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"Lo stipendio all’Ingv non gli basta, Giardini arrotonda alla Sapienza", di Jolanda Buffalini

Chiamato da Gelmini alla guida dell’istituto, si è dimesso per il compenso basso (115mila euro): si cerca una cattedra. Il motto della Sapienza recita “il futuro e passato di qui”, ma, in questo caso, si tratta del futuro del professor Domenico Giardini, a cui si deve trovare una cattedra presso il dipartimento di Scienze della terra prima che, il prossimo 1˚ marzo, le sue dimissioni da presidente dell’Ingv divengano irrevocabili. Il gran pasticcio all’italiana inizia quando l’ex ministro Maria Stella Gelmini nomina il sismologo, professore al Politecnico di Zurigo, presidente dell’ organo scientifico della Protezione civile, scegliendolo in una cinquina indicata dal comitato di valutazione presieduto dal professor Salamini. Giardini si insedia ma trova che l’indennita di 115.000 euro, poco inferiore a quella che percepiva il suo predecessore e lontano maestro Enzo Boschi, sia bassa. Fallisce un primo tentativo di rimediare: una richiesta alla Funzione pubblica di autorizzare la Protezione civile a pagare l’integrazione. Il “niet” e inevitabile, e stata appena varata la norma sul tetto alle indennita dei manager pubblici. Il professore rassegna le dimissioni, accolte dal ministro Profumo (a sua volta dimissionario dal Cnr), il 31 gennaio. Ma non si arresta la ricerca di una soluzione alternativa per “dribblare” il tetto di spesa: il ministro telefona al rettore della Sapienza Luigi Frati, il rettore si rivolge al dipartimento di Scienze della terra. Il consiglio di dipartimento – giovedi scorso – ha votato “si” alla richiesta proveniente da tanto autorevole filiera, di una chiamata per “chiara fama”. Pero l’operazione, denunciata da il “foglietto della ricerca”, giornale on line del sindacato di base, appare a molti, universitari e ricercatori, come≪un completo sovvertimento delle regole≫ o, direbbe l’ex ministro Calderoli, ≪una porcata≫. C’e la beffa: il prof dovrebbe essere pagato con il fondo che fu istituito con la riforma Gelmini per i concorsi. Ma l’elefantiasi burocratica della riforma ha paralizzato la vita degli atenei, i concorsi non si fanno. Allora il ministro Profumo ha inviato una circolare ai rettori: usate quei soldi per le chiamate di “chiara fama”. Il risultato e che le malmesse casse universitarie dovrebbero rimpinguare il reddito del nuovo presidente dell’Ingv. Macome fara Giardini ad espletare i compiti di didattica e ricerca? Il professore ha conservato (part time) la cattedra a Zurigo, dove vive con la famiglia, e visiting professor a Singapore. In piu e alla testa dell’Ingv che si occupa operativamente di terremoti, frane, eruzioni vulcaniche, alluvioni. Roba da richiedere un impegno a tempo pieno. Ingv, d’altra parte, proprio per la delicatezza dei compiti, beneficia di finanziamenti di ricerca molto importanti: 100 milioni annui contro i 2 milioni e 800mila che arrivano a dipartimenti universitari e Cnr. Anche all’Ingv (mille ricercatori di cui 400 precari) la pazienza e messa a dura prova, in una lettera al Cda si chiede ≪trasparenza e etica≫. Sollecitudine. Perche tanta sollecitudine nel cercare di raddoppiare il reddito del professore che, sommando4 incarichi, guadagnerebbe quanto Barak Obama (400mila dollari)? Il ministro non potrebbe scegliere uno degli altri quattro della cinquina: Benedetto De Vivo (geochimica), Carlo Doglioni (geodinamica), Stefano Gresta (fisica dei vulcani), Roberto Sabadini (geofisica)? Domenico Giardini e sicuramente molto gradito ai vertici della Protezione civile. Quando la procura de l’Aquila apri il procedimento sulla Commissione grandi rischi, accusata di avere trasmesso alla popolazione un messaggio tranquillizzante, Giardini si schiero con Guido Bertolaso: ≪Il pericolo e quello di produrre una serie infinita di falsi allarmi≫, disse in un convegno organizzato dall’allora capo della Protezione civile. Fra gli imputati per mancato allarme a l’Aquila c’e l’attuale direttore del servizio sismico di Protezione civile Mauro Dolce. Il prof di Zurigo e anche un fautore dell’assicurazione obbligatoria per i rischi sismici, che fu cavallo di battaglia del gruppo della Protezione civile Spa. Ingv, inoltre, e un ganglio delicato, situato com’e su una difficile linea di confine fra oggettivita scientifica e operativita della Protezione civile, la sua indipendenza scientifica e a garanzia della sicurezza dei cittadini. Ma e difficile aspettarsi indipendenza da una nomina tanto condizionata da favoritismi accademico- politici.

L’Unità 18.02.12

“Lo stipendio all’Ingv non gli basta, Giardini arrotonda alla Sapienza”, di Jolanda Buffalini

Chiamato da Gelmini alla guida dell’istituto, si è dimesso per il compenso basso (115mila euro): si cerca una cattedra. Il motto della Sapienza recita “il futuro e passato di qui”, ma, in questo caso, si tratta del futuro del professor Domenico Giardini, a cui si deve trovare una cattedra presso il dipartimento di Scienze della terra prima che, il prossimo 1˚ marzo, le sue dimissioni da presidente dell’Ingv divengano irrevocabili. Il gran pasticcio all’italiana inizia quando l’ex ministro Maria Stella Gelmini nomina il sismologo, professore al Politecnico di Zurigo, presidente dell’ organo scientifico della Protezione civile, scegliendolo in una cinquina indicata dal comitato di valutazione presieduto dal professor Salamini. Giardini si insedia ma trova che l’indennita di 115.000 euro, poco inferiore a quella che percepiva il suo predecessore e lontano maestro Enzo Boschi, sia bassa. Fallisce un primo tentativo di rimediare: una richiesta alla Funzione pubblica di autorizzare la Protezione civile a pagare l’integrazione. Il “niet” e inevitabile, e stata appena varata la norma sul tetto alle indennita dei manager pubblici. Il professore rassegna le dimissioni, accolte dal ministro Profumo (a sua volta dimissionario dal Cnr), il 31 gennaio. Ma non si arresta la ricerca di una soluzione alternativa per “dribblare” il tetto di spesa: il ministro telefona al rettore della Sapienza Luigi Frati, il rettore si rivolge al dipartimento di Scienze della terra. Il consiglio di dipartimento – giovedi scorso – ha votato “si” alla richiesta proveniente da tanto autorevole filiera, di una chiamata per “chiara fama”. Pero l’operazione, denunciata da il “foglietto della ricerca”, giornale on line del sindacato di base, appare a molti, universitari e ricercatori, come≪un completo sovvertimento delle regole≫ o, direbbe l’ex ministro Calderoli, ≪una porcata≫. C’e la beffa: il prof dovrebbe essere pagato con il fondo che fu istituito con la riforma Gelmini per i concorsi. Ma l’elefantiasi burocratica della riforma ha paralizzato la vita degli atenei, i concorsi non si fanno. Allora il ministro Profumo ha inviato una circolare ai rettori: usate quei soldi per le chiamate di “chiara fama”. Il risultato e che le malmesse casse universitarie dovrebbero rimpinguare il reddito del nuovo presidente dell’Ingv. Macome fara Giardini ad espletare i compiti di didattica e ricerca? Il professore ha conservato (part time) la cattedra a Zurigo, dove vive con la famiglia, e visiting professor a Singapore. In piu e alla testa dell’Ingv che si occupa operativamente di terremoti, frane, eruzioni vulcaniche, alluvioni. Roba da richiedere un impegno a tempo pieno. Ingv, d’altra parte, proprio per la delicatezza dei compiti, beneficia di finanziamenti di ricerca molto importanti: 100 milioni annui contro i 2 milioni e 800mila che arrivano a dipartimenti universitari e Cnr. Anche all’Ingv (mille ricercatori di cui 400 precari) la pazienza e messa a dura prova, in una lettera al Cda si chiede ≪trasparenza e etica≫. Sollecitudine. Perche tanta sollecitudine nel cercare di raddoppiare il reddito del professore che, sommando4 incarichi, guadagnerebbe quanto Barak Obama (400mila dollari)? Il ministro non potrebbe scegliere uno degli altri quattro della cinquina: Benedetto De Vivo (geochimica), Carlo Doglioni (geodinamica), Stefano Gresta (fisica dei vulcani), Roberto Sabadini (geofisica)? Domenico Giardini e sicuramente molto gradito ai vertici della Protezione civile. Quando la procura de l’Aquila apri il procedimento sulla Commissione grandi rischi, accusata di avere trasmesso alla popolazione un messaggio tranquillizzante, Giardini si schiero con Guido Bertolaso: ≪Il pericolo e quello di produrre una serie infinita di falsi allarmi≫, disse in un convegno organizzato dall’allora capo della Protezione civile. Fra gli imputati per mancato allarme a l’Aquila c’e l’attuale direttore del servizio sismico di Protezione civile Mauro Dolce. Il prof di Zurigo e anche un fautore dell’assicurazione obbligatoria per i rischi sismici, che fu cavallo di battaglia del gruppo della Protezione civile Spa. Ingv, inoltre, e un ganglio delicato, situato com’e su una difficile linea di confine fra oggettivita scientifica e operativita della Protezione civile, la sua indipendenza scientifica e a garanzia della sicurezza dei cittadini. Ma e difficile aspettarsi indipendenza da una nomina tanto condizionata da favoritismi accademico- politici.

L’Unità 18.02.12

"L'orrore nella testa di Bashar", di Tahar Bel Jelloun

È con l´effrazione che sono entrato nella testa del presidente siriano: una fortezza inaccessibile. Prima di riuscire ad accostarsi bisogna superare ben sette sbarramenti. Alta sicurezza. Diffidenza e paura. Bashar tiene le distanze, come già faceva suo padre, Hafez al-Assad. Il quale, a quanto si racconta, un giorno fece fucilare i sette soldati incaricati di filtrare il passaggio di chiunque avesse appuntamento con lui. A Hafez piaceva giocare a scacchi con un suo amico d´infanzia, che si presentava ogni pomeriggio e doveva essere perquisito sette volte prima di approdare alla sala dei giochi. Ma un giorno, dopo averlo visto tante volte, i soldati lo lasciarono passare senza compiere il loro lavoro. Quando Hafez venne a saperlo, ordinò di far giustiziare quei disgraziati per aver mancato di adempiere ai loro obblighi. Il piccolo Bashar è al corrente di quest´episodio, uno tra tanti, non meno sanguinosi. Lui pure è irraggiungibile. E non senza una buona ragione. Chi uccide rischia di essere ucciso. Ecco perché si prendono le precauzioni necessarie, e magari anche qualcuna in più.
La sua testa non è molto grande. È occupata da fieno, spilli e lame da rasoio. Non so perché. Il suo cervello è calmo. Non c´è stress né nervosismo. Mi sono fatto piccolissimo e ho teso l´orecchio. Perché il piccolo pensa, e non esita davanti alle idee audaci:
«Ho imparato tutto dal mio defunto padre, grande statista e uomo sensibile, colto e stratega eminente. Ricordo che era molto apprezzato da Henry Kissinger; e mi disse di avere a sua volta grande simpatia per il segretario di stato americano, di cui ammirava l´intelligenza e il realismo politico. In questi ultimi tempi mi accade di entrare in comunicazione con mio padre. È geniale; ed è lui a dettarmi ciò che devo fare. Innanzitutto, io non sono né Saddam né Gheddafi. Non sarò ridicolizzato dagli americani, e non mi farò sgozzare dai fanatici. Appartengo alla famiglia Al-Assad, un clan unito e solidale. Una grande famiglia, che ha le sue tradizioni. Io non mi muovo a casaccio. Sto resistendo contro un complotto internazionale. Non ho nessuna voglia di vedere il mio Paese trasformato in una repubblica islamica, sotto la guida di analfabeti. Mio padre mi ha insegnato che in politica bisogna avere un cuore di bronzo. Niente sentimenti, nessuna debolezza. Perché io mi gioco la testa, e la vita di tutta la mia famiglia. I farabutti che stanno mettendo la Siria a ferro e fuoco hanno solo ciò che si meritano. Si parla di “primavera araba”! Cos´è questa storia? Perché la primavera dovrebbe essere sinonimo della mia scomparsa? Non solo non morirò, ma prima li ammazzerò tutti quanti. Lo dice l´islam: se occorre sacrificare due terzi di un popolo per mantenere in vita il suo terzo migliore, non si deve esitare. Io applico questa legge, antica quanto gli arabi. E ricordo che la Siria è un Paese laico.
Di che mi si rimprovera? Di dare all´esercito l´ordine di sparare sui dimostranti? Se non lo facessi perderei il mio posto, e non mi farei più rispettare. Guardate il mio amico Mubarak, che da un giorno all´altro si è ritrovato espulso dal suo palazzo, per mancanza di determinazione e di volontà. L´esercito lo ha tradito. Quanto al mio, è composto in maggioranza da uomini fedeli. I disertori l´hanno pagata cara. Io non ho patemi d´animo. Mi difendo; anzi, direi che la mia è legittima difesa.
Ho preso la precauzione di mettere al sicuro mia moglie Asma e i miei tre figli, Hafez, Zeyn e Karim. È normale: mi comporto come un buon marito e padre di famiglia. Vedo padri irresponsabili che incitano i loro figli a manifestare, sapendo perfettamente che potrebbero essere uccisi da qualche pallottola vagante. Mi dicono che sono morti dei bambini. Non riesco a crederlo, e considero i loro genitori responsabili di una tale disgrazia – perché non c´è disgrazia peggiore della perdita di un figlio. Ricordo il dolore di mio padre il giorno in cui Bassel, mio fratello maggiore, morì in un incidente d´auto. Ricordo il suo pianto. Sì, ho visto mio padre piangere davanti all´ingiustizia del destino che gli ha tolto un figliolo amato.
Le Nazioni Unite hanno cercato di infangarmi, e mi hanno chiesto di dimettermi. Me ne dovrei andare – per andare dove? Mi hanno forse preso per un Ben Ali? Non sono certo disposto a salire su un aereo per andare a mendicare asilo politico nel mondo! Fortunatamente, sia la Cina che la Russia del mio amico Putin hanno opposto il loro veto. Anche il mio amico Ahmadinejad è dalla mia parte. Esiste pur sempre una giustizia. Gli insorti sono terroristi, agenti pagati dall´Europa, e anche da taluni Paesi arabi che hanno qualche conto da regolare con me. Mi parlano di torture! È del tutto normale usare la tortura per prevenire massacri, evitando che persone innocenti cadano sotto le pallottole dei cattivi siriani.
Ho in mano il Paese, e tengo testa a chi vuole instaurare un altro regime. Dovrebbero ringraziarmi, e aiutarmi a proteggere il Paese dal pericolo islamista. So come gli islamisti tratteranno la mia tribù, gli Alawiti, e le minoranze cristiane e armene. Il Vaticano dovrebbe accorrere in mio aiuto, invece di condannarmi. Ma per fortuna quelle sono soltanto parole. Ben altro è ciò che stanno facendo ora gli europei: congelano i beni che possiedo in Europa, e cercano di asfissiare la popolazione bloccando gli scambi commerciali. Sono azioni meschine e disoneste.
L´indomani del massacro di Hama – avevo allora 17 anni – mio padre mi disse: vedi, figliolo, se non avessi agito con tanta fermezza stasera non saremmo più qui. Aveva ragione. Io pure so bene dove dormirei stasera se non bombardassi Homs: all´obitorio! Perciò bisogna smetterla di parlare a vanvera. A Hama i morti furono ventimila (e allora nessuno reagì); ora, per non più di ottomila morti tra Homs, Draa, Damasco e Hama, è scoppiato un putiferio!
Sapete perché Asma, la mia cara moglie, mi ha sposato? Per i valori che incarno. Lo ha dichiarato su Paris Match del 10 dicembre 2010. E sapete perché ho studiato oftalmologia? Perché sono allergico alla vista del sangue».
Nell´uscire da quella testa, un piede mi è rimasto impigliato in un intrico di fili elettrici. Bashar è collegato alla centrale della tortura: tanto per passare il tempo, è lui che preme il pedale per trasmettere le scariche ai genitali dei suppliziati. Sembra che questo lo diverta.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

La Repubblica 18.02.12

“L’orrore nella testa di Bashar”, di Tahar Bel Jelloun

È con l´effrazione che sono entrato nella testa del presidente siriano: una fortezza inaccessibile. Prima di riuscire ad accostarsi bisogna superare ben sette sbarramenti. Alta sicurezza. Diffidenza e paura. Bashar tiene le distanze, come già faceva suo padre, Hafez al-Assad. Il quale, a quanto si racconta, un giorno fece fucilare i sette soldati incaricati di filtrare il passaggio di chiunque avesse appuntamento con lui. A Hafez piaceva giocare a scacchi con un suo amico d´infanzia, che si presentava ogni pomeriggio e doveva essere perquisito sette volte prima di approdare alla sala dei giochi. Ma un giorno, dopo averlo visto tante volte, i soldati lo lasciarono passare senza compiere il loro lavoro. Quando Hafez venne a saperlo, ordinò di far giustiziare quei disgraziati per aver mancato di adempiere ai loro obblighi. Il piccolo Bashar è al corrente di quest´episodio, uno tra tanti, non meno sanguinosi. Lui pure è irraggiungibile. E non senza una buona ragione. Chi uccide rischia di essere ucciso. Ecco perché si prendono le precauzioni necessarie, e magari anche qualcuna in più.
La sua testa non è molto grande. È occupata da fieno, spilli e lame da rasoio. Non so perché. Il suo cervello è calmo. Non c´è stress né nervosismo. Mi sono fatto piccolissimo e ho teso l´orecchio. Perché il piccolo pensa, e non esita davanti alle idee audaci:
«Ho imparato tutto dal mio defunto padre, grande statista e uomo sensibile, colto e stratega eminente. Ricordo che era molto apprezzato da Henry Kissinger; e mi disse di avere a sua volta grande simpatia per il segretario di stato americano, di cui ammirava l´intelligenza e il realismo politico. In questi ultimi tempi mi accade di entrare in comunicazione con mio padre. È geniale; ed è lui a dettarmi ciò che devo fare. Innanzitutto, io non sono né Saddam né Gheddafi. Non sarò ridicolizzato dagli americani, e non mi farò sgozzare dai fanatici. Appartengo alla famiglia Al-Assad, un clan unito e solidale. Una grande famiglia, che ha le sue tradizioni. Io non mi muovo a casaccio. Sto resistendo contro un complotto internazionale. Non ho nessuna voglia di vedere il mio Paese trasformato in una repubblica islamica, sotto la guida di analfabeti. Mio padre mi ha insegnato che in politica bisogna avere un cuore di bronzo. Niente sentimenti, nessuna debolezza. Perché io mi gioco la testa, e la vita di tutta la mia famiglia. I farabutti che stanno mettendo la Siria a ferro e fuoco hanno solo ciò che si meritano. Si parla di “primavera araba”! Cos´è questa storia? Perché la primavera dovrebbe essere sinonimo della mia scomparsa? Non solo non morirò, ma prima li ammazzerò tutti quanti. Lo dice l´islam: se occorre sacrificare due terzi di un popolo per mantenere in vita il suo terzo migliore, non si deve esitare. Io applico questa legge, antica quanto gli arabi. E ricordo che la Siria è un Paese laico.
Di che mi si rimprovera? Di dare all´esercito l´ordine di sparare sui dimostranti? Se non lo facessi perderei il mio posto, e non mi farei più rispettare. Guardate il mio amico Mubarak, che da un giorno all´altro si è ritrovato espulso dal suo palazzo, per mancanza di determinazione e di volontà. L´esercito lo ha tradito. Quanto al mio, è composto in maggioranza da uomini fedeli. I disertori l´hanno pagata cara. Io non ho patemi d´animo. Mi difendo; anzi, direi che la mia è legittima difesa.
Ho preso la precauzione di mettere al sicuro mia moglie Asma e i miei tre figli, Hafez, Zeyn e Karim. È normale: mi comporto come un buon marito e padre di famiglia. Vedo padri irresponsabili che incitano i loro figli a manifestare, sapendo perfettamente che potrebbero essere uccisi da qualche pallottola vagante. Mi dicono che sono morti dei bambini. Non riesco a crederlo, e considero i loro genitori responsabili di una tale disgrazia – perché non c´è disgrazia peggiore della perdita di un figlio. Ricordo il dolore di mio padre il giorno in cui Bassel, mio fratello maggiore, morì in un incidente d´auto. Ricordo il suo pianto. Sì, ho visto mio padre piangere davanti all´ingiustizia del destino che gli ha tolto un figliolo amato.
Le Nazioni Unite hanno cercato di infangarmi, e mi hanno chiesto di dimettermi. Me ne dovrei andare – per andare dove? Mi hanno forse preso per un Ben Ali? Non sono certo disposto a salire su un aereo per andare a mendicare asilo politico nel mondo! Fortunatamente, sia la Cina che la Russia del mio amico Putin hanno opposto il loro veto. Anche il mio amico Ahmadinejad è dalla mia parte. Esiste pur sempre una giustizia. Gli insorti sono terroristi, agenti pagati dall´Europa, e anche da taluni Paesi arabi che hanno qualche conto da regolare con me. Mi parlano di torture! È del tutto normale usare la tortura per prevenire massacri, evitando che persone innocenti cadano sotto le pallottole dei cattivi siriani.
Ho in mano il Paese, e tengo testa a chi vuole instaurare un altro regime. Dovrebbero ringraziarmi, e aiutarmi a proteggere il Paese dal pericolo islamista. So come gli islamisti tratteranno la mia tribù, gli Alawiti, e le minoranze cristiane e armene. Il Vaticano dovrebbe accorrere in mio aiuto, invece di condannarmi. Ma per fortuna quelle sono soltanto parole. Ben altro è ciò che stanno facendo ora gli europei: congelano i beni che possiedo in Europa, e cercano di asfissiare la popolazione bloccando gli scambi commerciali. Sono azioni meschine e disoneste.
L´indomani del massacro di Hama – avevo allora 17 anni – mio padre mi disse: vedi, figliolo, se non avessi agito con tanta fermezza stasera non saremmo più qui. Aveva ragione. Io pure so bene dove dormirei stasera se non bombardassi Homs: all´obitorio! Perciò bisogna smetterla di parlare a vanvera. A Hama i morti furono ventimila (e allora nessuno reagì); ora, per non più di ottomila morti tra Homs, Draa, Damasco e Hama, è scoppiato un putiferio!
Sapete perché Asma, la mia cara moglie, mi ha sposato? Per i valori che incarno. Lo ha dichiarato su Paris Match del 10 dicembre 2010. E sapete perché ho studiato oftalmologia? Perché sono allergico alla vista del sangue».
Nell´uscire da quella testa, un piede mi è rimasto impigliato in un intrico di fili elettrici. Bashar è collegato alla centrale della tortura: tanto per passare il tempo, è lui che preme il pedale per trasmettere le scariche ai genitali dei suppliziati. Sembra che questo lo diverta.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

La Repubblica 18.02.12

"Scuola e ricerca, la ricetta per crescere", intervista a Patrizio Bianchi di Stefano Iucci

Parla Patrizio Bianchi, economista e assessore in Emilia Romagna. Competere riducendo il costo del lavoro ci condannerà a produzioni di serie B. In questa fase manca il ruolo guida della poltica. In Italia, anche nella fase peggiore della crisi in atto, ci sono imprese fortemente competitive che operano in produzioni a forte valore aggiunto. Il punto allora – se davvero, fuori dalle ideologie, si vuole generare crescita e sviluppo – è capire come estendere questa competitività al resto del paese, puntando contemporaneamente sulla qualità del lavoro. Patrizio Bianchi, economista, professore universitario e assessore al Lavoro, università, ricerca e scuola della Regione Emilia Romagna, non ha dubbi: serve una nuova forte politica industriale che sia in grado di indicare la rotta, investendo pesantemente in ricerca ed educazione. “Se lei guarda ai dati disponibili – spiega a Rassegna –, la situazione è chiara. Anche tra il 2009 e il 2010, gli anni più duri della crisi, una parte delle aziende italiane è cresciuta a ritmo sostenuto”.

Rassegna È una cosa di cui non si parla…

Bianchi E invece è così, soprattutto nel comparto della meccanica, nelle macchine per la produzione. Qui operano imprese non soltanto innovative, ma anche fortemente connesse con paesi extraeuropei che crescono a ritmo sostenuto. Il tema dunque è questo: come si fa ad ampliare questa base di imprese produttive che, secondo Bankitalia, nel 2009 erano l’8-10 per cento del totale, vale a dire circa 5.000?

Rassegna Già, come si fa?

Bianchi Le chiavi disponibili sono due: ricerca ed educazione. Innanzitutto bisogna riuscire a consolidare strutture in grado di stare non solo sulla frontiera della ricerca, ma anche di fare da catalizzatrici al resto del nostro sistema diffuso, università, Cnr e istituti vari. La seconda chiave, altrettanto evidente, è il recupero di una capacità di investimento nell’educazione superiore e tecnica. Questa è la linea che stiamo perseguendo in Emilia Romagna, con interventi massicci in tale direzione. Tutti parlano di economia della conoscenza, ma se non si investe sulle persone si può fare ben poco. Non basta acquistare computer, per intenderci.

Rassegna Come si declina, secondo lei, un moderno intervento pubblico nell’economia, a parte ciò che ci ha appena detto?

Bianchi Il pubblico ha un ruolo essenziale innanzitutto nell’indicare la direzione di marcia in cui muoversi. Perché la questione sviluppo non si risolve puntando su singoli innovatori e singole eccellenze. La vera innovazione è solo di sistema: tutto deve muoversi. E qui un compito fondamentale e centrale è riservato alla politica: dare una rotta netta e chiara perché s’investa sulle persone. Il capitale umano è la nostra più grande ricchezza. Il problema, non da poco, è che oggi la politica sembra la parte più fragile in campo.

Rassegna In questi 150 anni, tuttavia, la scuola ha fatto molto per innalzare i livelli di conoscenza delle persone.

Bianchi È vero. Una scolarizzazione bassa, ma molto diffusa, ha prodotto molte eccellenze che hanno trovato sbocco nei distretti industriali. Ma ora non basta più: occorre costruire sistemi educativi integrativi e capaci anche di trainare i sistemi produttivi.

Rassegna Per far questo servono risorse…

Bianchi Sì, e questo è il noto punto dolente. In Italia gli investimenti nell’educazione, in proporzione al totale della spesa pubblica, sono i più bassi tra i paesi Ocse.

Rassegna Ultimamente, l’Europa ha messo molta enfasi sull’impiego dei fondi comunitari per creare sviluppo e occupazione. Cosa ne pensa?

Bianchi Credo che l’indicazione sia giusta. L’Europa sta ridisegnando i suoi principali strumenti di sostegno: i fondi strutturali e i fondi Horizon 2020 per la ricerca e l’innovazione. In questa fase c’è una discussione assai accesa sulla direzione che entrambi gli strumenti devono prendere.
A mio parere, l’Italia deve esprimere una posizione che spinga verso una forte convergenza dei due, rifiutando ogni ipotesi di “condizionalità macroeconomica”, cara ai tedeschi.

Rassegna Cosa implica questo tipo di “condizionalità”?

Bianchi Per la Germania, non bisogna dare risorse a chi non ha conti macro a posto. Secondo me, invece, la condizionalità deve essere interna: i fondi vanno assegnati non ai paesi, ma alle loro macroaree, cioè a chi dimostra di saperli spendere al meglio. La dimensione territoriale per la crescita è fondamentale. Quindi, niente sussidi alle imprese e neanche alle persone – se non per situazioni transitorie in cui c’è bisogno di tutelare redditi –, ma interventi sull’intera comunità. E qui torniamo a quanto detto prima: Unione europea e singoli paesi devono investire per realizzare infrastrutture educative e di ricerca, e per legare le imprese a questo sistema. Ecco il compito per una moderna politica industriale: la capacità di mettere insieme tutti questi pezzi di ragionamento.

Rassegna Quale posto spetta all’Italia nella nuova divisione del lavoro generata dalla globalizzazione e dall’emergere di nuove potenze economiche?

Bianchi Le risponderò utilizzando una parola, unbundling, che vuol dire “spacchettamento”. Si prende un ciclo produttivo e lo si divide a metà: le attività a basso valore aggiunto (per esempio l’assemblaggio) si trasferiscono all’estero, quelle ad alto valore aggiunto (lo stile, la ricerca) rimangono. D’altro canto, non c’è alternativa, perché se si vuole provare ad attrarre le attività “povere”, l’unico strumento è tagliare all’infinito il costo del lavoro. Se invece si punta sul versante “alto” della produzione, bisogna trovare politiche che riducano il costo della parte che riguarda l’intelligenza e la ricerca, e dunque investire su scuole, ricerca, educazione permanente, rafforzando il legame tra chi fa ricerca e chi produce.

Rassegna Oggi si parla tanto di mercato del lavoro e poco di politica industriale, però.

Bianchi Attenzione: le politiche occupazionali in alcuni casi possono diventare trappole mortali. Se si precarizza il lavoro, è fatale che dopo un po’ si precarizzino le produzioni stesse e, conseguentemente, se ne abbassi il valore. Se invece vogliamo consolidare attività ad alto livello, bisogna creare un ambiente e una condizione di qualità che permetta loro di crescere.

Rassegna Un altro tema, da molti invocato quando si parla di crescita, è quello di aumentare la produttività delle nostre aziende. È d’accordo?

Bianchi Dipende da cosa si intende esattamente. Lei può anche riuscire a spostare 4.000 blocchi di cemento in poche ore al di là di un muro, ma se poi è costretto a riportarli indietro, a cosa le serve? Se invece accrescere la produttività vuol dire aumentare il valore aggiunto per unità prodotta, questo allora ha davvero senso. Un conto è la produttività del lavoro misurata a prodotto dato e processo dato. Vale a dire: lavorate di più. Un conto la capacità di andare a vedere quanta “testa” ci si mette dentro a un prodotto e così cambiare e migliorare il processo e il prodotto stesso. Insomma, la questione è sempre la stessa. Nella competizione globale si può ragionare in termini puramente difensivi: proviamo a vedere se ce la facciamo, riducendo i costi e lavorando di più. Ma così non si va lontano. Oppure, al contrario, si va all’attacco, producendo cose e servizi più utili, necessarie e legate ai mercati di sbocco finali. Inutile dire che, per me, a questa seconda strada non c’è alternativa.

Rassegna Da un po’ di tempo, la Cgil insiste sulla necessità di un Piano del lavoro per favorire non solo l’occupazione, ma anche la crescita complessiva del paese. Cosa ne pensa?

Bianchi Guardi, tra le fortune della mia vita c’è quella di aver trascorso, ormai qualche anno fa, un’estate a Londra con Vittorio Foa che mi parlava spesso del Piano del lavoro, proposto dalla Cgil negli anni Cinquanta. Proprio in questi giorni, sto ripensando a quelle chiacchierate e sono convinto che rideclinare oggi un’operazione simile significa offrire incentivi alle imprese, non solo perché stabilizzino i giovani, ma perché insieme ne innalzino le competenze e, così facendo, aumentino il proprio know how. Un circolo virtuoso, che stiamo cercando di realizzare in Emilia Romagna, dove “paghiamo” alle imprese che accedono alle risorse regionali percorsi formativi per i giovani che vengono stabilizzati, portandoli anche fino al dottorato. Stabilizzazione, crescita e qualità, dunque: non c’è altra strada.

da Rassegna.it

“Scuola e ricerca, la ricetta per crescere”, intervista a Patrizio Bianchi di Stefano Iucci

Parla Patrizio Bianchi, economista e assessore in Emilia Romagna. Competere riducendo il costo del lavoro ci condannerà a produzioni di serie B. In questa fase manca il ruolo guida della poltica. In Italia, anche nella fase peggiore della crisi in atto, ci sono imprese fortemente competitive che operano in produzioni a forte valore aggiunto. Il punto allora – se davvero, fuori dalle ideologie, si vuole generare crescita e sviluppo – è capire come estendere questa competitività al resto del paese, puntando contemporaneamente sulla qualità del lavoro. Patrizio Bianchi, economista, professore universitario e assessore al Lavoro, università, ricerca e scuola della Regione Emilia Romagna, non ha dubbi: serve una nuova forte politica industriale che sia in grado di indicare la rotta, investendo pesantemente in ricerca ed educazione. “Se lei guarda ai dati disponibili – spiega a Rassegna –, la situazione è chiara. Anche tra il 2009 e il 2010, gli anni più duri della crisi, una parte delle aziende italiane è cresciuta a ritmo sostenuto”.

Rassegna È una cosa di cui non si parla…

Bianchi E invece è così, soprattutto nel comparto della meccanica, nelle macchine per la produzione. Qui operano imprese non soltanto innovative, ma anche fortemente connesse con paesi extraeuropei che crescono a ritmo sostenuto. Il tema dunque è questo: come si fa ad ampliare questa base di imprese produttive che, secondo Bankitalia, nel 2009 erano l’8-10 per cento del totale, vale a dire circa 5.000?

Rassegna Già, come si fa?

Bianchi Le chiavi disponibili sono due: ricerca ed educazione. Innanzitutto bisogna riuscire a consolidare strutture in grado di stare non solo sulla frontiera della ricerca, ma anche di fare da catalizzatrici al resto del nostro sistema diffuso, università, Cnr e istituti vari. La seconda chiave, altrettanto evidente, è il recupero di una capacità di investimento nell’educazione superiore e tecnica. Questa è la linea che stiamo perseguendo in Emilia Romagna, con interventi massicci in tale direzione. Tutti parlano di economia della conoscenza, ma se non si investe sulle persone si può fare ben poco. Non basta acquistare computer, per intenderci.

Rassegna Come si declina, secondo lei, un moderno intervento pubblico nell’economia, a parte ciò che ci ha appena detto?

Bianchi Il pubblico ha un ruolo essenziale innanzitutto nell’indicare la direzione di marcia in cui muoversi. Perché la questione sviluppo non si risolve puntando su singoli innovatori e singole eccellenze. La vera innovazione è solo di sistema: tutto deve muoversi. E qui un compito fondamentale e centrale è riservato alla politica: dare una rotta netta e chiara perché s’investa sulle persone. Il capitale umano è la nostra più grande ricchezza. Il problema, non da poco, è che oggi la politica sembra la parte più fragile in campo.

Rassegna In questi 150 anni, tuttavia, la scuola ha fatto molto per innalzare i livelli di conoscenza delle persone.

Bianchi È vero. Una scolarizzazione bassa, ma molto diffusa, ha prodotto molte eccellenze che hanno trovato sbocco nei distretti industriali. Ma ora non basta più: occorre costruire sistemi educativi integrativi e capaci anche di trainare i sistemi produttivi.

Rassegna Per far questo servono risorse…

Bianchi Sì, e questo è il noto punto dolente. In Italia gli investimenti nell’educazione, in proporzione al totale della spesa pubblica, sono i più bassi tra i paesi Ocse.

Rassegna Ultimamente, l’Europa ha messo molta enfasi sull’impiego dei fondi comunitari per creare sviluppo e occupazione. Cosa ne pensa?

Bianchi Credo che l’indicazione sia giusta. L’Europa sta ridisegnando i suoi principali strumenti di sostegno: i fondi strutturali e i fondi Horizon 2020 per la ricerca e l’innovazione. In questa fase c’è una discussione assai accesa sulla direzione che entrambi gli strumenti devono prendere.
A mio parere, l’Italia deve esprimere una posizione che spinga verso una forte convergenza dei due, rifiutando ogni ipotesi di “condizionalità macroeconomica”, cara ai tedeschi.

Rassegna Cosa implica questo tipo di “condizionalità”?

Bianchi Per la Germania, non bisogna dare risorse a chi non ha conti macro a posto. Secondo me, invece, la condizionalità deve essere interna: i fondi vanno assegnati non ai paesi, ma alle loro macroaree, cioè a chi dimostra di saperli spendere al meglio. La dimensione territoriale per la crescita è fondamentale. Quindi, niente sussidi alle imprese e neanche alle persone – se non per situazioni transitorie in cui c’è bisogno di tutelare redditi –, ma interventi sull’intera comunità. E qui torniamo a quanto detto prima: Unione europea e singoli paesi devono investire per realizzare infrastrutture educative e di ricerca, e per legare le imprese a questo sistema. Ecco il compito per una moderna politica industriale: la capacità di mettere insieme tutti questi pezzi di ragionamento.

Rassegna Quale posto spetta all’Italia nella nuova divisione del lavoro generata dalla globalizzazione e dall’emergere di nuove potenze economiche?

Bianchi Le risponderò utilizzando una parola, unbundling, che vuol dire “spacchettamento”. Si prende un ciclo produttivo e lo si divide a metà: le attività a basso valore aggiunto (per esempio l’assemblaggio) si trasferiscono all’estero, quelle ad alto valore aggiunto (lo stile, la ricerca) rimangono. D’altro canto, non c’è alternativa, perché se si vuole provare ad attrarre le attività “povere”, l’unico strumento è tagliare all’infinito il costo del lavoro. Se invece si punta sul versante “alto” della produzione, bisogna trovare politiche che riducano il costo della parte che riguarda l’intelligenza e la ricerca, e dunque investire su scuole, ricerca, educazione permanente, rafforzando il legame tra chi fa ricerca e chi produce.

Rassegna Oggi si parla tanto di mercato del lavoro e poco di politica industriale, però.

Bianchi Attenzione: le politiche occupazionali in alcuni casi possono diventare trappole mortali. Se si precarizza il lavoro, è fatale che dopo un po’ si precarizzino le produzioni stesse e, conseguentemente, se ne abbassi il valore. Se invece vogliamo consolidare attività ad alto livello, bisogna creare un ambiente e una condizione di qualità che permetta loro di crescere.

Rassegna Un altro tema, da molti invocato quando si parla di crescita, è quello di aumentare la produttività delle nostre aziende. È d’accordo?

Bianchi Dipende da cosa si intende esattamente. Lei può anche riuscire a spostare 4.000 blocchi di cemento in poche ore al di là di un muro, ma se poi è costretto a riportarli indietro, a cosa le serve? Se invece accrescere la produttività vuol dire aumentare il valore aggiunto per unità prodotta, questo allora ha davvero senso. Un conto è la produttività del lavoro misurata a prodotto dato e processo dato. Vale a dire: lavorate di più. Un conto la capacità di andare a vedere quanta “testa” ci si mette dentro a un prodotto e così cambiare e migliorare il processo e il prodotto stesso. Insomma, la questione è sempre la stessa. Nella competizione globale si può ragionare in termini puramente difensivi: proviamo a vedere se ce la facciamo, riducendo i costi e lavorando di più. Ma così non si va lontano. Oppure, al contrario, si va all’attacco, producendo cose e servizi più utili, necessarie e legate ai mercati di sbocco finali. Inutile dire che, per me, a questa seconda strada non c’è alternativa.

Rassegna Da un po’ di tempo, la Cgil insiste sulla necessità di un Piano del lavoro per favorire non solo l’occupazione, ma anche la crescita complessiva del paese. Cosa ne pensa?

Bianchi Guardi, tra le fortune della mia vita c’è quella di aver trascorso, ormai qualche anno fa, un’estate a Londra con Vittorio Foa che mi parlava spesso del Piano del lavoro, proposto dalla Cgil negli anni Cinquanta. Proprio in questi giorni, sto ripensando a quelle chiacchierate e sono convinto che rideclinare oggi un’operazione simile significa offrire incentivi alle imprese, non solo perché stabilizzino i giovani, ma perché insieme ne innalzino le competenze e, così facendo, aumentino il proprio know how. Un circolo virtuoso, che stiamo cercando di realizzare in Emilia Romagna, dove “paghiamo” alle imprese che accedono alle risorse regionali percorsi formativi per i giovani che vengono stabilizzati, portandoli anche fino al dottorato. Stabilizzazione, crescita e qualità, dunque: non c’è altra strada.

da Rassegna.it

"L'esempio di Berlino", di Barbara Spinelli

Conviene non dimenticare come nacque la candidatura di Christian Wulff, nel 2010. Nacque molto male, perché Angela Merkel s´era incaponita sul suo nome. Lo preferì a quello di un personaggio di ben altra statura. Se i tedeschi avessero potuto eleggere direttamente il capo dello Stato, senz´altro avrebbero scelto Joachim Gauck, non il grigio uomo d´apparato democristiano. Gauck era l´uomo del momento giusto, per la successione di Horst Köhler alla massima carica dello Stato. Per aver conosciuto la paura quando era un pastore dissidente nella Germania comunista, sapeva quel che significa pensare con la propria testa, resistere, affrontare tempi difficili come i nostri.
Assieme a Havel, era stato uno dei rari dissidenti che non solo aveva combattuto il totalitarismo ma era stato capace di guardare dentro se stesso, di intuire quello che può fare, di ogni uomo, un conformista o un ideologo, a seconda delle necessità e delle convenienze. Per dieci anni, fra il 1990 e il 2000, aveva diretto un´istituzione essenziale per l´unificazione tedesca e la rinascita democratica in Germania Est: l´autorità che archivia e mette a disposizione del pubblico gli atti della Stasi (servizi di sicurezza dell´Est). L´ex pastore era il candidato proposto da socialdemocratici e verdi, la sua popolarità nei sondaggi era immensa.
Angela Merkel predilesse Wulff, per mediocri calcoli di partito e probabilmente perché Gauck era figura troppo imponente per lei. L´outsider amato dai tedeschi l´avrebbe messa in ombra. Più segretamente, forse, contava anche la vita diversa che ciascuno dei due aveva avuto nella Germania comunista: dissidente lui, non comunista ma certamente conformista lei. Di Wulff non si conoscevano disonestà, quando fu designato. Ma era un personaggio senza spessore, senza grande passato. Ora che sono venuti alla luce tante macchie, e un intreccio così importante fra interessi pubblici e privati, la scelta del Cancelliere appare ancora più incongrua, e ottusa.
Wulff è il figlio della meschinità politica, del pensare corto e piccolo che ha prevalso in questi anni ai vertici tedeschi, specialmente democristiani. Roland Nessel, editorialista dello Spiegel, gli ha affibbiato un nomignolo: il Presidente altro non era che un Gernegroß, un «vorrei esser grande». In Italia diremmo: un «vorrei ma non posso». In Germania i capi di Stato non hanno poteri vasti come in Francia e America; non sono neanche paragonabili ai colleghi italiani. Da loro ci si aspetta tuttavia un senso acuto dell´etica pubblica, un´attitudine leggermente aristocratica a volare alto: a dire – nei momenti critici – parole possenti e decisive. Cruciali furono nel dopoguerra, e poi tra gli anni ´70 e ´90, presidenti come Theodor Heuss, Gustav Heinemann, Richard Von Weizsäcker, Roman Herzog, Johannes Rau. Il declino della carica comincia nel 2004, con il predecessore di Wulff che fu Horst Köhler. Tutti e due sono stati uomini della Merkel, costretti a dimettersi prima del tempo.
Detto questo, la caduta di Wulff è un giorno memorabile per la democrazia tedesca. I legami del Presidente con finanzieri poco fidati, la maniera in cui aveva ottenuto crediti agevolati grazie ai favori dell´industriale Geerkens, ai tempi in cui era presidente della Bassa Sassonia, i piccoli favori ottenuti dal magnate dell´industria cinematografica David Groenewold: simili reati non reggono il paragone con la corruzione che mina la politica italiana, ma sono insopportabili per i tedeschi. Sono il segno che i partiti nelle loro chiuse cucine possono sbagliare e deviare dall´etica pubblica, ma che nella società esistono fortissimi anticorpi, pronti a reagire a ogni sorta di malaffare, di bugia detta dal potere. E tutto questo, prima che comincino i processi veri e propri. Un caso Cosentino è impensabile in Germania. L´ultimo scandalo fu quello del ministro della Difesa Karl-Theodor zu Guttenberg, costretto a dimettersi nel marzo 2011, quando si scoprì che la sua tesi di dottorato era frutto di plagio. Anche Guttenberg era uomo della Merkel.
Non ci sono grandi personalità a guidare la Germania, ma il controllo sociale sulla politica è intenso, e le campagne stampa godono dell´appoggio della popolazione. L´uguaglianza di tutti davanti alla legge è una regola aurea cui la nazione e le sue classi dirigenti non rinunciano. L´una e le altre non indietreggiano davanti ai capi di Stato. Non lasciano soli i magistrati e i giornalisti, a fare le loro inchieste. Per questo i risultati di tali battaglie sono tangibili, e tempestivi.
Non così in Italia. Sono stati necessari la crisi economica e lo spread impazzito, perché Berlusconi venisse spinto fuori dall´arena politica. E ancor oggi la corruzione dilaga, ancor oggi l´operazione Mani Pulite è ricordata con sospetto, rancore: per alcuni il malcostume ha toccato le vette odierne non malgrado, ma a causa dei procedimenti contro Tangentopoli. C´è perfino chi ritiene non irrealizzabile il sogno di Berlusconi di salire un giorno al Quirinale. Speriamo che la Germania diventi un esempio per il funzionamento della sua democrazia, e non solo per la disciplina finanziaria che sta imponendo all´Unione europea.

La Repubblica 18.02.12