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“La ricerca? E’ ingessata come un Ministero”, di Cristiana Pulcinelli

Intervista a Fernando Ferroni. Il presidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare spiega perché in Italia i giovani trovano le porte sbarrate: ne entra uno ogni 5 pensionati. «Perdiamo i fondieuropei perché ognuno è bravo per sé ma non fa squadra». Programmazione, meno variazioni di rotta, scelte coraggiose. Si potrebbero riassumere così le richieste di Fernando Ferroni al governo per quanto riguarda la politica della ricerca: «Fin qui siamo ancora all’emergenza: la priorità è salvare l’Italia dal baratro. Al momento non vedo un piano in cui la ricerca sia vista come fattore di crescita,ma sono fiducioso». Ferroni, professore ordinario di fisica sperimentale all’università La Sapienza di Roma, da ottobre 2011 è presidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn). Intanto il Miur ha fatto uscire i nuovi Bandi per il finanziamento dei Progetti di ricerca di interesse nazionale (Prin)e quelli«Futuroinricerca» rivolti ai giovani. Non è una buona cosa? «Le incentivazioni alla ricerca, in teoria, dovrebbero uscire ogni anno: non vorrei che diventassero un fatto straordinario. Va comunque reso merito al governo di aver resuscitato questi fondi, dopo la sospensione dell’anno scorso». Già sono fioccate critiche ai Prin. I punti in discussione: il limite al numero di domande,il fatto che i progetti possono essere presentati solo dalle università e che debbono necessariamente essere frutto della la collaborazione tra almeno 5 unità di ricerca. Che ne pensa? «Credo di capire lo spirito che ha animato il ministro: attraverso i Prin si tenta un allenamento per i progetti europei e in Europa i progetti vanno presentati con le alleanze. Ho delle perplessità invece sulla griglia selettiva. Non sono turbato dal fatto che ci sia una preselezione,ma trovo forzato il meccanismo per cui il numero di progetti presentati deve essere in relazione alla dimensione dell’università. Esistono infatti realtà molto piccole e molto brave». Parliamo di giovani: in questi ultimi anni l’Infn ha sofferto del mancato ingresso delle nuove generazioni? «Moltissimo. È il frutto di una legge delirante che equipara gli enti di ricerca a un ministero e li obbliga a un turn over del 20%: si può assumere una persona ogni 5 che vanno in pensione. Mentre le università continuano a sfornare giovani con una percentuale costante nel tempo, si decide di chiudere un rubinetto di reclutamento: così si scoraggia la gente. Il fatto è che l’Italia deve sapere quanti ricercatori servono. Non si può dire: siccome siamo in difficoltà economiche, non assumiamo più giovani. Ormai l’età media negli enti di ricerca è sempre più alta, mentre i giovani che finiscono il dottorato cercano direttamente opportunità all’estero e noi, non avendo margine per reclutare i migliori, non possiamo che scegliere tra quelli che restano. Insomma, tutto questo rende l’efficienza del sistema molto bassa». Sempre a proposito di giovani, da poco sono stati resi noti i risultati dell’indagine europea sull’innovazione. L’Italia ne esce male. Tra le varie pecche quella di non essere attraenti per gli studenti provenienti dall’estero. Come mai? «Quando uno studente italiano si presenta a Stanford, l’ente di ricerca gli trova l’appartamento e gli dà un salario che è sufficiente non solo a pagare l’appartamento, ma anche a mangiare, bere e a concedersi qualche divertimento. Noi invece li facciamo morire di fame. Oggi per attrarre gli studenti bisogna fare ponti d’oro perché sono in molti a cercare di accaparrarseli». Cosa si dovrebbe fare? «Primo, decidere che la ricerca è importante. Poi capire quali sono i settori strategici e quelli invece meno rilevanti. Infine, bisognerebbe incentivare i primi e drenare risorse dai secondi. Un Paese povero deve fare delle scelte. Se il governo ci dicesse su cosa possiamo contare, ci potremmo organizzare. Faccio presente che negli altri Paesi esiste il semplice concetto di programmazione. Il Cnrs, l’equivalente francese del Cnr, bandisce tutti gli anni un certo numero di posti. Tutti gli anni. Qui invece è una lotteria. Uno straniero che leggesse l’elenco dei provvedimenti degli ultimi anni penserebbe che siamo un Paese di pazzi». Un altro elemento di cui si parla in questi giorni è la valutazione della qualità della ricerca. È una buona cosa? «Sì, se serve a distinguere tra bravi e meno bravi. Quello che conta è che si metta in piedi un sistema onesto e trasparente, con un meccanismo che funzioni anche qualora ci fosse tra i valutatori la persona sbagliata. Si potrebbe copiare da altri Paesi dove questo meccanismo già esiste: ho fiducia nel fatto che lo faranno ». Recentemente si è parlato anche del ruolo della burocrazia nella distribuzione dei fondi. La soluzione è separare nettamente politica da ricerca? «La politica dovrebbe decidere quanto vuole dare alla ricerca e poi fidarsi di chi fa la valutazione per l’assegnazione dei fondi. Ma non conosco nessun paese in cui avviene questo. Tuttavia, si può fare certamente meglio di quanto si fa in Italia. Ad esempio, si può gestire la cosa con variazioni minime rispetto a un percorso deciso. Meglio idee normali mantenute a lungo, piuttosto che grandi idee ma che fanno cambiare direzione ad ogni cambio di governo». Il ministro ha detto che l’Italia della ricerca fatica a sfruttare i fondi europei. E perde ogni anno 500 milioni Di euro. Perché non riusciamo ad accedere come dovremmo a quei fondi? «Perché l’Italia non fa sistema: qui ognuno è bravo per conto suo. Quello di mettersi insieme per fare sinergia è un concetto sconosciuto da noi. A Profumo va riconosciuto il merito di aver messo a nudo questo problema. L’Ente che ha più successo nel prendere i fondi europei è il Cnr, ma si capisce: si occupa di tematiche come l’ambiente, l’inquinamento, la salute, care all’Europa. Noi ci occupiamo di fisica delle particelle, è più difficile. Tuttavia è mia intenzione spingere l’Infn a cercare i finanziamenti europei mettendo a disposizione le nostre competenze per altri ambiti, utili alla società: ambiente, medicina, energia, beni culturali». In molti chiedono rapporti più stretti Tra mondo della ricerca e mondo industriale, nel caso della fisica sperimentale già esistono? «Come Infn noi abbiamo rapporti con l’industria meccanica, elettronica, dei superconduttori. Manca invece il rapporto con altre industrie, ad esempio quella medicale. L’industria italiana però non sembra vogliosa di competere sul piano dell’innovazione. Certo è dura, perché si tratta di combattere contro giganti come Siemens, Hitachi, Mitsubishi, ma fa parte del gioco… »

L’Unità 23.02.12

"La vendetta di Einstein", di Piergiorgio Odifreddi

Il buon vecchio Einstein si è salvato. La sua teoria della relatività, messa in forse dagli esperimenti del Cern sui neutrini veloci, si è salvata anch´essa. È stato infatti annunciato che le macchine usate per l´esperimento erano difettose. L´episodio ci permette di fare alcune considerazioni. La prima, anticipata di molti decenni dallo stesso Einstein, è che «la scienza non è una repubblica delle banane, in cui succedono rivoluzioni ogni sei mesi».
Il pubblico si appassiona sempre ai cambiamenti epocali, ma forse nella scienza è più utile concentrarsi sugli aspetti ormai assodati, sui risultati acquisiti, che non sulle nuove idee che ancora attendono conferme e verifiche.
La seconda considerazione è, però, che all´annuncio dell´esperimento il mondo intero si è coalizzato nel tentativo di comprendere quali sarebbero state le conseguenze teoriche e pratiche di una velocità superluminale dei neutrini. Articoli di giornale, discussioni sui blog, seminari di ricerca hanno rivisto i fondamenti della relatività di Einstein, mettendo a volte in luce aspetti nascosti o impostazioni innovative che un secolo di abitudine alla teoria avevano lasciato in ombra. In un´intervista al nostro giornale, pochi giorni dopo l´annuncio dei risultati dell´esperimento, il premio Nobel Shelly Glashow ha sottolineato quali sarebbero state le conseguenze d´una conferma dell´esperimento: conseguenze così in contrasto con il resto della fisica conosciuta, che costituivano quasi una confutazione per assurdo dell´esperimento stesso. Ma questi suoi contributi, insieme a quelli di molti altri, ci hanno comunque chiarificato che possiamo considerare la velocità della luce come un limite insuperabile, e possiamo continuare a usare la relatività come una teoria insostituibile.
Gli occhi del mondo intero si concentrano ora, dopo l´ubriacatura dei neutrini, su altri esperimenti del Cern e di altri laboratori. In particolare, l´annunciata e probabile scoperta della cosiddetta «particella di Dio», così come dell´attesa, ma per ora ancora non verificata, esistenza di «particelle simmetriche». L´episodio dimostra comunque come la scienza contenga dentro di sé gli anticorpi per i propri possibili errori, e come in un breve volgere di tempo la comunità scientifica possa mettere proposte anche rivoluzionarie sotto il microscopio per verificarle o confutarle. E´ in questo processo dialettico di dimostrazioni e refutazioni che si cela il segreto del successo della scienza.

La Repubblica 23.02.12

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Il dietrofront degli scienziati “Non è vero che i neutrini sono più veloci della luce”, di Elena Dusi

Anomalie negli strumenti, ma i fisici non si arrendono: “La fine non è ancora arrivata”. Bisognerà capire quanto è grande lo scarto provocato dal difetto degli strumenti. Sei mesi di ricerche continue. E alla fine l´errore è saltato fuori negli strumenti che a settembre osservarono i neutrini più veloci della luce. I problemi di Opera – il sofisticato esperimento dei laboratori del Gran Sasso – sarebbero in realtà due. Il paradosso è che producono effetti contrastanti: uno renderebbe la velocità dei neutrini ancora più alta, il secondo invece li rallenterebbe.
Nel rivelatore costruito per dare la caccia alle elusive particelle, un connettore della fibra ottica che trasmette il segnale del Gps a un computer non era avvitato alla perfezione. E anziché semplicemente impedire il passaggio dell´impulso, ne alterava il tempo di percorrenza dando l´impressione di un aumento di velocità dei neutrini. Un secondo problema individuato dagli scienziati di Opera riguarda invece la sincronizzazione dell´orologio del Gps dei laboratori del Gran Sasso con quello del rivelatore stesso.
Non è affatto chiaro quanto le due interferenze combinate fra loro incidano sul risultato che con grande eccitazione lo scorso settembre era stato annunciato nell´auditorium del Cern di Ginevra. Dalla Svizzera infatti viene sparato il fascio di neutrini diretto verso il Gran Sasso. Opera, catturandoli, si occupa di studiarne la natura ma casualmente scoprì che il tempo che queste particelle impiegavano a percorrere i 730 chilometri di distanza era di 60 nanosecondi inferiore rispetto al tempo che avrebbe impiegato la luce. Ai neutrini fu attribuita la capacità di infrangere una velocità che la teoria della relatività speciale di Einstein riteneva insuperabile.
Che un errore potesse essere nascosto nelle pieghe dell´esperimento nessuno lo aveva mai escluso. La caccia era partita fin da subito, insieme alle scommesse dei fisici di tutto il mondo e alle speculazioni dei teorici per provare a spiegare un risultato così straordinario. Il responsabile di Opera, Antonio Ereditato, aveva subito annunciato: «Continueremo a controllare ogni dettaglio della nostra misurazione. E invitiamo gli altri laboratori del mondo che si occupano di neutrini a ripetere la prova».
Sia l´esperimento americano Minos che quello giapponese Superkamiokande si stavano attrezzando per misurare la velocità delle loro particelle in maniera simile a quanto fatto da Opera. «E i loro dati restano necessari, perché non è ancora chiaro l´effetto complessivo dei problemi riscontrati al Gran Sasso» spiega Sergio Bertolucci, direttore della ricerca del Cern. Per Fernando Ferroni, presidente dell´Istituto nazionale di fisica nucleare, che gestisce i laboratori nel cuore della montagna abruzzese, sarà opportuno ora «confrontare le misurazioni di Opera con quelle degli altri strumenti del Gran Sasso per capire quanto grande è lo scarto provocato dal difetto».

La Repubblica 23.02.12

“La vendetta di Einstein”, di Piergiorgio Odifreddi

Il buon vecchio Einstein si è salvato. La sua teoria della relatività, messa in forse dagli esperimenti del Cern sui neutrini veloci, si è salvata anch´essa. È stato infatti annunciato che le macchine usate per l´esperimento erano difettose. L´episodio ci permette di fare alcune considerazioni. La prima, anticipata di molti decenni dallo stesso Einstein, è che «la scienza non è una repubblica delle banane, in cui succedono rivoluzioni ogni sei mesi».
Il pubblico si appassiona sempre ai cambiamenti epocali, ma forse nella scienza è più utile concentrarsi sugli aspetti ormai assodati, sui risultati acquisiti, che non sulle nuove idee che ancora attendono conferme e verifiche.
La seconda considerazione è, però, che all´annuncio dell´esperimento il mondo intero si è coalizzato nel tentativo di comprendere quali sarebbero state le conseguenze teoriche e pratiche di una velocità superluminale dei neutrini. Articoli di giornale, discussioni sui blog, seminari di ricerca hanno rivisto i fondamenti della relatività di Einstein, mettendo a volte in luce aspetti nascosti o impostazioni innovative che un secolo di abitudine alla teoria avevano lasciato in ombra. In un´intervista al nostro giornale, pochi giorni dopo l´annuncio dei risultati dell´esperimento, il premio Nobel Shelly Glashow ha sottolineato quali sarebbero state le conseguenze d´una conferma dell´esperimento: conseguenze così in contrasto con il resto della fisica conosciuta, che costituivano quasi una confutazione per assurdo dell´esperimento stesso. Ma questi suoi contributi, insieme a quelli di molti altri, ci hanno comunque chiarificato che possiamo considerare la velocità della luce come un limite insuperabile, e possiamo continuare a usare la relatività come una teoria insostituibile.
Gli occhi del mondo intero si concentrano ora, dopo l´ubriacatura dei neutrini, su altri esperimenti del Cern e di altri laboratori. In particolare, l´annunciata e probabile scoperta della cosiddetta «particella di Dio», così come dell´attesa, ma per ora ancora non verificata, esistenza di «particelle simmetriche». L´episodio dimostra comunque come la scienza contenga dentro di sé gli anticorpi per i propri possibili errori, e come in un breve volgere di tempo la comunità scientifica possa mettere proposte anche rivoluzionarie sotto il microscopio per verificarle o confutarle. E´ in questo processo dialettico di dimostrazioni e refutazioni che si cela il segreto del successo della scienza.

La Repubblica 23.02.12

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Il dietrofront degli scienziati “Non è vero che i neutrini sono più veloci della luce”, di Elena Dusi

Anomalie negli strumenti, ma i fisici non si arrendono: “La fine non è ancora arrivata”. Bisognerà capire quanto è grande lo scarto provocato dal difetto degli strumenti. Sei mesi di ricerche continue. E alla fine l´errore è saltato fuori negli strumenti che a settembre osservarono i neutrini più veloci della luce. I problemi di Opera – il sofisticato esperimento dei laboratori del Gran Sasso – sarebbero in realtà due. Il paradosso è che producono effetti contrastanti: uno renderebbe la velocità dei neutrini ancora più alta, il secondo invece li rallenterebbe.
Nel rivelatore costruito per dare la caccia alle elusive particelle, un connettore della fibra ottica che trasmette il segnale del Gps a un computer non era avvitato alla perfezione. E anziché semplicemente impedire il passaggio dell´impulso, ne alterava il tempo di percorrenza dando l´impressione di un aumento di velocità dei neutrini. Un secondo problema individuato dagli scienziati di Opera riguarda invece la sincronizzazione dell´orologio del Gps dei laboratori del Gran Sasso con quello del rivelatore stesso.
Non è affatto chiaro quanto le due interferenze combinate fra loro incidano sul risultato che con grande eccitazione lo scorso settembre era stato annunciato nell´auditorium del Cern di Ginevra. Dalla Svizzera infatti viene sparato il fascio di neutrini diretto verso il Gran Sasso. Opera, catturandoli, si occupa di studiarne la natura ma casualmente scoprì che il tempo che queste particelle impiegavano a percorrere i 730 chilometri di distanza era di 60 nanosecondi inferiore rispetto al tempo che avrebbe impiegato la luce. Ai neutrini fu attribuita la capacità di infrangere una velocità che la teoria della relatività speciale di Einstein riteneva insuperabile.
Che un errore potesse essere nascosto nelle pieghe dell´esperimento nessuno lo aveva mai escluso. La caccia era partita fin da subito, insieme alle scommesse dei fisici di tutto il mondo e alle speculazioni dei teorici per provare a spiegare un risultato così straordinario. Il responsabile di Opera, Antonio Ereditato, aveva subito annunciato: «Continueremo a controllare ogni dettaglio della nostra misurazione. E invitiamo gli altri laboratori del mondo che si occupano di neutrini a ripetere la prova».
Sia l´esperimento americano Minos che quello giapponese Superkamiokande si stavano attrezzando per misurare la velocità delle loro particelle in maniera simile a quanto fatto da Opera. «E i loro dati restano necessari, perché non è ancora chiaro l´effetto complessivo dei problemi riscontrati al Gran Sasso» spiega Sergio Bertolucci, direttore della ricerca del Cern. Per Fernando Ferroni, presidente dell´Istituto nazionale di fisica nucleare, che gestisce i laboratori nel cuore della montagna abruzzese, sarà opportuno ora «confrontare le misurazioni di Opera con quelle degli altri strumenti del Gran Sasso per capire quanto grande è lo scarto provocato dal difetto».

La Repubblica 23.02.12

"A scuola si diventa italiani", di Andrea Gavosto*

È un’assurdità e una follia che dei bambini nati in Italia non diventino italiani». Parole forti del presidente Napolitano, che prima di Natale ha sollecitato il Parlamento a farsi carico del tema dell’acquisizione della cittadinanza italiana da parte dei figli degli immigrati. Parole riprese nei giorni scorsi dal ministro dell’Interno Cancellieri e da quello dell’Integrazione Riccardi, con sfumature diverse. Parole che ci dicono che il tempo è maturo per intervenire; anzi ne abbiamo perso già troppo, incapaci di superare lo stallo – sovente molto ideologico – fra le maglie troppo strette dello ius sanguinis e quelle troppo larghe dello ius soli.

Una cosa è certa: l’attuale legge, che prevede il diritto di acquisire a 18 anni la cittadinanza solo per i figli di genitori stranieri che siano nati qui e che dimostrino di aver risieduto in Italia tutta la vita senza interruzioni, non funziona. E’ barocca e impraticabile: per le famiglie immigrate, dimostrare la residenza ininterrotta è molto difficile, soprattutto perché le varie sanatorie che l’Italia ha adottato hanno creato periodi di vuoto nelle iscrizioni in anagrafe, anche nei casi di effettiva residenza in Italia. Soprattutto, è una legge fuori dal tempo, che non fa i conti con la realtà dell’immigrazione in Italia: forse accettabile ieri quando il fenomeno era una novità, non certo oggi quando nelle grandi città un nato su tre ha genitori stranieri. Quando venne varata, gli stranieri diciottenni nati in Italia erano poche decine. Nel 2012 circa 8000 stranieri nati in Italia diventeranno maggiorenni. Sappiamo – perché sono già nati e risiedono in Italia – che il numero dei diciottenni stranieri salirà a 16.000 nel 2016, 33.000 nel 2020, 72.000 nel 2026. Perché mai costringere tutti questi giovani nati e cresciuti in Italia a percorsi di esercizio di un loro diritto lunghi (al compimento dei 18 anni, le pratiche possono prolungarsi anche per tre anni), inutilmente tortuosi e soprattutto incerti?

La Fondazione Agnelli ha da tempo una proposta semplice da tradurre sul piano legislativo e probabilmente in grado di ottenere un consenso ampio sul piano politico.

La nostra proposta è che l’acquisizione della cittadinanza da parte dei figli degli immigrati discenda dall’aver frequentato le scuole italiane. Per chi è nato in Italia da genitori stranieri (le seconde generazioni in senso stretto), ma anche per chi vi è arrivato in tenera età (le cosiddette generazioni 1,75), un percorso scolastico completo (dalla primaria al completamento dell’obbligo formativo a 16 anni) e certificato (pagelle, esami di Stato) deve poter costituire una dimostrazione sufficiente non solo della permanenza nel nostro Paese – come attualmente richiesto dal requisito di residenza – ma soprattutto di una conoscenza adeguata della lingua italiana e di tutti quei requisiti di cultura storica, civile e scientifica che riteniamo irrinunciabili per la formazione di un buon cittadino italiano. La scuola dell’obbligo, oltre a sottoporre a un trattamento di circa 10.000 ore di lezione lungo l’arco di una decina di anni, assicura un livello di integrazione – ad esempio con i compagni di classe – che il semplice requisito di residenza non garantisce. D’altra parte, chi se non la scuola – ha svolto la missione di «fare gli italiani» negli ultimi 150 anni?

Riconoscere la scuola, anche ai fini giuridici, come il vero luogo dell’integrazione dei figli degli immigrati significa fare passi in avanti rispetto alla situazione attuale: (a) si supera l’attuale discrepanza tra il trattamento delle seconde generazioni e quello riservato alle generazioni 1,75; (b) si rimuove l’incertezza sull’approdo alla cittadinanza italiana che attualmente caratterizza l’adolescenza delle seconde generazioni, ossia la fase della crescita in cui si consolidano i valori e i sentimenti di appartenenza; (c) si abbassa l’età di acquisizione della cittadinanza dai 18 (ma nei fatti siamo sempre sopra ai 20) ai 16 anni, seguendo la tendenza europea all’anticipazione; (d) si riafferma esplicitamente la centralità della funzione scolastica, richiamando inoltre le famiglie immigrate, direttamente interessate, alle proprie responsabilità nel curare la regolare frequenza dei propri figli. Secondo noi, sarebbe il modo migliore per dar seguito all’appello del Capo dello Stato.

* Direttore Fondazione Giovanni Agnelli

La Stampa 23.02.12

“A scuola si diventa italiani”, di Andrea Gavosto*

È un’assurdità e una follia che dei bambini nati in Italia non diventino italiani». Parole forti del presidente Napolitano, che prima di Natale ha sollecitato il Parlamento a farsi carico del tema dell’acquisizione della cittadinanza italiana da parte dei figli degli immigrati. Parole riprese nei giorni scorsi dal ministro dell’Interno Cancellieri e da quello dell’Integrazione Riccardi, con sfumature diverse. Parole che ci dicono che il tempo è maturo per intervenire; anzi ne abbiamo perso già troppo, incapaci di superare lo stallo – sovente molto ideologico – fra le maglie troppo strette dello ius sanguinis e quelle troppo larghe dello ius soli.

Una cosa è certa: l’attuale legge, che prevede il diritto di acquisire a 18 anni la cittadinanza solo per i figli di genitori stranieri che siano nati qui e che dimostrino di aver risieduto in Italia tutta la vita senza interruzioni, non funziona. E’ barocca e impraticabile: per le famiglie immigrate, dimostrare la residenza ininterrotta è molto difficile, soprattutto perché le varie sanatorie che l’Italia ha adottato hanno creato periodi di vuoto nelle iscrizioni in anagrafe, anche nei casi di effettiva residenza in Italia. Soprattutto, è una legge fuori dal tempo, che non fa i conti con la realtà dell’immigrazione in Italia: forse accettabile ieri quando il fenomeno era una novità, non certo oggi quando nelle grandi città un nato su tre ha genitori stranieri. Quando venne varata, gli stranieri diciottenni nati in Italia erano poche decine. Nel 2012 circa 8000 stranieri nati in Italia diventeranno maggiorenni. Sappiamo – perché sono già nati e risiedono in Italia – che il numero dei diciottenni stranieri salirà a 16.000 nel 2016, 33.000 nel 2020, 72.000 nel 2026. Perché mai costringere tutti questi giovani nati e cresciuti in Italia a percorsi di esercizio di un loro diritto lunghi (al compimento dei 18 anni, le pratiche possono prolungarsi anche per tre anni), inutilmente tortuosi e soprattutto incerti?

La Fondazione Agnelli ha da tempo una proposta semplice da tradurre sul piano legislativo e probabilmente in grado di ottenere un consenso ampio sul piano politico.

La nostra proposta è che l’acquisizione della cittadinanza da parte dei figli degli immigrati discenda dall’aver frequentato le scuole italiane. Per chi è nato in Italia da genitori stranieri (le seconde generazioni in senso stretto), ma anche per chi vi è arrivato in tenera età (le cosiddette generazioni 1,75), un percorso scolastico completo (dalla primaria al completamento dell’obbligo formativo a 16 anni) e certificato (pagelle, esami di Stato) deve poter costituire una dimostrazione sufficiente non solo della permanenza nel nostro Paese – come attualmente richiesto dal requisito di residenza – ma soprattutto di una conoscenza adeguata della lingua italiana e di tutti quei requisiti di cultura storica, civile e scientifica che riteniamo irrinunciabili per la formazione di un buon cittadino italiano. La scuola dell’obbligo, oltre a sottoporre a un trattamento di circa 10.000 ore di lezione lungo l’arco di una decina di anni, assicura un livello di integrazione – ad esempio con i compagni di classe – che il semplice requisito di residenza non garantisce. D’altra parte, chi se non la scuola – ha svolto la missione di «fare gli italiani» negli ultimi 150 anni?

Riconoscere la scuola, anche ai fini giuridici, come il vero luogo dell’integrazione dei figli degli immigrati significa fare passi in avanti rispetto alla situazione attuale: (a) si supera l’attuale discrepanza tra il trattamento delle seconde generazioni e quello riservato alle generazioni 1,75; (b) si rimuove l’incertezza sull’approdo alla cittadinanza italiana che attualmente caratterizza l’adolescenza delle seconde generazioni, ossia la fase della crescita in cui si consolidano i valori e i sentimenti di appartenenza; (c) si abbassa l’età di acquisizione della cittadinanza dai 18 (ma nei fatti siamo sempre sopra ai 20) ai 16 anni, seguendo la tendenza europea all’anticipazione; (d) si riafferma esplicitamente la centralità della funzione scolastica, richiamando inoltre le famiglie immigrate, direttamente interessate, alle proprie responsabilità nel curare la regolare frequenza dei propri figli. Secondo noi, sarebbe il modo migliore per dar seguito all’appello del Capo dello Stato.

* Direttore Fondazione Giovanni Agnelli

La Stampa 23.02.12

"I corsari della notizia", di Bernardo Valli

È evidente. Ovvio. Il cronista non è un artista e ancor meno uno scienziato. Il suo mestiere è vicino a quello dell´artigiano. Ha un´utilità diretta. Assicura un servizio pubblico indispensabile a una società democratica: informare. Informare cercando di sfuggire a mille insidie, e tra queste la fiction, l´immaginazione, riservata all´artista. Informare accettando la verità del momento, destinata a cambiare, a evolvere. Una verità esposta alle emozioni e alle insidiose idee preconcette. Questa attività approssimativa, sempre soggetta a correzioni, ad aggiornamenti per avvicinarsi a un´inarrivabile esattezza, è vulnerabile a tanti virus. Virus politici, morali, economici, creati dall´ambizione e dalle intime, soggettive convinzioni.

Il mestiere rivela tutta la sua nobiltà quando per raccontare la verità del momento, effimera ma preziosa, il cronista mette a repentaglio la vita. Allora l´artigiano riscuote il rispetto che gli è dovuto.
Scrivo pensando naturalmente agli ultimi due cronisti uccisi a Homs, in Siria. Il fotoreporter francese, Rémi Ochlik, aveva 28 anni e una faccia da ragazzino. Era già ricco di esperienze. Libia, Congo, Haiti. Mi ricorda tanti altri giovani suoi colleghi per i quali ho provato una simpatia e un´ammirazione immediate perché per imprigionare frammenti di realtà correvano molti più rischi di noi cronisti della parola scritta, e perché quei loro frammenti di realtà riuscivano a riassumere in un´immagine, spesso in una sola immagine, un conflitto in corso da decenni o un evento politico al quale sarebbero stati riservati capitoli di storia. Nella civiltà delle immagini, priva di sfumature, generosa sui teleschermi di verità approssimative e affrettate, capita che il fotoreporter coraggioso e geniale sappia cogliere momenti rivelatori, inafferrabili per le telecamere e anche per il cronista armato di penna e computer. C´è una bella fotografia di Rémi Ochlik scattata sul litorale libico. Vale un documentario. In quel caso l´artigianato diventa arte e può entrare in un museo.
Così come l´ultimo articolo di Marie Colvin, apparso sul Sunday Times, in cui racconta il suo arrivo a Homs, dopo una notte passata sulle piste libanesi e siriane dei contrabbandieri, è un prodotto artigianale che può entrare in un´antologia letteraria. La reporter americana aveva il piglio di un corsaro, con la benda nera che nascondeva la mancanza dell´occhio sinistro, perduto in un´imboscata nello Sri Lanka, dove seguiva il dramma dei Tamil. Aveva un piglio da corsaro, con l´annessa audacia, ma anche una precisa coscienza di quel che è il mestiere del reporter. Un mestiere il cui compito è di raccontare gli orrori della guerra «con precisione e senza pregiudizi». Così ha detto un paio d´anni fa Marie Colvin in una chiesa londinese dove si ricordavano i cronisti e i loro ausiliari morti o feriti in conflitti armati.
Non penso che quello del corrispondente di guerra sia una precisa specialità del giornalismo. È un´attività che svolgono reporter spesso impegnati in altri campi. Da quello politico a quello culturale. Non pochi celebri scrittori hanno frequentato i campi di battaglia, o hanno bazzicato nelle vicinanze e li hanno descritti. Poi sono ritornati ai loro romanzi. Quel che distingue chi svolge sul serio, sia pur temporaneamente, il lavoro di reporter di guerra è la necessità, anche morale, di «andare sul posto». Come Rémi Ochlik e Marie Colvin.
In questo senso il corrispondente di guerra può servire come punto di riferimento. Ricorda che il reporter, nel rischio o nella normalità, deve cercare di essere un testimone diretto, non deve dipendere, nei limiti del possibile, dai numerosi e comodi filtri offerti dalla tecnica. La civiltà delle immagini e dell´informatica spinge a raccontare sui giornali la meschina, centellinata realtà che appare sul video, o che viene offerta da Internet. Così capita che lo stesso giorno un corrispondente possa scrivere articoli da posti diversi fingendo di esserci, o possa esibirsi su due o tre argomenti che non hanno nulla in comune. Rémi Ochlik e Marie Colvin hanno pagato con la vita il nobile vizio di «andare sul posto», di raccontare la realtà nella sua cruda versione. Il primo con la macchina fotografica, la seconda con la biro e il taccuino hanno voluto scavalcare tutti gli ostacoli che si frappongono tra i cronisti e la verità vera, sia pure la verità del momento.

La Repubblica 23.02.12

“I corsari della notizia”, di Bernardo Valli

È evidente. Ovvio. Il cronista non è un artista e ancor meno uno scienziato. Il suo mestiere è vicino a quello dell´artigiano. Ha un´utilità diretta. Assicura un servizio pubblico indispensabile a una società democratica: informare. Informare cercando di sfuggire a mille insidie, e tra queste la fiction, l´immaginazione, riservata all´artista. Informare accettando la verità del momento, destinata a cambiare, a evolvere. Una verità esposta alle emozioni e alle insidiose idee preconcette. Questa attività approssimativa, sempre soggetta a correzioni, ad aggiornamenti per avvicinarsi a un´inarrivabile esattezza, è vulnerabile a tanti virus. Virus politici, morali, economici, creati dall´ambizione e dalle intime, soggettive convinzioni.

Il mestiere rivela tutta la sua nobiltà quando per raccontare la verità del momento, effimera ma preziosa, il cronista mette a repentaglio la vita. Allora l´artigiano riscuote il rispetto che gli è dovuto.
Scrivo pensando naturalmente agli ultimi due cronisti uccisi a Homs, in Siria. Il fotoreporter francese, Rémi Ochlik, aveva 28 anni e una faccia da ragazzino. Era già ricco di esperienze. Libia, Congo, Haiti. Mi ricorda tanti altri giovani suoi colleghi per i quali ho provato una simpatia e un´ammirazione immediate perché per imprigionare frammenti di realtà correvano molti più rischi di noi cronisti della parola scritta, e perché quei loro frammenti di realtà riuscivano a riassumere in un´immagine, spesso in una sola immagine, un conflitto in corso da decenni o un evento politico al quale sarebbero stati riservati capitoli di storia. Nella civiltà delle immagini, priva di sfumature, generosa sui teleschermi di verità approssimative e affrettate, capita che il fotoreporter coraggioso e geniale sappia cogliere momenti rivelatori, inafferrabili per le telecamere e anche per il cronista armato di penna e computer. C´è una bella fotografia di Rémi Ochlik scattata sul litorale libico. Vale un documentario. In quel caso l´artigianato diventa arte e può entrare in un museo.
Così come l´ultimo articolo di Marie Colvin, apparso sul Sunday Times, in cui racconta il suo arrivo a Homs, dopo una notte passata sulle piste libanesi e siriane dei contrabbandieri, è un prodotto artigianale che può entrare in un´antologia letteraria. La reporter americana aveva il piglio di un corsaro, con la benda nera che nascondeva la mancanza dell´occhio sinistro, perduto in un´imboscata nello Sri Lanka, dove seguiva il dramma dei Tamil. Aveva un piglio da corsaro, con l´annessa audacia, ma anche una precisa coscienza di quel che è il mestiere del reporter. Un mestiere il cui compito è di raccontare gli orrori della guerra «con precisione e senza pregiudizi». Così ha detto un paio d´anni fa Marie Colvin in una chiesa londinese dove si ricordavano i cronisti e i loro ausiliari morti o feriti in conflitti armati.
Non penso che quello del corrispondente di guerra sia una precisa specialità del giornalismo. È un´attività che svolgono reporter spesso impegnati in altri campi. Da quello politico a quello culturale. Non pochi celebri scrittori hanno frequentato i campi di battaglia, o hanno bazzicato nelle vicinanze e li hanno descritti. Poi sono ritornati ai loro romanzi. Quel che distingue chi svolge sul serio, sia pur temporaneamente, il lavoro di reporter di guerra è la necessità, anche morale, di «andare sul posto». Come Rémi Ochlik e Marie Colvin.
In questo senso il corrispondente di guerra può servire come punto di riferimento. Ricorda che il reporter, nel rischio o nella normalità, deve cercare di essere un testimone diretto, non deve dipendere, nei limiti del possibile, dai numerosi e comodi filtri offerti dalla tecnica. La civiltà delle immagini e dell´informatica spinge a raccontare sui giornali la meschina, centellinata realtà che appare sul video, o che viene offerta da Internet. Così capita che lo stesso giorno un corrispondente possa scrivere articoli da posti diversi fingendo di esserci, o possa esibirsi su due o tre argomenti che non hanno nulla in comune. Rémi Ochlik e Marie Colvin hanno pagato con la vita il nobile vizio di «andare sul posto», di raccontare la realtà nella sua cruda versione. Il primo con la macchina fotografica, la seconda con la biro e il taccuino hanno voluto scavalcare tutti gli ostacoli che si frappongono tra i cronisti e la verità vera, sia pure la verità del momento.

La Repubblica 23.02.12