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“Il termometro”, di Massimo Giannini

Nella parentesi tecnocratica in cui è racchiusa la democrazia italiana, il Quirinale è il termometro che misura la temperatura dei rapporti tra un governo “strano” e una maggioranza anomala. L´aspro comunicato di Giorgio Napolitano segnala che la febbre non è mai stata così alta. Liberalizzazioni e riforma del mercato del lavoro sono un banco di prova esiziale. il governo di “impegno nazionale” si gioca, se non la sua sopravvivenza politica, la sua speranza riformatrice. Per Monti sono i giorni più difficili. Lui stesso ne è ben consapevole. Sulle liberalizzazioni, a dispetto delle promesse della vigilia, il premier deve evitare un indecoroso passo indietro. Iniziato in Commissione con i 2.400 emendamenti, l´assalto alla diligenza delle solite lobby si è perfezionato in queste ore. Vedremo l´esito della trattativa in corso al Senato, ma per ora rischiano di averla vinta, ancora una volta, le tante “gilde” piccole e grandi che monopolizzano l´economia e paralizzano la società. È vero che con più taxi e più farmacie l´Italia non risolve i suoi problemi di bassa crescita e di scarsa competitività. Ma è chiara a tutti la portata simbolica di queste battaglie di modernizzazione. Se perdi anche queste, non vai lontano.
Sul mercato del lavoro, al di là dei buoni propositi, il premier deve evitare un pericoloso passo falso. Tra parole al vento dei ministri, provocazioni insensate degli industriali e reazioni adirate dei sindacati, il negoziato sfugge di mano. Si perdono di vista l´obiettivo finale (l´aumento della buona occupazione e della produttività del lavoro) e la “merce di scambio” (un Welfare più equo e inclusivo). C´è un problema di linguaggio: non si può evocare la “monotonia” del posto fisso, quando un giovane su tre non ha neanche quello mobile. C´è un problema di messaggio: non si può evocare il valore della “coesione”, e poi ripetere ogni giorno che «il governo andrà avanti anche senza l´accordo delle parti sociali».
Sono i deficit culturali tipici delle tecnocrazie d´élite. Per questo servirebbe la politica. Ma ora proprio la politica, già delegittimata di suo, dà il peggio di sé. Manca la politica nel Pd, dove i tormenti di Bersani sull´articolo 18 nascondono una questione più profonda, che investe il profilo di una sinistra riformista ancora non del tutto compiuta. Manca la politica nel Pdl, dove i ricatti di Berlusconi sulla giustizia e sulla Rai rivelano il cinismo di una destra ormai del tutto destrutturata. La somma di queste tensioni e di queste debolezze si scarica fatalmente sul governo. Così si spiega il rigurgito corporativista che si scatena sul decreto Cresci-Italia, con il governo obbligato a subire i diktat dei Masanielli alla Loreno Bittarelli. Così si spiegano gli incidenti sul decreto Milleproroghe, con il governo che finisce ripetutamente schiacciato nella solita morsa forzaleghista.
L´ira di Napolitano, che ammonisce il Parlamento sull´uso e l´abuso degli emendamenti, precipita in questa confusa emergenza. E va letta con un´ottica non congiunturale ma strutturale. Il Capo dello Stato indica un caso specifico. Ma sarebbe sbagliato non vedere che il suo intervento, per la sua forza cogente, si estende ben oltre l´orizzonte del Milleproroghe. In quel comunicato c´è un messaggio implicito ai partiti, che oggi riguarda anche le liberalizzazioni, e domani anche la riforma del mercato del lavoro. Per ragioni diverse, centrodestra e centrosinistra, al punto più basso mai registrato nell´indice di fiducia dei cittadini, non sono “autosufficienti”. Sanno benissimo che a questo governo (del Presidente) non c´è alternativa. Dunque è inutile logorarne l´azione. La si può migliorare, ma non sabotare.

La Repubblica 24.02.12

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Decreti, richiamo di Napolitano “Stop a modifiche fuori tema” e sulle liberalizzazioni è scontro”, di Umberto Rosso

Il premier avverte: il governo non fa marcia indietro sul suo provvedimento bandiera
Una lunga lettera inviata dal capo dello Stato ai presidenti delle Camere. Napolitano richiama il Parlamento: basta con gli emendamenti “fuorisacco”, che finiscono per stravolgere i decreti. Una lunga lettera di rilievi, che il capo dello Stato spedisce a Monti e ai presidenti delle Camere, e che Fini legge in aula subito dopo l´approvazione del Milleproroghe incassata dal governo grazie al voto di fiducia. Proprio il decreto è entrato nel mirino del capo dello Stato, che adesso è chiamato a firmare il testo, ma che avverte: c´è il rischio che la Corte costituzionale possa annullarlo, come ha già fatto qualche giorno fa con alcune norme della legge del 2010, giudicate appunto «estranee alle finalità del testo». Napolitano, nella sua lettera, ricorda di essere intervenuto già varie volte sul punto. Una lettera al governo Berlusconi, esattamente un anno fa, e una missiva analoga ancora prima a Prodi. Adesso anche a Monti. Come a dire che il Quirinale si muove con equilibrio e le polemiche sollevate da un´ala del centrodestra sul trattamento di favore concesso a Monti sono smentite dai fatti. Il capo dello Stato sottolinea dunque di aver sollecitato una «rigorosa delimitazione degli eventuali emendamenti, secondo un criterio di stretta attinenza alle finalità e al contenuto originario del decreto legge». Invece, è scattato il solito maxi-mercato delle modifiche. Mettendo alla fine in difficoltà il governo, che è ieri è anche finito sotto due volte a Montecitorio, sia pure su ordini del giorno: uno della Lega sul canone Rai (votato da tutti tranne il Pd) e uno del Pd sulle graduatorie degli insegnanti.
Il segnale politico della lettera di Napolitano sembra perciò andare in soccorso dell´azione del governo: il messaggio ai partiti è di non stravolgere i provvedimenti già concordati con Palazzo Chigi. E le preoccupazioni del capo dello Stato riguardano, indirettamente, anche il provvedimento-bandiera dell´esecutivo, che rischia di precipitare nella palude degli emendamenti. Sulle liberalizzazioni infatti sale pericolosamente lo scontro, dopo la brusca frenata in Senato su taxi e le farmacie. Monti avvisa: «Il governo sul decreto non fa marcia indietro. Non potremo accogliere tutte le modifiche, soprattutto se rappresentano un arretramento». Pd e Pdl trattano. Casini però minaccia di non votare il testo in aula se il testo sulle liberalizzazioni «viene modificato al ribasso». Un clima che preoccupa Napolitano. La carica degli emendamenti al Milleproroghe, spiega, avrebbe dovuto trovare «una corretta collocazione in un distinto apposito decreto legge». Da qui la dura lettera di richiamo, arrivata quasi a sorpresa e che ha spiazzato i partiti. Qualche malumore nel Pd, fra i deputati in Transatlantico il timore che l´altolà del capo dello Stato finisca per assumere il valore di un voto a scatola chiusa al governo. Da Di Pietro, stavolta, grande soddisfazione per l´intervento del capo dello Stato, «dopo le sue parole il Milleproroghe rischia di essere un decreto nullo, e il presidente potrebbe anche non firmarlo». Eventualità, per la verità, molto remota. Visto anche che lo stesso presidente della Repubblica nella sua lettera ricorda di non disporre del potere di un rinvio «parziale» della legge, solo sui punti ritenuti estranei al provvedimento. Può solo emanare il decreto o rimandarlo indietro. Sul tavolo del Colle l´esame non potrà che essere complessivo, «evitando una decadenza di tutte le disposizioni, comprese quelle condivisibili e urgenti, qualora la rilevanza e la portata di queste risultino prevalenti».

La Repubblica 24.02.12

"Noi brava gente? Non è sempre vero", di Vladimiro Zagrebelsky

L’Italia non pratica e anzi vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. L’Italia assicura asilo ai profughi secondo le regole internazionali. Italiani brava gente. La sentenza che i diciassette giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno ieri all’unanimità emesso, ci dice che non è sempre vero e che qualche volta c’è scarto tra la realtà e la diffusa convinzione di esser noi all’avanguardia delle nazioni civili. Occasione quindi di riflessione e reazione, per far sì che quello scarto non ci sia mai più.

I fatti oggetto della sentenza vennero all’epoca molto pubblicizzati. Canali televisivi influenti ne dettero compiaciuta notizia, come di un’occasione in cui il governo aveva dimostrato la sua efficienza nel difendere i confini dall’invasione di migranti illegali. Invece di continuare a ricevere stranieri sulle nostre spiagge, per poi dover iniziare la difficile e spesso impossibile pratica dell’espulsione, semplicemente erano state inviate navi militari a intercettare in alto mare e a riportare indietro, in Libia, gli indesiderati barconi ed il loro carico umano. Semplice, economico e pratico, «poche storie!». Come ricordò il ministro dell’Interno in Senato si trattava di applicare l’accordo firmato nel 2009, sotto la tenda di Gheddafi. In quell’anno furono eseguite nove operazioni simili e centinaia di migranti furono respinti in quel modo. L’accordo italo-libico è poi stato sospeso nel 2011 nel corso della recente rivoluzione libica.

La Corte europea ha giudicato sul ricorso di undici somali e tredici eritrei respinti in Libia con quelle modalità. Essi hanno sostenuto che l’Italia li aveva esposti al rischio di trattamenti inumani da parte delle autorità libiche e di quelle del Paese di origine, se fossero stati colà riportati, e che l’Italia aveva eseguito una «espulsione collettiva», proibita dalle convenzioni internazionali e in particolare dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Le modalità poi del respingimento avevano impedito ai ricorrenti di ottenere il controllo giudiziario della loro posizione. Una serie di autorevoli organismi internazionali è intervenuta davanti alla Corte, in appoggio ai ricorrenti. Tra questi gli uffici dell’Alto Commissario ai Rifugiati e dell’Alto Commissario ai diritti umani delle Nazioni Unite.

La Corte ha innanzitutto dichiarato che i ricorrenti erano stati imbarcati a bordo delle navi italiane e che quindi, secondo la legge internazionale e italiana, si erano venuti a trovare nella giurisdizione dello Stato italiano: sotto il controllo continuo ed esclusivo, di diritto e di fatto, delle autorità italiane, tenute ad osservare le disposizioni della Convenzione europea. La Corte ha affermato che le autorità italiane avevano consegnato i ricorrenti a quelle libiche nella piena consapevolezza del trattamento che rischiavano. Come accertato da organizzazioni internazionali serie ed affidabili come Amnesty International e Human Rights Watch e come anche confermato dal Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa, i migranti respinti in Libia erano messi in detenzione in condizioni inumane, anche con casi di tortura. E lo stesso rischio vi sarebbe stato se e quanto dalla Libia i ricorrenti fossero stati riportati in Somalia o Eritrea, dove esisteva una pratica di detenzione e tortura dei cittadini che avevano tentato di lasciare il Paese.

La Corte ha quindi affermato che l’Italia aveva violato il divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti. Si tratta di un divieto assoluto, che non riguarda solo il comportamento diretto delle autorità statali, ma anche quello indiretto del trasferimento ad altro Stato ove quelle pratiche hanno luogo. Non solo quindi il divieto di torturare, ma anche quello di non trasferire la persona in uno Stato ove sarà esposto al rischio di tortura o trattamento inumano. Lo stesso meccanismo della protezione anche indiretta opera quando l’espulsione o l’estradizione è verso uno Stato che pratica la pena di morte.

La violazione di cui l’Italia è stata ritenuta responsabile è tra le più gravi. Colpisce che essa si riferisca ad azioni che gli equipaggi delle navi militari sono stati obbligati a compiere, dopo che in altre circostanze quello stesso personale militare si era guadagnato l’ammirazione per l’opera efficace e rischiosa compiuta, secondo la legge del mare, per soccorrere battelli in difficoltà, scortarli a terra e salvarne da morte gli occupanti. Per questa loro attività quegli equipaggi erano stati elogiati dal Commissario di diritti umani del Consiglio d’Europa.

La Corte europea ha anche ritenuto che l’Italia abbia commesso una violazione del divieto di «espulsione collettiva», di espulsione cioè in blocco, senza esame della situazione individuale di ciascuna persona. Senza identificazione e accertamento dei motivi che inducono la persona alla fuga dal suo Paese, non si può accertare se l’espulsione crei pericolo per la vita o l’incolumità della persona o di persecuzione politica o religiosa o altro. Il diritto al rifugio che un migrante può avere non è assicurato quando, com’è avvenuto, non si accerti la condizione personale di ciascuno. La pratica della riconsegna collettiva alla Libia di tutti i migranti raccolti in mare, ha evidentemente impedito ogni esame individuale e, a maggior ragione, il ricorso a un giudice.

La sentenza è definitiva. I principi affermati – non nuovi nella giurisprudenza della Corte europea – valgono per l’Italia come per tutti i quarantasette Paesi del Consiglio d’Europa. Ed anche, val la pena di ricordare, per i Paesi membri dell’Unione Europea quando definiscono la politica e le iniziative comunitarie di contrasto e gestione dell’immigrazione irregolare. Ma intanto e innanzitutto il governo italiano (il nuovo governo) deve dare esecuzione alla sentenza, non solo indennizzando i ricorrenti, ma anche cessando pratiche come quelle che la Corte ha condannato ed assicurando a tutti coloro che in qualunque modo, anche irregolare o illegale, vengono a trovarsi nella giurisdizione italiana, il pieno ed eguale godimento dei diritti fondamentali. Diritti che non appartengono ai soli cittadini, ma sono propri di tutte le persone umane.

La Stampa 24.02.12

“Noi brava gente? Non è sempre vero”, di Vladimiro Zagrebelsky

L’Italia non pratica e anzi vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. L’Italia assicura asilo ai profughi secondo le regole internazionali. Italiani brava gente. La sentenza che i diciassette giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno ieri all’unanimità emesso, ci dice che non è sempre vero e che qualche volta c’è scarto tra la realtà e la diffusa convinzione di esser noi all’avanguardia delle nazioni civili. Occasione quindi di riflessione e reazione, per far sì che quello scarto non ci sia mai più.

I fatti oggetto della sentenza vennero all’epoca molto pubblicizzati. Canali televisivi influenti ne dettero compiaciuta notizia, come di un’occasione in cui il governo aveva dimostrato la sua efficienza nel difendere i confini dall’invasione di migranti illegali. Invece di continuare a ricevere stranieri sulle nostre spiagge, per poi dover iniziare la difficile e spesso impossibile pratica dell’espulsione, semplicemente erano state inviate navi militari a intercettare in alto mare e a riportare indietro, in Libia, gli indesiderati barconi ed il loro carico umano. Semplice, economico e pratico, «poche storie!». Come ricordò il ministro dell’Interno in Senato si trattava di applicare l’accordo firmato nel 2009, sotto la tenda di Gheddafi. In quell’anno furono eseguite nove operazioni simili e centinaia di migranti furono respinti in quel modo. L’accordo italo-libico è poi stato sospeso nel 2011 nel corso della recente rivoluzione libica.

La Corte europea ha giudicato sul ricorso di undici somali e tredici eritrei respinti in Libia con quelle modalità. Essi hanno sostenuto che l’Italia li aveva esposti al rischio di trattamenti inumani da parte delle autorità libiche e di quelle del Paese di origine, se fossero stati colà riportati, e che l’Italia aveva eseguito una «espulsione collettiva», proibita dalle convenzioni internazionali e in particolare dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Le modalità poi del respingimento avevano impedito ai ricorrenti di ottenere il controllo giudiziario della loro posizione. Una serie di autorevoli organismi internazionali è intervenuta davanti alla Corte, in appoggio ai ricorrenti. Tra questi gli uffici dell’Alto Commissario ai Rifugiati e dell’Alto Commissario ai diritti umani delle Nazioni Unite.

La Corte ha innanzitutto dichiarato che i ricorrenti erano stati imbarcati a bordo delle navi italiane e che quindi, secondo la legge internazionale e italiana, si erano venuti a trovare nella giurisdizione dello Stato italiano: sotto il controllo continuo ed esclusivo, di diritto e di fatto, delle autorità italiane, tenute ad osservare le disposizioni della Convenzione europea. La Corte ha affermato che le autorità italiane avevano consegnato i ricorrenti a quelle libiche nella piena consapevolezza del trattamento che rischiavano. Come accertato da organizzazioni internazionali serie ed affidabili come Amnesty International e Human Rights Watch e come anche confermato dal Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa, i migranti respinti in Libia erano messi in detenzione in condizioni inumane, anche con casi di tortura. E lo stesso rischio vi sarebbe stato se e quanto dalla Libia i ricorrenti fossero stati riportati in Somalia o Eritrea, dove esisteva una pratica di detenzione e tortura dei cittadini che avevano tentato di lasciare il Paese.

La Corte ha quindi affermato che l’Italia aveva violato il divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti. Si tratta di un divieto assoluto, che non riguarda solo il comportamento diretto delle autorità statali, ma anche quello indiretto del trasferimento ad altro Stato ove quelle pratiche hanno luogo. Non solo quindi il divieto di torturare, ma anche quello di non trasferire la persona in uno Stato ove sarà esposto al rischio di tortura o trattamento inumano. Lo stesso meccanismo della protezione anche indiretta opera quando l’espulsione o l’estradizione è verso uno Stato che pratica la pena di morte.

La violazione di cui l’Italia è stata ritenuta responsabile è tra le più gravi. Colpisce che essa si riferisca ad azioni che gli equipaggi delle navi militari sono stati obbligati a compiere, dopo che in altre circostanze quello stesso personale militare si era guadagnato l’ammirazione per l’opera efficace e rischiosa compiuta, secondo la legge del mare, per soccorrere battelli in difficoltà, scortarli a terra e salvarne da morte gli occupanti. Per questa loro attività quegli equipaggi erano stati elogiati dal Commissario di diritti umani del Consiglio d’Europa.

La Corte europea ha anche ritenuto che l’Italia abbia commesso una violazione del divieto di «espulsione collettiva», di espulsione cioè in blocco, senza esame della situazione individuale di ciascuna persona. Senza identificazione e accertamento dei motivi che inducono la persona alla fuga dal suo Paese, non si può accertare se l’espulsione crei pericolo per la vita o l’incolumità della persona o di persecuzione politica o religiosa o altro. Il diritto al rifugio che un migrante può avere non è assicurato quando, com’è avvenuto, non si accerti la condizione personale di ciascuno. La pratica della riconsegna collettiva alla Libia di tutti i migranti raccolti in mare, ha evidentemente impedito ogni esame individuale e, a maggior ragione, il ricorso a un giudice.

La sentenza è definitiva. I principi affermati – non nuovi nella giurisprudenza della Corte europea – valgono per l’Italia come per tutti i quarantasette Paesi del Consiglio d’Europa. Ed anche, val la pena di ricordare, per i Paesi membri dell’Unione Europea quando definiscono la politica e le iniziative comunitarie di contrasto e gestione dell’immigrazione irregolare. Ma intanto e innanzitutto il governo italiano (il nuovo governo) deve dare esecuzione alla sentenza, non solo indennizzando i ricorrenti, ma anche cessando pratiche come quelle che la Corte ha condannato ed assicurando a tutti coloro che in qualunque modo, anche irregolare o illegale, vengono a trovarsi nella giurisdizione italiana, il pieno ed eguale godimento dei diritti fondamentali. Diritti che non appartengono ai soli cittadini, ma sono propri di tutte le persone umane.

La Stampa 24.02.12

"I desideri impossibili", di Ezio Mauro

Tutti i giornali ieri scrivevano che nell´incontro con il Presidente del Consiglio Monti – mentre il Paese cerca una strada per uscire dalla crisi finanziaria – Silvio Berlusconi ha chiesto “garanzie” sulla Rai e sulla giustizia. Avremmo due domande per il Cavaliere: a quale titolo pretende queste garanzie e con quale faccia? Mentre la richiesta a Monti di intervenire sulla giustizia serve con ogni evidenza a tenere sotto pressione la magistratura, proprio quando i nodi processuali dell´ex Premier stanno arrivando al pettine, la Rai è tutt´uno con la concezione del potere – politico, mediatico, economico e imprenditoriale – che anima il Cavaliere fin dalla discesa in campo.
Quali “garanzie” va cercando Berlusconi, adesso che non guida più l´esecutivo e che il Consiglio di amministrazione Rai sta per scadere? Può davvero ragionevolmente pensare che Monti insedi una governance bolscevica a viale Mazzini? O non teme piuttosto che la Rai si avvii a essere un´azienda normale, senza il guinzaglio dei partiti (il suo in primo luogo) al collo? È bene che di tutto questo si parli alla luce del sole, senza patti inconfessabili e richieste irricevibili. Siamo noi cittadini, infatti, che chiediamo garanzie a Monti sulla Rai, e ne abbiamo pieno titolo, come utenti del servizio pubblico e come “proprietari” di un´azienda che spende denaro dei contribuenti. Naturalmente non vogliamo ribaltoni politici. Ma chiediamo semplicemente al governo di disarmare la Rai, ancora in pieno assetto da guerra berlusconiano anche dopo la caduta del sovrano, di farla agire in una vera concorrenza con Mediaset dopo gli anni del padrone unico, di farla rispondere alle logiche del mercato (riprendendo gli epurati che fanno audience) e dunque di liberarla dalla servitù alla politica.
Queste sono le vere garanzie – mercato, libertà, concorrenza, autonomia – che Monti deve dare alla luce del sole sulla Rai. Con urgenza. Se non vuole essere tecnico a metà.

La Repubblica 24.02.12

“I desideri impossibili”, di Ezio Mauro

Tutti i giornali ieri scrivevano che nell´incontro con il Presidente del Consiglio Monti – mentre il Paese cerca una strada per uscire dalla crisi finanziaria – Silvio Berlusconi ha chiesto “garanzie” sulla Rai e sulla giustizia. Avremmo due domande per il Cavaliere: a quale titolo pretende queste garanzie e con quale faccia? Mentre la richiesta a Monti di intervenire sulla giustizia serve con ogni evidenza a tenere sotto pressione la magistratura, proprio quando i nodi processuali dell´ex Premier stanno arrivando al pettine, la Rai è tutt´uno con la concezione del potere – politico, mediatico, economico e imprenditoriale – che anima il Cavaliere fin dalla discesa in campo.
Quali “garanzie” va cercando Berlusconi, adesso che non guida più l´esecutivo e che il Consiglio di amministrazione Rai sta per scadere? Può davvero ragionevolmente pensare che Monti insedi una governance bolscevica a viale Mazzini? O non teme piuttosto che la Rai si avvii a essere un´azienda normale, senza il guinzaglio dei partiti (il suo in primo luogo) al collo? È bene che di tutto questo si parli alla luce del sole, senza patti inconfessabili e richieste irricevibili. Siamo noi cittadini, infatti, che chiediamo garanzie a Monti sulla Rai, e ne abbiamo pieno titolo, come utenti del servizio pubblico e come “proprietari” di un´azienda che spende denaro dei contribuenti. Naturalmente non vogliamo ribaltoni politici. Ma chiediamo semplicemente al governo di disarmare la Rai, ancora in pieno assetto da guerra berlusconiano anche dopo la caduta del sovrano, di farla agire in una vera concorrenza con Mediaset dopo gli anni del padrone unico, di farla rispondere alle logiche del mercato (riprendendo gli epurati che fanno audience) e dunque di liberarla dalla servitù alla politica.
Queste sono le vere garanzie – mercato, libertà, concorrenza, autonomia – che Monti deve dare alla luce del sole sulla Rai. Con urgenza. Se non vuole essere tecnico a metà.

La Repubblica 24.02.12

Bersani: «Se salta tavolo del lavoro liberi tutti»

Conferenza stampa di Pierluigi Bersani: “il Pd non va in vacanza”. E sulle primarie: “Si giudicano dalle secondarie, non come dice certa stampa”. Parla del piano per l’Europa con Hollande e Gabriel come progetto alternativo. Annuncia un incontro per oggi con Monti sulla riforma del lavoro: «Se non ci sarà intesa sarà un problema per l’Italia, non per Pd o Cgil».
LEGGE ELETTORALE: NO IPER-MAGGIORITARIO
«Sulla legge elettorale abbiamo una nostra proposta ma sappiamo che non possiamo farla da soli perciò usciamo dagli assiomi che non esistono: proporzionale o maggioritario, tutte le leggi sono un mix e noi dobbiamo uscire da un sistema iper-maggioritario devastante come il porcellum e trovare un equilibrio tra rappresentanza e governabilità». Bersani ha poi negato che questo tema stia creando problemi all’interno del Pd: «Io sono il segretario pro tempore di quello che sarà il partito del secolo dei riformisti, perciò di leggi elettorali ne passeranno decine, non è un fatto ontologico per un partito. Il nostro problema ora è ridare agli elettori la possibilità di decidere».

LAVORO: PD NON SOSTIENE
MANIFESTAZIONE FIOM CONTRO MONTI
«Abbiamo una regola generale: il Pd non aderisce a mobilitazioni se la piattaforma non è compatibile, non partecipiamo a manifestazioni contro il governo Monti» perciò per quanto riguarda quella della Fiom, «guarderemo la piattaforma e valuteremo, si tratta di non perdere i rapporti con la società civile e con i soggetti sociali». Detto questo Bersani ha anche aggiunto che «se fossi il ministro dello Sviluppo chiamerei la Fiat per chiedere se è vero che a Pomigliano ci sono state discriminazioni verso operai appartenenti a un sindacato perchè questi sono diritti dei lavoratori che non si possono mettere in discussione, la clausola antidiscriminatoria esiste in tutta Europa».

BERSANI: RIFORMA DEL LAVORO SENZA INTESA?
PROBLEMA PER L’ITALIA, NON PER PD O CGIL
«Sento correre facilmente l’idea che si può fare la riforma del lavoro senza intesa. Io dico ‘attenzione’. E non sto parlando di Cgil come si continua a dire. Ma dell’Italia e di un accordo tra governo e parti sociali davanti a un paese in recessione». Il lavoro, spiega Bersani, «ha bisogno di una corresponsabilità, di un carico comune, di un elemento coesivo. Perché in una situazione così il ‘liberi tutti’ può essere un problema per l’Italia, non per il Pd o la Cgil. E rompere a quel tavolo vuol dire ‘liberi tutti’». «Il tavolo lavori in pace – sostiene ancora Bersani – e il Governo cerchi ogni possibilità di intesa innovativa. Noi siamo pronti a metterci tutta la coralità per una buona riforma».

BERSANI: TROVARE LEGGE ELETTORALE
SI DISCUTE SU QUOTA DI PROPORZIONALE
Pd spaccato, chiede una giornalista? Se eravamo spaccati… Non lo siamo – risponde Bersani – come certi media ci descrivono. Siamo un partito che non ha un padrone. Quanto alla legge elettorale ripete che bisogna uscire dal Porcellum. Si discute su una quota di proporzionalità. Il punto fondamentale: dare ai cittadini l’impressione, reale, di poter decidere.

IL LEADER PD: MONTI FINO A FINE LEGISLATURA
Il leader dei Democratici: «Il Pd ha stretto un patto di lealtà che non verrà meno, questo Governo deve durare fino a fine legislatura».

NOI PER ALTERNATIVA A DESTRA POPULISTA E LIBERISTA
Per la fase di transizione e l’emergenza «Monti sì». Ma per il dopo? «Le prospettive sono legate alle scelte delle persone», dice Pier Luigi Bersani in conferenza stampa. E aggiunge: «Io vedo come funzionano le democrazie nel mondo. Io lavoro per una piattaforma di alternativa non a Monti, ma a una destra populista e liberista. Così è in tutti i paesi del mondo. Oltre l’emergenza c’è il futuro». Dopo di che, osserva, «tocca ai ministri di questo governo e al premier fare le loro scelte. Io ho grandissima stima di Monti ma anche di una democrazia che respira con due polmoni nel mondo. L’Italia deve attrezzarsi ad avere una democrazia che funziona e sicuramente sarà così. Dopo Monti non c’è il Cencelli».

FORNERO: COS’HA DETTO DI SORPRENDENTE. MA…
Sulla Fornero: ieri cos’ha detto di sorprendente? Noi firmeremo una buona riforma? Sì, firmeremo una buona riforma. Su questo tema oggi Bersani parla con il premier Monti.

PD NON VA IN VACANZA
Il Pd «mette la faccia» sulla crisi del Paese incontrando i rappresentanti delle aree economiche attraversate dai maggiori disagi. L’intenzione politica di questo viaggio con «Destinazione Italia», dice il leader dei Democratici in conferenza stampa «è di intepretare i problemi del paese partendo dal concreto aiutando questo governo rispetto al quale abbiamo preso un patto di lealtà che non verrà meno». L’esecutivo, spiega Bersani «deve durare fino alla fine della legislatura cercando di fare in modo che la politica riesca a creare dei canali di comunicazione tra i disagi e il governo. Perchè- aggiunge- sotto la pelle di questo paese ci sono dei problemi seri e c’è un problema di tenuta. Il Pd non va in vacanza».

da www.unita.it

"Strasburgo, l'Italia condannata per i respingimenti verso la Libia", di Vladimiro Polchi

Sentenza storica della Corte Europea dei diritti umani di Strasburgo che condanna l’Italia all’unanimità. Nel cosiddetto caso Hirsi, che riguardava 24 persone nel 2009, è stato violato l’articolo 3 della Convenzione sui diritti umani, quello sui trattamenti degradanti e la tortura. Il nostro Paese dovrà versare un risarcimento di 15mila euro più le spese a 22 delle 24 vittime. Riccardi: “Ripensare alla nostra politica sull’immigrazione”. Stop ai respingimenti in mare. Bocciate le espulsioni collettive. La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha condannato all’unanimità l’Italia per i respingimenti verso la Libia. Nel cosiddetto caso Hirsi, che riguardava 24 persone nel 2009, è stato violato l’articolo 3 della Convenzione sui diritti umani, quello sui trattamenti degradanti e la tortura. Strasburgo ha così posto un freno ai respingimenti indiscriminati in mare e ha stabilito che l’Italia ha violato il divieto alle espulsioni collettive, oltre al diritto effettivo per le vittime di fare ricorso presso i tribunali italiani. L’Italia è stata condannata a versare un risarcimento di 15mila euro più le spese a 22 delle 24 vittime, in quanto due ricorsi non sono stati giudicati ammissibili.

Riccardi. La sentenza della Corte di giustizia di Strasburgo che ha condannato l’Italia per i respingimento in Libia di alcuni immigrati “sarà ricevuta e valutata con grande attenzione” dal governo italiano “e ci farà pensare e ripensare alla nostra politica per l’immigrazione”. Così il ministro per la Cooperazione Andrea Riccardi, a margine della due giorni Ifad sull’agricoltura sostenibile. Il ministro ha spiegato che come governo “ne prenderemo insieme visione e capiremo che fare. Io l’accetto con molto rispetto per le istituzioni europee”, ha aggiunto Riccardi, sottolineando che il fine del governo è quello di “fare una politica chiara, trasparente e corretta sull’immigrazione”.

I precedenti. La politica migratoria del vecchio governo Berlusconi continua a perdere pezzi. A picconare i pacchetti sicurezza e la Bossi-Fini 1 sono tribunali ordinari, Consiglio di Stato, Corte di Cassazione, Consulta e Corte di giustizia dell’Unione europea. Sotto le loro sentenze cadono: l’aggravante di clandestinità, il divieto di matrimonio con irregolari, il reato di clandestinità (nella parte che punisce con il carcere gli immigrati irregolari). Ora a crollare è il muro dei respingimenti in mare dei migranti, sotto i colpi della Corte europea dei diritti dell’uomo 2

Il respingimento del 6 maggio 2009. La sentenza della Corte di Strasburgo colpisce i respingimenti attuati dall’Italia verso la Libia, a seguito degli accordi bilaterali e del trattato di amicizia italo-libico siglato dal governo Berlusconi. “Il 6 maggio 2009, a 35 miglia a sud di Lampedusa – spiega il Consiglio italiano per i rifugiati 3 (Cir) – in acque internazionali, le autorità italiane hanno intercettato una nave con a bordo circa 200 persone di nazionalità somala ed eritrea (tra cui bambini e donne in stato di gravidanza). I migranti – stando al ricorso – sono stati trasbordati su imbarcazioni italiane e riaccompagnati a Tripoli contro la loro volontà, senza essere prima identificati, ascoltati né preventivamente informati sulla loro effettiva destinazione. I migranti non hanno avuto alcuna possibilità di presentare richiesta di protezione internazionale in Italia. Di queste 200 persone, 24 (11 somali e 13 eritrei) sono state rintracciate e assistite in Libia dal Cir e hanno incaricato gli avvocati Anton Giulio Lana e Andrea Saccucci dell’Unione forense per la tutela dei diritti umani di presentare ricorso dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo”.

Le condizioni di detenzione in Libia. “Le successive condizioni di vita in Libia dei migranti respinti il 6 maggio 2009 sono state drammatiche – sostengono dal Cir – La maggior parte è stata reclusa per molti mesi nei centri di detenzione libici, dove ha subito violenze e abusi di ogni genere. Due ricorrenti sono deceduti nel tentativo di raggiungere nuovamente l’Italia a bordo di un’imbarcazione di fortuna. Altri sono riusciti a ottenere protezione in Europa, un ricorrente proprio in Italia. Prima respinti e poi protetti, a dimostrazione della contraddittorietà e insensatezza della politica dei respingimenti”. Al riguardo va ricordato che, secondo le stime dell’Unhcr, circa 1.500 migranti hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Italia via mare nel 2011.

Le reazioni alla sentenza. “Viene condannato il governo italiano ma vince lo spirito della nostra Costituzione, nonché la tradizione del popolo italiano – sostiene Andrea Olivero, presidente nazionale Acli – quella di un paese accogliente che non respinge i disperati in mare consegnandoli ad un tragico destino. Un monito durissimo per il governo che ha commesso quell’errore e per le forze politiche che non solo difesero, ma si fecero vanto di quell’azione, mentre tutte le organizzazioni della società civile per il rispetto dei diritti umani ne denunciavano l’illegalità e la disumanità”.

Unhcr. La sentenza è “un’importante indicazione per gli stati europei circa la regolamentazione delle misure di controllo e intercettazione alla frontiera”. Lo ha affermato Laurens Jolles, il Rappresentante dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) per il sud Europa: “ci auguriamo che rappresenti un punto di svolta per ciò che riguarda le responsabilità degli Stati e la gestione dei flussi migratori”.

L’Unchr comprende le “sfide che le migrazioni irregolari pongono all’Italia e agli altri paesi dell’Unione Europea e riconosce i significativi sforzi compiuti dall’Italia e dagli altri stati per salvare vite umane nell’ambito delle loro operazioni di ricerca e soccorso in mare”. Ma sottolinea l’Alto Commissariato, “Le misure di controllo alla frontiera non esonerano gli stati dai loro obblighi internazionali; l’accesso al territorio alle persone bisognose di protezione dovrebbe pertanto essere sempre garantito”
L’Alto Commissariato è inoltre preoccupato che l’Italia abbia riattivato il trattato bilaterale con l’attuale Governo libico senza rinunciare formalmente alla pratica dei respingimenti che è il risultato di tale accordo. “Ci auguriamo che questa sentenza rappresenti un motivo di riflessione che porti ad un segnale di discontinuità da parte del Governo italiano”, ha concluso Jolles.

da repubblica.it