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"Licei, a tre giorni dalle iscrizioni ecco i regolamenti del Ministero", di Salvo Intravaia

Ecco, finalmente, i tre Regolamenti che danno ufficialmente avvio alla riforma della scuola superiore. Il ministero dell’Istruzione li ha pubblicati pochi minuti fa sul proprio sito (www.istruzione.it) dopo avere avuto, per la che riguarda i tagli, l’ok del ministero dell’Economia. Con i tre decreti vidimati da via XX settembre le scuole, le province e le regioni possono partire con i loro piani dell’offerta formativa. Ma è quasi certo che ad appena tre giorni dall’apertura delle iscrizioni (il prossimo 26 febbraio) le scuole apporteranno pochissime modifiche ai percorsi disegnati da viale Trastevere. E restano ancora parecchi dubbi, che con tutta probabilità verranno fugati chiariti solo nei prossimi giorni.

I licei. Saranno in tutto sei: classico, scientifico (con eventuale opzione di Scienze applicate), linguistico, delle scienze umane (con eventuale opzione “economico-sociale”), artistico con ben 6 indirizzi (arti figurative; architettura e ambiente; audiovisivo e multimedia; design; grafica; scenografia), musicale/coreutico, di cui verranno attivati soltanto 40 sezioni, per il primo, e 10 sezioni per il secondo. Dove, ancora, non si sa. I quadri orario, con ore e materie, sono reperibili sul sito del ministero. Restano per alunni e famiglie alcune incognite. E’ possibile scegliere liberamente fra gli indirizzi e le opzioni dei singoli licei? Sembra proprio di no. O meglio, le scuole non potranno garantire ai genitori la scelta perché le diverse opzioni saranno attivate in relazione alle disponibilità di organico. Ma una cosa è certa: si partirà soltanto dalle prime classi. Tutte le altre classi continueranno fino alla conclusione del quinquennio con le materie e gli orari attuali

Gli istituti tecnici. Gli alunni degli istituti tecnici saranno i più penalizzati dalla riforma. Anche nei tecnici si partirà con indirizzi e materie nuove dal primo anno. Ma a settembre le seconde, terze e quarte classi dovranno subire una contrazione delle ore. Oltre mezzo milione di studenti si vedranno ridurre le ore settimanali a 32 ore, ma non è ancora chiaro quali materie verranno ridimensionate. Per il prossimo anno, gli alunni dovranno scegliere fra due settori (Economico e Industria/artigianato) e 11 indirizzi (Amministrazione, Finanza e Marketing; Turismo; Meccanica, Meccatronica ed Energia; Trasporti e Logistica; Elettronica ed Elettrotecnica; Informatica e Telecomunicazioni; Grafica e Comunicazione; Chimica, Materiali e Biotecnologie; Sistema Moda; Agraria, Agroalimentare e Agroindustria; Costruzioni, Ambiente e Territorio).

Gli istituti professionali. Verranno articolati in due settori (Servizi e Industria/artigianato) e 6 indirizzi (Servizi per l’agricoltura e lo sviluppo rurale; Servizi socio-sanitari; Servizi per l’enogastronomia e l’ospitalità alberghiera; Servizi commerciali; Produzioni artigianali e industriali; Manutenzione e assistenza tecnica). E si partirà dal primo anno. Ma, come nei tecnici, anche le seconde e terze classi degli istituti professionali dovranno lasciare sul campo una fetta di ore. Nel 2010/2011 le seconde e terze funzioneranno con 34 ore settimanali e l’anno successivo si passerà a 32 ore.

L’Autonomia. Per adeguare i curricula alle esigenze del territorio, i licei potranno manovrare la leva dell’autonomia. Sarà possibile ritagliare, nel primo biennio, il 20 per cento del monte ore complessivo per attivare nuovi insegnamenti o integrare quelli esistenti. Nel secondo biennio la quota di autonomia sale al 30 per cento per scendere nuovamente al 20 per cento all’ultimo anno. Ma tutto è ancora una volta vincolato dalla dotazione organica assegnata dal ministero alla singola scuola. Negli istituti tecnici la quota di flessibilità è più spinta: 20 per cento dell’orario al primo biennio, 30 per cento nel secondo biennio e 35 per cento all’ultimo anno. E nei professionali si può arrivare al 40 per cento all’ultimo anno.

I tagli e classi di concorso. La riforma costerà al sistema di istruzione oltre 17 mila cattedre, il grosso delle quali saranno tagliate negli istituti tecnici e professionali. Solo a settembre salteranno quasi 12 mila cattedre. Se aggiungiamo le cattedre in meno alla scuola primaria e alla scuola media si tocca quota 27 mila. E cosa potranno insegnare il prossimo anno i prof nei nuovi indirizzi verrà definito fra un anno.
La Repubblica 24.02.10

Prestiti e anticipi di stipendio. Il welfare locale delle Regioni

Sostegni a chi è in crisi. Piemonte, Liguria ed Emilia in testa. Veneto e Lombardia, aiuti per pochi Accordo in Toscana: soldi alle imprese per pagare gli operai, a patto che non licenzino. Regione che vai welfare che trovi. Le misure con cui il governo ha deciso di affrontare l’impatto della crisi sull’occupazione sono quelle tradizionali: cassa integrazione nelle sue diverse forme, cassa in deroga in concorso con le Regioni. Queste però hanno messo in campo iniziative proprie a sostegno dei lavoratori in difficoltà. Alcune più efficaci di altre. Qualche esempio. Ieri la Toscana guidata dal democratico Claudio Martini ha presentato un accordo con le banche. Gli istituti di credito finanzieranno dei prestiti alle aziende per pagare gli stipendi dei dipendenti. Le imprese potranno farne ricorso solo se non licenzieranno nessuno. La Regione farà da garante con le banche attraverso la finanziaria Fidi Toscana, che controlla al 40%. Sono previsti fino a 500 mila euro per ciascuna azienda. Il prestito potrà essere rimborsato da 60 a 84 mesi, mentre le imprese dovranno pagare agli istituti di credito gli interessi a tassi favorevoli. Fino a ieri, con le garanzie concesse dalla Regione, sono stati autorizzati prestiti per 576 milioni. Come ha ricordato al Forum con l’Unità la governatrice Mercedes Bresso (Pd), il Piemonte ha creato un fondo a sostegno dei lavoratori che non sono stati licenziati ma che non ricevono lo stipendio da almeno tre mesi. Per avere un’idea, in questa situazione ci sono i settemila dipendenti di Phonemedia, call center del gruppo Omega. Lo stesso gruppo che non paga lo stipendio da mesi ai dipendenti Agile ex Eutelia. In Piemonte per questa gente ci sono tre milioni di euro, che aiuteranno 2.500 persone. Saranno le banche ad anticipare i soldi, la Regione a fare da garante. Stesso meccanismo in Liguria: la Regione guidata da Claudio Burlando (Pd) il due febbraio ha istituito un fondo per gli stipendi. Anche in questo caso si tratta di prestiti. Le banche anticipano, la Regione fa da garante con la finanziaria Filse. Quando saranno in grado, i lavoratori restituiranno le somme. Secondo i sindacati, per la Cig in deroga in Liguria nel 2009sono stati spesi31 milioni di euro per 4.500/5mila persone. Mentre in Emilia il welfare è ancora più localizzato, con servizi comunali senza costi per i cittadini svantaggiati. Ogni città si organizzata in modo diverso. Qui nel 2009 la Regione ha impegnato 200 milioni di euro per la cassa in deroga. La giunta di Vasco Errani (Pd) ha inoltre siglato un accordo con le banche per anticipare le indennità a chi è in attesa di ricevere la cig già concessa sulla carta. Misure tardive e scarse – secondo i sindacati – in Veneto, regione guidata da Giancarlo Galan (pdl), che insieme alla Lombardia contribuisce fortemente al Pil nazionale. Quila Regione stima 52mila occupati in meno sul 2008. Molti i precari. Aspettano che parta l’impegno preso a febbraio 2009 per i parasubordinati, i lavoratori a progetto. Tre milioni di euro che garantirebbero quattro mensilità da seicento euro per circa mille persone. Tutto a patto che facciano formazione. Stessa condizione per usufruire degli altri tre milioni destinati ai circa mille somministrati. Ma l’accordo ancora non c’è. Mentre per la cig in deroga nel 2009 sono state presentate 9.800 domande e sono stati stanziati 130 milioni di euro. In Lombardia – dice la Cgil – alcuni accordi sono stati presi dai comuni con le banche o sui servizi. Mentre la regione di Formigoni (Pdl) nel 2009 ha impegnato 250milioni per la cig in deroga. Sul fronte delle misure alternative ha messo in campo un bonus famiglia di 17 milioni. Ne usufruiscono i nuclei con tre figli e almeno uno tra 0 e 6 anni. O chi ha parenti a carico che risiedono in case di riposo o strutture parasanitarie. Mentre per chi è in cig c’è un bonus di 1.300 euro annui. Per il 2010 ancora fondi per la cig in deroga un buonodi250 euro al mese per i lavoratori che nel frattempo faranno formazione.
L’Unità 24.02.10

"La repubblica dei corrotti", di Michele Ainis

Benvenuti nella Repubblica dei corrotti: c’è posto per tutti e non c’è neanche bisogno di mettersi ordinatamente in fila, tanto nessuno la rispetta. Ma come abbiamo fatto a guadagnarci questo speciale passaporto? Perché siamo inquilini d’uno Stato senza Stato, ha osservato ieri Luca di Montezemolo. E perché in questo vuoto prosperano l’inefficienza pubblica e l’illegalità privata.
Ma prospera inoltre un paradosso, giacché nel nostro caso il vuoto dipende in realtà dal troppo pieno. Non è che ci abbia lasciato orfani lo Stato: semmai è cresciuto a dismisura, è diventato un elefante impietrito dalla sua stessa mole. Non è che in Italia manchino le leggi: ne abbiamo viceversa fin troppe sul groppone, col risultato che s’elidono a vicenda, e in ultimo ciascuno fa come gli pare. Non è che il Paese soffra l’assenza di un’energia riformatrice, come il corpo d’un malato lasciato senza medicine: le medicine sono a loro volta troppe, troppi i dottori che ce le somministrano, e ovviamente ogni dottore cambia la terapia confezionata da chi lo aveva preceduto. Sicché alla fine della giostra il paziente muore intossicato.

Valga per tutti il caso dell’università. Noi professori siamo costretti ormai da anni a un andirivieni normativo, dato che ogni governo si sente in obbligo di riformare la legge di riforma, quella varata dal vecchio esecutivo. Le riforme, poi, non sempre fanno tabula rasa del passato ordinamento; più spesso vi s’innestano, crescono per superfetazione, e infatti in questo momento gli atenei italiani offrono simultaneamente corsi di laurea diversi per durata, per numero d’esami, per disciplina complessiva. Non sapendo come diavolo chiamarli, li distinguono in relazione al vecchio, al nuovo e al «nuovissimo» ordinamento, con buona pace dell’Accademia della Crusca. Nel frattempo l’università ha sperimentato più divorzi di Liz Taylor: prima fusa con la scuola sotto un unico ministro, poi retta da un dicastero autonomo, ora di nuovo coniugata. Ma a conti fatti abbandonata al suo destino, perché nessuna riforma può generare frutti se non le si lascia il tempo d’attecchire. Dal pieno nasce dunque il vuoto, ed è esattamente in questo vuoto che hanno messo radici parentopoli, concorsopoli e gli altri scandali dell’università. Per forza, con 111 leggi in materia d’istruzione negli ultimi tre lustri, tutte elencate e consultabili nel sito web di Montecitorio. Ecco, le leggi. Nonostante le buone intenzioni del ministro Calderoli, ne abbiamo ancora 20 mila in circolo. Senza contare quelle regionali (all’incirca 25 mila), né i regolamenti del governo (70 mila).

Significa che il nostro diritto è un corpo opaco, inconoscibile per gli stessi addetti ai lavori. Significa al contempo che i furbi trovano sempre una scialuppa normativa che li conduce in salvo, mentre l’onesto annega. Ma questa ipertrofia della legislazione nutre a sua volta il corpaccione dello Stato, e a sua volta ne è nutrita. Anche qui basterà un esempio. Nell’officina del diritto ospitata da Palazzo Chigi c’erano 345 dipendenti sotto il Duce; oggi sono quasi 5 mila. E anche quando lo Stato si sottopone a una cura dimagrante, cedendo quote di potere, finisce per moltiplicare gli apparati burocratici (è il caso delle Regioni), oppure per moltiplicare i controllori, i quali giocoforza si pestano i piedi a vicenda (è il caso delle authorities, che ormai sono una dozzina).

Insomma, la nostra malattia morale s’accompagna a una bulimia di leggi, di istituzioni, d’apparati. Sarà la fame atavica dei politici italiani, che non sanno rinunciare a una provincia inutile o ai mille posti in Parlamento per non sparecchiare la tavola imbandita. Sarà l’idea di passare in gloria con la riforma del millennio. Però c’è almeno una virtù che a questo punto dovrebbero esibire: la virtù dell’astinenza.
La Stampa 23.02.10

"La dieta dimagrante della scuola pubblica", di Chiara Saraceno

Le scuole pubbliche in Italia sono sottoposte ad una energica cura dimagrante su tutti i fronti: orari, offerta formativa, pulizia e manutenzione, materiali didattici, sostituzioni in casi di assenza. La cosa riguarda soprattutto la scuola, dall´obbligo all´università, ma tocca anche le scuole materne.
Il tempo pieno alle elementari è stato ridotto, soprattutto in quelle regioni (e probabilmente singoli quartieri) in cui viceversa una forte, qualificata, temporalmente consistente offerta formativa sarebbe più necessaria per contrastare gli effetti, sullo sviluppo cognitivo e delle competenze dei bambini e ragazzi, del disagio e della povertà. Un po´ in tutta Italia, ci sono scuole che a febbraio non hanno già più soldi per pagare i supplenti. Pazienza se qualche docente si ammala un po´ a lungo, o se per disgrazia una insegnante decide di avere un figlio. I colleghi faranno i turni di presenza per coprire le classi rimaste scoperte, con quali esiti formativi per gli studenti è immaginabile. Ci sono scuole che mandano circolari ai genitori perché si facciano carico della carta igienica e della cancelleria minuta e talvolta anche di lavoretti di manutenzione e di segreteria. Il volontariato dei genitori non è più una benvenuta integrazione alla dotazione di base. È una necessità per mantenere almeno quella dotazione.
Le responsabilità non sono tutte di questo governo, ovviamente. Anche gli insegnanti e i dirigenti scolastici hanno le loro responsabilità nell´avere creato un sistema spesso anarchico, non trasparente, e non valutato nella sua efficacia. Così come coorti successive di genitori troppo spesso sembrano essersi accontentate – o addirittura aver preteso – del fatto che i figli venissero promossi, piuttosto che interrogarsi sulla qualità della offerta formativa. Chi lo fa, se ne ha i mezzi sceglie oculatamente la scuola e la classe. O si rivolge al privato di qualità. La responsabilità di questo governo tuttavia è quella di aver fatto della questione della spesa, o meglio dei tagli, il criterio principale del proprio intervento. Così, appunto, si taglia il tempo scuola, come se tutti avessero a casa genitori senza impegni lavorativi, biblioteche ben fornite, computer, risorse per le attività integrative. E in un contesto in cui gli edifici scolastici sono spesso fatiscenti, al punto che ogni tanto qualcuno ci rimette la pelle, e sorveglianza e pulizia già al limite del necessario e della decenza, il ministero pretende un taglio del 25%.
Le nuove generazioni sono avvisate. Negli altri paesi si discute dell´investimento nell´educazione ad una età il più precoce possibile come forma non solo di investimento in capitale umano, ma di riduzione delle disuguaglianze provocate dalla origine di nascita. Il nostro invece mostra tutto il proprio disinteresse, offrendo un servizio che, a prescindere dalla buona volontà e competenza professionale dei singoli insegnanti, è di bassa qualità a partire dalle condizioni materiali. Lo stesso disinteresse c´è anche nei confronti dei più piccoli. Si destinano poche risorse agli asili nido, e soprattutto si assiste passivamente al loro mancato utilizzo proprio da parte delle regioni che ne hanno meno, in cui la diffusione della povertà tra i bambini è più alta e le disuguaglianze nelle competenze cognitive più elevate, quindi più necessario intervenire precocemente. Lo ha documentato di recente proprio un rapporto del Dipartimento per la famiglia.
A fronte di questo accanimento nei confronti della scuola pubblica, il governo ha fornito viceversa rassicurazioni alla Chiesa cattolica sul finanziamento alle sue scuole. Sorge il sospetto che non siamo solo di fronte ad uno scambio indecente tra legittimazione politica e riconoscimento di un monopolio etico-educativo (che coinvolge anche altri temi). Siamo di fronte anche alla progressiva squalificazione della scuola pubblica a favore di quella privata, che in Italia è soprattutto scuola cattolica. Il terreno è stato ampiamente preparato dall´ingegneria linguistico-legislativa messa in opera dal governo Prodi. Ad esso di deve la trasformazione delle scuole private (incluse quelle materne) cattoliche in “scuole paritarie”, per aggirare il dettato costituzionale che ne vincola l´esistenza all´essere “senza oneri per lo stato”. Ora siamo, temo, di fronte all´atto finale. Quanto più la scuola pubblica sarà squalificata e privata di risorse, tanto più diventerà la scuola di chi non può scegliere altrimenti, dei poveri, degli immigrati.
La Repubblica 24.02.10

Università, Ghizzoni: approvazione nostro emendamento una grande vittoria

Una ‘importante vittoria del Pd che dimostra che, quando c’è la volontà comune di risolvere i problemi del paese, in parlamento si possono trovare soluzione condivise che superano gli schieramenti’. Cosi’ la capogruppo democratica nella commissione cultura della Camera, Manuela Ghizzoni, commenta l’emendamento al decreto legge Milleproroghe che consente agli atenei con i conti in ordine di utilizzare parte delle proprie risorse per fare nuove assunzioni.
Manuela Ghizzoni e’ prima firmataria dell’emendamento approvato stasera a Montecitorio.
‘L’approvazione dell’emendamento del Pd, sottoscritto anche dal presidente Valentina Aprea – sottolinea Ghizzoni – permettera’ alle università di non superare la soglia critica del 90% nel rapporto tra spese di personale e fondo di funzionamento ordinario. In questo modo, gli atenei potranno procedere a bandire concorsi e fare assunzioni. Insomma – conclude – le porte dell’università non si chiuderanno ai giovani di talento che porteranno innovazione nella ricerca e nella didattica’.

"27 febbraio, i diritti alzano la voce", di Sergio Giovagnoli *

Girando per l’Italia, per assemblee e manifestazioni, capita spesso che precari, lavoratori, pensionati ci invitino a parlare un linguaggio semplice e diretto per rappresentare in maniera più efficace e concreta il peso drammatico della crisi economica. Ci dicono «non parlate di welfare, parlate di sociale, di disoccupazione, di precarietà e reddito di cittadinanza, di servizi tagliati e sostegno scolastico, parlate di non autosufficienza e di solitudine degli anziani, di spazi negati ai bambini e furto di futuro per le nuove generazioni».
Più si esce dalla propaganda e dai talk show e più si allunga la lista dei drammi di milioni di persone che subiscono la crisi. Per spiegare meglio cosa vuol dire welfare, oltre a ribadire il valore della costruzione di un sistema pubblico di protezione sociale che ha accompagnato l’affermazione delle democrazie in Europa, aiuta ricordare cosa non dovrebbe essere il welfare: per esempio erogare miliardi alle banche che hanno predato il mercato finanziario e hanno rischiato di far crollare l’intero sistema economico mondiale per la loro voracità.
Il salvataggio delle banche, dopo anni di neoliberismo che aveva negato ogni forma di controllo pubblico sul mercato, diviene la più esplicita ammissione del fallimento di una politica al servizio dei grandi speculatori e delle multinazionali che hanno inteso la globalizzazione come ricerca forsennata di aree di produzione prive di vincoli sociali e ambientali e di nuove aree di consumo illimitato. La cecità di questo modello crollato sotto le macerie della stregoneria finanziaria si accompagna ai fallimenti dei grandi vertici internazionali su temi come il clima, la fame, il contrasto alla povertà. Il bilancio è tutto negativo in materia di tutela dei diritti sociali, di qualità della vita, lavoro e salute.
Siamo immersi in un infinito talk show che ha trasformato la politica in una disputa da baraccone giocata tutta dentro la scatola mediatica delle tv e non sa più raccontare, salvo rari casi, la drammaticità dei vissuti di chi non ha le risorse per uscire dal disagio. Le scelte del governo sul sociale sono ben descritte nel libro bianco che nega l’utilità di interventi a sostegno del reddito, distingue la povertà relativa da quella assoluta, contrappone i «privilegi» degli anziani alla precarietà dei giovani, nemmeno considera la riforma dei servizi sociali, la 328, e relega il terzo settore ad una funzione di erogatore di «dono» e volontariato. Per creare occupazione si propone la strada di ulteriori deroghe alla legislazione sul lavoro. Si sono persi migliaia di posti, ma il governo continua a negare la gravità della crisi e a fornire ricette sbagliate e pericolose.
Si afferma un’idea residuale di welfare che scarica sulle famiglie e sulle donne il lavoro di cura, confinando il disagio nel carcere e nelle nuove forme diffuse di controllo sociale. Si sta passando dallo Stato sociale a quello penale, tagliando fondi per i servizi e investendo nella macchina del controllo (videosorveglianza, Cie, carceri) con una proliferazione di restrizioni e divieti spesso insensati. A questa deriva ci opponiamo, proponendo una prospettiva di cambiamento che ridia spazio alla cultura, alle relazioni umane, alla coesione sociale e metta in discussione questo modello sociale con i suoi miti nefasti di crescita e competizione. Il 27 febbraio, in tante città d’Italia, i «diritti alzano la voce».
* responsabile welfare dell’Arci

Il Manifesto 23.02.10

Allarme rosso a red Tv, da marzo cassa integrazione

Allarme rosso a Red tv, la tv di area dalemiana nata il 4 novembre 2008, nella notte dalla vittoria di Obama. Se entro fine febbraio alla Camera non si sarà raggiunto l’accordo per congelare i tagli all’editoria, il primo marzo tutti i dipendenti della tv finiranno in cassa integrazione a zero ore. E Red potrebbe essere la prima vittima della carneficina decisa dal governo a fine 2009, con il taglio dei contributi all’editoria e la cancellazione del “diritto soggettivo”, che consente ai giornali e ai media che godono di contributi pubblici di farsi anticipare i soldi “pubblici” dalle banche per poter così gestire i propri bilanci.

«Questa è l’ultima settimana di lavoro a Red Tv, dalla prossima settimana tutti i lavoratori del canale satellitare fliglio di Nessuno Tv saranno in cassa integrazione, resterà acceso pro forma solo il segnale», denuncia il vicedirettore mario Adinolfi sul suo blog. «Penso ai miei tredici colleghi assunti a tempo indeterminato, ma soprattutto ai quattro a tempo determinato già espulsi dal ciclo produttivo a gennaio e privi anche di strumenti di tutela». «La responsabilità di questa chiusura? Certamente -scrive Adinolfi- di Giulio Tremonti e dei suoi tagli al fondo sull’editoria. Ma qualcuno mi deve ancora spiegare perche Red Tv, la tv di Massimo D’Alema, sia l’unica delle testate coinvolte dal taglio a mandare subito i suoi dipendenti in cassa integrazione. Anche qui una spiegazione tecnica c’è: gli “imprenditori” che in questi anni hanno lavorato sul meccanismo fondi pubblici-anticipazione bancarie per via del diritto soggettivo, in assenza di tale diritto non vogliono mettere a rischio dei denari loro per tenere in vita e in efficienza il canale. E allora, via alla cassa integrazione». Adinolfi se la prende anche con D’Alema. «In questi giorni di difficoltà non si fa nè sentire nè vedere. Forse potrebbe passare, dire una parola a un gruppo di ragazze e ragazzi (quattordici dipendenti, quattro contrattualizzati senza tutele, almeno venticinque tra collaboratori e tecnici) che finiranno in mezzo a una strada».

«Red tv non chiude», replica Luciano Consoli, presidente del cda dell’emittente. «La scelta di chiedere la cassa integrazione per i 14 dipendenti è stata presa in accordo con i sindacati come misura cautelativa qualora il governo non mantenesse gli impegno assunti sul ripristino del diritto soggettivo. Comunque vada – aggiunge – nelle prossime settimane i nostri programmi proseguiranno sul canale 890 di Sky grazie alle produzioni inedite realizzate in questi mesi. Ci auguriamo che nell’approvazione finale del Milleproroghe venga accolto quanto richiesto da 348 deputati di tutti i gruppi così da non rendere necessario il ricorso alla cassa integrazione».

La situazione però è molto difficile a Red, che ha sede proprio in un’ala a pianterreno di palazzo Grazioli. Se maggioranza e opposizione non troveranno un’intesa, i 14 dipendenti finiranno in cassa integrazione fino a dicembre. Chiamati a rotazione un paio di giorni al mese (al massimo) dall’azienda per realizzare quell’ora di programmazione giornaliera “fresca” che consente di restare attivi. Red riceve annulamente poco più di 4 milioni di euro. Ma i tagli di Tremonti hanno decurtato i denari del 2009 (già spesi dall’emittente) oltre a prospettare un taglio per il 2010. vVsta la situazione, il pagamento degli stipendi si è reso impossibile. E i dipendenti si sono per ora visti respingere anche la richiesta di un anticipo dei Tfr per poter pagare mutui e affitti. “Manca liquidità”, è la spiegazione loro offerta.

Matteo Orfini, responsabile Cultura e Informazione del Pd e membro del cda di Red tv (espresso dalla fondazione Italiani europei), assicura che «Red non chiude, la cig è stata attivata come misura cautelativa nell’interesse dei lavoratori». E le accuse di Adinolfi sul presunto disimpegno di D’Alema: «Stiamo facendo una battaglia per tutte le testate, non solo per Red tv, per convincere la maggioranza a congelare i tagli all’editoria per 2 anni. Abbiamo raccolto le firme di 347 deputati, la maggioranza. Bersani e D’Alema sono impegnati in questa battaglia. Noi siamo disponibili a fare una riforma che elimini tagli e furbizie nei fondi pubblici all’editoria. Ma non si può fare una riforma mentre chiudono testate e giornali». Orfini la settimana scorsa ha incontrato i lavoratori di Red. Ma ha spiegato che Italianieuropei può dare solo un supporto politico, visto che non ha quote nella proprietà dell’emittente.
L’Unità 23.02.10