Libreria Minerva, via San Nicolò, 20
Saranno presenti Ettore Rosato, Roberto Cosolini segretario Federazione prov.le di Ts e Franco
Codega, coordinatore del Gruppo Scuola del Pd di Ts.
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«Quando restò fuori il Pd», di Toni Jop
Presto, presto: serve un volontario per spiegare a quelli del centrosinistra di Monteporzio Catone che l’Italia non ce l’ha con loro e che non sono cittadini di serie B. Auguri al volontario, ne avrà bisogno perché dovrà battersi con una realtà molto dura che lo Stato non ha provato a rimediare. Storia fantastica, meglio ascoltarla dai diretti interessati con un paio di premesse: il centrosinistra è assente dal consiglio comunale di un comune – alle porte di Roma, novemila abitanti circa – in cui era e con ogni probabilità è ancora generosa maggioranza. Nello stesso consiglio, solo rappresentanti del centrodestra, a cominciare dal sindaco che ha vinto le elezioni senza antagonisti.
Cosa è successo? «Semplice – racconta l’ex sindaco di centrosinistra Roberto Buglia, leader di una coalizione rosso, verde e bianca – per un errore, abbiamo presentato le liste con un paio di timbri in meno e siamo stati esclusi dalla competizione elettorale, colpa nostra». E i ricorsi? «Aahh, in ventiquattr’ore abbiamo regolarizzato la nostra posizione – spiega – timbri e firme, rifatte tutte di sana pianta, per far capire che non erano bollicine occasionali ma impegni seri; la commissione mandamentale ci ha risposto picche. Siamo andati al Tar e sa cosa ci hanno detto? Ci han spiegato che le questioni elettorali si affrontano dopo le elezioni, situazione tragica».
Ecco cosa accade quando non si hanno santi in paradiso, ma la stoffa dei concorrenti si riconosce esattamente nella tragedia e nel trionfo, quindi vediamo: come hanno reagito quelli del centrodestra? «Benissimo – ricorda con rabbia Fabio Bartoli, ex capogruppo Pd in Consiglio – hanno sostenuto che sbagliando avevamo dimostrato di essere incapaci e quindi indegni di governare il comune, non ricordo parole di solidarietà e nemmeno di comprensione, neppure ricordo lamenti a proposito del fatto che così le elezioni sarebbero state davvero poco democratiche. Tenete presente che il centrosinistra ha governato bene Monteporzio per 15 anni e che la gente pensa generalmente bene di noi».
E quegli sciagurati che si erano dimenticati i timbri che hanno fatto? «Non abbiamo gridato al complotto, – è sempre Bartoli che parla – ci siamo limitati a convocare una manifestazione cittadina in piazza, lì abbiamo raccontato quel che era accaduto e abbiamo chiesto scusa alla gente, che dovevamo fare? Le regole son le regole, o almeno ci pareva». Desideri? «Che l’attuale sindaco di centrodestra si dimetta in coerenza con quel che hanno detto fin qui e in analoga circostanza i suoi leader nazionali. Comunque, speriamo nel giudizio del Tar che dovrà esprimersi il 25 di questo mese». Qualcosa ci dice che il Tar non dovrebbe dar torto ai ricorrenti, ma quel che è successo è, alla luce del caso nazionale, profondamente ingiusto, qualcuno pagherà per questo?
Intanto, il centrosinistra di Monteporzio Catone ha convocato per domenica 14 una grande manifestazione in difesa della democrazia, gli argomenti li hanno. Ma non sono i soli. D’Alema ha ieri ricordato un caso trentino recente quando alle elezioni non era stata ammessa l’Udc per un vizio di forma. «C’è una doppia regola – ha sottolineato D’Alema – perchè i partiti di governo non vogliono che si applichino a loro le regole democratiche e sono pronti a sovvertirle attraverso trucchi, e questo è inaccettabile». D’Alema giudica il pasticcio di oggi «un atto senza precedenti, un insulto a tutti i cittadini italiani». Un feeling molto diffuso e molto visibile on line: il popolo di internet, da Facebook a Twitter, è in queste ore un coro ininterrotto di indignati per una giustizia palesemente tradita. Si invoca la piazza, si invoca il voto. E non mancano i richiami a Napolitano: la sua scelta, tragedia nella tragedia, non è stata compresa.
da www.unita.it
«La nostalgia dei vecchi partiti», di Ilvo Diamanti
Rimpianto per qualcosa che non c’è più, a causa del confronto con quello che c’è. Il dopo sarà diverso da entrambi.
Non sappiamo come finiranno le prossime elezioni regionali. Sappiamo, però, che sono cominciate malissimo. E, prima ancora del voto, conosciamo già il nome degli sconfitti. I partiti. Nelle democrazie occidentali, compresa l´Italia, sono gli attori politici attraverso cui si è realizzata la democrazia rappresentativa. Anche dopo che la politica si è personalizzata e mediatizzata.
Perché i partiti organizzano e orientano l´azione degli eletti nelle istituzioni rappresentative. Perché, prima ancora, partecipano alle elezioni, presentano liste e selezionano i candidati. Lo stesso Berlusconi, per entrare in politica, ha dovuto fondare un partito personale. E lo ha allargato, nel 2007, annettendo An a Fi. Per inseguire il centrosinistra, dove, dopo dieci anni e oltre di esperimenti e discussioni, i Ds e la Margherita si erano alfine riuniti nel Pd.
Un progetto ancora incerto, come abbiamo già scritto nelle settimane scorse. Il Pd. Un partito senza fissa dimora. Incapace di imporre e perfino proporre candidati propri in regioni importanti, come la Puglia e il Lazio (senza nulla eccepire sulla qualità di Vendola e della Bonino. Anzi). Incapace di indicare e affermare una strategia comune di alleanze. Tuttavia il Pdl, il primo partito per consensi elettorali e per peso parlamentare, ha fatto molto peggio.
Non era facile, ma ci è riuscito. Si è dimostrato un non-partito. O, almeno, un partito con-fuso. Frutto di una fusione incompiuta e mal riuscita. Fi e An: continuano ad agire come corpi separati. Tra loro e al loro interno. Al punto che nel Nord la Lega – l´unico partito vero – ha imposto i propri candidati in due regioni importanti: Piemonte e Veneto. Quest´ultima: una roccaforte. Mentre in Lombardia si è auto-imposto Formigoni. Leader non del Pdl, ma del mondo cattolico che si riferisce a Cl e alla Compagnia delle Opere. Altrove, come in Puglia e in Campania, il Pdl ha stentato a trovare candidature valide. Al punto da non riuscire a rispettare termini e regole di presentazione delle liste. Non per colpa del Pd, dei comunisti, dei magistrati. Di Repubblica. O di Santoro, Di Pietro, Grillo, Pannella. Ma per colpa esclusivamente propria. Dell´organizzazione precaria che lo caratterizza alla base. Dei conflitti tra frazioni e fazioni. Personali, locali e di interesse. A Roma, nel Lazio, in Lombardia (nonostante le differenze significative tra i casi). Il partito che governa l´Italia, in questa occasione, si è mostrato approssimativo, povero di professionalità e professionismo. Oltre ogni attesa.
Così non sorprende – e come potrebbe ? – l´ostilità che oggi avvolge, come una nebbia densa, i partiti. Guardati con fiducia da meno dell´8% degli italiani (Atlante politico di Demos, febbraio 2010). Insomma: peggio delle banche e della borsa. Si tratta, peraltro, del dato più basso degli ultimi 10 anni, durante i quali non hanno mai goduto di grande popolarità.
I partiti a cui si riferiscono gli italiani, va precisato, sono quelli odierni. Tanto deprecati e deprecabili, agli occhi dei cittadini, da far loro rivalutare il passato. Il 45% degli italiani, infatti, considera gli attuali partiti peggiori di quelli della prima Repubblica. Solo il 20% – meno della metà – migliori. Il giudizio più positivo sui partiti di oggi è espresso dal centrodestra e in primo luogo dagli elettori del Pdl. Curiosamente, visto che proprio il Pdl ha esercitato, da qualche anno, un´opera di rivalutazione della prima Repubblica. Parallela alla svalutazione di Tangentopoli. Definita un complotto ai danni delle classi e dei partiti di governo, per favorire la sinistra. L´elogio dei partiti della seconda Repubblica espresso dagli elettori del Pdl – e della Lega – suona, per questo, come un auto-riconoscimento. E serve a rammentare come proprio loro siano stati i maggiori beneficiari del vuoto politico prodotto da Tangentopoli.
La rivalutazione dei partiti della prima Repubblica appare molto estesa. A destra come a sinistra. Il 45% degli italiani, oggi, giudica positivamente la Dc, il 35% il Pci, il 32% il Psi. L´apprezzamento nei loro confronti si è rafforzato sensibilmente negli ultimi 5 anni: di circa il 9 punti percentuali verso la Dc e il Psi; di quasi il 4 verso il Pci. Probabilmente, anzi: sicuramente, i partiti maggiori della prima Repubblica sono più apprezzati oggi che al loro tempo. Quando esistevano veramente.
D´altronde, gli italiani hanno sempre votato – in larga misura – «contro» prima ancora che «per». Un popolo di «anti»: comunisti, capitalisti, clericali. Però mai, come oggi, il sentimento antipolitico e partitico degli italiani era apparso tanto sviluppato ed esteso. In modo così generalizzato. Al punto da suscitare un´onda impetuosa di rimpianto verso un passato fino a ieri deprecato. Naturalmente, più che per merito dei partiti di un tempo è per colpa di quelli che li hanno sostituiti. Di cui il Pdl costituisce l´idealtipo. E Forza Italia il riferimento esemplare. Il modello inventato da Berlusconi e imitato da tutti. Oggi suscita delusione. E nostalgia. In senso etimologico: «malattia del ritorno». Evocazione dolorosa di un passato idealizzato, a causa delle ombre del presente. Per citare Odon Vallet: «la nostalgia è l´oppio dei vecchi». Per questo è tanto diffusa, oggi. Soprattutto fra i più vecchi. In questo paese di vecchi, dove la seconda Repubblica è invecchiata da tempo, insieme ai partiti – sedicenti – nuovi che l´hanno guidata. Insieme alla nostra democrazia. Insieme a noi, che siamo invecchiati attraversando entrambe le repubbliche, senza trovare un approdo sereno.
da La Repubblica
«Scuola, si tace su uno scandalo», del Coordinamento precari di Modena
Gentile direttore,
le scriviamo in relazione all’articolo in cui il dirigente scolastico provinciale Gino Malaguti “tesse le lodi” della riforma delle scuole superiori.
Abbiamo sentito il dovere di replicare, perché il quadro della “scuola che verrà” da lui delineato ribalta la realtà e nasconde il drammatico futuro che attende gli studenti e i lavoratori della scuola.
Non esiste alcun progetto autentico di riforma, ma solo provvedimenti esecutivi per il contenimento della spesa: il taglio dei finanziamenti alla scuola pubblica per un totale di 7 miliardi e 832 milioni di euro nel quadriennio 2009/12; l’aumento del numero di alunni per classe; pesanti tagli agli organici dei docenti e del personale Ata; il ridimensionamento, la chiusura e l’accorpamento degli istituti scolastici; tagli e accorpamenti delle classi di concorso; la riduzione dei piani di studio e dei quadri orari.
Ecco perché “la riforma” in realtà altro non è che una drastica riduzione delle ore, delle discipline e delle attività di laboratorio. Non è previsto alcun investimento, ma solo risparmi… Viene taciuto l’aumento del rapporto alunni/classe: dal prossimo anno dovranno esserci dai 25 ai 33 alunni per classe, con conseguenze immaginabili sulla didattica…
“La scuola che verrà” abolisce l’ultimo anno dell’obbligo di istruzione negli istituti professionali, permettendo agli studenti di sostituirlo con l’apprendistato. Un sostanziale arretramento che ci allontana ancora di più dall’Europa, dove è invece l’innalzamento dell’obbligo a 18 anni ad essere all’ordine del giorno.
La campagna di disinformazione che il governo sta portando avanti, con la complicità di un’opposizione silenziosa, è davvero scandalosa. E’ quantomeno anomalo che tali svolte “epocali” vengano concepite in segreto e maturino in assenza di un dialogo con le parti direttamente coinvolte: gli studenti e i loro docenti. Sul web sono stati oscurati tutti i i link intitolati “Conosci e commenta la riforma”. Un atto che la Gelmini ha compiuto senza alcun preavviso e senza alcuna motivazione. Questa è la scuola che troveranno a settembre i nostri figli, a meno che non si abbia la possibilità di iscriverli in istituti privati, sempre meglio foraggiati dallo Stato. Decine di migliaia di insegnanti e lavoratori della scuola condannati dalla riforma a lasciare le loro cattedre, aspettano a braccia conserte di essere cancellati dalla pubblica istruzione come segni di gesso sulla lavagna.
da La Gazzetta di Modena
«Cala il consenso per il governo», di Renato Mannheimer
Prosegue la diminuzione di popolarità: 39 per cento. Crollo tra chi vota Lega
Come in molti avevano previsto, le convulse vicende di questi giorni riguardo alla presentazione delle liste per le regionali, hanno finito con l’influire negativamente sul grado di popolarità del Governo. Facendolo ulteriormente calare — dopo la diminuzione già rilevata il mese scorso— di altri 4 punti. E assestando l’indice di consenso poco sotto il 39%, quando, a dicembre scorso, subito dopo l’aggressione al Cavaliere in Piazza del Duomo a Milano, esso aveva superato il 50%. Siamo giunti dunque ad uno dei livelli più bassi mai registrati per l’esecutivo guidato da Silvio Berlusconi. Il calo più consistente di popolarità non si è manifestato tra gli elettori di centrosinistra (ove, ovviamente, i giudizi positivi sul Governo sono già molto bassi e non possono decrescere più di tanto), ma, specialmente nel cuore dei segmenti che tradizionalmente sostengono la coalizione del centrodestra. In particolare, tra gli stessi elettori del Pdl la quota di chi esprime un’opinione positiva sull’ operato del Governo è scesa dal 93% di inizio febbraio al 76% di inizio marzo, con una diminuzione del 17%.
IL CROLLO FRA I LEGHISTI – Tra i votanti per la Lega il calo è ancora più sensibile: dall’83% del mese scorso al 57% di oggi. Ciò significa che circa un elettore del Carroccio su quattro ha in qualche misura maturato in quest’ultimo periodo una qualche delusione nei confronti dell’esecutivo sostenuto dal suo partito. Non a caso, dal punto di vista territoriale, la zona che maggiormente manifesta una crescita di sfiducia è il nord est, una delle roccaforti del partito del Premier e della Lega. Gli strati sociali che più si sono allontanati dal sostegno al Governo sono quelli cui sin qui quest’ultimo si è maggiormente appoggiato: le casalinghe (-13% di valutazioni positive), gli imprenditori e i lavoratori autonomi. Ma anche nel settore cruciale degli indecisi—l’ambito da convincere in vista delle prossime elezioni regionali — il decremento di consenso è significativo e pari a circa il 10%. A questo andamento negativo ha certo contribuito moltissimo l’immagine di «pasticcione» e di approssimativo offerta dal Pdl nella vicenda delle firme da sottoporre per l’ammissione alle elezioni amministrative. Ma questo triste episodio non ne è l’unica causa. Come sempre accade, il formarsi delle opinioni non è determinato da un solo motivo, ma dal sedimentarsi progressivo delle impressioni ricavate nel tempo da più episodi e accadimenti.
GLI SCANDALI – Così, hanno certo «contato» nel trend sfavorevole al Governo gli scandali e le vicende delle ultime settimane, che hanno visto coinvolti esponenti del PDL o comunque legati alla maggioranza. Ancora, può aver avuto un effetto sul calo di popolarità del Governo, il dissenso verso alcune decisioni che sono apparse comunque legate a quest’ultimo. Ad esempio, il divieto imposto dalla Rai (con il voto dei consiglieri di maggioranza, perlopiù espressione dei partiti di centrodestra) alla messa in onda dei talk show più importanti sino alla data delle elezioni ha incontrato una forte disapprovazione nella popolazione. Quasi il 60% degli italiani dichiara di non condividere questa decisione: il dissenso è ovviamente maggiore tra gli elettori del centrosinistra, ma si trova in dimensione cospicua anche nel seguito del centrodestra, ove grossomodo il 40% esprime la propria contrarietà al provvedimento. Nell’insieme, il clima di opinione appare dunque sempre più negativo per l’esecutivo. Senza che, però, l’opposizione ne guadagni più di tanto in termini di popolarità. Ciò che emerge prevalentemente è, come già si è avuto modo di sottolineare, un clima di sfiducia generalizzato verso la politica e le sue istituzioni. È l’intero sistema che appare sempre più fragile e messo sotto accusa da strati crescenti di cittadini. Ciò potrà avere un effetto nel comportamento di voto alle prossime elezioni. Non solo con il possibile calo di consensi per il Pdl, anticipato peraltro dai sondaggi più recenti, ma, forse, con un incremento delle astensioni.
da.www.corriere.it
"Se la pagella diventa a pagamento", di Falvia Amabile
Angelo abita a Torre Annunziata, è disoccupato, soldi in tasca ne capitano pochi. Quest’anno la sua scuola, il secondo circolo didattico Giancarlo Siani, gli ha rifiutato l’iscrizione dei tre figli mandandogli i bollettini di quello che, in genere, viene definito «contributo scolastico», una cifra che gli istituti chiedono a titolo volontario alle famiglie per aiutarli a far quadrare i conti, ma che invece da un po’ di tempo si sta trasformando in un obbligo a cui non tutti vogliono sottostare. Angelo non aveva pagato lo scorso anno.
E così l’istituto voleva fargli capire qual era il suo dovere. E’ bastato minacciare una denuncia per far iscrivere i bambini. Da quando il ministero ha chiuso i cordoni della borsa, sono sempre di più le scuole a chiedere aiuto alle famiglie. «Siamo di fronte a un vero e proprio abuso», denuncia Daniele Grassucci, direttore di Skuola.net, portale fra i più seguiti sui temi della scuola. E, quindi, ha deciso di fare un’inchiesta. In pochi mesi si sono fatte avanti almeno una sessantina di persone, sparse in tutt’Italia, a raccontare vicende tutte più o meno simili.
Una di loro ha davvero fatto partire la querela contro il dirigente scolastico della sua scuola, il liceo scientifico Cassini di Genova. Lo accusa di concussione e omissione di atti d’ufficio, dopo che per il secondo anno di seguito non ha avuto la pagella della figlia che ora ha 16 anni. «Voglio combattere una battaglia in nome di tutti i genitori d’Italia», spiega. Massimo Angelini, il dirigente, si è detto tranquillo: «Ho soltanto fatto il mio dovere. Lo rifarei».
I casi di scuole un po’ prepotenti sono davvero tanti anche se da un punto di vista legale non sembrano esserci dubbi. C’è l’articolo 34 della Costituzione a sancire che l’istruzione è obbligatoria e gratuita per otto anni. Esiste una circolare del ministero dell’Istruzione a ricordare che le iscrizioni ad anni diversi dal primo sono automatiche. E c’è anche l’Ufficio Scolastico Regionale dell’Emilia Romagna, che di fronte al caos generale, cinque anni fa decise di intervenire con un documento per spiegare che il contributo è volontario. Ma le casse sono vuote. Mentre il ministero preferisce non esporsi, alcune scuole ne approfittano. «Da anni va avanti questo abuso. Tutti sanno, qualcuno denuncia, eppure il Ministero non è mai intervenuto», racconta Daniele Grassucci.
E quindi si viene a sapere che al tecnico per geometri «Giorgio Ambrosoli» di Roma da un anno all’altro il contributo volontario è passato da 120 a 200 euro l’anno, un aumento secco del 60%. Tanti hanno pagato, una mamma si è rifiutata. Il figlio non ha avuto il pagellino del primo trimestre. E al secondo trimestre ha avuto la pagella solo dopo essere andata in segreteria a chiedere una dichiarazione scritta della scuola su quello che stava accadendo. All’istituto professionale «Pietro Verri» di Busto Arsizio, invece, il coraggio di mettere nero su bianco le loro condizioni l’hanno avuto. In una lettera indirizzata alle famiglie il 16 febbraio scorso hanno inserito fra le tasse scolastiche anche il contributo volontario e specificando che senza il pagamento «non sarà più rilasciata alcun tipo di documentazione (certificato d’iscrizione e frequenza, di voti, diploma, etc.)».
La Stampa 07.03.10
Sì alle regole, no ai trucchi. Sabato in piazza a Roma
Il PD annuncia la manifestazione con le altre forze di centrosinistra (SCARICA IL MANIFESTO) e l’ostruzionismo in Parlamento. Bersani: “La responsabilità è del Governo, non si attacchi il Quirinale”. I commenti del PD sul decreto. Dopo le leggi ad personam per tutelare interessi privati del premier, ecco che si fanno le leggi su misura per le liste regionali del Pdl per sanare i pasticci provocati dai loro dirigenti locali.
Il trucco c’è e si vede. E il Quirinale non c’entra: “Lasciamo fuori il Presidente Napolitano. Non è il suo mestiere entrare nel merito dei decreti. Il governo ha la responsabilità di questo decreto. E’ a lui che bisogna rivolgersi” ha affermato Pier Luigi Bersani, a Genova per l’apertura dalla campagna elettorale.
Per questo i partiti di centrosinistra dopo le iniziative di oggi a Roma, Milano, Torino annunciano per sabato prossimo una manifestazione nazionale a Roma,(SCARICA IL MANIFESTO) mentre i capigruppo del PD al Senato e alla Camera annunciano l’ostruzionismo su tutti i provvedimenti governativi.
Il segretario del Partito Democratico, Pier Luigi Bersani, nel primo pomeriggio annuncia la convocazione per domenica sera alle 20.30 del coordinamento politico presso la sede del partito in via Sant’Andrea delle Fratte. Intervistato in Liguria prima dell’intervento di apertura della campagna elettorale per le regionali spiega come “a partire da oggi faremo una mobilitazione anche nelle sedi giurisdizionali, i Tar sono ancora aperti, faremo una mobilitazione mi auguro fino alla Corte Costituzionale”. Ma nessun ritiro dalla competizione elettorale da parte del centro sinistra, come viene chiesto sul web e su alcuni giornali “perché con l’Aventino non abbiamo mai risolto niente. Capisco la scossa e il turbamento, soprattutto nella situazione del Lazio perché la soluzione trovata è incredibile, tre volte incredibile. Detto questo, con l’Aventino non abbiamo mai risolto niente”.
Il decreto pubblicato in Gazzetta è un vero e proprio condono, un provvedimento che serve solo a occultare gli errori e le divisioni, a sanare il vero e proprio pasticcio combinato da una destra che pensa di vincere calpestando le regole. Contro il decreto il Pd e l’intero centrosinistra promuovono una manifestazione nazionale a Roma, che si svolgerà sabato prossimo nel pomeriggio. Contro la destra dei sotterfugi e degli imbrogli la parola d’ordine sarà: per vincere, sì alle regole, no ai trucchi.
Lo facciamo perché “il governo ha intera la responsabilità di aver consumato un ultima violazione delle regole democratiche – come ha dichiarato Rosy Bindi, presidente dell’Assemblea nazionale del Pd – si vogliono coprire le divisioni, i malumori, le inadeguatezze del centrodestra e si trucca la partita elettorale per vincere, costi quel che costi. Non accettiamo questa arroganza del potere che calpesta i principi della democrazia e mette a rischio i fondamenti della convivenza civile. Mobiliteremo tutti i democratici del Paese, e anche tra gli elettori del centrodestra sono tanti quelli che oggi sono le prime vittime di una classe dirigente di irresponsabili e di azzeccagarbugli. Il voto di marzo sarà anche l’occasione per far vedere che si sta allargando il divario tra il centrodestra e il sentire profondo degli italiani”.
Mentre in Parlamento sarà ostruzionismo su ogni provvedimento come annunciano in una lettera inviata dai presidenti dei Gruppi Pd di Senato e Camera , Anna Finocchiaro e Dario Franceschini a Schifani e Fini. Poche righe per annunciare la linea dura: “Signori Presidenti, è nostra opinione che il decreto legge ieri approvato dal Governo in materia elettorale rappresenti un gravissimo precedente nella storia repubblicana. È evidente che questo atto avrà immediate conseguenze sul nostro atteggiamento parlamentare. Abbiamo ritenuto doveroso informarVi preventivamente”.
Sarà il blocco dell’attività parlamentare. Primo passo alla Camera, l’iscrizione a parlare di numerosi deputati nella discussione sull’Agenzia per i beni sequestrati alla mafia in calendario lunedì. Stesso discorso per il voto finale sulla conversione del decreto sugli Enti locali, per non parlare dello stesso decreto interpretativo sulle regionali il cui iter prenderà il via proprio da Montecitorio. A finire sotto la “tagliola” del blocco del Pd, invece, al Senato sarà primo tra tutti il legittimo impedimento, atteso a palazzo Madama da martedì prossimo.
Di Pietro straparla di impeachmente, il PD è con Napolitano. Che risponde ai cittadini sul sito del Quirinale.
Il leader dell’Italia dei Valori Antonio Di Pietro chiede l’impeachment del capo dello Stato per aver firmato il provvedimento. Ma chi se la prende con il Presidente Napolitano per l’abuso di potere perpetrato dal Consiglio dei ministri di ieri sera per aggirare la normativa elettorale, sbaglia clamorosamente bersaglio, come ricorda il vicepresidente vicario del Parlamento europeo, Gianni Pittella: “Il Capo dello Stato non può impedire al Parlamento di legiferare o al governo di decretare, ma è chiamato a verificare il profilo di costituzionalità delle norme, non quello della scorrettezza e della protervia politica, altrimenti si macchierebbe dello stesso abuso dell’esecutivo”.
“Di fronte all’enorme gravità di questo decreto di esclusiva responsabilità della destra, la cosa più sbagliata che si possa fare è attaccare il capo dello Stato” dichiara l’ex segretario del PD, Walter Veltroni.
“La piena responsabilità politica è e rimane del governo – sottolinea Pittella – che sta utilizzando gli strumenti d’intervento in suo possesso ancora per cambiare le carte in tavola a suo favore e per sfuggire alle norme; questa volta stiamo assistendo a un imbroglio per coprire le conseguenze di faide interne e di comportamenti approssimativi nel Pdl della Lombardia e del Lazio che segnalano una ben più preoccupante incapacità di governare”.
David Sassoli, capo della delegazione Pd al Parlamento europeo nota come “Il Capo dello Stato ha spiegato bene le ragioni che lo hanno portato a firmare il decreto. Il governo invece non ha saputo far altro che entrare a piè pari nella competizione elettorale. Ha ragione Emma Bonino che chiede una grande riflessione sullo stato della democrazia nel nostro Paese. Ma ora la prima risposta deve essere quella di battere Berlusconi nel confronto elettorale nelle Regioni”.
Insomma il centrodestra ha mostrato ancora una volta di essere tanto arruffone quanto arrogante, battiamolo con l’arma del voto.
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Il presidente della Repubblica ha deciso di rendere note le ragioni della sua firma al decreto interpretativo varato ieri sera dal governo sul tema delle liste elettorali. Napolitano ha scelto di rispondere a due delle tante lettere di cittadini ricevute in queste ore, che pubblichiamo integralmente prima della risposta del Capo dello Stato.
«Signor Presidente della Repubblica, le chiedo di non firmare il decreto interpretativo proposto dal governo in quanto in un paese democratico le regole non possono essere cambiate in corso d’opera e a piacimento del governo, ma devono essere rispettate da tutte le componenti politiche e sociali per la loro importanza per la democrazia e la vita sociale dei cittadini italiani.
Confidando nella sua serenità e capacità di giudizio per il bene del Paese e nel suo alto rispetto per la nostra Costituzione. Cordiali saluti».
Alessandro Magni
«Signor Presidente Napolitano, sono a chiederle di fare tutto quello che lei può per lasciarci la possibilità di votare in Lombardia chi riteniamo che ci possa rappresentare. Se così non fosse, sarebbe un grave attentato al diritto di voto».
In fede
M. Cristina Varenna
La risposta di Napolitano:
«Egregio signor Magni, gentile signora Varenna, ho letto con attenzione le vostre lettere e desidero, vostro tramite, rispondere con sincera considerazione per tutte le opinioni dei tanti cittadini che in queste ore mi hanno scritto. Il problema da risolvere era, da qualche giorno, quello di garantire che si andasse dovunque alle elezioni regionali con la piena partecipazione dei diversi schieramenti politici.
Non era sostenibile che potessero non parteciparvi nella più grande regione italiana il candidato presidente e la lista del maggior partito politico di governo, per gli errori nella presentazione della lista contestati dall’ufficio competente costituito presso la corte d’appello di Milano. Erano in gioco due interessi o “beni” entrambi meritevoli di tutela: il rispetto delle norme e delle procedure previste dalla legge e il diritto dei cittadini di scegliere col voto tra programmi e schieramenti alternativi.
Non si può negare che si tratti di “beni” egualmente preziosi nel nostro Stato di diritto e democratico. Si era nei giorni scorsi espressa preoccupazione anche da parte dei maggiori esponenti dell’opposizione, che avevano dichiarato di non voler vincere – neppure in Lombardia – “per abbandono dell’avversario” o “a tavolino”. E si era anche da più parti parlato della necessità di una “soluzione politica”: senza peraltro chiarire in che senso ciò andasse inteso.
Una soluzione che fosse cioè “frutto di un accordo”, concordata tra maggioranza e opposizioni? Ora sarebbe stato certamente opportuno ricercare un tale accordo, andandosi al di là delle polemiche su errori e responsabilità dei presentatori delle liste non ammesse e sui fondamenti delle decisioni prese dagli uffici elettorali pronunciatisi in materia. In realtà, sappiamo quanto risultino difficili accordi tra governo, maggioranza e opposizioni anche in casi particolarmente delicati come questo e ancor più in clima elettorale: difficili per tendenze all’autosufficienza e scelte unilaterali da una parte, e per diffidenze di fondo e indisponibilità dall’altra parte.
Ma in ogni caso – questo è il punto che mi preme sottolineare – la “soluzione politica”, ovvero l’intesa tra gli schieramenti politici, avrebbe pur sempre dovuto tradursi in soluzione normativa, in un provvedimento legislativo che intervenisse tempestivamente per consentire lo svolgimento delle elezioni regionali con la piena partecipazione dei principali contendenti. E i tempi si erano a tal punto ristretti – dopo i già intervenuti pronunciamenti delle Corti di appello di Roma e Milano – che quel provvedimento non poteva che essere un decreto legge.
Diversamente dalla bozza di decreto prospettatami dal Governo in un teso incontro giovedì sera, il testo successivamente elaborato dal Ministero dell’interno e dalla Presidenza del consiglio dei ministri non ha presentato a mio avviso evidenti vizi di incostituzionalità. Né si è indicata da nessuna parte politica quale altra soluzione – comunque inevitabilmente legislativa – potesse essere ancora più esente da vizi e dubbi di quella natura.
La vicenda è stata molto spinosa, fonte di gravi contrasti e divisioni, e ha messo in evidenza l’acuirsi non solo di tensioni politiche, ma di serie tensioni istituzionali. E’ bene che tutti se ne rendano conto. Io sono deciso a tenere ferma una linea di indipendente e imparziale svolgimento del ruolo, e di rigoroso esercizio delle prerogative, che la Costituzione attribuisce al Presidente della Repubblica, nei limiti segnati dalla stessa Carta e in spirito di leale cooperazione istituzionale. Un effettivo senso di responsabilità dovrebbe consigliare a tutti i soggetti politici e istituzionali di non rivolgersi al Capo dello Stato con aspettative e pretese improprie, e a chi governa di rispettarne costantemente le funzioni e i poteri».
Cordialmente
Giorgio Napolitano
www.partitodemocratico.it
