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"Sui precari Fornero dà ragione ai sindacati. Le imprese si dividono", di Massimo Franchi

Si entra nel merito e le facce degli industriali non sono mai state così rabbuiate. Per la prima volta sono i sindacalisti ad essere ottimisti e, soprattutto, a portare a casa risultati molto vicini ai desiderata sulle forme d’ingresso al lavoro e la lotta al precariato. Il terzo round sul mercato del lavoro, sempre senza Monti e con ogni probabilità l’ultimo a palazzo Chigi, ribalta l’esito delle puntate precedenti. Se fino a oggi l’atteggiamento di Elsa Fornero aveva indispettito Cgil, Cisl, Uil e Ugl («parla solo per slogan»), ieri mattina sono stati Confindustria, Abi, cooperative, Ania e Rete Imprese ad essere deluse e preoccupate. Tanto che alla fine delle due ore di confronto sul tema delle forme di ingresso, quando i sindacati si alzano, loro rimangono e chiedono conto al ministro di ciò che sta accedendo. La richiesta è netta e suona più o meno così: «Oggi sul precariato hai dato ragione ai sindacati,ma ora per pareggiare dovrai dare ottenere molto di più sulla flessibilità in uscita e sull’articolo 18». Fornero infatti è stata molto chiara: «La discussione andrà avanti e la flessibilità in uscita sarà l’ultima ad essere trattata perché è il tema che divide di più. Partiamo dalle forme di ingresso e poi affronteremo il tema degli ammortizzatori». Ma al loro interno il fronte industriale è spaccato con Rete Imprese (artigiani ed esercenti) a chiamarsi fuori: a loro dell’articolo18non interessa niente, la loro unica preoccupazione è quella di non dover spendere troppo per la contribuzione per gli ammortizzatori universali (una cassa integrazione allargata) che si sta preparando. «Per noi la flessibilità in uscita esiste già», spiega il portavoce Marco Venturi, mentre Mauro Bussoni, vicedirettore di Confesercenti, precisa: «Tra i 3,9 milioni di imprenditori che rappresentiamo ci sono situazioni diversissime: alcuni settori non possono permettersi aggravi, chiediamo di analizzare e dividere le proposte per settore».
LO SCALPO DELL’ARTICOLO 18 Mentre Camusso, Angeletti, Bonanni e Centrella stanno già parlando con i giornalisti, Emma Marcegaglia, Giuseppe Mussari e Luigi Marino cercano di trovare una linea comune per affrontare la stampa. E per questo, nonostante non sia stato trattato al tavolo, rispolverano la centralità dell’articolo 18(«Il tema va trattato anche se i sindacati non sono d’accordo») e il gioco è fatto. L’attenzione è tutta per quello che succederà. «La partita è complessiva, tutto si tiene insieme e la flessibilità in uscita sarà anche l’ultimo capitolo, ma per noi è il più importante », spiegano Marcegaglia e Mussari all’unisono. Positivi i commenti dei sindacalisti. Per Susanna Camusso «si è avviato il negoziato ed è partito col piede giusto per noi mentre gli imprenditori hanno dei problemi. Noi siamo soddisfatti perché il ministro ha convenuto sull’idea di incentivare la flessibilità positiva e disincentivare e rendere più costosa quella che lei chiama cattiva e che noi chiamiamo precarietà».E sull’ennesima domanda sull’articolo 18 risponde: «Sappiamo che ci sono posizioni diverse,ma noi siamo disposti a discutere solo dei tempi dei reintegri. Dire che nell’ambito dell’accordo “tutto si tiene” è una metodologia scontata in qualsiasi trattativa». Sul tema Raffaele Bonanni rilancia «senza che si inquini il terreno, l’idea di una posizione comune dei sindacati sull’articolo 18 perché tanto il governo andrà avanti da solo», mentre il leader Cisl ha lanciato al premier Monti «un appello: uniamo il tavolo sul lavoro con quello sulla riforma fiscale da lui annunciata», spalleggiato da Giovanni Centrella (Ugl): «Le due riforme sono uguali per importanza». Nel pomeriggio intanto sono andati avanti gli incontri informali del ministro Fornero con Camusso, Centrella e Bonanni, mentre oggi incontrerà Rete Imprese, associazione che poi cercherà di ricucire con Confindustria. Lunedì invece nuovo tavolo sugli ammortizzatori partendo da due certezze: «la riforma non partirà primadel 2014» e «il modello assicurativo dovrà coprire tutti».

L’Unità 16.02.12

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Il ministro spiazza la Marcegaglia “Precari più cari, sgravi se li assumete”, di Roberto Mania

Contratti a termine con la formula originale del malus-bonus. Costeranno di più all’azienda ma una volta trasformati in contratti a tempo indeterminato l’aggravio sarà del tutto restituito. E diventerà un incentivo alla stabilizzazione. Esclusi, per ovvie ragioni, i tipici contratti a tempo, quelli per i lavori stagionali o per le sostituzioni.

È la proposta che ha presentato ieri il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, alle parti sociali al tavolo di Palazzo Chigi. Una carta contro gli abusi, a favore della “flessibilità buona”, come la chiama il ministro, e giocata all’inizio del negoziato per spegnere qualsiasi possibile principio di incendio. Una mossa che è piaciuta ai sindacati (“dopo tre anni bui – ha detto per esempio il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso – questo governo dice che la precarietà va combattuta”) ma che ha spiazzato la Confindustria.

Emma Marcegaglia, presidente degli industriali, subito dopo l’incontro plenario, ha chiesto, insieme agli altri rappresentanti delle imprese, di poter parlare alla Fornero. “Noi – ha sostanzialmente detto il leader di Viale dell’Astronomia – siamo pronti a ragionare su tutte queste questioni. Però manca un pezzo: quello della flessibilità in uscita. La nostra risposta, dunque, arriverà solo quando sul tavolo ci sarà l’una e l’altra”.

Perché questo è lo scambio destinato ad andare in scena: meno flessibilità in entrata in cambio
di più flessibilità in uscita. Insomma, meno precarietà per i giovani e ritocchi (si vedrà quali) all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. E per come ha impostato il negoziato il governo (“di articolo 18 si parlerà alla fine”, ha detto la Fornero), l’obiettivo dei sindacati è quello di incassare il più possibile prima per poter cedere il meno possibile dopo. Una trattativa complessa dalla quale però nessuno ha intenzione di tirarsi fuori. E anche questa è una novità dopo anni di intese separate e poco efficaci.

C’è ormai un abuso dei contratti a termine. Nel quinquennio 2005-2010, secondo un’indagine dell’Istat pubblicata un paio di settimane fa, il 71,5 per cento delle assunzioni è avvenuto con un contratto a tempo determinato. È del tutto evidente che una quota non marginale di queste assunzioni non sia legata a esigenze produttive, a picchi stagionali, o a un’impennata improvvisa della domanda di mercato. Si tratta di abusi, piuttosto. Si ricorre ai contratti a termine, con rinnovi al limite della legge o aggirando la legge, perché comunque il rapporto di lavoro ha una data di conclusione certa.

Da qui la proposta Fornero. Che intende aggravare il peso dei contributi sui contratti a tempo determinato, così da recuperare le risorse per pagare loro il sostegno al reddito nei momenti di disoccupazione. Ma una volta che il contratto a termine verrà trasformato in un’assunzione senza scadenza i maggiori contributi saranno restituiti attraverso una forma di sgravio. Malus-bonus, appunto.

Ma l’operazione Fornero contro la precarietà non si ferma ai contratti a tempo. Il ministro è stata tentata di intervenire con “l’accetta” (ha proprio detto così) nei confronti della false partite Iva e dei falsi associati in partecipazione. Sono almeno 800 mila, secondo alcune stime, dietro i quali non ci sono professionisti autonomi, bensì veri e propri lavoratori subordinati con tutti i vincoli (dall’orario a un rapporto gerarchico) che questo prevede.

Qui, anche se il ministro non ha ancora precisato come, l’intervento sarà robusto in particolare a favore di coloro che sono mono-committenti, cercando di non penalizzare i giovani al primo rapporto di lavoro. Il “job on call” (il lavoro a chiamata) è destinato, tanto più che non ha avuto successo, ad essere relegato a un ruolo marginalissimo, previsto solo in alcuni casi. Saranno riportati alle origini, e quindi ridotti alla stagionalità e all’occasionalità, i lavori che potranno essere retribuiti con i voucher.

Ci saranno più paletti anche per il part time. La crisi ha costretto molti lavoratori (soprattutto donne) ad accettare di passare dal tempo pieno a quello parziale. Che, invece, deve tornare volontario. La Fornero punta a incentivare i controlli per scoprire il lavoro sommerso ma anche gli abusi di lavoro precario. È questa è davvero una svolta

La Repubblica 16.02.12

“Sui precari Fornero dà ragione ai sindacati. Le imprese si dividono”, di Massimo Franchi

Si entra nel merito e le facce degli industriali non sono mai state così rabbuiate. Per la prima volta sono i sindacalisti ad essere ottimisti e, soprattutto, a portare a casa risultati molto vicini ai desiderata sulle forme d’ingresso al lavoro e la lotta al precariato. Il terzo round sul mercato del lavoro, sempre senza Monti e con ogni probabilità l’ultimo a palazzo Chigi, ribalta l’esito delle puntate precedenti. Se fino a oggi l’atteggiamento di Elsa Fornero aveva indispettito Cgil, Cisl, Uil e Ugl («parla solo per slogan»), ieri mattina sono stati Confindustria, Abi, cooperative, Ania e Rete Imprese ad essere deluse e preoccupate. Tanto che alla fine delle due ore di confronto sul tema delle forme di ingresso, quando i sindacati si alzano, loro rimangono e chiedono conto al ministro di ciò che sta accedendo. La richiesta è netta e suona più o meno così: «Oggi sul precariato hai dato ragione ai sindacati,ma ora per pareggiare dovrai dare ottenere molto di più sulla flessibilità in uscita e sull’articolo 18». Fornero infatti è stata molto chiara: «La discussione andrà avanti e la flessibilità in uscita sarà l’ultima ad essere trattata perché è il tema che divide di più. Partiamo dalle forme di ingresso e poi affronteremo il tema degli ammortizzatori». Ma al loro interno il fronte industriale è spaccato con Rete Imprese (artigiani ed esercenti) a chiamarsi fuori: a loro dell’articolo18non interessa niente, la loro unica preoccupazione è quella di non dover spendere troppo per la contribuzione per gli ammortizzatori universali (una cassa integrazione allargata) che si sta preparando. «Per noi la flessibilità in uscita esiste già», spiega il portavoce Marco Venturi, mentre Mauro Bussoni, vicedirettore di Confesercenti, precisa: «Tra i 3,9 milioni di imprenditori che rappresentiamo ci sono situazioni diversissime: alcuni settori non possono permettersi aggravi, chiediamo di analizzare e dividere le proposte per settore».
LO SCALPO DELL’ARTICOLO 18 Mentre Camusso, Angeletti, Bonanni e Centrella stanno già parlando con i giornalisti, Emma Marcegaglia, Giuseppe Mussari e Luigi Marino cercano di trovare una linea comune per affrontare la stampa. E per questo, nonostante non sia stato trattato al tavolo, rispolverano la centralità dell’articolo 18(«Il tema va trattato anche se i sindacati non sono d’accordo») e il gioco è fatto. L’attenzione è tutta per quello che succederà. «La partita è complessiva, tutto si tiene insieme e la flessibilità in uscita sarà anche l’ultimo capitolo, ma per noi è il più importante », spiegano Marcegaglia e Mussari all’unisono. Positivi i commenti dei sindacalisti. Per Susanna Camusso «si è avviato il negoziato ed è partito col piede giusto per noi mentre gli imprenditori hanno dei problemi. Noi siamo soddisfatti perché il ministro ha convenuto sull’idea di incentivare la flessibilità positiva e disincentivare e rendere più costosa quella che lei chiama cattiva e che noi chiamiamo precarietà».E sull’ennesima domanda sull’articolo 18 risponde: «Sappiamo che ci sono posizioni diverse,ma noi siamo disposti a discutere solo dei tempi dei reintegri. Dire che nell’ambito dell’accordo “tutto si tiene” è una metodologia scontata in qualsiasi trattativa». Sul tema Raffaele Bonanni rilancia «senza che si inquini il terreno, l’idea di una posizione comune dei sindacati sull’articolo 18 perché tanto il governo andrà avanti da solo», mentre il leader Cisl ha lanciato al premier Monti «un appello: uniamo il tavolo sul lavoro con quello sulla riforma fiscale da lui annunciata», spalleggiato da Giovanni Centrella (Ugl): «Le due riforme sono uguali per importanza». Nel pomeriggio intanto sono andati avanti gli incontri informali del ministro Fornero con Camusso, Centrella e Bonanni, mentre oggi incontrerà Rete Imprese, associazione che poi cercherà di ricucire con Confindustria. Lunedì invece nuovo tavolo sugli ammortizzatori partendo da due certezze: «la riforma non partirà primadel 2014» e «il modello assicurativo dovrà coprire tutti».

L’Unità 16.02.12

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Il ministro spiazza la Marcegaglia “Precari più cari, sgravi se li assumete”, di Roberto Mania

Contratti a termine con la formula originale del malus-bonus. Costeranno di più all’azienda ma una volta trasformati in contratti a tempo indeterminato l’aggravio sarà del tutto restituito. E diventerà un incentivo alla stabilizzazione. Esclusi, per ovvie ragioni, i tipici contratti a tempo, quelli per i lavori stagionali o per le sostituzioni.

È la proposta che ha presentato ieri il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, alle parti sociali al tavolo di Palazzo Chigi. Una carta contro gli abusi, a favore della “flessibilità buona”, come la chiama il ministro, e giocata all’inizio del negoziato per spegnere qualsiasi possibile principio di incendio. Una mossa che è piaciuta ai sindacati (“dopo tre anni bui – ha detto per esempio il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso – questo governo dice che la precarietà va combattuta”) ma che ha spiazzato la Confindustria.

Emma Marcegaglia, presidente degli industriali, subito dopo l’incontro plenario, ha chiesto, insieme agli altri rappresentanti delle imprese, di poter parlare alla Fornero. “Noi – ha sostanzialmente detto il leader di Viale dell’Astronomia – siamo pronti a ragionare su tutte queste questioni. Però manca un pezzo: quello della flessibilità in uscita. La nostra risposta, dunque, arriverà solo quando sul tavolo ci sarà l’una e l’altra”.

Perché questo è lo scambio destinato ad andare in scena: meno flessibilità in entrata in cambio
di più flessibilità in uscita. Insomma, meno precarietà per i giovani e ritocchi (si vedrà quali) all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. E per come ha impostato il negoziato il governo (“di articolo 18 si parlerà alla fine”, ha detto la Fornero), l’obiettivo dei sindacati è quello di incassare il più possibile prima per poter cedere il meno possibile dopo. Una trattativa complessa dalla quale però nessuno ha intenzione di tirarsi fuori. E anche questa è una novità dopo anni di intese separate e poco efficaci.

C’è ormai un abuso dei contratti a termine. Nel quinquennio 2005-2010, secondo un’indagine dell’Istat pubblicata un paio di settimane fa, il 71,5 per cento delle assunzioni è avvenuto con un contratto a tempo determinato. È del tutto evidente che una quota non marginale di queste assunzioni non sia legata a esigenze produttive, a picchi stagionali, o a un’impennata improvvisa della domanda di mercato. Si tratta di abusi, piuttosto. Si ricorre ai contratti a termine, con rinnovi al limite della legge o aggirando la legge, perché comunque il rapporto di lavoro ha una data di conclusione certa.

Da qui la proposta Fornero. Che intende aggravare il peso dei contributi sui contratti a tempo determinato, così da recuperare le risorse per pagare loro il sostegno al reddito nei momenti di disoccupazione. Ma una volta che il contratto a termine verrà trasformato in un’assunzione senza scadenza i maggiori contributi saranno restituiti attraverso una forma di sgravio. Malus-bonus, appunto.

Ma l’operazione Fornero contro la precarietà non si ferma ai contratti a tempo. Il ministro è stata tentata di intervenire con “l’accetta” (ha proprio detto così) nei confronti della false partite Iva e dei falsi associati in partecipazione. Sono almeno 800 mila, secondo alcune stime, dietro i quali non ci sono professionisti autonomi, bensì veri e propri lavoratori subordinati con tutti i vincoli (dall’orario a un rapporto gerarchico) che questo prevede.

Qui, anche se il ministro non ha ancora precisato come, l’intervento sarà robusto in particolare a favore di coloro che sono mono-committenti, cercando di non penalizzare i giovani al primo rapporto di lavoro. Il “job on call” (il lavoro a chiamata) è destinato, tanto più che non ha avuto successo, ad essere relegato a un ruolo marginalissimo, previsto solo in alcuni casi. Saranno riportati alle origini, e quindi ridotti alla stagionalità e all’occasionalità, i lavori che potranno essere retribuiti con i voucher.

Ci saranno più paletti anche per il part time. La crisi ha costretto molti lavoratori (soprattutto donne) ad accettare di passare dal tempo pieno a quello parziale. Che, invece, deve tornare volontario. La Fornero punta a incentivare i controlli per scoprire il lavoro sommerso ma anche gli abusi di lavoro precario. È questa è davvero una svolta

La Repubblica 16.02.12

"L'obbligo scolastico che non regge. Ogni anno centomila addii alle aule", da repubblica.it

La legge lo prevede fino a 16 anni d’età. Ma nei primi due anni delle superiori, il 18,8% lascia. Ma è un dato statistico, in certe zone è molto più basso, in altre drammaticamente più alto. A Belluno riguarda solo 27 studenti, a Napoli circa 60 mila. La lotta titanica di docenti e genitori{C}{C}NAPOLI – Il venti per cento non ce la fa a rispettare l’obbligo scolastico. In parole povere centomila ragazze e ragazzi, che ogni anno si lasciano alle spalle la terza media, si trasformano in “fantasmi”. Non ce la fanno a seguire il corso di studi fino a 16 anni. Per fortuna il fenomeno della dispersione scolastica si è ridotto con il passare degli anni alle elementari, dove la media degli abbandoni non supera l’uno per cento, mentre nella scuola primaria, un tempo la scuola media unificata, la percentuale nazionale si è fermata a quota tre. Ma attenzione, si parla sempre di medie statistiche, quindi in molte Regioni come Sardegna, Campania, Puglia o Sicilia e, soprattutto, in alcune province i numeri sono drammaticamente più alti.

Comunque, il fenomeno dell’abbandono scolastico esplode nei primi due anni delle scuole superiori. L’ultima indagine dell’Istat, pubblicata un mese fa e relativa al 2010, parla di una media nazionale di abbandoni al 18.8 per cento. Non molti sanno, però, che l’indagine dell’Istat si riferisce solo alle scuole superiori statali.
Poco o nulla si conosce della dispersione scolastica negli istituti di formazione professionale gestiti dalle Regioni. E’ quindi certo che la percentuale di giovani che spariscono dal panorama scolastico è molto più alta.

Cosa possono fare le scuole per recuperare le decine di migliaia di giovani che sono fuggiti o che frequentano saltuariamente oppure che lasciano dopo una bocciatura? La legge traccia un percorso preciso. La scuola deve convocare i genitori e spiegare loro che stanno commettendo un reato. Se la situazione non si sblocca parte la segnalazione ai servizi sociali del Comune che dovrebbero tentare il recupero dello studente. Se il tentativo fallisce scatta la denuncia al Tribunale dei minori. Tutto chiaro. Ma non sempre è facile, anzi a volte impossibile. Basta un esempio. A Belluno le segnalazioni di mancato rispetto dell’obbligo scolastico sono 27. A Napoli 60 mila. Nel capoluogo campano, che assieme all’hinterland ha raggiunto il livello monstre di 3 milioni e mezzo di residenti, sarebbe necessario un piano Marshall. Servizi sociali centuplicati, strutture scolastiche all’avanguardia, investimenti robusti nella scuola. Invece per far fronte al disastro si sono mobilitati migliaia di insegnanti, decine di migliaia di genitori, per rendere la scuola un luogo che attrae, educa, coinvolge. Una lotta titanica in un territorio dove la gente convive con la povertà crescente, la paura e la rassegnazione. Ma l’emergenza non riguarda solo Napoli. Basti pensare che nella periferia orientale di Verona la dispersione scolastica ha toccato il 30 per cento, mentre a Reggio Calabria ha ormai raggiunto il 38 per cento.

da repubblica.it

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“Fiducia negli insegnanti e progetti” Così la scuola torna a fare inclusione”, Intervista a Marco Rossi Doria

Da “maestro di strada” a sottosegretario alla Pubblica Istruzione. L’esperienza del recupero nei Quartieri Spagnoli. “Il problema è sempre stato la discontinuità degli interventi”. Che fare? “Investire in strutture e tecnologia, ma anche partire dalle conoscenze e dalle esperienze esistenti che hanno funzionato”{C}{C}ROMA – Marco Rossi Doria, 58 anni, napoletano, è insegnante di ruolo nella scuola elementare dal 1975. Per sedici anni ha lavorato a Torre Annunziata. Poi si è trasferito in Etiopia e si è occupato dei bambini di strada a Nairobi. E’ tornato a Napoli in una scuola frequentata da bambini di estrazione sociale alta, come docente di inglese. Contemporaneamente ha lavorato come volontario in un’organizzazione che lavorava nei quarteri spagnoli a Napoli, quartieri con un altissimo tasso di dispersione scolastica a partire dalla scuola media. Successivamente ha chiesto al ministero dell’Istruzione un distacco. Ha guidato un gruppo di insegnanti con l’obiettivo di trasmettere le competenze minime per esercitare il diritto di cittadinanza. A quel punto il Provveditorato ha chiesto di costruire un progetto organico per fronteggiare l’abbandono scolastico. Da lì è nato il progetto “Chance” che si rivolge ai ragazzi che sono usciti dalla scuola prima di raggiungere l’obbligo scolastico, coinvolgendo migliaia di ragazzi. Ora Marco Rossi Doria è sottosegretario alla Pubblica Istruzione

Come è nata la sua esperienza e quali strumenti ha usato per il recupero dei giovani che avevano abbandonato la scuola?
“L’esperienza dei maestri di strada è nata da un gruppo di insegnanti, educatori, assistenti sociali, psicologi dei Quartieri Spagnoli di Napoli dall’idea che fosse necessaria una scuola per i ragazzi che avevano smesso di frequentarla, per accompagnarli con strumenti adeguati al conseguimento della licenza media e di qualifiche professionali. L’idea di fondo è quella di dare di più a chi ha più bisogno. Gli strumenti che abbiamo usato, tra gli altri, sono stati patti educativi sottoscritti con il singolo alunno e i suoi genitori, rafforzamento degli alfabeti di cittadinanza (saper leggere, saper scrivere, saper parlare), una rete forte di cooperazione con tutti i soggetti del territorio: scuole, parrocchie, centri sportivi, associazioni, formazione professionale, servizi sociali, ecc.
Il nostro lavoro si incentrava sul gruppo docente e sulla capacità di autoanalisi di debolezze e punti di forza riscontrati in classe. E su un’idea comunitaria di scuola dove si mangia insieme, si parla di tutto, si fanno film, si organizzano campi all’aperto, si fanno spettacoli di strada, ecc”.

Quali gli ostacoli più ardui da superare?
“L’ostacolo più importante che abbiamo trovato è stata la mancanza di continuità. In Italia gli interventi nell’ambito sociale sono caratterizzati da investimenti discontinui, le istituzioni faticano a mettere in rete le esperienze positive e a fornire supporto adeguato perché, da sperimentazioni possano diventare esperienze durature nel tempo. Solo con la continuità e la stabilità è possibile incidere in maniera sensibile sul territorio, sul contesto difficile delle zone di forte esclusione economica, sociale e culturale del Mezzogiorno. Ma lo stesso discorso vale, naturalmente, per alcune periferie delle città del Nord. Far ripartire prototipi con un orizzonte di attività medio-lungo è stato uno dei temi trattati dai Ministri Profumo e Barca con il Commissario europeo per le politiche regionali Johannes Hahn”.

La scuola può bastare da sola a risolvere il problema della dispersione?
“Naturalmente no. La dispersione scolastica è un fenomeno complesso, che riguarda differenti tipologie, cause molteplici, contesti diversi. Per questo è fondamentale operare in sinergia con il territorio e tutti i suoi attori, dalle scuole alla formazione professionale, dalle imprese ai servizi sociali, dalle parrocchie ai centri sportivi agli enti locali”.

C’è un nesso tra povertà e abbandono scolastico?
“Il nesso c’è ed è stato dimostrato dal Rapporto del 2008 realizzato dalla Commissione di indagine sull’Esclusione Sociale. Se prendiamo una grande città, che può essere Napoli o Milano, e sovrapponiamo i dati Istat sulla povertà delle famiglie con i dati sull’abbandono scolastico, le due mappe corrispondono, quartiere per quartiere. C’è una forte corrispondenza tra la povertà – economica ma anche culturale – delle famiglie e i bassi livelli di istruzione. Ma non solo. Se sei figlio di una famiglia povera, studierai di meno e tenderai a formare una nuova famiglia povera. Se invece provieni da una famiglia povera ma riesci ad innalzare il tuo livello di istruzione, migliorerai le tue condizioni economiche, vivrai più a lungo, sarai più sano e meno a rischio di dipendenze. Il paradosso è questo: la scuola purtroppo fa fatica a trattenere proprio i ragazzi a cui l’istruzione serve di più. C’è stato un tempo in cui non era così, ma da almeno vent’anni c’è questa difficoltà. Dall’Unità d’Italia al 1980 la scuola pubblica è stato potente fattore di discriminazione positiva: ha alimentato l’ascensore sociale. La sua funzione, però, si è molto rallentata negli ultimi anni. Oggi, nel concreto, il problema esplode nel primo biennio delle scuole secondarie superiori, dove è più alto il tasso di abbandono, ma si manifesta ancora in maniera persistente, seppure residuale, nelle scuole medie inferiori in alcune zone di forte esclusione sociale. Questo rivela la necessità di intervenire anche nella scuola primaria, per rafforzare al massimo le competenze e conoscenze di base che è indispensabile acquisire nei primi anni di istruzione, altrimenti recuperare è difficilissimo. E poi, come dicevo all’inizio, pensare a come rispondere in maniera diversificata a bisogni profondamente diversi anche all’interno della ‘scuola di tutti'”.

Ora che è sottosegretario come metterà a frutto la sua esperienza?
Nel poco tempo e con le risorse limitate a nostra disposizione, stiamo cercando di dare alle scuole autonome qualche strumento in più per funzionare e per organizzarsi meglio. Nel decreto semplificazioni approvato da poco in Consiglio dei Ministri ci sono i primi passi in questa direzione. Stiamo lavorando insieme al Ministro Profumo e al Ministro Barca per destinare le risorse provenienti dai Fondi europei alle quattro regioni meridionali (Campania, Sicilia, Calabria e Puglia) secondo alcune priorità. Oltre all’edilizia scolastica e alle dotazioni tecnologiche e multimediali, ci sono investimenti destinati al rafforzamento delle conoscenze e competenze indispensabili, al recupero del ritardo scolastico e al contrasto alla dispersione. Per la lotta alla dispersione si tratta di circa 27 milioni di euro che verranno destinati a prototipi. Daremo una prospettiva, cioè, a progetti già esistenti, che hanno dimostrato la loro efficacia e che possono essere estesi e implementati. E’ un primo passo, ma la mia esperienza mi dice che è fondamentale partire sempre da quello che c’è e che già funziona. Un’ultima cosa: dopo aver trascorso tanti anni a fare il maestro, credo sia fondamentale riuscire a trasmettere fiducia nella scuola e negli insegnanti. La scuola ha davanti a sé tante sfide e non poche difficoltà, ma racchiude risorse preziose, senso di responsabilità e impegno indefesso di tanti dirigenti scolastici, maestri e professori che rendono possibile, se accompagnati con gli strumenti giusti, superare i momenti difficili e riportare l’istruzione ad essere strumento vero di inclusione e mobilità sociale.

da repubblica.it

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“Liberate i sogni”, così Madame Tsunami ha riaperto la sua scuola al quartiere

Dieci anni fa, quando è arrivata, l’istituto (materna, elementari e medie) “Adelaide Ristori” aveva appena 300 alunni. Già dalla terza classe gli studenti fuggivano e non frequentavano più. Motivando e mobilitando genitori e docenti, la struttura è ripartita. Oggi ha 930 ragazzini ed è una specie di oasi
16/02/2012
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la Repubblica

NAPOLI – Sull’asfalto sconnesso uno scooter prima tenta il dribbling poi inchioda. A bordo due ragazzini, regolarmente senza casco, e il maschio alla guida urla: “Facite ampresso, jamme….” Il passante replica: “Perché non state a scuola? E mettetevi il casco”. La risposta è immediata: “Faciteve e fatt vuoste”…. E’ una normale mattina di un giorno feriale. Il vento gelido spazza i vicoli. L’obiettivo è l’istituto comprensivo “Adelaide Ristori” nel cuore di Forcella.

La preside s’affaccia da una finestra del terzo piano. “Salite, ora vi faccio aprire”. La stanza della presidenza è un continuo via vai di insegnanti, bidelli, studenti. La prof Raffaella Tuccillo, “Madame Tsunami di Forcella”, come la chiamano da queste parti, ci accoglie con un classico: “Adesso ci facciamo un bel caffè”. La preside è arrivata a Forcella nel 2002. “Ho trovato una scuola in grandi difficoltà, docenti demotivati, poco più di 300 bambini, gran parte di quelli della prima e seconda elementare venivano saltuariamente, quelli delle ultime due classi non venivano proprio”.

Peggio di così non poteva andare. “Per uscire dal tunnel avevo e ho bisogno di tutti quelli che lavorano qui dentro. Ho lanciato la parola d’ordine “accoglienza” per attirare a scuola i bambini del quartiere. Ai docenti ho detto: “aprite i cassetti e liberate i vostri sogni”. Quello che sembrava una chimera piano piano si avvera. “Mettendo il naso nei conti ho scoperto che nei tre anni precedenti i fondi d’istituto non erano mai stati spesi. Poi ho scoperto che il piano sotterraneo era diventato una discarica di banchi rotti, sedie sfasciate, rifiuti di ogni genere. A quel punto mi sono fatta prestare un grembiule da bidella, ho indossato guanti di plastica, scopa e scopettone, secchi e varecchina. All’inizio bidelle e maestre mi guardavano come una persona strana, poi si sono fatte coinvolgere e siamo riusciti a sgomberare e pulire tutto”. Oggi la sala sotterranea ospita due laboratori informatici, uno scientifico, uno artistico ed una piccola palestra con il tatami. Oggi l’istituto comprensivo “Adelaide Ristori” ospita, tra materna, elementare e media, 930 studenti. Per un quartiere difficile come Forcella un vero miracolo. “Madame Tsunami” è conosciuta da tutti gli abitanti del rione, ma se la ricordano anche in Questura ed in Prefettura. “Nel gennaio del 2011 Forcella era sconvolta da un’improvvisa guerra tra “giovani” e “anziani” delle famiglie – racconta Fernanda Tuccillo – scontri a fuoco anche di giorno, un bidello ha perso un dito per un proiettile vagante mentre era in strada. Le famiglie tenevano i figli a casa”. A quel punto “Madame Tsunami” decide di entrare in azione. Mobilita la stampa, le tv, chiama in causa Questore e Prefetto. Alle “famiglie” tanta pubblicità non fa molto piacere. I contrasti vengono risolti all’interno dell’organizzazione camorristica e la pace torna a Forcella.

Ma il gioiello dell’istituto comprensivo è la scuola materna dedicata ad Annalisa Durante, la quattordicenne uccisa dalla camorra nel 2004. La materna si trova a poche centinaia di metri dalla sede centrale proprio lì dove la ragazzina è stata colpita a morte. Nel vicolo un paio di banchetti: “Camel a 2 euro e mezzo, un euro per un pacco da dieci fazzoletti di carta e di marca”.

Oltre il cancello il cortile con scivoli ed altalene. A sinistra la scuola materna a destra l’asilo nido comunale. Alla materna s’avvicina l’ora della pappa. I piccoli in fila per due vanno al bagno per lavarsi le mani. Si respira un’allegra confusione. La coordinatrice tiene per mano una bimba cinese che piange a dirotto: “Non capisce ancora l’italiano, è arrivata da tre giorni, ma come altri suoi conterranei entrerà facilmente nel gruppo. Oggi abbiamo poco più di duecento bambini. Siamo riusciti a mettere in piedi tutto questo solo con le nostre forze andando a comprare i mobili da Ikea e lavorando senza orari”.

da repubblica.it

“L’obbligo scolastico che non regge. Ogni anno centomila addii alle aule”, da repubblica.it

La legge lo prevede fino a 16 anni d’età. Ma nei primi due anni delle superiori, il 18,8% lascia. Ma è un dato statistico, in certe zone è molto più basso, in altre drammaticamente più alto. A Belluno riguarda solo 27 studenti, a Napoli circa 60 mila. La lotta titanica di docenti e genitori{C}{C}NAPOLI – Il venti per cento non ce la fa a rispettare l’obbligo scolastico. In parole povere centomila ragazze e ragazzi, che ogni anno si lasciano alle spalle la terza media, si trasformano in “fantasmi”. Non ce la fanno a seguire il corso di studi fino a 16 anni. Per fortuna il fenomeno della dispersione scolastica si è ridotto con il passare degli anni alle elementari, dove la media degli abbandoni non supera l’uno per cento, mentre nella scuola primaria, un tempo la scuola media unificata, la percentuale nazionale si è fermata a quota tre. Ma attenzione, si parla sempre di medie statistiche, quindi in molte Regioni come Sardegna, Campania, Puglia o Sicilia e, soprattutto, in alcune province i numeri sono drammaticamente più alti.

Comunque, il fenomeno dell’abbandono scolastico esplode nei primi due anni delle scuole superiori. L’ultima indagine dell’Istat, pubblicata un mese fa e relativa al 2010, parla di una media nazionale di abbandoni al 18.8 per cento. Non molti sanno, però, che l’indagine dell’Istat si riferisce solo alle scuole superiori statali.
Poco o nulla si conosce della dispersione scolastica negli istituti di formazione professionale gestiti dalle Regioni. E’ quindi certo che la percentuale di giovani che spariscono dal panorama scolastico è molto più alta.

Cosa possono fare le scuole per recuperare le decine di migliaia di giovani che sono fuggiti o che frequentano saltuariamente oppure che lasciano dopo una bocciatura? La legge traccia un percorso preciso. La scuola deve convocare i genitori e spiegare loro che stanno commettendo un reato. Se la situazione non si sblocca parte la segnalazione ai servizi sociali del Comune che dovrebbero tentare il recupero dello studente. Se il tentativo fallisce scatta la denuncia al Tribunale dei minori. Tutto chiaro. Ma non sempre è facile, anzi a volte impossibile. Basta un esempio. A Belluno le segnalazioni di mancato rispetto dell’obbligo scolastico sono 27. A Napoli 60 mila. Nel capoluogo campano, che assieme all’hinterland ha raggiunto il livello monstre di 3 milioni e mezzo di residenti, sarebbe necessario un piano Marshall. Servizi sociali centuplicati, strutture scolastiche all’avanguardia, investimenti robusti nella scuola. Invece per far fronte al disastro si sono mobilitati migliaia di insegnanti, decine di migliaia di genitori, per rendere la scuola un luogo che attrae, educa, coinvolge. Una lotta titanica in un territorio dove la gente convive con la povertà crescente, la paura e la rassegnazione. Ma l’emergenza non riguarda solo Napoli. Basti pensare che nella periferia orientale di Verona la dispersione scolastica ha toccato il 30 per cento, mentre a Reggio Calabria ha ormai raggiunto il 38 per cento.

da repubblica.it

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“Fiducia negli insegnanti e progetti” Così la scuola torna a fare inclusione”, Intervista a Marco Rossi Doria

Da “maestro di strada” a sottosegretario alla Pubblica Istruzione. L’esperienza del recupero nei Quartieri Spagnoli. “Il problema è sempre stato la discontinuità degli interventi”. Che fare? “Investire in strutture e tecnologia, ma anche partire dalle conoscenze e dalle esperienze esistenti che hanno funzionato”{C}{C}ROMA – Marco Rossi Doria, 58 anni, napoletano, è insegnante di ruolo nella scuola elementare dal 1975. Per sedici anni ha lavorato a Torre Annunziata. Poi si è trasferito in Etiopia e si è occupato dei bambini di strada a Nairobi. E’ tornato a Napoli in una scuola frequentata da bambini di estrazione sociale alta, come docente di inglese. Contemporaneamente ha lavorato come volontario in un’organizzazione che lavorava nei quarteri spagnoli a Napoli, quartieri con un altissimo tasso di dispersione scolastica a partire dalla scuola media. Successivamente ha chiesto al ministero dell’Istruzione un distacco. Ha guidato un gruppo di insegnanti con l’obiettivo di trasmettere le competenze minime per esercitare il diritto di cittadinanza. A quel punto il Provveditorato ha chiesto di costruire un progetto organico per fronteggiare l’abbandono scolastico. Da lì è nato il progetto “Chance” che si rivolge ai ragazzi che sono usciti dalla scuola prima di raggiungere l’obbligo scolastico, coinvolgendo migliaia di ragazzi. Ora Marco Rossi Doria è sottosegretario alla Pubblica Istruzione

Come è nata la sua esperienza e quali strumenti ha usato per il recupero dei giovani che avevano abbandonato la scuola?
“L’esperienza dei maestri di strada è nata da un gruppo di insegnanti, educatori, assistenti sociali, psicologi dei Quartieri Spagnoli di Napoli dall’idea che fosse necessaria una scuola per i ragazzi che avevano smesso di frequentarla, per accompagnarli con strumenti adeguati al conseguimento della licenza media e di qualifiche professionali. L’idea di fondo è quella di dare di più a chi ha più bisogno. Gli strumenti che abbiamo usato, tra gli altri, sono stati patti educativi sottoscritti con il singolo alunno e i suoi genitori, rafforzamento degli alfabeti di cittadinanza (saper leggere, saper scrivere, saper parlare), una rete forte di cooperazione con tutti i soggetti del territorio: scuole, parrocchie, centri sportivi, associazioni, formazione professionale, servizi sociali, ecc.
Il nostro lavoro si incentrava sul gruppo docente e sulla capacità di autoanalisi di debolezze e punti di forza riscontrati in classe. E su un’idea comunitaria di scuola dove si mangia insieme, si parla di tutto, si fanno film, si organizzano campi all’aperto, si fanno spettacoli di strada, ecc”.

Quali gli ostacoli più ardui da superare?
“L’ostacolo più importante che abbiamo trovato è stata la mancanza di continuità. In Italia gli interventi nell’ambito sociale sono caratterizzati da investimenti discontinui, le istituzioni faticano a mettere in rete le esperienze positive e a fornire supporto adeguato perché, da sperimentazioni possano diventare esperienze durature nel tempo. Solo con la continuità e la stabilità è possibile incidere in maniera sensibile sul territorio, sul contesto difficile delle zone di forte esclusione economica, sociale e culturale del Mezzogiorno. Ma lo stesso discorso vale, naturalmente, per alcune periferie delle città del Nord. Far ripartire prototipi con un orizzonte di attività medio-lungo è stato uno dei temi trattati dai Ministri Profumo e Barca con il Commissario europeo per le politiche regionali Johannes Hahn”.

La scuola può bastare da sola a risolvere il problema della dispersione?
“Naturalmente no. La dispersione scolastica è un fenomeno complesso, che riguarda differenti tipologie, cause molteplici, contesti diversi. Per questo è fondamentale operare in sinergia con il territorio e tutti i suoi attori, dalle scuole alla formazione professionale, dalle imprese ai servizi sociali, dalle parrocchie ai centri sportivi agli enti locali”.

C’è un nesso tra povertà e abbandono scolastico?
“Il nesso c’è ed è stato dimostrato dal Rapporto del 2008 realizzato dalla Commissione di indagine sull’Esclusione Sociale. Se prendiamo una grande città, che può essere Napoli o Milano, e sovrapponiamo i dati Istat sulla povertà delle famiglie con i dati sull’abbandono scolastico, le due mappe corrispondono, quartiere per quartiere. C’è una forte corrispondenza tra la povertà – economica ma anche culturale – delle famiglie e i bassi livelli di istruzione. Ma non solo. Se sei figlio di una famiglia povera, studierai di meno e tenderai a formare una nuova famiglia povera. Se invece provieni da una famiglia povera ma riesci ad innalzare il tuo livello di istruzione, migliorerai le tue condizioni economiche, vivrai più a lungo, sarai più sano e meno a rischio di dipendenze. Il paradosso è questo: la scuola purtroppo fa fatica a trattenere proprio i ragazzi a cui l’istruzione serve di più. C’è stato un tempo in cui non era così, ma da almeno vent’anni c’è questa difficoltà. Dall’Unità d’Italia al 1980 la scuola pubblica è stato potente fattore di discriminazione positiva: ha alimentato l’ascensore sociale. La sua funzione, però, si è molto rallentata negli ultimi anni. Oggi, nel concreto, il problema esplode nel primo biennio delle scuole secondarie superiori, dove è più alto il tasso di abbandono, ma si manifesta ancora in maniera persistente, seppure residuale, nelle scuole medie inferiori in alcune zone di forte esclusione sociale. Questo rivela la necessità di intervenire anche nella scuola primaria, per rafforzare al massimo le competenze e conoscenze di base che è indispensabile acquisire nei primi anni di istruzione, altrimenti recuperare è difficilissimo. E poi, come dicevo all’inizio, pensare a come rispondere in maniera diversificata a bisogni profondamente diversi anche all’interno della ‘scuola di tutti'”.

Ora che è sottosegretario come metterà a frutto la sua esperienza?
Nel poco tempo e con le risorse limitate a nostra disposizione, stiamo cercando di dare alle scuole autonome qualche strumento in più per funzionare e per organizzarsi meglio. Nel decreto semplificazioni approvato da poco in Consiglio dei Ministri ci sono i primi passi in questa direzione. Stiamo lavorando insieme al Ministro Profumo e al Ministro Barca per destinare le risorse provenienti dai Fondi europei alle quattro regioni meridionali (Campania, Sicilia, Calabria e Puglia) secondo alcune priorità. Oltre all’edilizia scolastica e alle dotazioni tecnologiche e multimediali, ci sono investimenti destinati al rafforzamento delle conoscenze e competenze indispensabili, al recupero del ritardo scolastico e al contrasto alla dispersione. Per la lotta alla dispersione si tratta di circa 27 milioni di euro che verranno destinati a prototipi. Daremo una prospettiva, cioè, a progetti già esistenti, che hanno dimostrato la loro efficacia e che possono essere estesi e implementati. E’ un primo passo, ma la mia esperienza mi dice che è fondamentale partire sempre da quello che c’è e che già funziona. Un’ultima cosa: dopo aver trascorso tanti anni a fare il maestro, credo sia fondamentale riuscire a trasmettere fiducia nella scuola e negli insegnanti. La scuola ha davanti a sé tante sfide e non poche difficoltà, ma racchiude risorse preziose, senso di responsabilità e impegno indefesso di tanti dirigenti scolastici, maestri e professori che rendono possibile, se accompagnati con gli strumenti giusti, superare i momenti difficili e riportare l’istruzione ad essere strumento vero di inclusione e mobilità sociale.

da repubblica.it

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“Liberate i sogni”, così Madame Tsunami ha riaperto la sua scuola al quartiere

Dieci anni fa, quando è arrivata, l’istituto (materna, elementari e medie) “Adelaide Ristori” aveva appena 300 alunni. Già dalla terza classe gli studenti fuggivano e non frequentavano più. Motivando e mobilitando genitori e docenti, la struttura è ripartita. Oggi ha 930 ragazzini ed è una specie di oasi
16/02/2012
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la Repubblica

NAPOLI – Sull’asfalto sconnesso uno scooter prima tenta il dribbling poi inchioda. A bordo due ragazzini, regolarmente senza casco, e il maschio alla guida urla: “Facite ampresso, jamme….” Il passante replica: “Perché non state a scuola? E mettetevi il casco”. La risposta è immediata: “Faciteve e fatt vuoste”…. E’ una normale mattina di un giorno feriale. Il vento gelido spazza i vicoli. L’obiettivo è l’istituto comprensivo “Adelaide Ristori” nel cuore di Forcella.

La preside s’affaccia da una finestra del terzo piano. “Salite, ora vi faccio aprire”. La stanza della presidenza è un continuo via vai di insegnanti, bidelli, studenti. La prof Raffaella Tuccillo, “Madame Tsunami di Forcella”, come la chiamano da queste parti, ci accoglie con un classico: “Adesso ci facciamo un bel caffè”. La preside è arrivata a Forcella nel 2002. “Ho trovato una scuola in grandi difficoltà, docenti demotivati, poco più di 300 bambini, gran parte di quelli della prima e seconda elementare venivano saltuariamente, quelli delle ultime due classi non venivano proprio”.

Peggio di così non poteva andare. “Per uscire dal tunnel avevo e ho bisogno di tutti quelli che lavorano qui dentro. Ho lanciato la parola d’ordine “accoglienza” per attirare a scuola i bambini del quartiere. Ai docenti ho detto: “aprite i cassetti e liberate i vostri sogni”. Quello che sembrava una chimera piano piano si avvera. “Mettendo il naso nei conti ho scoperto che nei tre anni precedenti i fondi d’istituto non erano mai stati spesi. Poi ho scoperto che il piano sotterraneo era diventato una discarica di banchi rotti, sedie sfasciate, rifiuti di ogni genere. A quel punto mi sono fatta prestare un grembiule da bidella, ho indossato guanti di plastica, scopa e scopettone, secchi e varecchina. All’inizio bidelle e maestre mi guardavano come una persona strana, poi si sono fatte coinvolgere e siamo riusciti a sgomberare e pulire tutto”. Oggi la sala sotterranea ospita due laboratori informatici, uno scientifico, uno artistico ed una piccola palestra con il tatami. Oggi l’istituto comprensivo “Adelaide Ristori” ospita, tra materna, elementare e media, 930 studenti. Per un quartiere difficile come Forcella un vero miracolo. “Madame Tsunami” è conosciuta da tutti gli abitanti del rione, ma se la ricordano anche in Questura ed in Prefettura. “Nel gennaio del 2011 Forcella era sconvolta da un’improvvisa guerra tra “giovani” e “anziani” delle famiglie – racconta Fernanda Tuccillo – scontri a fuoco anche di giorno, un bidello ha perso un dito per un proiettile vagante mentre era in strada. Le famiglie tenevano i figli a casa”. A quel punto “Madame Tsunami” decide di entrare in azione. Mobilita la stampa, le tv, chiama in causa Questore e Prefetto. Alle “famiglie” tanta pubblicità non fa molto piacere. I contrasti vengono risolti all’interno dell’organizzazione camorristica e la pace torna a Forcella.

Ma il gioiello dell’istituto comprensivo è la scuola materna dedicata ad Annalisa Durante, la quattordicenne uccisa dalla camorra nel 2004. La materna si trova a poche centinaia di metri dalla sede centrale proprio lì dove la ragazzina è stata colpita a morte. Nel vicolo un paio di banchetti: “Camel a 2 euro e mezzo, un euro per un pacco da dieci fazzoletti di carta e di marca”.

Oltre il cancello il cortile con scivoli ed altalene. A sinistra la scuola materna a destra l’asilo nido comunale. Alla materna s’avvicina l’ora della pappa. I piccoli in fila per due vanno al bagno per lavarsi le mani. Si respira un’allegra confusione. La coordinatrice tiene per mano una bimba cinese che piange a dirotto: “Non capisce ancora l’italiano, è arrivata da tre giorni, ma come altri suoi conterranei entrerà facilmente nel gruppo. Oggi abbiamo poco più di duecento bambini. Siamo riusciti a mettere in piedi tutto questo solo con le nostre forze andando a comprare i mobili da Ikea e lavorando senza orari”.

da repubblica.it

" I mali d'Italia e i predatori dell'articolo 18", di Michele Raitano

Come accadde con Pisapia prima delle elezioni a Milano, l’articolo 18 ogni giorno che passa viene individuato come la causa certa e unica di tutti i mali del sistema economico-sociale italiano: la sua presenza sarebbe l’unica determinante del nanismo delle nostre imprese, della loro scarsa competitività sui mercati, della presenza del precariato, dei pochi investitori internazionali. Andrea Ichino, in un articolo sul Corriere di ieri, hanno individuato nella presenza dell’articolo 18 e nei comportamenti settari dei sindacati la causa dei bassi salari. Nella loro visione, da una parte l’articolo 18 contribuirebbe a contenere i salari, dato che i datori scaricherebbero sulle retribuzioni il costo dell’assicurazione contro la licenziabilità loro offerta, dall’altra la difesa a oltranza degli insiders (gli iper-garantiti) da parte dei sindacati vieterebbe ai lavoratori privi di tutele di essere quanto meno risarciti tramite più alti salari dai rischi derivanti dall’instabilità contrattuale. Se la relazione supposta da Alesina e Ichino fosse vera dovremmo dunque aspettarci un vantaggio in termini di retribuzioni a favore dei lavoratori delle piccole imprese, quelle non coperte dall’art. 18. Al contrario, tutti gli studi, sia descrittivi che econometrici, evidenziano come in Italia a parità di caratteristiche individuali (anzianità, genere, titolo di studio, regione) chi lavora nelle piccole imprese viene pagato sistematicamente di meno (il divario è nell’ordine dei 10 punti percentuali). Allo stesso tempo, guardando alla semplice dinamica aggregata, i salari in Italia sono cresciuti in termini reali in modo consistente prima della crisi del ’92, per poi rimanere congelati da quel momento in poi. Dato che l’art. 18 è stato introdotto ben prima del 1992, appare evidente come le cause della dinamica salariale (e dell’ampliarsi della diseguaglianza retributiva) dipendano in tutta probabilità da ben altri fattori. Fra questi sicuramente rientra il ruolo del sindacato, ma con direzioni e impatti ben diversi da quanto sostenuto da Alesina e Ichino, dato che, a causa del suo progressivo indebolimento e dell’importanza svolta dall’accordo di concertazione del 1993 questo ha agito come un fattore di forte moderazione. Attribuire quindi alla forza del sindacato il divario salariale fra lavoratori permanenti e temporanei (dipendenti a termine e parasubordinati) o anche fra piccole e grandi imprese (a maggior tasso di sindacalizzazione) appare un po’ bizzarro, considerando quanta poca forza contrattuale ha avuto il sindacato negli ultimi anni nella fissazione dei livelli retributivi. D’altronde, un sicuro deficit di rappresentatività viene scontato da parasubordinati e partite Iva, mentre i dipendenti a termine sono coperti dagli stessi contratti collettivi di quelli a tempo indeterminato. E, a parità di condizioni, anche i dipendenti a termine (non solo i parasubordinati) scontano un divario salariale negativo nei confronti dei permanenti. E ancora, se i sindacati fossero straordinariamente efficaci nella difesa degli insiders dovremmo osservare ridottissimi flussi di caduta dai contratti a tempo indeterminato, in particolare nelle imprese con più di 15 addetti. Al contrario, da analisi dettagliate svolte sui micro-dati sulle dinamiche di carriera individuali si osserva, da un lato, quanto sia lontano dalla realtà il mito del “posto fisso” per i dipendenti a tempo indeterminato, dall’altro come la frequenza della mobilità in uscita dei lavoratori non sembri dipendere dalla dimensione d’impresa. La flessibilità in uscita dal tempo indeterminato è infatti decisamente più elevata di quella che dovrebbe caratterizzare un mercato del lavoro rigido: ad esempio, il 30% di chi, in un dato anno, è titolare di un contratto a tempo indeterminato sperimenta nei 5 anni successivi almeno un episodio negativo di perdita dello status contrattuale. Naturalmente, data la differente mortalità delle imprese, i lavoratori delle micro-imprese sono esposti ad un rischio maggiore, ma la quota di dipendenti a tempo indeterminato che sperimentano un downgrade contrattuale si modifica ben poco quando si varca la soglia dei 15 addetti. D’altro canto, la frequenza con la quale vengono stabilizzati gli atipici addirittura aumenta all’aumentare della dimensione d’impresa. Allo stesso tempo, contrariamente all’immagine di apartheid a discapito dei lavoratori atipici, la maggior parte di questi sperimenta nel giro di qualche anno un miglioramento dello status contrattuale, il problema è che però è molto facile ricadere successivamente nelle condizioni più svantaggiate. Più che estremamente rigido o solamente segmentato, il nostro mercato del lavoro appare quindi “liquido”: molti lavoratori, la maggioranza probabilmente, soprattutto fra i più giovani, fluttuano tra stati lavorativi alternando periodi con contratti standard a periodi di atipicità o di intermittenza occupazionale, che generalmente non è supportata da adeguati ammortizzatori sociali. E questa frequente transizione fra diversi stati sembra attribuibile a deficienze profonde del sistema produttivo italiano piuttosto che a meri aspetti regolamentativi o al comportamento distorto dei sindacati. I problemi del mercato del lavoro italiano, e la lotta contro le diseguaglianze pervasive che si manifestano in esso, necessiterebbero quindi di interventi ben più strutturali di quelli di cui si discute in questi giorni. Magari fosse sufficiente cambiare aspetti regolamentativi come la struttura contrattuale o l’articolo 18 per cancellare tutti i mali. E la necessità di questi interventi è d’altronde ancora tutta da dimostrare.

L’Unità 16.02.12

” I mali d’Italia e i predatori dell’articolo 18″, di Michele Raitano

Come accadde con Pisapia prima delle elezioni a Milano, l’articolo 18 ogni giorno che passa viene individuato come la causa certa e unica di tutti i mali del sistema economico-sociale italiano: la sua presenza sarebbe l’unica determinante del nanismo delle nostre imprese, della loro scarsa competitività sui mercati, della presenza del precariato, dei pochi investitori internazionali. Andrea Ichino, in un articolo sul Corriere di ieri, hanno individuato nella presenza dell’articolo 18 e nei comportamenti settari dei sindacati la causa dei bassi salari. Nella loro visione, da una parte l’articolo 18 contribuirebbe a contenere i salari, dato che i datori scaricherebbero sulle retribuzioni il costo dell’assicurazione contro la licenziabilità loro offerta, dall’altra la difesa a oltranza degli insiders (gli iper-garantiti) da parte dei sindacati vieterebbe ai lavoratori privi di tutele di essere quanto meno risarciti tramite più alti salari dai rischi derivanti dall’instabilità contrattuale. Se la relazione supposta da Alesina e Ichino fosse vera dovremmo dunque aspettarci un vantaggio in termini di retribuzioni a favore dei lavoratori delle piccole imprese, quelle non coperte dall’art. 18. Al contrario, tutti gli studi, sia descrittivi che econometrici, evidenziano come in Italia a parità di caratteristiche individuali (anzianità, genere, titolo di studio, regione) chi lavora nelle piccole imprese viene pagato sistematicamente di meno (il divario è nell’ordine dei 10 punti percentuali). Allo stesso tempo, guardando alla semplice dinamica aggregata, i salari in Italia sono cresciuti in termini reali in modo consistente prima della crisi del ’92, per poi rimanere congelati da quel momento in poi. Dato che l’art. 18 è stato introdotto ben prima del 1992, appare evidente come le cause della dinamica salariale (e dell’ampliarsi della diseguaglianza retributiva) dipendano in tutta probabilità da ben altri fattori. Fra questi sicuramente rientra il ruolo del sindacato, ma con direzioni e impatti ben diversi da quanto sostenuto da Alesina e Ichino, dato che, a causa del suo progressivo indebolimento e dell’importanza svolta dall’accordo di concertazione del 1993 questo ha agito come un fattore di forte moderazione. Attribuire quindi alla forza del sindacato il divario salariale fra lavoratori permanenti e temporanei (dipendenti a termine e parasubordinati) o anche fra piccole e grandi imprese (a maggior tasso di sindacalizzazione) appare un po’ bizzarro, considerando quanta poca forza contrattuale ha avuto il sindacato negli ultimi anni nella fissazione dei livelli retributivi. D’altronde, un sicuro deficit di rappresentatività viene scontato da parasubordinati e partite Iva, mentre i dipendenti a termine sono coperti dagli stessi contratti collettivi di quelli a tempo indeterminato. E, a parità di condizioni, anche i dipendenti a termine (non solo i parasubordinati) scontano un divario salariale negativo nei confronti dei permanenti. E ancora, se i sindacati fossero straordinariamente efficaci nella difesa degli insiders dovremmo osservare ridottissimi flussi di caduta dai contratti a tempo indeterminato, in particolare nelle imprese con più di 15 addetti. Al contrario, da analisi dettagliate svolte sui micro-dati sulle dinamiche di carriera individuali si osserva, da un lato, quanto sia lontano dalla realtà il mito del “posto fisso” per i dipendenti a tempo indeterminato, dall’altro come la frequenza della mobilità in uscita dei lavoratori non sembri dipendere dalla dimensione d’impresa. La flessibilità in uscita dal tempo indeterminato è infatti decisamente più elevata di quella che dovrebbe caratterizzare un mercato del lavoro rigido: ad esempio, il 30% di chi, in un dato anno, è titolare di un contratto a tempo indeterminato sperimenta nei 5 anni successivi almeno un episodio negativo di perdita dello status contrattuale. Naturalmente, data la differente mortalità delle imprese, i lavoratori delle micro-imprese sono esposti ad un rischio maggiore, ma la quota di dipendenti a tempo indeterminato che sperimentano un downgrade contrattuale si modifica ben poco quando si varca la soglia dei 15 addetti. D’altro canto, la frequenza con la quale vengono stabilizzati gli atipici addirittura aumenta all’aumentare della dimensione d’impresa. Allo stesso tempo, contrariamente all’immagine di apartheid a discapito dei lavoratori atipici, la maggior parte di questi sperimenta nel giro di qualche anno un miglioramento dello status contrattuale, il problema è che però è molto facile ricadere successivamente nelle condizioni più svantaggiate. Più che estremamente rigido o solamente segmentato, il nostro mercato del lavoro appare quindi “liquido”: molti lavoratori, la maggioranza probabilmente, soprattutto fra i più giovani, fluttuano tra stati lavorativi alternando periodi con contratti standard a periodi di atipicità o di intermittenza occupazionale, che generalmente non è supportata da adeguati ammortizzatori sociali. E questa frequente transizione fra diversi stati sembra attribuibile a deficienze profonde del sistema produttivo italiano piuttosto che a meri aspetti regolamentativi o al comportamento distorto dei sindacati. I problemi del mercato del lavoro italiano, e la lotta contro le diseguaglianze pervasive che si manifestano in esso, necessiterebbero quindi di interventi ben più strutturali di quelli di cui si discute in questi giorni. Magari fosse sufficiente cambiare aspetti regolamentativi come la struttura contrattuale o l’articolo 18 per cancellare tutti i mali. E la necessità di questi interventi è d’altronde ancora tutta da dimostrare.

L’Unità 16.02.12

"Sognavo una scuola libera ma oggi quell'utopia non c'è più

Il celebre insegnante, amico di Don Milani, compie 90 anni E racconta le rivoluzioni di classe, da Tolstoj alla provincia italiana. “Venivo guardato con sospetto dalle istituzioni. Ora ha vinto il modello tradizionale” Chissà se domani il maestro Lodi guarderà fuori della grande finestra che s´affaccia sul cielo di Piadena, borgo di pianura tra sapori lombardi ed emiliani. Tutto cominciò da lì, da una finestra spalancata sul mondo. «Sì, fu il mio primo giorno di scuola a San Giovanni in Croce, al principio degli anni Cinquanta. Mentre parlavo, uno dei bambini si alzò dal suo banco e andò a guardare cosa succedeva sui tetti di fronte. A poco a poco, anche gli altri fecero lo stesso. E allora mi domandai: lasciar fare o reprimere? Così mi alzai, e insieme a loro mi misi a guardare il mondo dalla finestra». Da insegnante tornava bambino, e gli scolari si facevano maestri. La nuova scuola era cominciata.
Il maestro compie novant´anni, ma nel giorno della festa chiede silenzio. «Silenzio e meditazione. Noi novantenni possiamo ricordare la nostra vita, le imprese se ci sono, e null´altro. Ci resta poco da vivere e dobbiamo prepararci a questo passo estremo che è la fine». E allora ricominciamo da capo, dal primo fotogramma di un lungo film, la scelta del mestiere. «Non avrei mai pensato di diventare maestro di scuola. Volevo fare il falegname, vivere in una segheria tra trance e pialle, sgorbie e lime. Il mio modello era Geppetto, l´artigiano di Collodi. Sì, volevo essere come Geppetto con Pinocchio». Sorride Mario Lodi, gli sembra di averla detta grossa. Ma come, il maestro per antonomasia, l´artefice della nuova scuola democratica, l´amico di don Milani, l´incarnazione di quella utopia progressista che attraversò i migliori anni del lungo dopoguerra, ora confessa che avrebbe voluto far altro? In realtà la metafora di Pinocchio rivela molte cose. In fondo anche il maestro Lodi ha trasformato generazioni di burattini in bambini veri. I più antichi tra i suoi scolari hanno oltre settant´anni, calzavano gli zoccoli e oggi sono piccoli imprenditori. Alcuni sono diventati chef illustri, altri hanno trovato la retta via dopo un´infanzia miserabile. Tutti ora continuano a scrivergli, con gratitudine. Ma al principio niente fu facile.
Nato nell´anno del fascismo, a Lodi toccò in sorte di ricevere il diploma magistrale proprio il giorno dell´entrata in guerra, il 10 giugno del 1940. «Mentre Mussolini sbraitava da Palazzo Venezia, io andai a Cremona a vedere gli esiti dell´esame. No, non ero tanto contento. In fondo avevo scelto le magistrali perché duravano meno. A me piaceva soprattutto dipingere, pasticciare con i colori sui tessuti e i foulard di seta. Me l´aveva insegnato mio padre, un operaio socialista con vocazione artistica». Il primo tirocinio scolastico, nella Bassa padana, fu tremendo. «Io avevo in mente l´esperimento inventato da Tolstoj a Jasnaia Poliana, la residenza di campagna dove faceva una scuola libera con figli dei contadini poveri. Incontrai anche io i bambini con gli zoccoli, scalpitanti come cavalli ma profondamente segnati da una scuola autoritaria. Così volevano da me la lezione tradizionale, gli esercizi scritti e i compiti, i timbri con i voti. Un disastro».
Per sognare un mondo diverso, bisogna aspettare la fine del fascismo e della guerra. E anche l´arrivo di una nuova stagione, la ricostruzione morale e materiale dell´Italia. «C´era ancora paura nei loro sguardi, anche molta fame. Ma i bambini cominciavano ad aprirsi, a rivelare il loro mondo interiore non solo attraverso la parola scritta, ma anche con il disegno e la musica, il gioco e il lavoro pratico». Bambini che scoprivano le mani. Bambini spesso “forestieri”, abituati a parlare un dialetto diverso. «Nel giorno di San Martino, il padrone delle cascine spostava i suoi contadini di borgo in borgo. Così mi arrivavano questi scolaretti spaesati, che comunicavano in un modo differente. C´era un problema di lingua, lo stesso che oggi affligge i figli degli immigrati. E allora lavoravo su ciò che li univa. Siamo tutti eguali nei do

lori, nelle emozioni, negli affetti. E solo con l´amore si riesce a scoprire la vita dei bambini».
Non era solo, il maestro Lodi. Cominciava allora quel Movimento di Cooperazione Educativa che, sulle tracce del pedagogista francese Freinet, portava aria fresca nelle aule scolastiche. A una scuola puramente trasmissiva, dispensatrice di saperi dall´alto, opponeva un insegnamento che contemplava la collaborazione al posto della competizione, il recupero invece della selezione, la ricezione critica piuttosto che l´ascolto passivo. «Volevamo rifondare la scuola democratica», dice oggi il maestro Lodi con la sua bella voce piana, resa fragile dall´età ma ancora nitida, come di chi è abituato per mestiere a catturare l´attenzione. «L´aula rappresentava la società e a scuola si sperimentava la base del vivere civile. Il maestro doveva formare il cittadino responsabile». Una rivoluzione silenziosa, che portava tra i banchi la Costituzione, nella speranza di cambiare il paese uscito da un ventennio di dittatura. E dopo oltre mezzo secolo, maestro Lodi, qual è il bilancio? Lo sguardo azzurro si fa distante, come a difendersi da una realtà che non gli piace. «L´Italia è un disegno incompiuto. Non è nato il popolo che volevamo rieducare, così come non è nata la nuova scuola che avevamo in mente. Se mi volto indietro, se penso al nostro lavoro di quei decenni, mi sembra tutto vanificato. Oggi è prevalsa la scuola tradizionale, un modello competitivo che somministra nozioni e dà la linea». Non vogliamo teste piene, le vogliamo ben fatte: era lo slogan degli insegnanti democratici. Un´altra favola bella che se n´è andata.
Tra gli anni Sessanta e Settanta, i suoi libri ebbero grande successo. Prima le storie collettive di Cipì, il “passero eroico” celebrato da Rodari. Poi C´è speranza se questo accade a Vho, diario didattico degli esordi, e Il paese sbagliato, bestseller einaudiano insignito del Viareggio. «Venne da me Giulio Einaudi con le bozze in mano», ricorda ora divertito. «”Troppo lungo”, decretò. “Le lascio un paio d´ore per tagliarne duecento pagine”». Il maestro Lodi diventò una star della pedagogia innovativa, vincitore di premi internazionali, ma nelle scuole della Bassa padana la vita non era mai facile. «Quando andava bene, il direttore didattico mi lasciava fare. Così accadde a San Giovanni, dove insegnai tra il ´51 e il ´56. Ma più tardi a Vho le cose andarono molto peggio, tra le resistenze delle gerarchie scolastiche e l´ostilità degli altri maestri. La scuola tradizionale era più semplice: libro di testo e compiti in classe, non bisognava inventare niente». Il maestro Lodi veniva guardato con sospetto. La sua aula era tutt´un via vai di strana gente, lunarmente distante dall´istituzione scolastica. «Mi mettevano in classe molti ripetenti, ragazzi difficili che reagivano alle avversità con violenza e dissipazione. Così facevo venire il medico che illustrava gli effetti del fumo in polmoni giovani. E con il contadino uscivamo in campagna, e insieme al pescatore arrivavamo fino al fiume. E contemporaneamente spiegavo storia e geografia».
Non è un caso che don Milani adottò alcune delle sue tecniche didattiche, soprattutto quella della scrittura collettiva dei testi. Senza Mario Lodi, non ci sarebbe Lettera a una professoressa della scuola di Barbiana. «Conobbi don Lorenzo nel 1963, grazie al mio amico Giorgio Pecorini. Il suo esperimento viene oggi raccontato come una scuoletta di campagna, in realtà era una scuola di altissimo livello. Era un pezzo dell´Italia che viveva autonomamente la sua libertà. Don Milani fu il primo a lanciare l´idea di scuola universale – trasformare la scuola in uno strumento di democrazia – ma non tutti hanno capito la profondità del suo pensiero».
La sua casa di Drizzona, a pochi chilometri da Piadena – metà cascina, metà convento benedettino del Seicento –, è ancora tappezzata dei disegni dei bambini di sessant´anni fa. Con i soldi del premio Lego ha trasformato le stalle nella Casa delle Arti e del Gioco, che oggi ospita seminari e laboratori per gli educatori. Ritratti colorati e storti, facce viola e case trasparenti, perché «i disegni dei bambini non sono mai sbagliati ma sempre rivelatori di universi intimi». Ecco il profumo del fiore disegnato da Cosetta, la sua primogenita, e l´arcobaleno dipinto da Rossella, la seconda figlia che non lo lascia mai. Lui cammina incerto nelle gambe, sorretto dalla moglie Fiorella, che qualche volta gli presta le parole. E al maestro di oggi cosa suggerirebbe? «Possedere un cuore, che è un motore potente. E poi attaccarsi al bambino, seguirlo con dedizione, riuscire a scrutarne i talenti nascosti. Senza mai dimenticare che il compito della scuola è trasformare un gregge passivo in un popolo di cittadini pensanti». No, non si arrende Mario Lodi. Ma nel giorno della festa, per favore, fate silenzio. Guardate fuori dalla finestra, insieme al maestro, ma in silenzio.

La Repubblica 16.02.12