva sino ad inaugurare da Vespa il “futuro” ponte sullo Stretto e tagliava il nastro della futura autostrada Palermo-Monaco. Ma il genere è lo stesso: il governo mette a bilancio dei suoi primi cento giorni «2 miliardi per nuove case per il Mezzogiorno», «la tutela, la gestione e la valorizzazione del sito archeologico di Pompei», «un programma straordinario di modernizzazione della formazione in Sicilia», «la riqualificazione di 1500 edifici scolastici …», la trasformazione di uno dei Paesi più malandati d´Europa in un «Paese modello per l´Europa». È poco più di una finta, ed è la più raffinata delle demagogie, persino simpatica nella sua artificiosità artistica, l´esatto rovescio della famosa gag di Nino Taranto e Totò che si piazzavano davanti a un bar e prendevano le misure di un futuro vespasiano che sarebbe stato – dicevano – sistemato in quel punto. E al proprietario del bar spiegavano che in origine il gabinetto era stato previsto davanti alla macelleria, ma poi il macellaio, anziché protestare, aveva fatto un´offerta per le orfanelle. E ora forse con un´altra offerta.
Non siamo in America e i cento giorni così enfatizzati non evocano la virtù del new deal ma l´eterno manicomio metafisico della solita politica italiana, anche perché nella nostra storia non c´è Roosevelt e i cento giorni sono quelli del “car”, centro addestramento reclute, o quelli degli studenti goliardi che raccolgono soldi per strada, o ancora quelli terribili del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa a Palermo o, per gli ex giovani della generazione Adelphi, sono quelli di Napoleone, i cento giorni raccontati da Jospeh Roth: dalla fuga dall´Elba sino alla disfatta di Waterloo e all´imbarco per Sant´Elena.

La Repubblica 25.02.12