Il riconoscimento delle capacità e delle competenze è fondamentale perché le persone possano ritrovare il rispetto di sé e degli altri, un sentimento che tende a scomparire. Il vecchio capitalismo burocratico funzionava sul modello delle forze armate, con organizzazioni piramidali e gerarchie molto rigide. Dopo il 1968 il capitalismo è cambiato e le organizzazioni si sono trasformate per diventare più fluide, più instabili, più a breve termine. Non era esattamente ciò che avevano auspicato coloro che manifestarono negli anni Sessanta, ma questo ne è stato in ogni caso l´esito, che ha disinnescato una parte delle contestazioni, nello specifico a sinistra. Però questo nuovo capitalismo – come ha dimostrato la crisi – non pone meno problemi del modello precedente, contro il quale la mia generazione si era ribellata.
Questo capitalismo fluido ha portato allo sviluppo di un modo di lavorare senza tener conto della qualità. La carriera è scomparsa, sostituita da una traiettoria evanescente, frammentaria, che rende difficile per i dipendenti definire con precisione la propria identità. Diventa oltretutto sempre più complicato descrivere la propria professione. La scomparsa del concetto di formazione a lungo termine e di sviluppo dei talenti ne è un ottimo esempio. Per comprenderlo è sufficiente osservare con attenzione la crisi dell´industria dell´automobile negli Stati Uniti: si tratta di un settore nel quale gli operai hanno accumulato col passare degli anni grandi competenze. Ebbene: ci sono state moltissime discussioni politiche per comprendere in che modo salvare le aziende automobilistiche o a chi venderle, ma si è indagato pochissimo per capire in che modo utilizzare questi talenti, come valorizzare le competenze acquisite nelle altre sfere. L´idea dominante in rapporto agli operai è stata: tocca a loro togliersi dai pasticci, a costo di ripartire da zero. Il valore del lavoro in sé è scomparso, a vantaggio di un interesse esclusivo per ciò che quel lavoro può far guadagnare immediatamente. Per i lavoratori stipendiati, è estremamente destabilizzante, ma in definitiva lo è anche per le aziende stesse.
Tutto ciò ha comportato rilevanti effetti psicologici. Coloro che hanno un posto di lavoro sono spesso messi di fronte a una perdita di significato, che conduce al disimpegno, al disinvestimento. Per coloro che invece hanno perduto il posto di lavoro, le conseguenze sociali e personali sono tanto più importanti se nella costruzione della loro identità quel posto di lavoro così fragile è diventato ancora più centrale e cruciale rispetto a prima.
Ho condotto uno studio sui lavoratori di Wall Street che hanno perso il proprio posto di lavoro durante la crisi: la loro autostima ne è uscita gravemente danneggiata, e questo provoca serie difficoltà, quali depressione e divorzi. Le persone coinvolte hanno l´impressione di non essere state all´altezza, mentre di fatto sono state travolte da un evento ben più grande di loro. Molti cercano di consolarsi pensando che con la ripresa si potrà ripartire come prima. Questa ripresa, però, non creerà molti posti di lavoro e il disagio rischia di diventare permanente. Come uscire da questa situazione? Ovviamente ripristinare il vecchio capitalismo burocratico non è la soluzione giusta. La sfida consiste nell´arrivare a mettere in atto un sistema che permetta all´individuo di definirsi attraverso le proprie evoluzioni professionali, in una società nella quale le competenze hanno la tendenza a diventare obsolete assai rapidamente. Occorre aiutare l´individuo a ritrovare il rispetto di sé e degli altri, quel sentimento che è scomparso e che per altro le politiche pubbliche fondate sulla compassione e sull´assistenza non sono riuscite a ristabilire. Ciò passa in particolare attraverso il riconoscimento del lavoro ben fatto.
Una delle soluzioni possibili potrebbe essere la riabilitazione del concetto di mestiere, sul principio dell´artigianato: valorizzare il significato del lavoro, piuttosto che la remunerazione che ci si può attendere da esso. Riabilitare il concetto di lavoro ben svolto per il semplice piacere di svolgerlo bene, indipendentemente dal concetto di performance o di retribuzione. Soltanto questo impegno disinteressato dà un significato alla vita. L´orgoglio per il lavoro eseguito permette inoltre di tessere all´interno dell´azienda dei rapporti sociali durevoli. E ciò è tanto più necessario se si considera che si lavora sempre più a lungo e si ha sempre meno tempo per allacciare rapporti disinteressati, dentro e fuori l´ambito lavorativo.
Latest Posts
La cig torna a correre: +12% a febbraio. Crescita del 123% rispetto al 2009
Dopo la frenata registrata a gennaio ripartono le richieste di cassa integrazione delle aziende all’Inps. Secondo i dati diffusi dall’Istituto di previdenza le ore di cassa integrazione autorizzate alle aziende nel mese sono state 95 milioni, in aumento del 12,4% rispetto a gennaio e del 123,5% rispetto a febbraio 2009.
L’Inps sottolinea che nei primi due mesi dell’anno l’aumento tendenziale è stato del 149,3% con 179,6 milioni di ore complessive a fronte di 72 dello stesso periodo del 2009. L’incremento è dovuto alla cassa integrazione straordinaria con 38 milioni di ore autorizzate e un aumento delle richieste del 28% rispetto a gennaio e del 196% rispetto a febbraio 2009.
La cassa integrazione ordinaria – sottolinea l’Inps – conferma invece a febbraio il decremento congiunturale con 37,4 milioni di ore e un -5,38% rispetto a gennaio (-9,32% per l’industria mentre l’edilizia segna un +28,04% congiunturale anche a causa dei fattori stagionali). La cassa straordinaria segna rispetto a gennaio un +28% mentre la cassa in deroga (da sola con 19,6 milioni di ore rappresenta circa un quinto di tutte le ore di cig autorizzata) segna un -1%.
Rispetto a febbraio 2009 la cassa integrazione ordinaria è cresciuta nello stesso mese del 2010 del 26,14% mentre la cig straordinaria vola a +245,9%. «Paradossalmente – sottolinea il presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua – siamo di fronte a due effetti positivi della rete di protezione sociale stesa la scorsa primavera con l’ordinarizzazione della cassa integrazione straordinaria, e con l’allargamento degli ammortizzatori sociali a soggetti che nel passato non ne avevano diritto, con l’uso diffuso della cassa integrazione in deroga». Questo nuovo ammortizzatore ormai – spiega – «vale stabilmente il 20% del totale delle ore autorizzate: più che dire che sono aumentate le richieste di cig, sarebbe corretto dire che sono aumentate le aziende che possono chiedere la cassa.
Per quanto riguarda la crescita della cassa integrazione straordinaria – continua Mastrapasqua – è lecito ritenere che si tratti dell’effetto di quella ordinarizzazione della cigs, che ha di fatto reso inutile la discussione sull’allungamento da 52 a 104 settimane dei tempi della cigo». Mastrapasqua sottolinea anche la «stagionalità» dell’aumento di febbraio: «anche lo scorso anno, all’inizio della crisi, febbraio segnò un incremento di richieste di cig, rispetto a gennaio – dice – riproducendo uno schema che, a valori assoluti molto diversi, si conferma negli ultimi cinque-sei anni, a febbraio le ore autorizzate di cig sono sempre più che in gennaio».
L’unità 06.03.10
"Lo Stato dovrà pagare più di 10 milioni di euro. Solo in 7 casi non viene applicata la prescrizione", di Massimo Calandri
Nella caserma di Bolzaneto, durante il G8 dell’estate 2001, i no-global furono picchiati, umiliati, sottoposti a “trattamenti inumani e degradanti”. Ci fu tortura, e gli imputati sono colpevoli. Generali della polizia penitenziaria, guardie carcerarie, ufficiali dell’Arma e militari, agenti e funzionari di polizia, persino quattro medici: questa sera la Corte d’appello del tribunale di Genova li ha condannati tutti e 44. A nove anni dai fatti la maggior parte dei reati è prescritta, ma i responsabili pagheranno comunque risarcendo le vittime delle violenze. E con loro metteranno mano al portafogli anche i ministeri di appartenenza (Giustizia, Interno, Difesa), che dovrebbero sborsare una cifra superiore ai dieci milioni di euro.
Sono state inflitte sette condanne a complessivi dieci anni di reclusione nei confronti di quattro guardie carcerarie responsabili di falso – reato non prescritto – , e di tre poliziotti che avevano rinunciato alla prescrizione. I sette imputati condannati sono: l’assistente capo della Polizia di stato Massimo Luigi Pigozzi (3 anni e 2 mesi), gli agenti di polizia penitenziaria Marcello Mulas e Michele Colucci Sabia (1 anno) e il medico Sonia Sciandra (2 anni e 2 mesi). Pene confermate a 1 anno per gli ispettori della Polizia di Stato Matilde Arecco, Mario Turco e Paolo Ubaldi.
“Sono stati accolti tutti i motivi del nostro appello e della procura generale”, hanno commentato soddisfatti i pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati. “Questa sentenza è due volte importante, perché fatti come quelli accaduti a Bolzaneto non dovranno ripetersi. Mai più”. Alla fine della lettura della sentenza un imputato presente in aula ha inveito contro i giudici – “Avete voluto condannare tutti e basta, senza fare distinzioni” – ed è stato allontanato.
La sentenza di primo grado è stata completamente ribaltata. Allora, nel luglio del 2008, erano state pronunciate 15 condanne e ben 30 assoluzioni. Il reato di “tortura”, non previsto dal nostro codice penale, era stato indirettamente riconosciuto con la condanna a 5 anni di reclusione di Biagio Antonio Gugliotta, sottufficiale della polizia penitenziaria. Dei “simbolici” 76 anni di prigione chiesti dalla procura ne era stato riconosciuto meno di un terzo.
I giudici si sono riuniti in camera di consiglio alle 9:40 di questa mattina. Per i 44 imputati autori delle violenze nella caserma di Bolzaneto avvenute nel luglio del 2001 a Genova durante il G8, la pubblica accusa aveva chiesto 36 prescrizioni e 8 condanne.
Immediata la presa di posizione del comitato “Verità e giustizia” che da anni segue le vicende del G8 di Genova. Il comitato ha chiesto la sospensione per tutti gli imputati: “Il messaggio dei giudici d’appello, con le 44 condanne per i maltrattamenti e le torture su decine di cittadini detenuti nella caserma-carcere di Bolzaneto nel luglio 2001, è chiarissimo e dev’essere colto immediatamente dalle istituzioni. Tutti i condannati nelle forze dell’ordine devono essere immediatamente sospesi dagli incarichi, in modo che non abbiano contatti diretti con i cittadini; gli Ordini professionali devono agire sui propri iscritti con la sospensione: non è più possibile restare nel terreno dell’ambiguità… Se buona parte delle pene è caduta in prescrizione è solo perché in Italia non ha una legge sulla tortura (reato che per la sua gravità non prevede prescrizione), nonostante l’Italia si sia impegnata oltre vent’anni fa ad approvarne una. Il Parlamento ora non ha più scuse: la sentenza di oggi dimostra che abbiamo assoluto bisogno di quella legge”.
La Repubblica 06.03.10
Il trucco. No al condono elettorale
Da Palazzo Chigi un decreto “ad listas” per Lazio e Lombardia: firme valide anche senza timbri, 24 ore di tempo per correggere gli errori e il Quirinale firma. Bersani attacca: “Usano il decreto interpretativo per aggiustare il loro pasticcio; ma il trucco c’è e si vede, è ridicolo”.
No al condono elettorale. Si al rispetto delle regole. Oggi pomeriggio saremo in tanti a Genova dove il Partito Democratico aprirà la campagna elettorale e dove tutti i democratici faranno sentire con forza le proprie ragioni contro un provvedimento che si può definire solo un trucco.” Il consiglio dei ministri ha approvato il decreto interpretativo per risolvere il pasticciaccio delle liste a sostegno di Renata Polverini e Roberto Formigoni rimaste escluse in vista delle prossime elezioni regionali. Per Palazzo Chigi basta arrivare nell’edificio dove hanno sede gli uffici dove presentare le liste entro l’ora di consegna e non all’ufficio elettorale! Un principio pe ril quale qualsiasi cittadino escluso d aun concorso o multato ora potrebbe chiedere la decretazione d’urgenza tanto che il segretario del PD Pier Luigi Bersani attacca: “C’è una parola in questo paese che bisogna affermare e ripristinare: si chiama regole. Se vogliono governare bene, altrimenti si riposino e vadano a casa perchè chi governa risponde per Paese e non per le regole di una lista. E’ evidente che si vuole arrivare comunque al risultato che gli serve per aggiustare il loro pasticcio, ma il trucco c’è e si vede, in alcuni casi fino al ridicolo. Non si deve entrare nell’ufficio competente, ma basta entrare nel palazzo grosso per far valere le firme…. Se decidono così potranno aspettarsi solo una nostra ferma opposizione”.
L’aiutino al TAR! – La nota di Palazzo Chigi (Berlusocni mand ain slaa stampa solo il minitrod ell’Interno, Roberto Maroni) afferma che il decreto “mira a consentire lo svolgimento regolare delle consultazioni elettorali regionali e a garantire coesione sociale”. Maroni, ha spiegato che non è stata effettuata alcuna modifica alla legge elettorale e che “non c’è stata alcuna riapertura dei termini: abbiamo dato un’interpretazione per consentire al Tar di dare applicazione alla legge in modo corretto”. Insomma hannos cambiato il tribunale amministrativo regionale per un telequiz, con la telefonata a casa.
Bersani prima che fosse noto il testo della vera e propria sanatoria per le numerose irregolarità commesse dal Pdl in sede di presentazione delle candidature, già nel pomeriggio attaccava: “Il centrodestra non si azzardi a parlare di complotti e a scaricare il problema, abbia l’umiltà di riconoscere che questo pasticcio non gli deriva da incuria ma da loro divisioni. Non raccontiamoci che gli asini volano: diciamoci che il partito del predellino alla prima curva si è ribaltato. Per loro fare un partito è un dopolavoro mentre noi facciamo dibattiti, riunioni, stiamo lì le nottate a discutere”.
E lapidario scriveva sulla sua pagina facebook: il governo si occupi di cose serie o se ne vada a casa.
Gli faceva eco il presidente della provincia di Roma, Zingaretti: “Esprimo la mia solidarietà a chi rispetta le regole, a chi paga le multe, a chi versa correttamente le tasse, a chi si ferma al rosso. Insomma esprimo la mia solidarietà alle persone perbene”.
Sull’impossibilità di un accordo sulla questione si è espresso anche Dario Franceschini, capogruppo Pd alla Camera, affermando che “le parole del segretario sono le parole di tutto il partito: le leggi e le regole vanno rispettate da tutti”.
Rosy Bindi, presidente dell’Assemblea nazionale del PD prima ancora della pubblicazione del testo avvisava: ”
Quando si contrappone la forma alla sostanza, soprattutto in materia di regole elettorali, si minano le fondamenta della vita democratica.
Se il testo del decreto legge sulle elezioni regionali è quello anticipato dalle agenzie di stampa siamo di fronte a norme non interpretative ma modificative e con profili di incostituzionalità. La Corte Costituzionale potrebbe quindi dichiarare l’incostituzionalità del provvedimento e tra un
anno si tornerebbe a votare. Questo accade perché in Italia ci sono un governo e una maggioranza che continuano a umiliare le regole, la Costituzione e la sovranità popolare”.
“Ci ritroviamo adesso con un ‘decreto lista’ incredibile che è chiaramente incostituzionale e pone rimedio, si fa per dire, ai due casi di Lazio e Lombardia”. Lo ha detto la candidata per il centrosinistra alla presidenza della Regione Lazio Emma Bonino, intervistata da Radio Radicale. “Ieri – ha aggiunto – abbiamo chiesto un incontro urgente al presidente del Consiglio non solo per rappresentargli la situazione complessiva ma per presentare una proposta erga omnes che fosse accettabile e che riguardasse l’intero territorio nazionale, ma niente”.www.partitodemocratico.it
******
“Dal cilindro spuntò la soluzione” di MICHELE AINIS
Gira e rigira, alla fine il governo ha tirato fuori dal cilindro un coniglio vestito da decreto. Così, giusto per non perdere le sane abitudini. Anche se i decreti in materia elettorale sono vietati espressamente (art. 15 della legge n. 400 del 1988). Anche se l’escamotage della norma interpretativa suona in realtà come una frode, che in passato la Consulta ha castigato a più riprese. Funziona così: il legislatore detta una nuova regola sostenendo che fosse già racchiusa in una regola più vecchia, come il frutto nel seme. E dunque la circonda di efficacia retroattiva, la rende valida oggi per ieri. Sennonché l’esigenza di chiarire per legge il significato di una legge può sorgere quando sussistano contrasti giurisprudenziali, oscillazioni applicative, incertezze amministrative. In caso contrario è solo un trucco.
Nel frattempo la gara elettorale si è trasformata in una zuffa sulle regole. Non è la prima volta, non sarà neppure l’ultima. Senza andare troppo a ritroso, si può ricordare per esempio che le regionali del 2005 furono accompagnate da un corteo d’inchieste giudiziarie su e giù lungo la penisola, dal Piemonte alla Campania. Per quale ragione?
Firme fasulle, oppure carpite con l’inganno, oppure apposte in fogli bianchi, senza l’elenco dei candidati; anche perché di solito le liste vengono chiuse all’ultimo minuto.
Insomma ci risiamo. Generalmente gli uomini imparano dai propri errori; ma gli uomini politici hanno le orecchie d’asino. Eppure questa vicenda surreale, che in Lombardia e nel Lazio può ancora inaugurare una partita con una sola squadra in campo, dovrebbe impartirci quantomeno una lezione. Per apprezzarla, c’è però da prendere sul serio la folla di domande che in queste ore si vanno ponendo gli italiani. Qual è il peso della legalità formale rispetto all’interesse sostanziale di scegliere fra due programmi alternativi? È giusto che il rito democratico sia ostaggio d’una procedura burocratica? È accettabile che il successo d’una lista venga sancito non dagli elettori bensì dai magistrati? E c’è infine una ragione per rendere esente la politica dai rigori della legge, a differenza di quanto accade in sorte ai comuni cittadini?
Queste domande investono la natura stessa del diritto. Che tuttavia è sempre una medaglia con due facce, l’una formale, l’altra sostanziale. La prima viene scolpita a caratteri di piombo nelle Gazzette ufficiali, attraverso una litania di commi e articoli, che a propria volta disegnano procedimenti, uffici, competenze. Se non esistesse tale forma, se tutto il diritto fosse racchiuso nella parola volubile e volante del sovrano, noi non conosceremmo la linea di confine fra i torti e le ragioni, saremmo come ciechi al cospetto della legge. Ecco perché i giuristi, da Montesquieu a Calamandrei, ripetono da secoli che la forma è garanzia di libertà. Ma ne è al contempo ancella, perché la libertà – insieme all’eguaglianza – esprime lo specifico fine del diritto, la sua ragione sostanziale.
Il guaio è che noi italiani non sappiamo tenerci in equilibrio su queste due parallele. E allora ci alleviamo in seno i due figli degeneri del diritto: formalismo e sostanzialismo. Il primo indossa per esempio l’abito confezionato dalla commissione di vigilanza sulla Rai, che in nome della par condicio ha strangolato il dibattito politico che la par condicio dovrebbe viceversa garantire. Il secondo rappresenta la perenne tentazione di chi siede nella stanza dei bottoni, ma i suoi effetti sono ancora più nefasti. Nel dopoguerra – per fare un altro esempio – la Polonia approdò al regime socialista senza sostituire le sue vecchie leggi, con una semplice norma interpretativa, dove fu sancito l’obbligo d’applicarle in conformità ai dettami del marxismo.
C’è un modo per riconciliare la forma alla sostanza, in quest’ennesima vicenda di delitti elettorali? Sì che c’è, se non per l’oggi, almeno per il domani. Ma a condizione d’abbracciare una soluzione estrema, che tagli la mala pianta alla radice. Le norme in vigore impongono di raccogliere varie migliaia di firme per candidarsi alle elezioni, facendole autenticare da un notaio, da un cancelliere, da altri pubblici ufficiali. Una montagna impervia da scalare per chi non abbia alle spalle un partito organizzato, ed è infatti da questa somma vetta che s’esercita la signoria dei partiti sugli eletti. Salvo poi calpestare la regola essi stessi, quando conviene, quando non c’è tempo, quando il candidato sbuca fuori all’ultima curva del circuito. Ecco, rompiamogli in testa questa spada. Togliamo via di mezzo tutti i filtri per candidarsi alle elezioni. Costringiamo i partiti a competere con liste di cittadini fuori dai partiti. Se poi questo ne segnerà la fine, vorrà dire che se la sono un po’ cercata.
La Stampa 06.03.10
******
Quella soluzione «all’italiana», di Massimo Franco
Il governo ha optato per una soluzione molto «all’italiana»: un decreto che dice di interpretare la legge elettorale, senza cambiarla. Ma ottiene comunque l’effetto desiderato: far rientrare le liste del Pdl per le regionali in Lazio e Lombardia, bocciate dalla magistratura. È l’unico modo col quale il centrodestra può sperare di ottenere non il «placet» impossibile dell’opposizione, ma la non ostilità del Quirinale; e riemergere comunque ammaccato, senza però perdere due regioni-chiave. È il risultato di una mediazione affannosa e difficile, per la quale Silvio Berlusconi e la sua maggioranza sanno di dover ringraziare Giorgio Napolitano.
Senza le obiezioni di un presidente della Repubblica comprensivo e insieme irremovibile su alcuni punti, a pastrocchio si sarebbe aggiunto pastrocchio; e la scelta del decreto sarebbe apparsa ancora più grave e inaccettabile di quanto già non sia. La soluzione che sembra a portata di mano si lascia dietro comunque una scia di polemiche, proteste e quasi certi ricorsi, perché è «tagliata» per riammettere la lista di Roberto Formigoni e quella del Pdl in provincia di Roma. Il fatto che non modifichi la legge, limitandosi a «leggerla» a favore della maggioranza, rende il testo meno indigesto al Quirinale solo sotto il profilo costituzionale. Insomma, il provvedimento cerca di somigliare a quel «male minore» che rappresenta l’unico sbocco plausibile di una vicenda figlia del pressappochismo dei dirigenti del Pdl. D’altronde, le alternative promettono di risultare più traumatiche. Il rischio è quello di una forzatura da parte di palazzo Chigi, che tenderebbe i rapporti con l’opposizione e con Napolitano, costringendo il capo dello Stato a non firmare il decreto: una prospettiva tale da aprire un conflitto istituzionale in piena campagna elettorale. Oppure si arriverebbe all’esclusione definitiva del centrodestra in due regioni- chiave: un esito formalmente ineccepibile, ma che dal punto di vista politico falserebbe il voto del 28 e 29 marzo.
Si tratta di un salvataggio in extremis per il quale la coalizione berlusconiana paga un prezzo politico e d’immagine alto. E questo nonostante sia un contributo ad evitare una delegittimazione delle elezioni; e lacerazioni peggiori in Parlamento e nel Paese. Il Pd e l’Udc denunciano, e non gli si può dare torto, «il precedente gravissimo che si crea». Non è scontato che sia un annuncio di barricate, pure evocate dall’Idv di Antonio Di Pietro e dai radicali. L’impressione è che serva a ribadire che del pasticcio e della sua soluzione rabberciata è responsabile solo lo schieramento berlusconiano. Ad altri tocca il compito ingrato di limitare i danni, per quanto è possibile.
Il Corriere della Sera 06.03.10
"L'abuso di potere", di Ezio Mauro
POICHE’ «la sostanza deve prevalere sulla forma», secondo il nuovo comandamento costituzionale berlusconiano recitato dal presidente del Senato Schifani, il governo della Repubblica ha sanato ieri con una legge di comodo gli errori commessi dal Pdl, che avevano portato all´estromissione di Formigoni dalle elezioni in Lombardia e della lista berlusconiana a Roma.
Questo gesto unilaterale compiuto dalla maggioranza a tutela di se stessa può sembrare una prova di forza. È invece la conferma di un´atrofia politica di base e di vertice, che somma un vizio finale alle colpe iniziali, rivelando il vero volto che nei sistemi democratici assume la forza quando è senza politica, e fuori dalle regole che la disciplinano e la governano: l´abuso di potere.
Non c´è alcun dubbio che una competizione elettorale senza il principale partito è anomala, e il problema riguarda tutti i concorrenti (non solo gli esclusi), perché riguarda il sistema intero e il diritto dei cittadini di poter esercitare compiutamente la loro scelta, con tutte le parti in campo. Ma se il problema interpella tutti, le responsabilità di questa anomalia – che in forme diverse si è verificata a Roma e a Milano, con firme false e termini per la presentazione delle liste non rispettati – sono di qualcuno che ha un nome preciso: il Pdl. Non c´entra nulla il “comunismo”, questa volta, e nemmeno c´entrano le “toghe rosse”. È lo sfascio della destra che produce il suo disastro, perché quando la locomotiva della leadership non funziona più, e non produce politica, tutti i vagoni si arrestano, o deragliano senza guida.
Ora chi chiede a tutti i concorrenti di farsi carico del problema nato in Lombardia e nel Lazio, con un gesto di responsabilità politica condivisa nei confronti dell´avversario e del sistema, non ha mai nemmeno pensato di assumersi preliminarmente le sue responsabilità, ammettendo gli errori commessi, chiamandoli per nome, prendendosi la colpa. Non è venuto in mente al leader di dichiarare che si attendono le pronunce delle Corti d´Appello e dei Tar chiamati a dirimere con urgenza i due casi, e deputati a farlo, nella normalità democratica e istituzionale, e nella separazione dei poteri.
Nulla di tutto questo. Soltanto lo scarico delle responsabilità sugli altri, la tentazione della piazza, la forzatura al Quirinale, l´altra notte, con il Presidente Napolitano, nel tentativo di varare un decreto che intervenisse direttamente sulla normativa elettorale, riaprendo i termini ad uso e consumo esclusivo del partito berlusconiano. Quando il Capo dello Stato si è reso indisponibile a questa ipotesi, la minaccia immediata di due Consigli dei ministri, convocati e sconvocati tra la notte di giovedì e la mattinata di ieri. Una giornata in affanno, per il Premier, anche per il fermo “no” che ogni sua ipotesi di forzatura trovava da parte dell´opposizione, da Bersani a Di Pietro a Casini. Infine, l´abuso notturno del decreto, mascherato dalla forma “interpretativa”, che va a leggere a posteriori nella mente del ministro le intenzioni di quando dettò le norme elettorali di procedura, ritagliando a piacere una soluzione su misura per gli errori commessi dalla destra a Roma e a Milano.
Le norme elettorali sono materia condivisa e indisponibile per una sola parte in causa, soprattutto quando opera a palese vantaggio di se stessa, sotto gli occhi di tutti, e per rimediare a quegli stessi suoi errori che violando le regole l´hanno penalizzata nella corsa al voto. Intervenire da soli, ex post, con norme retroattive, a meno di un mese dalla scadenza elettorale, scrivendo decreti che ricalcano clamorosamente gli sbagli commessi per cancellarli, è un precedente senza precedenti, che peserà nel futuro della Repubblica, così come pesa oggi nel logoramento delle normative, nella relativizzazione delle procedure, nella discrezionalità degli abusi, sanati a vantaggio del più forte. In una parola, questo abuso pesa sulla democrazia quotidiana che fissa la misura di se stessa – a tutela di ognuno – in passaggi procedurali che valgono per tutti.
Al Presidente del Consiglio non è nemmeno venuto in mente di consultare direttamente le opposizioni. Di chiedere un incontro congiunto con i suoi capi, di presentarsi dicendo semplicemente la verità, e cioè denunciando gli errori compiuti dal suo schieramento, assumendosene interamente la responsabilità come dovrebbe fare un vero leader, chiedendo se esiste la possibilità di un percorso condiviso di comune responsabilità per rendere la competizione completa e reale dovunque, nell´interesse primario dei cittadini elettori. Tutto questo, che dovrebbe essere un elementare dovere istituzionale e politico, è tuttavia inconcepibile per una leadership eroica e monumentale, che non ammette errori propri ma solo soprusi altrui, mentre prepara abusi quotidiani.
Quest´ultimo, con la falsa furbizia del decreto “interpretativo” (la legge da oggi si applica solo per gli avversari, mentre per noi stessi la si può “interpretare”, accomodandola), completa culturalmente la lunga collana di leggi ad personam, che tutelano la sacralità intoccabile del leader, sottraendolo non solo alla giustizia ma all´uguaglianza con suoi concittadini. Anzi, è l´anello mancante, che collega la lunga serie di normative ad personam al sistema stesso, rendendolo in solido oggetto dell´arbitrio del potere: persino nelle regole più neutre, come quelle elettorali, scritte a garanzia soltanto e soprattutto della regolarità del momento supremo in cui si vota.
Nella concezione psicofisica del potere berlusconiano, la prova di forza rassicura il Premier, dandogli l´illusione di crearsi con le sue mani la sovranità stessa, fuori da ogni concerto con l´opposizione, da ogni limite di legge, da ogni controllo del Quirinale. Un´autorassicurazione che nasce dal prevalere della cosiddetta “democrazia sostanziale” rispetto a quella forma stessa della democrazia che sono le regole, la trasparenza e le procedure, vilipese a cavilli e burocrazia. Emerge dallo scontro, secondo il Premier, l´irriducibilità del potere supremo, che rompe ogni barriera di consuetudine e di norma se soltanto lo ostacolano, e non importa se la colpa è sua: anzi, da tutto ciò trae l´occasione di fondare un nuovo ordine di fatto, che basa sullo stato d´eccezione, fondamento vero della sovranità di destra.
Ma c´è, invece, qualcosa di crepuscolare e di notturno in questa leadership affannosa e affannata che usa la politica solo per derogare da norme che non sa interpretare nella regolarità istituzionale, mentre è costretta a piegarle su misura della sua necessità cogente e contingente, a misura di una miseria politica e istituzionale che forse non ha precedenti: e non può trovare complici. Le opposizioni, tutte, lo hanno capito. Molto semplicemente, un leader e uno schieramento che hanno bisogno di un abuso di potere in forma di decreto anche per poter continuare a fare politica, non possono avere un futuro.
La Repubblica 06.03.10
La richiesta della fiducia testimonia un modo di governare sempre più logoro
Il decreto sugli enti locali “va in direzione opposta al tanto sbandierato federalismo fiscale”. Lo dice in Aula Pier Paolo Baretta, annunciando il no del gruppo alla fiducia sul decreto legge. “E’ urgente attuare il federalismo: i ritardi non sono più giustificati”. Secondo Baretta il decreto affronta “una materia molto importante come il funzionamento degli enti locali”. Un tema che non dovrebbe essere affrontato con decreto. “Cosa c’è di urgente in questo decreto? – si chiede il deputato – forse è che a distanza di pochi giorni dalle elezioni volete decidere con decreto il numero dei consiglieri e degli assessori, sopprimere i difensori civici? Dov’è l’urgenza, qual’è logica?”. La risposta sono “i conti pubblici e i costi della politica? Perchè allora – prosegue – non avete proposto di fissare un tetto di spesa e poi lasciare a cittadini, comuni e territori, la decisione” su come effettuare i risparmi? “Perchè – aggiunge Baretta – non volete affrontare proposte più impegnative come il taglio del numero dei parlamentari e la riforma elettorale?” Il capogruppo in commissione Bilancio critica anche la decisione del governo di ricorrere al voto di fiducia. “Non avevamo – dice – alcuna intenzione di allungare il brodo. Perchè allora la fiducia? Avete allungato i tempi anziché accorciarli. Così non va – conclude – questo modo di governare è sempre più logoro”.
www.deputatipd.it
******
“Il governo incassa la fiducia alla Camera sul decreto enti locali”, di Eugenio Bruno
Il governo porta a casa la sua ventinovesima fiducia in meno di due anni. L’ha ottenuta l’aula di Montecitorio con 305 sì e 245 no al maxiemendamento sul decreto enti locali. Il voto sull’intero provvedimento è atteso per martedì 9 dopodiché la parola passerà al Senato per il via libera definitivo.
La scelta di porre la fiducia non è piaciuta all’opposizione. Né al presidente dell’Anci, nonché sindaco di Torino, Sergio Chiamparino. Tuttavia, con i termini per la conversione in legge che scadono il 27 marzo e le elezioni regionali alle porte, l’esecutivo si è messo al riparo da una possibile imboscata sul provvedimento che interviene sui costi della politica, allenta il patto di stabilità interno e “salva” i conti di Roma capitale. Ecco le novità apportate dal maxi-emendamento.
Anticipato il taglio sugli assessori comunali e provinciali. Viene anticipato al 2010 il taglio del 25% degli assessori comunali e provinciali, mentre resta ferma al 2011 la sforbiciata del 20% ai consiglieri di comuni e province. Entro quella data andranno inoltre cancellati: i difensori civici comunali; le circoscrizioni nelle città con meno di 250mila abitanti; i direttori generali dei municipi con meno di 100mila abitanti; i consorzi tra enti locali, fatti salvi i bacini imbriferi montani. Sempre tra un anno spariranno le «autorità di ambtio territoriale» (i cosiddetti Ato che gestiscono servizi idrici e rifiuti).
Si allentano i vincoli del patto di stabilità interno. Al fine di allentare i vincoli sugli enti locali il provvedimento introduce l’esclusione dal 2009 dei dividendi derivanti da operazioni straordinarie fatte da società quotate municipali e quella delle opere realizzate per i grandi eventi. Al tempo stesso slitta da marzo a fine maggio il termine per la certificazione dell’Ici sui fabbricati rurali.
Un aiuto ai conti di Roma capitale. La capitale potrà tornare a investire. Il sindaco Gianni Alemanno, infatti, non sarà più commissario. Entro 30 giorni dalla data di conversione in legge del Dl verrà nominato un commissario straordinario per la gestione del piano di rientro. Da quel momento la gestione ordinaria sarà separata da quella commissariale e graveranno solo su quest’ultima tutti i debiti contratti entro il 28 aprile 2008.
Il Sole 24 Ore 05.03.10
"Da Eluana al salva-liste il duello infinito tra Silvio e il Colle", di Filippo Ceccarelli
Vade retro, decretino! Irresistibile la tentazione di proiettare sul presente pasticcio politico e legislativo l´umorismo pre-bagaglinesco dei Fratelli De Rege, che con un celebre grido entravano in scena sui palcoscenici degli anni trenta del secolo scorso; dopo di che furono Walter Chiari e Carlo Campanini a riecheggiare sui teleschermi l´infausta e pressante intimazione: «Vieni avanti, cretino!».
La questione è che il presidente della Repubblica Napolitano è la persona meno disposta ad accogliere i canoni dell´avanspettacolo nelle complesse logiche del diritto costituzionale, specialmente quando l´esigenza è quella di mettere una pezza sul più ordinario e straordinario pasticcio della Seconda Repubblica nell´Italia, ormai, dei post-partiti. E questo anche perché nei proverbi, fonte d´ogni sapienza, le toppe e i rammendi rischiano di arrecare i maggiori guai.
Fatto sta che nel mezzo del caotico pomeriggio, il decreto legge tappabuchi si era posto all´ordine del giorno, per poi sdoppiarsi e poi anche e addirittura triplicarsi in varie ipotesi e sottoipotesi, come se la molteplicità graduabile e opzionale avesse potuto addolcire Napolitano nell´impervio incontro con il presidente del Consiglio.
Ancora una volta la cultura istituzionale del Cavaliere si mostrava per quello che è. Da una quindicina d´anni, ormai, appare evidente che necessità e urgenza sono per lui elementi su cui il vaglio personale certamente sovrasta, per non dire che tende a travolgere la Costituzione. Cioè: decido io se ne ho bisogno, e presto. Questo, di norma.
Ma una volta che gli impicci se li è costruiti il Pdl con le sue manine, e anche suscitando l´ira dello stesso grande capo («Dilettanti»), il ricorso al decreto legge, più che di scappatoia, sapeva di forzatura e insieme di truffa. E ancora una volta Napolitano ha detto: no.
In tale contesto, tanto reale che immaginario, il provvedimento era già entrato nella macina riduzionista per farsi «ino», acquistandone sia in miniatura che in caricatura. Ma non è venuto avanti, il decretino, anzi si è probabilmente disperso nella notte, sotto le fontane in piazza del Quirinale, in attesa di maggiore prudenza, di più miti consigli, di sentenze del Tar e di altro che si saprà a partire da oggi.
Come capita quasi sempre – e tra Berlusconi e Napolitano pure con una certa frequenza – qualcosa del genere è già capitato. Il presidente del Consiglio infatti ha il decreto-legge facile; e se uno va a sfogliare gli archivi si trova sommerso da titoli che dicono: «Dal Quirinale l´altolà al blitz», o formule analoghe.
E comunque già nel giugno del 2008, cioè appena un mese dopo essersi insediato a Palazzo Chigi, il Cavaliere aveva provato a regalarsi il lodo salva-premier con quel comodo e sbrigativo sistema, ma visto il diniego del Quirinale il governo aveva ripiegato su un normale disegno di legge.
A ottobre, Napolitano glielo scritto sulla Stampa e poi anche detto in faccia: non pensasse a governare a colpi di decreti con la scusa che le Camere sono lente. Ma Berlusconi evidentemente insisteva, e così prima di Natale, sempre del 2008, era partito il contenzioso e quindi lo stop sulla riforma della giustizia. Il povero Alfano era costretto a scrivere testi su testi: «Poi ci andate voi da Napolitano – cercava di sottrarsi quello – quando ci rimanda indietro il testo».
L´autorità presidenziale, in Italia, sembra fatta apposta per frustrare le velleità di comando, tutte monarchiche, carismatiche e aziendali, che sono proprie del berlusconismo. Quando, nel febbraio del 2009, divampò la questione di Eluana Englaro e dopo essersene per la verità abbastanza infischiato il presidente del Consiglio mise mano al solito decreto o decretino in extremis, ecco che di nuovo le prerogative del Quirinale schiacciarono ogni improvviso afflato pro-life. La morte della ragazza allontanò allora il probabile conflitto.
Ma Berlusconi, con ogni evidenza, continuava a patire questa inferiorità istituzionale. Perché lo strumento del decreto, al dunque, va al cuore del potere e chi lo possiede ha appunto la legittimità di scombinare la routine dichiarando lo stato di necessità.
Da sempre Berlusconi stenta e fatica a comprendere che non è lui il titolare, però ci prova lo stesso, anche con le intercettazioni telefoniche. Come si ricorderà, ce n´era in giro un mazzetto che potevano creargli qualche cruccio – così come obiettivamente gliene ha creato quest´ultimo ciclo sulla Protezione civile. E dunque: perché non proibirle? Perché non fare un bel decreto? Detto, fatto.
Ma di nuovo questa urgente necessità si trovò sbarrata la porta del Colle. Al punto che il governo dovette fare una curiosa marcia indietro, c´era stato un errore di stampa, non decreto legge era da intendersi, ma disegno di legge. E anche nel disegno di legge c´era qualcosa che non andava. Quindi cambiate. Poi partì il conflitto sulla sicurezza, e poi – siamo a ottobre – quello sulla Consulta che aveva bocciato il lodo. Altri attacchi, altre difese.
Lettere, nel frattempo, collere, musi e lunghi silenzi. Rappacificazioni forzate. Bracci di ferro. Fino al pasticciaccio brutto delle liste elettorali. E al decretino dei Fratelli De Rege che non è venuto avanti – e così sia.
La Repubblica 05.03.10
