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“La ricerca? E’ ingessata come un Ministero”, di Cristiana Pulcinelli

Intervista a Fernando Ferroni. Il presidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare spiega perché in Italia i giovani trovano le porte sbarrate: ne entra uno ogni 5 pensionati. «Perdiamo i fondieuropei perché ognuno è bravo per sé ma non fa squadra». Programmazione, meno variazioni di rotta, scelte coraggiose. Si potrebbero riassumere così le richieste di Fernando Ferroni al governo per quanto riguarda la politica della ricerca: «Fin qui siamo ancora all’emergenza: la priorità è salvare l’Italia dal baratro. Al momento non vedo un piano in cui la ricerca sia vista come fattore di crescita,ma sono fiducioso». Ferroni, professore ordinario di fisica sperimentale all’università La Sapienza di Roma, da ottobre 2011 è presidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn). Intanto il Miur ha fatto uscire i nuovi Bandi per il finanziamento dei Progetti di ricerca di interesse nazionale (Prin)e quelli«Futuroinricerca» rivolti ai giovani. Non è una buona cosa? «Le incentivazioni alla ricerca, in teoria, dovrebbero uscire ogni anno: non vorrei che diventassero un fatto straordinario. Va comunque reso merito al governo di aver resuscitato questi fondi, dopo la sospensione dell’anno scorso». Già sono fioccate critiche ai Prin. I punti in discussione: il limite al numero di domande,il fatto che i progetti possono essere presentati solo dalle università e che debbono necessariamente essere frutto della la collaborazione tra almeno 5 unità di ricerca. Che ne pensa? «Credo di capire lo spirito che ha animato il ministro: attraverso i Prin si tenta un allenamento per i progetti europei e in Europa i progetti vanno presentati con le alleanze. Ho delle perplessità invece sulla griglia selettiva. Non sono turbato dal fatto che ci sia una preselezione,ma trovo forzato il meccanismo per cui il numero di progetti presentati deve essere in relazione alla dimensione dell’università. Esistono infatti realtà molto piccole e molto brave». Parliamo di giovani: in questi ultimi anni l’Infn ha sofferto del mancato ingresso delle nuove generazioni? «Moltissimo. È il frutto di una legge delirante che equipara gli enti di ricerca a un ministero e li obbliga a un turn over del 20%: si può assumere una persona ogni 5 che vanno in pensione. Mentre le università continuano a sfornare giovani con una percentuale costante nel tempo, si decide di chiudere un rubinetto di reclutamento: così si scoraggia la gente. Il fatto è che l’Italia deve sapere quanti ricercatori servono. Non si può dire: siccome siamo in difficoltà economiche, non assumiamo più giovani. Ormai l’età media negli enti di ricerca è sempre più alta, mentre i giovani che finiscono il dottorato cercano direttamente opportunità all’estero e noi, non avendo margine per reclutare i migliori, non possiamo che scegliere tra quelli che restano. Insomma, tutto questo rende l’efficienza del sistema molto bassa». Sempre a proposito di giovani, da poco sono stati resi noti i risultati dell’indagine europea sull’innovazione. L’Italia ne esce male. Tra le varie pecche quella di non essere attraenti per gli studenti provenienti dall’estero. Come mai? «Quando uno studente italiano si presenta a Stanford, l’ente di ricerca gli trova l’appartamento e gli dà un salario che è sufficiente non solo a pagare l’appartamento, ma anche a mangiare, bere e a concedersi qualche divertimento. Noi invece li facciamo morire di fame. Oggi per attrarre gli studenti bisogna fare ponti d’oro perché sono in molti a cercare di accaparrarseli». Cosa si dovrebbe fare? «Primo, decidere che la ricerca è importante. Poi capire quali sono i settori strategici e quelli invece meno rilevanti. Infine, bisognerebbe incentivare i primi e drenare risorse dai secondi. Un Paese povero deve fare delle scelte. Se il governo ci dicesse su cosa possiamo contare, ci potremmo organizzare. Faccio presente che negli altri Paesi esiste il semplice concetto di programmazione. Il Cnrs, l’equivalente francese del Cnr, bandisce tutti gli anni un certo numero di posti. Tutti gli anni. Qui invece è una lotteria. Uno straniero che leggesse l’elenco dei provvedimenti degli ultimi anni penserebbe che siamo un Paese di pazzi». Un altro elemento di cui si parla in questi giorni è la valutazione della qualità della ricerca. È una buona cosa? «Sì, se serve a distinguere tra bravi e meno bravi. Quello che conta è che si metta in piedi un sistema onesto e trasparente, con un meccanismo che funzioni anche qualora ci fosse tra i valutatori la persona sbagliata. Si potrebbe copiare da altri Paesi dove questo meccanismo già esiste: ho fiducia nel fatto che lo faranno ». Recentemente si è parlato anche del ruolo della burocrazia nella distribuzione dei fondi. La soluzione è separare nettamente politica da ricerca? «La politica dovrebbe decidere quanto vuole dare alla ricerca e poi fidarsi di chi fa la valutazione per l’assegnazione dei fondi. Ma non conosco nessun paese in cui avviene questo. Tuttavia, si può fare certamente meglio di quanto si fa in Italia. Ad esempio, si può gestire la cosa con variazioni minime rispetto a un percorso deciso. Meglio idee normali mantenute a lungo, piuttosto che grandi idee ma che fanno cambiare direzione ad ogni cambio di governo». Il ministro ha detto che l’Italia della ricerca fatica a sfruttare i fondi europei. E perde ogni anno 500 milioni Di euro. Perché non riusciamo ad accedere come dovremmo a quei fondi? «Perché l’Italia non fa sistema: qui ognuno è bravo per conto suo. Quello di mettersi insieme per fare sinergia è un concetto sconosciuto da noi. A Profumo va riconosciuto il merito di aver messo a nudo questo problema. L’Ente che ha più successo nel prendere i fondi europei è il Cnr, ma si capisce: si occupa di tematiche come l’ambiente, l’inquinamento, la salute, care all’Europa. Noi ci occupiamo di fisica delle particelle, è più difficile. Tuttavia è mia intenzione spingere l’Infn a cercare i finanziamenti europei mettendo a disposizione le nostre competenze per altri ambiti, utili alla società: ambiente, medicina, energia, beni culturali». In molti chiedono rapporti più stretti Tra mondo della ricerca e mondo industriale, nel caso della fisica sperimentale già esistono? «Come Infn noi abbiamo rapporti con l’industria meccanica, elettronica, dei superconduttori. Manca invece il rapporto con altre industrie, ad esempio quella medicale. L’industria italiana però non sembra vogliosa di competere sul piano dell’innovazione. Certo è dura, perché si tratta di combattere contro giganti come Siemens, Hitachi, Mitsubishi, ma fa parte del gioco… »

L’Unità 23.02.12