Latest Posts

Editoria, i contributi tornano non per radio e giornali minori

Giochi ancora aperti sull’editoria. La proposta di governo e maggioranza salva i giornali solo per il 2009, ma impone costi pesantissimi al sistema radiofonico. Fnsi: è cannibalismo. Pd: lavorare ancora. Oggi il voto conclusivo sulle «milleproroghe»: un emendamento ripristina parzialmente i fondi. Le opposizioni presentano un sub-emendamento. La Fnsi contraria: «È cannibalismo».
Quella dell’editoria resta una battaglia aperta. Il finanziamento alle testate di idee e non profit ha tenuto banco per l’intera giornata alla Camera. Riunioni su riunioni, che hanno fatto slittare per tutto il pomeriggio l’avvio del voto in Aula sul Milleproroghe. Si è lavorato per un emendamento condiviso. Ma in serata si è ottenuto un testo molto rischioso, che apre nuovi problemi. Si capirà oggi, al momento del voto, se nella nottata sono stati fatti ulteriori passi avanti. Per il momento il Pd ha presentato un subemendamento al testo, per correggere le storture introdotte.
DISCRIMINAZIONE
Il relatore, Massimo Polledri (Lega) definisce il testo prodotto da maggioranza e governo «un compromesso più che accettabile tra l’esigenza di fare pulizia in alcune zone grigie salvando però l’occupazione nel settore». In realtà a un dato positivo, cioè il ripristino del diritto soggettivo sul 100% dei fondi relativi al 2009 (che si versano nel 2010), si aggiunge però una drastica discriminazione. Vengono infatti spazzati via le radio, i giornali dei consumatori e quelli degli italiani all’estero. Quanto ai fondi per il 2010 (da versare nel 2011), la situazione attualmente resta quella introdotta con la finanziaria: niente diritto soggettivo è un possibile taglio di risorse tra il 20 e il 40%. Le opposizioni hanno presentato un emendamento che reintroduce radio e giornali esclusi dal finanziamento, mentre in serata si è tenuto un altro lungo confronto per affrontare anche il nodo relativo al 2010: senza diritto soggettivo all’acceso ai fondi, infatti, resta assai complicato redigere i bilanci preventivi.
REAZIONI
La reazione del sindacato dei giornalisti non si è fatta attendere. «Se fossero confermate queste notizie scrive in una nota la Fnsi anziché la soluzione di un problema avremmo un danno con beffa: si tratterebbe infatti della cannibalizzazione ai danni del sistema delle radio private e della stampa per gli italiani all’estero. La grande mobilitazione a favore dei giornali messi a rischio dai tagli dei fondi non può trovare risposta attraverso lo spostamento del danno su un altro settore dell’informazione. Il Governo presti attenzione urgente a non combinare un pasticcio grave. il diritto soggettivo per i giornali non può essere alimentato togliendo i fondi per i rimborsi delle tariffe elettriche e telefoniche e per l’utilizzo delle agenzie di stampa previsti per il sistema radiofonico locale».
Intanto l’Aula ha iniziato a votare le altre parti del provvedimento. È stata sventata, anche questo grazie al pressing delle opposizioni, l’ipotesi dell’ennesima fiducia. Respinta per soli 18 voti la proposta del Pd Pierluigi Mantini che proponeva la certezza per legge della sospensione delle tasse per i lavoratori dipendenti e i pensionati del cratere dell’Aquila. Ancora una volta nulla di fatto per i terremotati. Passa invece all’unanimità la proposta della Pd Manuela Ghizzoni che consente alle Università con i bilanci 2009 in ordine di usare parte delle proprie risorse per nuove assunzioni. «È un’importante vittoria del Pd dichiara Ghizzoni che dimostra che, quando c’è la volontà comune di risolvere i problemi del Paese, in parlamento si possono trovare soluzione condivise che superano gli schieramenti».
L’Unità 24.02.10

"Politica industriale azzerata", di Romano Prodi

Caro direttore, a una mia analisi sulla mancanza di politica industriale nel tempo di crisi, il ministro Claudio Scajola ha avuto l’amabilità di rispondere con ampiezza di argomentazioni sul Sole 24 Ore del 16 febbraio. A questo vorrei replicare con dati concreti, a volte un poco pedanti, ma sempre efficaci per chiarire i termini del dibattito.
Prima di tutto vorrei ricordare al ministro in carica che il programma Industria 2015 è stato interamente ideato, organizzato e costruito sotto il mio governo e approvato dal Consiglio dei ministri dello stesso governo su proposta del ministro delle Attività produttive, Pier Luigi Bersani, con un “fondo di competitività” di un miliardo di euro. E che, per rinforzare questo programma, la legge finanziaria 2007 (approvata a fine dicembre 2006) prevedeva a favore dell’industria un credito “automatico” d’imposta per la ricerca fino al 15% della spesa e fino a 15 milioni per ogni ricerca. E aggiungeva forti incentivazioni (finanziate per 570 milioni) per specifiche aree strategiche, che tuttora sono degne di essere considerate come prioritarie e cioè: efficienza energetica, mobilità sostenibile, scienza della vita, made in Italy, tecnologie per i beni culturali.

È vero che il governo Berlusconi è intervenuto su Industria 2015: ha infatti azzerato il fondo competitività, destinando i residui 450 milioni a operazioni di utilità molto dubbia per il paese (ex Alitalia) e sottraendoli all’industria e alla ricerca. Ha eliminato il sistema di valutazione indipendente, basata su standard europei, ripristinando il sistema poco trasparente dei “comitati” di nomina ministeriale e ha ritardato enormemente e ingiustificatamente l’erogazione dei finanziamenti di 200 progetti realizzati da tremila imprese ed enti di ricerca, che stanno ancora aspettando.

Invece ha varato i contratti d’innovazione: strumenti generici riservati di fatto alla grande impresa con dubbia copertura finanziaria, al di fuori di qualsiasi quadro di priorità politica industriale e di valutazione trasparente, ma unicamente fondati sulla discrezionalità.
Il governo Prodi aveva poi istituito per le imprese il credito di imposta per la ricerca, un meccanismo automatico che premia chi fa ricerca anche al di fuori dei grandi progetti. Il governo Berlusconi ha nei fatti eliminato questa opportunità destinata anche al tessuto delle piccole e medie imprese, introducendo la pratica odiosa e umiliante per le imprese del click day: la politica industriale che premia chi arriva prima a fare “click” con il mouse.

Inoltre, dove sono finiti i 7 miliardi del Fas ricerca e competitività destinati a sostenere l’infrastrutturazione tecnologica dei sistemi e delle reti d’imprese, lo sviluppo della banda larga, la bonifica dei siti industriali inquinati, le azioni di sostegno sul territorio alle azioni prioritarie di Industria 2015? Svaniti nel nulla. Eppure il Fas (Fondo per le aree sottoutilizzate) era lo strumento che doveva far convergere le azioni nazionali d’Industria 2015 con quelle regionali verso le priorità di politica industriale del paese.

Quanto poi al Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese, l’intervento è stato insufficiente sia nelle dimensioni sia nelle modalità (non si è andati verso una “portabilità” delle garanzie per le imprese, né si sono modificati i criteri di definizione del rating: ad esempio pluriannualità del periodo di riferimento).

Debbo solo lamentare che nel dare concretezza a questi progetti, dopo mesi di blocco si va oggi avanti con velocità e intensità almeno inferiori alle esigenze e alle aspettative. Se ne chiedete le ragioni, gli imprenditori e le loro associazioni le attribuiscono alla “perdita di network” (cioè di rapporti stabilizzati rispetto al governo precedente), all’allargamento dei tempi amministrativi, e poi, naturalmente, all’esplosione della crisi.

Tutte buone ragioni, ma il problema da me sollevato è proprio quello della necessità e dell’urgenza di costruire una politica economica in risposta alla crisi.

Vorrei anche ricordare che, proprio in risposta alle decennali lamentele da parte industriale riguardo all’eccessivo peso dei costi indiretti, fu varato il famoso taglio del cuneo fiscale che trasferiva alle imprese cinque miliardi di euro. Credo che questo provvedimento sia stato davvero utile a spingere il boom delle nostre esportazioni nel periodo immediatamente precedente alla crisi, periodo in cui abbiamo ripreso le quote nei mercati internazionali perdute negli anni precedenti.

Debbo tuttavia ammettere che un errore l’ho fatto davvero nel volere a ogni costo il cuneo fiscale. Come professore sapevo infatti (e ne sono ancora oggi convinto) che esso sarebbe stato molto utile all’economia italiana ma, come politico, ho fatto qualche calcolo sbagliato perché, dopo l’ottenimento dei vantaggi dello scudo, l’opposizione della Confindustria al mio governo si è fatta ancora più dura e quotidiana. Dato però che il provvedimento era buono in sé, almeno come professore, non me ne sono pentito.

Vorrei infine sottolineare come una politica industriale in un paese come l’Italia, che è il secondo paese industriale europeo e che trova nell’industria quasi l’unico pilastro veramente competitivo della sua economia, debba avere come priorità assoluta il sostegno delle imprese in questo periodo di difficoltà e la promozione dei cambiamenti strutturali necessari per affrontare la concorrenza futura. Quindi riprendere con vigore le linee d’Industria 2015 e promuovere le fusioni e gli accorpamenti aziendali necessari perché le nostre medie imprese possano in futuro affrontare con successo i mercati mondiali nelle nicchie specializzate in cui esse agiscono.
Per fare questo bisogna lavorare di fino, con provvedimenti mirati riguardo ad esempio all’incentivazione all’acquisto dei macchinari ad alta tecnologia, che sono tra l’altro di produzione quasi totalmente europea e con una forte presenza italiana. E non si dovrebbe lasciare morire d’inedia i residui impianti intermedi della petrolchimica senza rispondere (aiutando accorpamenti e specializzazioni) agli enormi cambiamenti delle produzioni mondiali. E nemmeno appare uno strumento concreto il vantare il ritorno al nucleare rinviando tuttavia ogni decisione al dopo elezioni, in risposta al coro di rifiuti da parte delle regioni.
Infine non è frutto di analisi accademica approfondita attribuire all’allora presidente dell’Iri la responsabilità della mancata fusione fra Italtel (che era di proprietà dell’Iri) e la Telettra (che non lo era affatto e che rifiutò con ogni mezzo di fondersi con Italtel).

Nella mia analisi a Manifutura non ho dunque dimenticato gli ultimi due anni: ho solo constatato che sono due anni da dimenticare. Tuttavia, dato che la crisi, purtroppo, durerà ancora a lungo, vi è (ripeto purtroppo) ancora tempo per prendere decisioni, ben indirizzate e coordinate come altri paesi hanno fatto. Le energie per reagire positivamente con una vera politica industriale ci sono ancora.
Faccio quindi al ministro Scajola i migliori auguri in proposito, incoraggiandolo ad agire con vigore per il rafforzamento della nostra industria.

Il Sole 24 Ore 24.02.10

"Nascere al sud penalizza gli studenti", di Flavia Amabile

I giovani meridionali hanno un anno e mezzo di ritardo nella preparazione rispetto a quelli del Nord e sanno quello che sa uno studente immigrato.
Sei uno studente in una scuola del Sud? Basta questo per avere un anno e mezzo di ritardo nella preparazione rispetto a uno studente del Nord. Uno studente italiano, però. Perché il livello di conoscenze dei ragazzi meridionali equivale più o meno a quello degli stranieri nelle scuole del Nord. Un quindicenne su tre di quelli che ogni giorno entrano nelle classi dalla Campania alla Calabria, isole comprese, non raggiunge la soglia minima delle conoscenze definita a livello internazionale.

Un risultato drammatico, anche perché prescinde da ogni altra considerazione. Lo studente non può farci molto, la pochezza della sua preparazione è condizionata unicamente dal contesto, dal semplice gesto di frequentare una qualsiasi scuola del Sud. La Fondazione Agnelli ha analizzato anche quest’anno lo stato della scuola in Italia nel suo Rapporto che verrà presentato ufficialmente oggi e il quadro che emerge non è affatto lusinghiero. L’indagine si basa sui dati Ocse-Pisa, l’esame condotto tra gli studenti delle secondarie dei Paesi Ocse per confrontarne le conoscenze.

Gli studenti italiani delle superiori sono fra i pochi al mondo ad avere preparazioni molto diverse semplicemente per aver frequentato una scuola piuttosto che un’altra. E si parla di divari fra istituti pubblici, non privati. Le cause – sottolinea il rapporto – sono per il 15% legate alle differenze tra regioni, e per il 37% a differenze tra scuole in una stessa regione. Insomma, «i fattori contestuali – quelli scolastici in misura maggiore di quelli regionali – giocano più delle capacità personali». In altre parole anche un genio inserito in una scuola scadente non potrà raggiungere risultati eccellenti. E il merito non sempre risulta premiato.

Non è che tutto il sud sia allo stesso livello e tutto il nord meraviglioso. A Trento e Bolzano «non importa a quale scuola sei iscritto, otterrai comunque dei buoni risultati», spiega il rapporto. Con uno svantaggio: costano, sono inefficienti: in quelle del Trentino per ogni punto Pisa si spendono 165 euro. In Veneto dove i risultati in termini di preparazione sono comunque fra i più soddisfacenti in Italia di euro se ne spendono 113 per ogni punto Pisa. In Puglia e Campania accade l’opposto: non importa in quale scuola ci si iscrive, sono tutte più o meno mediocri. E per quella mediocrità in Campania si spendono 126 euro per ogni punto Pisa ottenuto dagli studenti, un po’ di meno in Puglia, 119 euro. Sicilia, Sardenga e Basilicata, invece, sono le regione in cui si spende tanto e si ottiene una preparazione del tutto inadeguata.

Diverso è tra le regioni anche il livello di spesa. Al Sud si è sempre al di sopra del 4% del Pil con una punta del 6% in Calabria. Al Nord, invece, (almeno nelle regioni a statuto ordinario) la quota di Pil destinata all’istruzione scolastica è sempre inferiore al 3% con il minimo di spesa in Lombardia (2,2%) e in Emilia Romagna (2,3%). E’ da queste differenze tra regioni che dovrà dipendere anche ogni decisione futura sul federalismo scolastico, ricorda il rapporto. Le differenze nella spesa dipendonono da vari fattori. Le regioni meno popolate avranno plessi di minori dimensioni. In alcune regioni c’è maggiore ricorso al tempo pieno che rappresenta un notevole aumento dei costi: sono quelle del nord dove maggiore è il numero di donne che lavorano, ma anche in Basilicata. E, quindi, come avverte il rapporto «un quadro così articolato richiede un serio sforzo analitico per essere compreso in tutte le sue sfumature, e certamente mal si adatta a una cornice politica smaniosa di creare rappresentazioni duali».
La Stampa 24.02.10

*******

“Dimmi dove studi e ti dirò cosa sai, il Nord “supera” di due anni il Sud”, di MARIA NOVELLA DE LUCA

È la scuola dei divari, delle distanze, delle diseguaglianze. Immense, siderali a volte. Sociali, tecnologiche, territoriali. In cui Nord e Sud non sono mai stati così lontani, le competenze mai così dispari, e dove la famiglia di provenienza, la scuola di riferimento, il suolo in cui si nasce determinano tutto. Cioè il futuro di un giovane. La sua chance o meno di entrare nel mondo del lavoro, di crearsi una vita propria, di essere autonomo, protagonista. Perché, oggi come ieri, in Italia l’appartenenza e il ceto contano forse più dei talenti e delle capacità individuali. “Dimmi in che scuola vai e ti dirò quanto ne sai”: è in questo titolo-slogan che si condensa uno degli elementi chiave del Rapporto sulla scuola in Italia 2010 della Fondazione Giovanni Agnelli, annuale e densa ricerca sullo stato della nostra istruzione, che in questa edizione sottolinea e mette in luce le “fratture” del nostro sistema scolastico.

Fratture che vogliono dire poi vite e destini assai diversi, tra i giovani del Nord e quelli del Sud, ma anche tra i ragazzi italiani e quelli europei, e poi ancora tra gli italiani e gli immigrati. Perché ci sono scuole di serie A e scuole di serie B, anzi forse di serie Zeta, tanto grande è diventato il fossato tra le cosiddette “due Italie”. Un esempio? Essere uno studente del Nord vuol dire avere, in partenza, 68 punti di vantaggio, secondo il calcolo delle competenze stabilito dall’Ocse-Pisa, (Programme for International Student Assessment) rispetto a un coetaneo del Sud. E questo perché, a parità di spesa pubblica, le scuole di alcune regioni settentrionali (Veneto, Emilia Romagna, Trentino, Lombardia) sono infinitamente migliori di quelle di molte regioni meridionali. Non solo: oggi un quindicenne che studia in un istituto del Sud, ha una preparazione uguale a quella di tredicenne del Nord: è dunque quasi due anni indietro sui “livelli di competenza”.

E il 30% degli allievi meridionali non raggiunge affatto la “soglia minima di competenza” che, secondo gli standard europei, è il primo gradino per non diventare emarginati ed esclusi. Vuol dire che per quella fetta di ragazzi le porte sono già chiuse, quasi senza speranza. Ma questo non è l’unico grande divario della scuola italiana, come sottolinea Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli, che oggi presenterà la ricerca con il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini. Perché a diseguaglianze antiche e mai superate, che portano i figli delle classi abbienti a scegliere i licei e poi l’università, mentre i figli delle classi più modeste restano “confinati” negli istituti professionali, ci sono divari nuovi e contemporanei. Quello tecnologico e digitale, ad esempio. Che dimostra quanto i teenager italiani siano simili ai loro coetanei europei per computer presenti in casa (il 91% degli studenti quindicenni ne possiede uno), ma quanto poco invece le nuove tecnologie siano diffuse a livello accademico. Soltanto il 50% degli studenti italiani utilizza un computer a scuola contro oltre il 60% della media europea, con una differenza territoriale che segnala un computer ogni 5 studenti nella provincia di Bolzano e uno ogni 27 da Napoli in giù. Ma forse il divario digitale più forte è quello tra allievi e insegnanti.

Sarà perché i prof italiani, per l’Ocse, sono tra i più anziani d’Europa, la realtà è che soltanto il 24,6% è favorevole all’uso del computer in classe, a fronte di uno striminzito 6% che lo ritiene un supporto insostituibile. Ma oltre a evidenziare le fratture, il rapporto della Fondazione Agnelli rilancia il dibattito sul “federalismo scolastico”. Uno scenario prossimo, di cui si evidenziano possibilità e rischi, come l’abbandono da parte dello Stato delle regioni più deboli. Allargando, quindi, il già profondo fossato esistente.

La Repubblica 24.02.10

"Montezemolo: c'è corruzione perché la politica non ha fatto riforme adeguate"

La politica non ha fatto riforme adeguate per far funzionare bene la macchina dello Stato. È l’analisi di Luca Montezemolo riguardo quella che da molti viene considerata la Tangentopoli 2. «La lotta alla corruzione è un’impresa titanica», ha detto il presidente della Fiat e dalla Luiss inaugurando a Roma la nuova School of Government della Libera università internazionale degli studi sociali, «ma il Paese deve reagire evitando di autoflagellarsi. La politica ha la precisa responsabilità di non avere introdotto riforme adeguate per far funzionare bene la macchina dello Stato».

NAPOLITANO – All’inaugurazione era presente anche il presidente della Repubblica. Ai giornalisti che gli chiedevano di commentare gli sviluppi delle inchieste sugli appalti alla Maddalena, Giorgio Napolitano ha risposto: «Chiedete ad altri».

IMPRESA TITANICA – Secondo Montezemolo, «è nella riforma dello Stato e delle istituzioni che possiamo vedere una soluzione strutturale al gigantesco problema della corruzione. Fin tanto che l’azione dello Stato non sarà resa più efficiente e trasparente, fin tanto che gli spazi di intermediazione fra la società civile e la cosa pubblica saranno molteplici e confusi, fin tanto che il cittadino non avrà la possibilità di poter contare su una pubblica amministrazione pienamente funzionale e responsabile, le occasioni per il malaffare si sprecheranno».

«SOCIETÀ FAI DA TE» – «Dove lo Stato non funziona», ha aggiunto il presidente della Fiat, «si afferma inevitabilmente quella “società fai da te” dove ognuno si sente autorizzato ad arrangiarsi come meglio può e dunque anche attraverso il ricorso alla corruttela». Ma, ha detto Montezemolo, «bisogna evitare di pensare che le colpe della corruzione siano tutte nella politica, perché anche in altri settori esistono fenomeni di malaffare che affliggono la nostra vita pubblica. Il compito di una politica alta e responsabile non può che tornare a essere quello delle riforme».

MARCEGAGLIA – All’inaugurazione alla Luiss era presente anche Emma Marcegaglia. «Dopo le regionali», ha dichiarato la presidente della Confindustria, «le forze politiche si mettano insieme per fare le grandi riforme, a partire da quella della pubblica amministrazione. Non si può più aspettare. Non ci possiamo rassegnare al declino e stare fermi in una sorta di immobilismo».

BRUNETTA – A Montezemolo e Marcegaglia ha subito replicato Renato Brunetta. «La riforma della pubblica amministrazione è già stata fatta», ha detto il ministro. «Forse Montezemolo, che è impegnato a lavorare nelle sue aziende, non è stato informato. Gli manderò la mia riforma e i piani di implementazione».

SACCONI – All’allarme lanciato da Montezemolo ha replicato anche il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi: «Mi occupo di cose serie» ha concluso seccamente l’esponente del Pdl.
Il Corriere della Sera 23.02.10

******

Marcegaglia: «Legalità unica via per la crescita»

«Come imprenditori dobbiamo fare molto anche nel rispetto della legalità, nella lotta alla corruzione: la scelta della legalità è l’unico modo per avere l’economia che continua a crescere». Lo ha detto Emma Marcegaglia, all’inaugurazione della Luiss School of Government, sottolineando che la lotta alla criminalità organizzata è una delle battaglie di Confindustria.
La leader degli industriali chiede che dopo le elezioni regionali «le forze politiche trovino la forza e il coraggio di fare le grandi riforme sempre accantonate». Perchè, dice Marcegaglia «il Paese ha le forze per reagire» alla crisi. «Noi – sottolinea – saremo i primi a fare la nostra parte ma la politica deve trovare la forza di abbandonare i conflitti».

Riferendosi a quanto sta succedendo in Grecia la presidente di Confindustria precisa che la moneta unica europea «è una grande conquista e bisogna lavorare tutti perchè non ci sia una rottura». Ora però, contro la crisi servono risposte condivise «servono eurobond e una politica economica comune con investimenti su tecnologia, ricerca e innovazione».
In Italia, dice Marcegaglia «non ci sono rischi, la politica di rigore ha premiato».

Quanto allo stabilimento Fiat di Termini Imerese «il tema vero adesso é reimpiegare le persone. L’importante é che le iniziative che verranno portate avanti siano reali e di mercato e che non si trovino soluzioni che poi tra qualche anno non funzionano». Tra le 14 proposte arrivate al governo per l’impiego dello stabilimento siciliano, ribadisce, ci sono «iniziative di valore».
Il Sole 24 Ore 24.03.02

"Mantova, polemica per il nuovo regolamento: bambini discriminati", di Franco Giubilei

Una scuola per l’infanzia, sì, ma solo per l’infanzia ispirata da una visione cristiana della vita. Il regolamento approvato l’altra sera dal consiglio comunale di Goito, paese del Mantovano guidato da una giunta di centrodestra, è di quelli destinati a far discutere fin dalla premessa, che recita testualmente: «La scuola Angeli Custodi accoglie i bambini regolarmente iscritti dalle famiglie e persegue finalità educative e di sviluppo della loro personalità in una visione cristiana della vita». L’articolo 1 del testo, che prevede le modalità di accesso alla struttura, butta altra benzina sul fuoco: «L’iscrizione avviene previa accettazione del regolamento ed è richiesta dai genitori al Comune di Goito».

Se la si vede come una condizione per poter iscrivere i figli all’asilo, interpretazione che ha fatto saltare sulle sedie i consiglieri dell’opposizione, ne deriva logicamente che per mettere i bambini in quella scuola materna bisogna far propri i principi di un’educazione cattolica. Il capogruppo dell’Unione civica per Goito Franco Casali, del Pd, dice: «La nostra deduzione è che chi non ha una visione cristiana della vita è tagliato fuori, il che è incostituzionale perché quella è una scuola pubblica pagata con soldi del Comune, non una struttura privata. In Consiglio abbiamo cercato di far presente che un’impostazione del genere contrasta con la Carta europea dei valori della cittadinanza e dell’integrazione ma da parte della maggioranza c’è stata una chiusura totale».

Per il sindaco Anita Marchetti, invece, si sta facendo «tanto rumore per nulla: da trent’anni c’è una sezione della scuola comunale che ha per insegnanti delle suore. L’anno scorso abbiamo fatto una convenzione con la curia di Mantova e abbiamo adottato il regolamento della Fism (la Federazione italiana scuole materne riconosciuta dalla Cei che raggruppa le scuole cattoliche). E’ da 30 anni che la struttura funziona con personale religioso, questo regolamento disciplina una situazione di fatto». E se qualcuno non condivide l’impostazione cristiana che fa? Manda i figli altrove?

Secondo il sindaco, sostenuta da una maggioranza Pdl-Lega Nord, è un falso problema: «Non è vero che non sono accettati quanti non si riconoscono in una visione cristiana, è una scuola pubblica e chiunque può essere iscritto. E comunque a Goito ci sono anche nove sezioni di scuola statale. La sezione comunale ha semplicemente un altro retaggio: io a scuola dicevo le preghiere e non ci trovavo niente di strano». Qualcosa di strano invece lo trova Rita Scapinelli, consigliere d’opposizione, di sinistra e cattolica: «Avevo chiesto di ritirare questo regolamento, mi è stato risposto che, siccome la scuola materna è gestita da sempre dalle suore, andava sancita formalmente tale situazione. Del resto anche nella delibera della convenzione con l’opera diocesana, relativa alla conduzione della struttura, si è scritto che l’insegnante è di chiara ispirazione cristiana».

La Stampa 24.02.10