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“L’orrore nella testa di Bashar”, di Tahar Bel Jelloun

È con l´effrazione che sono entrato nella testa del presidente siriano: una fortezza inaccessibile. Prima di riuscire ad accostarsi bisogna superare ben sette sbarramenti. Alta sicurezza. Diffidenza e paura. Bashar tiene le distanze, come già faceva suo padre, Hafez al-Assad. Il quale, a quanto si racconta, un giorno fece fucilare i sette soldati incaricati di filtrare il passaggio di chiunque avesse appuntamento con lui. A Hafez piaceva giocare a scacchi con un suo amico d´infanzia, che si presentava ogni pomeriggio e doveva essere perquisito sette volte prima di approdare alla sala dei giochi. Ma un giorno, dopo averlo visto tante volte, i soldati lo lasciarono passare senza compiere il loro lavoro. Quando Hafez venne a saperlo, ordinò di far giustiziare quei disgraziati per aver mancato di adempiere ai loro obblighi. Il piccolo Bashar è al corrente di quest´episodio, uno tra tanti, non meno sanguinosi. Lui pure è irraggiungibile. E non senza una buona ragione. Chi uccide rischia di essere ucciso. Ecco perché si prendono le precauzioni necessarie, e magari anche qualcuna in più.
La sua testa non è molto grande. È occupata da fieno, spilli e lame da rasoio. Non so perché. Il suo cervello è calmo. Non c´è stress né nervosismo. Mi sono fatto piccolissimo e ho teso l´orecchio. Perché il piccolo pensa, e non esita davanti alle idee audaci:
«Ho imparato tutto dal mio defunto padre, grande statista e uomo sensibile, colto e stratega eminente. Ricordo che era molto apprezzato da Henry Kissinger; e mi disse di avere a sua volta grande simpatia per il segretario di stato americano, di cui ammirava l´intelligenza e il realismo politico. In questi ultimi tempi mi accade di entrare in comunicazione con mio padre. È geniale; ed è lui a dettarmi ciò che devo fare. Innanzitutto, io non sono né Saddam né Gheddafi. Non sarò ridicolizzato dagli americani, e non mi farò sgozzare dai fanatici. Appartengo alla famiglia Al-Assad, un clan unito e solidale. Una grande famiglia, che ha le sue tradizioni. Io non mi muovo a casaccio. Sto resistendo contro un complotto internazionale. Non ho nessuna voglia di vedere il mio Paese trasformato in una repubblica islamica, sotto la guida di analfabeti. Mio padre mi ha insegnato che in politica bisogna avere un cuore di bronzo. Niente sentimenti, nessuna debolezza. Perché io mi gioco la testa, e la vita di tutta la mia famiglia. I farabutti che stanno mettendo la Siria a ferro e fuoco hanno solo ciò che si meritano. Si parla di “primavera araba”! Cos´è questa storia? Perché la primavera dovrebbe essere sinonimo della mia scomparsa? Non solo non morirò, ma prima li ammazzerò tutti quanti. Lo dice l´islam: se occorre sacrificare due terzi di un popolo per mantenere in vita il suo terzo migliore, non si deve esitare. Io applico questa legge, antica quanto gli arabi. E ricordo che la Siria è un Paese laico.
Di che mi si rimprovera? Di dare all´esercito l´ordine di sparare sui dimostranti? Se non lo facessi perderei il mio posto, e non mi farei più rispettare. Guardate il mio amico Mubarak, che da un giorno all´altro si è ritrovato espulso dal suo palazzo, per mancanza di determinazione e di volontà. L´esercito lo ha tradito. Quanto al mio, è composto in maggioranza da uomini fedeli. I disertori l´hanno pagata cara. Io non ho patemi d´animo. Mi difendo; anzi, direi che la mia è legittima difesa.
Ho preso la precauzione di mettere al sicuro mia moglie Asma e i miei tre figli, Hafez, Zeyn e Karim. È normale: mi comporto come un buon marito e padre di famiglia. Vedo padri irresponsabili che incitano i loro figli a manifestare, sapendo perfettamente che potrebbero essere uccisi da qualche pallottola vagante. Mi dicono che sono morti dei bambini. Non riesco a crederlo, e considero i loro genitori responsabili di una tale disgrazia – perché non c´è disgrazia peggiore della perdita di un figlio. Ricordo il dolore di mio padre il giorno in cui Bassel, mio fratello maggiore, morì in un incidente d´auto. Ricordo il suo pianto. Sì, ho visto mio padre piangere davanti all´ingiustizia del destino che gli ha tolto un figliolo amato.
Le Nazioni Unite hanno cercato di infangarmi, e mi hanno chiesto di dimettermi. Me ne dovrei andare – per andare dove? Mi hanno forse preso per un Ben Ali? Non sono certo disposto a salire su un aereo per andare a mendicare asilo politico nel mondo! Fortunatamente, sia la Cina che la Russia del mio amico Putin hanno opposto il loro veto. Anche il mio amico Ahmadinejad è dalla mia parte. Esiste pur sempre una giustizia. Gli insorti sono terroristi, agenti pagati dall´Europa, e anche da taluni Paesi arabi che hanno qualche conto da regolare con me. Mi parlano di torture! È del tutto normale usare la tortura per prevenire massacri, evitando che persone innocenti cadano sotto le pallottole dei cattivi siriani.
Ho in mano il Paese, e tengo testa a chi vuole instaurare un altro regime. Dovrebbero ringraziarmi, e aiutarmi a proteggere il Paese dal pericolo islamista. So come gli islamisti tratteranno la mia tribù, gli Alawiti, e le minoranze cristiane e armene. Il Vaticano dovrebbe accorrere in mio aiuto, invece di condannarmi. Ma per fortuna quelle sono soltanto parole. Ben altro è ciò che stanno facendo ora gli europei: congelano i beni che possiedo in Europa, e cercano di asfissiare la popolazione bloccando gli scambi commerciali. Sono azioni meschine e disoneste.
L´indomani del massacro di Hama – avevo allora 17 anni – mio padre mi disse: vedi, figliolo, se non avessi agito con tanta fermezza stasera non saremmo più qui. Aveva ragione. Io pure so bene dove dormirei stasera se non bombardassi Homs: all´obitorio! Perciò bisogna smetterla di parlare a vanvera. A Hama i morti furono ventimila (e allora nessuno reagì); ora, per non più di ottomila morti tra Homs, Draa, Damasco e Hama, è scoppiato un putiferio!
Sapete perché Asma, la mia cara moglie, mi ha sposato? Per i valori che incarno. Lo ha dichiarato su Paris Match del 10 dicembre 2010. E sapete perché ho studiato oftalmologia? Perché sono allergico alla vista del sangue».
Nell´uscire da quella testa, un piede mi è rimasto impigliato in un intrico di fili elettrici. Bashar è collegato alla centrale della tortura: tanto per passare il tempo, è lui che preme il pedale per trasmettere le scariche ai genitali dei suppliziati. Sembra che questo lo diverta.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

La Repubblica 18.02.12