Latest Posts

“Cosa ci dice la rabbia dei greci”, di Stefano Lepri

Osserviamo con attenzione la Grecia, perché può insegnarci molto. I leader dei due principali partiti politici sono coscienti, d’accordo con il primo ministro tecnico, che altri sacrifici sono inevitabili. Ma la gente non ne può più, perché i sacrifici finora sono stati distribuiti male, e segni di speranza non se ne vedono. Nei nostri tempi, nessuna democrazia era mai stata sottoposta a uno stress simile a quelli da cui nacquero le dittature degli Anni 30. Vediamo un sistema politico e amministrativo corrotto avvitarsi su sé stesso. Il medico-sindacalista ateniese intervistato ieri da questo giornale sosteneva che i tagli di spesa fanno mancare le medicine negli ospedali. Fino a ieri, peraltro, risultava come prassi corrente rivendere all’estero, dove i prezzi sono più alti, i medicinali acquistati dal sistema sanitario pubblico greco. Non a caso la spesa pro capite per farmaci l’anno scorso è stata oltre il 15% superiore rispetto all’Italia, benché il reddito sia alquanto più basso.

In questo caso come in altri, la corruzione che pervade il sistema scarica tutto il peso dei sacrifici sui più deboli, ovvero su chi non fa parte di una clientela o di una categoria protetta.

Peggio ancora, l’incapacità di toccare i privilegi blocca ogni tentativo di rivitalizzare l’economia. Ai deputati risulta più facile aumentare le tasse a tutti che pestare i piedi a gruppi di interesse compatti. Dopodiché una amministrazione corrotta riesce a riscuotere le maggiori tasse solo dai soliti noti, mentre i furbi se la cavano (portare l’aliquota Iva dal 19 al 23% non ne ha accresciuto il gettito).

Il sindacato dei poliziotti ellenici vorrebbe mettere in galera gli inviati della «troika» (Commissione europea, Bce, Fondo monetario). Eppure a tormentare la «troika» è assai più la mancanza di riforme strutturali. Ad esempio, poco o nulla si è fatto in materia di privatizzazioni, perché i politici non volevano rinunciare a strumenti di potere. E perché mai un Paese in queste condizioni è pronto a tagliare le spese militari solo se «non pregiudicano le capacità difensive»?

Dall’altro lato dello Ionio arrivano a punte estreme fenomeni che ben conosciamo. Ce ne rendiamo conto, tanto da ripetere «non siamo come la Grecia» un po’ troppo spesso. Più efficace è invece dire che i sacrifici non li facciamo perché ce li chiede l’Europa ma per il nostro futuro. Questa è la chiarezza che è finora mancata in Grecia, grazie anche a procedure di decisione europee che rendono agevole lo scarico di responsabilità.

Forse la gente che protesta in piazza ad Atene è ormai troppo esasperata per spiegargli che un Paese non può campare producendo 100 e consumando 110, come era avvenuto grazie ai crediti di quella finanza internazionale che poi ha avuto paura delle proprie dissennatezze. È comprensibile l’indignazione contro una macchina politico-burocratica che preme sul Paese come un tumore; ma alle prossime elezioni pare non ci sarà molta scelta tra rivotare chi ha falsificato i bilanci pubblici o gonfiare partiti estremisti privi di ricette.

Il voto di ieri sera nel Parlamento non risolve nulla, allunga i tempi di qualche mese. La vera scadenza diventa ora un’altra: nel corso del 2012 il bilancio dello Stato greco arriverà all’«attivo primario» ossia eliminerà tutto il deficit non causato da pagamento di interessi su debiti. A quel punto, l’insolvenza totale diventerà una tentazione; non è facile capire se più per i greci, o per chi in Europa vuole abbandonarli a sé stessi.

Le ripercussioni di un eventuale default sembrano ora meno difficili da assorbire. Ma quali speranze potrà infondere, dopo, una politica europea che ha permesso ai greci di dipingere i tedeschi come sadici aguzzini, e ai tedeschi di disprezzare i greci come dei fannulloni bugiardi?

La Stampa 13.02.12

"Il bastone dell'Europa", di Gad Lerner

Davvero qualcuno pensa di salvare l´Europa così, spezzando le reni alla Grecia? Proprio a ciò stiamo assistendo, con disagio: l´illusione nefasta di restituire unione al Vecchio Continente con il bastone dell´austerità. Calpestando la rivolta di piazza Syntagma e contrapponendo un Parlamento prigioniero al suo popolo affamato. La sequenza di provvedimenti dettati dalla Troika al governo di Atene ricorda l´indifferenza del boia piuttosto che non l´abilità del chirurgo. Questa entità burocratica, composta dalla Commissione di Bruxelles, dalla Banca centrale di Francoforte e dal Fondo monetario di Washington si propone di erigere un firewall, cioè un muro antincendio, come estrema difesa dell´euro. E pazienza se al di là di quel muro sono i greci a bruciare.
Dietro la Troika che ogni giorno inasprisce le sue richieste di sacrifici – non basta, non basta, non basta – si riconosce inconfondibile la sagoma dominatrice della Germania. «Non dobbiamo dare l´impressione che non debbano sforzarsi», ha dichiarato ieri il ministro tedesco dell´economia, Wolfgang Schaeuble. Aggiungendo che la Grecia rimarrebbe in Europa anche se ritornasse alla dracma. Prospettiva, questa, che ormai gli avvoltoi della finanza internazionale sembrano auspicare. Sono gli stessi gnomi che tre mesi fa posero il veto al referendum indetto dal primo ministro socialista Papandreou, allora con buone chances di vincerlo, nella speranza che la difficile scelta di restare nell´eurozona venisse cementata dal suffragio popolare. Come è noto Papandreou fu costretto a cedere il posto al tecnocrate Papademos, uomo di fiducia di Francoforte. Ma ora neanche questo basta più. La Troika non vede di buon occhio la scadenza del prossimo mese d´aprile, quando i greci dovrebbero eleggere democraticamente un nuovo Parlamento e un nuovo governo. Teme che la volontà popolare contraddica il piano di lacrime e sangue cui ha vincolato la concessione di ulteriori prestiti. Esige un commissariamento della sovranità nazionale che non è previsto da alcun trattato, e quindi delinea una nuova forma di colonialismo il cui dominio si fonda non più sugli eserciti ma sul debito.
L´europeismo rigoroso e solidale che mira a una vera unione politica e fiscale, esce umiliato da questa tragedia greca che i governi di destra, a Berlino come a Parigi, hanno lasciato degenerare, temo, per fini pedagogici: colpiscine uno per educarne cento.
La stessa ragionevole constatazione del presidente Napolitano – «l´Italia non è la Grecia» – suona come un´estrema autodifesa. Perché è vero che disponiamo di risorse ben maggiori in confronto al vicino ellenico, la nostra società sta sopportando meglio la cura del risanamento, e le forze politiche garantiscono una maggioranza irrequieta ma solida all´azione del governo Monti. Ma la bancarotta che sta accelerando l´uscita della Grecia dall´eurozona rende meno probabile la tenuta della coesione sociale in casa nostra. L´Italia non è la Grecia, d´accordo. Come reprimere però il disagio provocato dallo spettacolo di una nazione costretta a licenziare, tagliare gli stipendi, rinunciare a prestazioni sociali essenziali, il tutto per pagare gli interessi sul debito, ma sapendo che ciò non comporterà alcun rilancio della sua economia? Finora ha prevalso fra noi un atteggiamento di distacco nei confronti delle sofferenze dei greci: in fondo se la sono voluta, avevano truccato i conti, vivevano al di sopra delle loro possibilità… Ma di fronte allo strangolamento in atto, non occorre richiamare gli antichi sentimenti filo-ellenici del romanticismo e della carboneria – da Lord Byron a Santorre di Santarosa – per sentirsi coinvolti nel destino di un Paese a noi così prossimo. Se questo è l´esito ultimo delle politiche d´austerità che privilegiano il pagamento del debito, coloro i quali hanno davvero a cuore la prospettiva europeista, non devono forse correre ai ripari?

La Repubblica 13.02.12

“Il bastone dell’Europa”, di Gad Lerner

Davvero qualcuno pensa di salvare l´Europa così, spezzando le reni alla Grecia? Proprio a ciò stiamo assistendo, con disagio: l´illusione nefasta di restituire unione al Vecchio Continente con il bastone dell´austerità. Calpestando la rivolta di piazza Syntagma e contrapponendo un Parlamento prigioniero al suo popolo affamato. La sequenza di provvedimenti dettati dalla Troika al governo di Atene ricorda l´indifferenza del boia piuttosto che non l´abilità del chirurgo. Questa entità burocratica, composta dalla Commissione di Bruxelles, dalla Banca centrale di Francoforte e dal Fondo monetario di Washington si propone di erigere un firewall, cioè un muro antincendio, come estrema difesa dell´euro. E pazienza se al di là di quel muro sono i greci a bruciare.
Dietro la Troika che ogni giorno inasprisce le sue richieste di sacrifici – non basta, non basta, non basta – si riconosce inconfondibile la sagoma dominatrice della Germania. «Non dobbiamo dare l´impressione che non debbano sforzarsi», ha dichiarato ieri il ministro tedesco dell´economia, Wolfgang Schaeuble. Aggiungendo che la Grecia rimarrebbe in Europa anche se ritornasse alla dracma. Prospettiva, questa, che ormai gli avvoltoi della finanza internazionale sembrano auspicare. Sono gli stessi gnomi che tre mesi fa posero il veto al referendum indetto dal primo ministro socialista Papandreou, allora con buone chances di vincerlo, nella speranza che la difficile scelta di restare nell´eurozona venisse cementata dal suffragio popolare. Come è noto Papandreou fu costretto a cedere il posto al tecnocrate Papademos, uomo di fiducia di Francoforte. Ma ora neanche questo basta più. La Troika non vede di buon occhio la scadenza del prossimo mese d´aprile, quando i greci dovrebbero eleggere democraticamente un nuovo Parlamento e un nuovo governo. Teme che la volontà popolare contraddica il piano di lacrime e sangue cui ha vincolato la concessione di ulteriori prestiti. Esige un commissariamento della sovranità nazionale che non è previsto da alcun trattato, e quindi delinea una nuova forma di colonialismo il cui dominio si fonda non più sugli eserciti ma sul debito.
L´europeismo rigoroso e solidale che mira a una vera unione politica e fiscale, esce umiliato da questa tragedia greca che i governi di destra, a Berlino come a Parigi, hanno lasciato degenerare, temo, per fini pedagogici: colpiscine uno per educarne cento.
La stessa ragionevole constatazione del presidente Napolitano – «l´Italia non è la Grecia» – suona come un´estrema autodifesa. Perché è vero che disponiamo di risorse ben maggiori in confronto al vicino ellenico, la nostra società sta sopportando meglio la cura del risanamento, e le forze politiche garantiscono una maggioranza irrequieta ma solida all´azione del governo Monti. Ma la bancarotta che sta accelerando l´uscita della Grecia dall´eurozona rende meno probabile la tenuta della coesione sociale in casa nostra. L´Italia non è la Grecia, d´accordo. Come reprimere però il disagio provocato dallo spettacolo di una nazione costretta a licenziare, tagliare gli stipendi, rinunciare a prestazioni sociali essenziali, il tutto per pagare gli interessi sul debito, ma sapendo che ciò non comporterà alcun rilancio della sua economia? Finora ha prevalso fra noi un atteggiamento di distacco nei confronti delle sofferenze dei greci: in fondo se la sono voluta, avevano truccato i conti, vivevano al di sopra delle loro possibilità… Ma di fronte allo strangolamento in atto, non occorre richiamare gli antichi sentimenti filo-ellenici del romanticismo e della carboneria – da Lord Byron a Santorre di Santarosa – per sentirsi coinvolti nel destino di un Paese a noi così prossimo. Se questo è l´esito ultimo delle politiche d´austerità che privilegiano il pagamento del debito, coloro i quali hanno davvero a cuore la prospettiva europeista, non devono forse correre ai ripari?

La Repubblica 13.02.12

"Non comprate quei caccia meglio costruire 185 asili", di Umberto Veronesi

Il mondo della scienza e il mondo civile sono sconcertati di fronte all´indicazione, emersa in questi giorni, di proseguire nel programma di acquisto dei cacciabombardieri F-35, riducendo il numero, nella migliore delle ipotesi, da 131 a 100. Chiunque abbia a cuore il nostro Paese e il suo futuro, su questo punto non può tacere. La decisione di aderire a questo programma militare di nove Stati, il più costoso della storia, che prevede per l´Italia un esborso di 15 miliardi di euro, fu presa nel 2002 (l´accordo fu firmato a Washington dall´attuale ministro della Difesa) e già allora suscitò forti polemiche.
Ora però, quando per far fronte alla crisi il governo si trova costretto a minare i fondamenti economici di ogni famiglia: lavoro, pensioni, assistenza sanitaria, l´idea di dedicare una cifra iperbolica a questo programma, appare difficilmente accettabile. Ogni caccia costa 120 milioni di euro, che basterebbero per costruire 185 asili nido, permettendo a più madri di mantenere il loro posto di lavoro.
La maggioranza dei cittadini non vuole nuovi investimenti in armi e qualcuno ha ventilato un referendum. Le famiglie italiane stanno accettando con responsabilità e senso civico i tagli ai servizi e ai consumi imposti dalla crisi economica e dalla situazione europea, e affronteranno con dignità anche le difficoltà peggiori: mancanza di sviluppo e di posti di lavoro per i giovani.
C´è molta preoccupazione, ma c´è allo stesso tempo una coscienza diffusa del fatto che tutti debbano farsi carico del ri-appianamento dei conti, in vista di una ripresa. Ma i conti devono essere trasparenti, e le motivazioni delle scelte condivise. Io credo che nessuno di noi si imporrebbe un sacrificio oggi, per un domani di guerra e di sangue. La gente vuole benessere, salute, crescita, e soprattutto vuole la pace. Molti italiani non sanno che ci apprestiamo ad aumentare il nostro debito pubblico per poter ipoteticamente colpire meglio un nemico (che non c´è), quando, per ridurre lo stesso debito, chiediamo ai nostri malati di pagare addirittura una tassa sulla loro malattia: il ticket sanitario.
L´acquisto degli F-35, oltre che assurdo, è contro la nostra Costituzione, che all´articolo 11 stabilisce che l´Italia ripudia la guerra, se non come strumento di difesa. Ma i caccia sono armi di attacco, e chi mai l´Italia dovrebbe attaccare ? Per fortuna nel nostro Paese esiste una società civile molto attenta, che dal 2009 sostiene con convinzione e costanza una campagna – “Taglia le ali alle armi” – per fermare il programma F35. Come senatore, nel 2010, anche io ho partecipato personalmente, presentando una petizione in Senato. I promotori oggi chiedono prima di tutto che vengano spiegati gli obiettivi: a cosa servono nuove armi costose e sofisticate? Chiedono inoltre che vengano considerate le alternative possibili di impiego delle risorse pubbliche: ricerca scientifica, asili, scuole, ospedali, aiuti ai giovani e alle donne.
Le priorità vere del nostro Paese non possono essere i cacciabombardieri. Gran parte del mondo sta disarmando, e persino le potenze militari storiche, come gli Stati Uniti riducono gli organici e ritirano le truppe dalle missioni. La guerra è uno strumento barbaro per la risoluzione dei conflitti e barbari sono i suoi strumenti, le armi. Per fortuna, sarà storicamente destinata a sparire, perché la pace è la condizione imprescindibile del progresso economico, sociale, scientifico. Che l´Italia, Paese pacifico per cultura, assuma una posizione antistorica non passerà facilmente sotto silenzio.
Science for Peace, il movimento che ho fondato insieme a uomini di scienza e di pensiero, sarà a fianco delle associazioni favorevoli al disarmo, fra cui le associazioni femminili, sempre in prima fila nella difesa dei diritti umani. E il diritto a vivere in pace è il primo.

La Repubblica 12.02.12

“Non comprate quei caccia meglio costruire 185 asili”, di Umberto Veronesi

Il mondo della scienza e il mondo civile sono sconcertati di fronte all´indicazione, emersa in questi giorni, di proseguire nel programma di acquisto dei cacciabombardieri F-35, riducendo il numero, nella migliore delle ipotesi, da 131 a 100. Chiunque abbia a cuore il nostro Paese e il suo futuro, su questo punto non può tacere. La decisione di aderire a questo programma militare di nove Stati, il più costoso della storia, che prevede per l´Italia un esborso di 15 miliardi di euro, fu presa nel 2002 (l´accordo fu firmato a Washington dall´attuale ministro della Difesa) e già allora suscitò forti polemiche.
Ora però, quando per far fronte alla crisi il governo si trova costretto a minare i fondamenti economici di ogni famiglia: lavoro, pensioni, assistenza sanitaria, l´idea di dedicare una cifra iperbolica a questo programma, appare difficilmente accettabile. Ogni caccia costa 120 milioni di euro, che basterebbero per costruire 185 asili nido, permettendo a più madri di mantenere il loro posto di lavoro.
La maggioranza dei cittadini non vuole nuovi investimenti in armi e qualcuno ha ventilato un referendum. Le famiglie italiane stanno accettando con responsabilità e senso civico i tagli ai servizi e ai consumi imposti dalla crisi economica e dalla situazione europea, e affronteranno con dignità anche le difficoltà peggiori: mancanza di sviluppo e di posti di lavoro per i giovani.
C´è molta preoccupazione, ma c´è allo stesso tempo una coscienza diffusa del fatto che tutti debbano farsi carico del ri-appianamento dei conti, in vista di una ripresa. Ma i conti devono essere trasparenti, e le motivazioni delle scelte condivise. Io credo che nessuno di noi si imporrebbe un sacrificio oggi, per un domani di guerra e di sangue. La gente vuole benessere, salute, crescita, e soprattutto vuole la pace. Molti italiani non sanno che ci apprestiamo ad aumentare il nostro debito pubblico per poter ipoteticamente colpire meglio un nemico (che non c´è), quando, per ridurre lo stesso debito, chiediamo ai nostri malati di pagare addirittura una tassa sulla loro malattia: il ticket sanitario.
L´acquisto degli F-35, oltre che assurdo, è contro la nostra Costituzione, che all´articolo 11 stabilisce che l´Italia ripudia la guerra, se non come strumento di difesa. Ma i caccia sono armi di attacco, e chi mai l´Italia dovrebbe attaccare ? Per fortuna nel nostro Paese esiste una società civile molto attenta, che dal 2009 sostiene con convinzione e costanza una campagna – “Taglia le ali alle armi” – per fermare il programma F35. Come senatore, nel 2010, anche io ho partecipato personalmente, presentando una petizione in Senato. I promotori oggi chiedono prima di tutto che vengano spiegati gli obiettivi: a cosa servono nuove armi costose e sofisticate? Chiedono inoltre che vengano considerate le alternative possibili di impiego delle risorse pubbliche: ricerca scientifica, asili, scuole, ospedali, aiuti ai giovani e alle donne.
Le priorità vere del nostro Paese non possono essere i cacciabombardieri. Gran parte del mondo sta disarmando, e persino le potenze militari storiche, come gli Stati Uniti riducono gli organici e ritirano le truppe dalle missioni. La guerra è uno strumento barbaro per la risoluzione dei conflitti e barbari sono i suoi strumenti, le armi. Per fortuna, sarà storicamente destinata a sparire, perché la pace è la condizione imprescindibile del progresso economico, sociale, scientifico. Che l´Italia, Paese pacifico per cultura, assuma una posizione antistorica non passerà facilmente sotto silenzio.
Science for Peace, il movimento che ho fondato insieme a uomini di scienza e di pensiero, sarà a fianco delle associazioni favorevoli al disarmo, fra cui le associazioni femminili, sempre in prima fila nella difesa dei diritti umani. E il diritto a vivere in pace è il primo.

La Repubblica 12.02.12

"Mani Pulite? Il Paese perse la grande occasione per battere la corruzione", intervista a Gerardo D'Ambrosio di Rinaldo Gianola

La realtà «Dobbiamo essere crudeli con noi stessi: la cultura della legalità fatica a farsi strada, bisogna ripartire dal basso, dalla scuola». Le campagne di delegittimazione della magistratura favoriscono il degrado etico e politico. Abbiamo perso una grandissima occasione». Vent’anni dopo Mani Pulite le amare parole di Gerardo D’Ambrosio, per una vita magistrato a Milano indagando da Piazza Fontana a Tangentopoli e oggi senatore Pd, raccontano la delusione per il fallimento di una stagione che avrebbe potuto cambiare profondamente il Paese.
Dottor D’Ambrosio, che cosa abbiamo perso?
«Abbiamo smarrito l’occasione di sconfiggere la corruzione, il cancro che avvelena la politica e l’ economia. Siamo ancora qui a invocare la cultura della legalità, altrimenti non c’è possibilità di risanamento, di rinascita, di sviluppo». Vent’anni fa, invece, la speranza di cambiare c’era davvero?
«Sì. Mani Pulite raccolse un consenso enorme nell’opinione pubblica perchè le nostre inchieste svelavano quanto fosse grave e profonda la questione morale. Spadolini e Berlinguer avevano già denunciato il degrado dei partiti, la gestione corrotta della cosa pubblica. Ma nel 1992 l’Italia comprese come la corruzione stava distruggendo l’economia. Avevamo un debito pubblico enorme, pari al 120% del Pil, eravamo in condizioni terribili, simili a quelle di oggi, con Giuliano Amato costretto ad adottare misure straordinarie».
Qual era la malattia della Prima Repubblica?
«La corsa al finanziamento illecito da parte dei partiti era massiccia, sfuggiva a qualsiasi valutazione. La corruzione si era infiltrata nella burocrazia, nell’amministrazione, i partiti decidevano chi doveva vincere gli appalti. I corrotti facevano carriera, gli onesti no».
Come reagirono i cittadini?
«All’inizio l’inchiesta ebbe un grande successo. L’opinione pubblica rimase indignata dallo sperpero di denaro pubblico. Il potere politico non reagì, anzi in molti approvarono la nostra azione e forse ci illudemmo che la classe politica avrebbe cercato di cambiare, di emarginare i corrotti, di avviare il rinnovamento. Ma non successe nulla». Perchè?
«Il clima cambiò presto, soprattutto tra i partiti. Ci fu un episodio che segnò questo passaggio. Per errore la Guardia di Finanza si presentò alla Camera per chiedere i bilanci che avrebbe potuto acquisire dalla Gazzetta Ufficiale. Fu un chiaro incidente, un equivoco, noi chiedemmo subito scusa, ma la frittata era stata fatta. Il fatto scatenò la prima forte reazione della politica contro la magistratura. Da quel momento partì una campagna di delegittimazione dei giudici che, per la verità, non si è più spenta. Iniziarono a piovere le accuse contro la Procura di Milano. Secondo alcuni facevamo troppi arresti, ma tutti i nostri provvedimenti erano accettati e firmati dal Gip. Noi perseguivamo i responsabili di gravi reati».
Le Istituzioni compresero la gravità degli episodi che emergevano da Mani Pulite?
«Il presidente Scalfaro intervenne per raccomandare che venissero allontanati dalla politica tutti coloro che erano implicati nelle inchieste. Poi ci fu il tentativo di mettere tutto a tacere, con il pacchetto Conso che venne ritirato per la nostra reazione, ma l’obiettivo era chiaro. Successe di peggio, dopo la vittoria elettorale di Forza Italia, con il decreto Biondi che voleva scarcerare gli imputati di corruzione e concussione e di fatto impedire che si perseguissero i corrotti». Voi giudici di Mani Pulite siete stati accusati di aver avuto un occhio di riguardo per la sinistra. Anche Carlo De Benedetti, recentemente, ha detto che l’inchiesta salvò i comunisti… «Pensi che nella mia carriera di magistrato sono stato accusato di essere fascista, comunista e persino di aver protetto l’ingegner De Benedetti… Non scherziamo, sono tutte balle. Le parole di De Benedetti sono gravi perchè puntano a delegittimare la magistratura. Esponenti di rilievo del Pci finirono in carcere, le inchieste andarono avanti senza riguardo per nessuno. Magistrati come Davigo e Di Pietro, poi, non potevano nemmeno essere sospettati di essere di sinistra».
Perchè Mani Pulite a un certo punto smarrì la sua forza propulsiva? «Questo, forse, è il capolavoro di Silvio Berlusconi. Se la ricorda Retequattro? Trasmetteva in diretta da palazzo di Giustizia, con Paolo Brosio che elencava gli arresti tra gli applausi dei passanti. Forza Italia vince le elezioni del 1994 sull’onda dell’antipolitica, contro i partiti che rubano. La mistificazione mediatica e politica fu enorme perchè il creatore, il leader di Forza Italia era indagato e imputato. E quando Berlusconi arriva al governo le sue misure sono coerenti con le sue responsabilità e mirano a frenare l’azione della magistratura. Ho ricordato il decreto Biondi. Quindi c’è il tentativo di cambiare il codice di procedura penale annullando le confessioni rese al pm o alla polizia, poi la ex Cirielli con il taglio dei termini della prescrizione. E siamo alla legge ad personam per eccellenza, quella per alleggerire il falso in bilancio. È una legge propedeutica alla corruzione, favorisce la creazione di fondi neri». E la sinistra? Ha commesso errori? «Dal mio punto di vista la sinistra poteva fare di più, nel Paese e in Parlamento, per la difesa della legalità. Penso che qualche volta abbia rinunciato a dare battaglia, si è adeguata per comodità, per evitare tensioni. Negli ultimi vent’anni le due brevi stagioni dei governi Prodi non hanno lasciato alla sinistra la possibilità di incidere su questi temi».
Qual è oggi la priorità del Paese?
«La legalità. Dobbiamo essere crudeli con noi stessi: il Paese ha rifiutato la legalità. Anche oggi chi pratica la corruzione, chi evade le tasse non è considerato come un ladro che danneggia l’intera collettività. Eppure la corruzione vale 60 miliardi di euro e secondo la Banca d’Italia pregiudica la possibilità di investire, di creare sviluppo, occupazione. È una battaglia politica e culturale, bisogna ripartire dal basso, dalla scuola, insegnare e difendere il valore della legalità».
La cronaca offre i casi di parlamentari che abusano ancora di denaro pubblico o che guadagnano milioni su mediazioni immobiliari. Che impressione ricava da questi fatti? «Un’impressione terribile. Il politico che ruba soldi pubblici va subito emarginato, denunciato. Senza esitazione, senza timidezze».
Com’è la sua esperienza di parlamentare?
«Non sono molto a mio agio. Conduco le mie battaglie, faccio proposte, ma c’è un grosso problema, inutile nasconderlo. Il sistema maggioritario, questa legge elettorale limitano la democrazia. Il deputato sa che sarà rieletto solo se si comporterà bene con i suoi dirigenti»

L’Unità 12.02.12

Scarica l’inserto “Vent’anni di mani pulite”

“Mani Pulite? Il Paese perse la grande occasione per battere la corruzione”, intervista a Gerardo D’Ambrosio di Rinaldo Gianola

La realtà «Dobbiamo essere crudeli con noi stessi: la cultura della legalità fatica a farsi strada, bisogna ripartire dal basso, dalla scuola». Le campagne di delegittimazione della magistratura favoriscono il degrado etico e politico. Abbiamo perso una grandissima occasione». Vent’anni dopo Mani Pulite le amare parole di Gerardo D’Ambrosio, per una vita magistrato a Milano indagando da Piazza Fontana a Tangentopoli e oggi senatore Pd, raccontano la delusione per il fallimento di una stagione che avrebbe potuto cambiare profondamente il Paese.
Dottor D’Ambrosio, che cosa abbiamo perso?
«Abbiamo smarrito l’occasione di sconfiggere la corruzione, il cancro che avvelena la politica e l’ economia. Siamo ancora qui a invocare la cultura della legalità, altrimenti non c’è possibilità di risanamento, di rinascita, di sviluppo». Vent’anni fa, invece, la speranza di cambiare c’era davvero?
«Sì. Mani Pulite raccolse un consenso enorme nell’opinione pubblica perchè le nostre inchieste svelavano quanto fosse grave e profonda la questione morale. Spadolini e Berlinguer avevano già denunciato il degrado dei partiti, la gestione corrotta della cosa pubblica. Ma nel 1992 l’Italia comprese come la corruzione stava distruggendo l’economia. Avevamo un debito pubblico enorme, pari al 120% del Pil, eravamo in condizioni terribili, simili a quelle di oggi, con Giuliano Amato costretto ad adottare misure straordinarie».
Qual era la malattia della Prima Repubblica?
«La corsa al finanziamento illecito da parte dei partiti era massiccia, sfuggiva a qualsiasi valutazione. La corruzione si era infiltrata nella burocrazia, nell’amministrazione, i partiti decidevano chi doveva vincere gli appalti. I corrotti facevano carriera, gli onesti no».
Come reagirono i cittadini?
«All’inizio l’inchiesta ebbe un grande successo. L’opinione pubblica rimase indignata dallo sperpero di denaro pubblico. Il potere politico non reagì, anzi in molti approvarono la nostra azione e forse ci illudemmo che la classe politica avrebbe cercato di cambiare, di emarginare i corrotti, di avviare il rinnovamento. Ma non successe nulla». Perchè?
«Il clima cambiò presto, soprattutto tra i partiti. Ci fu un episodio che segnò questo passaggio. Per errore la Guardia di Finanza si presentò alla Camera per chiedere i bilanci che avrebbe potuto acquisire dalla Gazzetta Ufficiale. Fu un chiaro incidente, un equivoco, noi chiedemmo subito scusa, ma la frittata era stata fatta. Il fatto scatenò la prima forte reazione della politica contro la magistratura. Da quel momento partì una campagna di delegittimazione dei giudici che, per la verità, non si è più spenta. Iniziarono a piovere le accuse contro la Procura di Milano. Secondo alcuni facevamo troppi arresti, ma tutti i nostri provvedimenti erano accettati e firmati dal Gip. Noi perseguivamo i responsabili di gravi reati».
Le Istituzioni compresero la gravità degli episodi che emergevano da Mani Pulite?
«Il presidente Scalfaro intervenne per raccomandare che venissero allontanati dalla politica tutti coloro che erano implicati nelle inchieste. Poi ci fu il tentativo di mettere tutto a tacere, con il pacchetto Conso che venne ritirato per la nostra reazione, ma l’obiettivo era chiaro. Successe di peggio, dopo la vittoria elettorale di Forza Italia, con il decreto Biondi che voleva scarcerare gli imputati di corruzione e concussione e di fatto impedire che si perseguissero i corrotti». Voi giudici di Mani Pulite siete stati accusati di aver avuto un occhio di riguardo per la sinistra. Anche Carlo De Benedetti, recentemente, ha detto che l’inchiesta salvò i comunisti… «Pensi che nella mia carriera di magistrato sono stato accusato di essere fascista, comunista e persino di aver protetto l’ingegner De Benedetti… Non scherziamo, sono tutte balle. Le parole di De Benedetti sono gravi perchè puntano a delegittimare la magistratura. Esponenti di rilievo del Pci finirono in carcere, le inchieste andarono avanti senza riguardo per nessuno. Magistrati come Davigo e Di Pietro, poi, non potevano nemmeno essere sospettati di essere di sinistra».
Perchè Mani Pulite a un certo punto smarrì la sua forza propulsiva? «Questo, forse, è il capolavoro di Silvio Berlusconi. Se la ricorda Retequattro? Trasmetteva in diretta da palazzo di Giustizia, con Paolo Brosio che elencava gli arresti tra gli applausi dei passanti. Forza Italia vince le elezioni del 1994 sull’onda dell’antipolitica, contro i partiti che rubano. La mistificazione mediatica e politica fu enorme perchè il creatore, il leader di Forza Italia era indagato e imputato. E quando Berlusconi arriva al governo le sue misure sono coerenti con le sue responsabilità e mirano a frenare l’azione della magistratura. Ho ricordato il decreto Biondi. Quindi c’è il tentativo di cambiare il codice di procedura penale annullando le confessioni rese al pm o alla polizia, poi la ex Cirielli con il taglio dei termini della prescrizione. E siamo alla legge ad personam per eccellenza, quella per alleggerire il falso in bilancio. È una legge propedeutica alla corruzione, favorisce la creazione di fondi neri». E la sinistra? Ha commesso errori? «Dal mio punto di vista la sinistra poteva fare di più, nel Paese e in Parlamento, per la difesa della legalità. Penso che qualche volta abbia rinunciato a dare battaglia, si è adeguata per comodità, per evitare tensioni. Negli ultimi vent’anni le due brevi stagioni dei governi Prodi non hanno lasciato alla sinistra la possibilità di incidere su questi temi».
Qual è oggi la priorità del Paese?
«La legalità. Dobbiamo essere crudeli con noi stessi: il Paese ha rifiutato la legalità. Anche oggi chi pratica la corruzione, chi evade le tasse non è considerato come un ladro che danneggia l’intera collettività. Eppure la corruzione vale 60 miliardi di euro e secondo la Banca d’Italia pregiudica la possibilità di investire, di creare sviluppo, occupazione. È una battaglia politica e culturale, bisogna ripartire dal basso, dalla scuola, insegnare e difendere il valore della legalità».
La cronaca offre i casi di parlamentari che abusano ancora di denaro pubblico o che guadagnano milioni su mediazioni immobiliari. Che impressione ricava da questi fatti? «Un’impressione terribile. Il politico che ruba soldi pubblici va subito emarginato, denunciato. Senza esitazione, senza timidezze».
Com’è la sua esperienza di parlamentare?
«Non sono molto a mio agio. Conduco le mie battaglie, faccio proposte, ma c’è un grosso problema, inutile nasconderlo. Il sistema maggioritario, questa legge elettorale limitano la democrazia. Il deputato sa che sarà rieletto solo se si comporterà bene con i suoi dirigenti»

L’Unità 12.02.12

Scarica l’inserto “Vent’anni di mani pulite”