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Perchè Hillary non ha vinto? La misoginia della più grande democrazia del mondo

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Gli analisti, a caldo, hanno cercato di spiegare perché, alle presidenziali Usa ha vinto Trump. Altrettanto importante (soprattutto da un punto di vista femminile), è, però, provare a capire perché non ha vinto Hillary. Dino Amenduni ricorda come Trump abbia avuto un milione di voti in meno rispetto a Romney nel 2012, ma Hillary ha raccolto ben sei milioni di voti in meno rispetto a quanto fatto da Obama nel 2012 (secondo mandato). Quindi – dice Amenduni – è la sconfitta di Hillary, prima ancora della vittoria di Trump. Le ragioni di un tale tonfo sono molte e articolate, non ultimo un sistema elettorale che premia il voto frammentato su più Stati, piuttosto che grandi masse di consensi aggregate in alcuni punti del Paese. Ci sono, però, alcune considerazioni fatte da artisti e giornalisti che sto leggendo in queste ore e che mi hanno colpito per la loro lungimiranza, da un lato, ma anche perché, dati alla mano, si ricostruisce il volto di un Paese che, noi, continuiamo (e credo anche a ragione) a definire la più grande democrazia del mondo, ma che è ancora un Paese, nel suo intimo, profondamente patriarcale. Il regista Michael Moore – che l’America rurale, quella dove Trump ha sfondato, la conosce bene – già in estate aveva messo in guardia i Democratici dall’ “orgoglio dell’uomo bianco” che mai avrebbe potuto “tollerare, dopo otto anni di presidenza da parte di un uomo di colore, che il potere finisse addirittura nelle mani di una donna”. Una misoginia intrinseca alla società americana che Gian Antonio Stella, sul Corriere della Sera, ha provato a spiegare, numeri alla mano. Un articolo interessante che vi allego perché contiene dati non poi conosciuti al grande pubblico. Uno su tutti: su 50 Stati, solo 6 hanno una donna come governatore e si è dovuto aspettare il 1974 (50 anni dopo il voto alle donne in Usa) per vedere la prima donna eletta a capo di uno Stato per i suoi soli meriti e non, come era accaduto in passato, moglie o vedova di un ex governatore. Ragionamento valido anche oggi se è vero che Hillary ha fatto tutta la campagna elettorale con il nome del marito (cosa che le femministe storiche non le hanno mai perdonato) e anche la nascente (almeno sui social) candidatura di Michelle Obama è, ancora una volta, quella di una donna (certo competente, capace di comunicare, preparata) che deve la sua fama essenzialmente al nome del marito. Tenuto conto di tutto questo, certo rimane l’altro interrogativo: l’America non è un Paese per donne, come dice Stella, o in questo caso è stata scelta la donna sbagliata, come dicono i sostenitori di Michelle? Difficile dare risposte. Certo è che l’immagine che la Clinton ha trasmesso è quella di una donna algida, poco empatica, preparata e competente sì, ma incapace di comunicare quel sogno di un cambiamento che, invece, si è rivelata la carta vincente del suo rivale. Arduo dire se è davvero quello il suo carattere o se, invece, un tale atteggiamento non sia stato il frutto di una vita passata, prima nello studio e poi nella professione, a dover dimostrare, a ogni pié sospinto, che era brava, anzi più brava dei colleghi maschi, e, quindi, che a lei, anche se donna, ci si poteva affidare. Cosa che, alla fine, l’America non ha voluto fare.

crediti immagine: flickr.com/photos/14079872@N00/25056428284

Elezioni Usa, quel sogno di rivalsa che per tanti si e’ trasformato in un incubo

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Hillary ha ammesso la sconfitta, Donald Trump è il 45esimo presidente degli Stati Uniti, con buona probabilità l’uomo più potente al mondo. Un risultato non previsto dai sondaggi e dai media, che sta facendo barcollare le borse di mezzo mondo, che apre tanti interrogativi sul futuro di questo grande Paese e, a caduta, del mondo occidentale. Così, a caldo, provo a mettere in fila un po’ di considerazioni che, mi sembra, possano essere racchiuse in un assunto: ha vinto chi ha saputo vendere al meglio un sogno che, per tanti, si è già trasformato in un incubo. Prova ne è l’intasamento dei siti canadesi di informazione sulle modalità di espatrio. Le idee politiche di Donald Trump, che nei dibattiti televisivi erano apparse confuse, al contrario di quelle spiegate con dovizia di particolari da Hillary Clinton, sono, invece, apparse sufficientemente chiare a quella marea di elettori bianchi, appartenenti alla middle class, abitanti nelle zone de-industrializzate, che si sono recati in massa alle urne per votare per l’uomo che prometteva di far tornare grande l’America. Hillary Clinton, al contrario, è stata vista come la rappresentante di quell’establishment di ricchi e potenti che il popolo sente assolutamente distante, indipendentemente dal fatto che la stessa Hillary sia sempre apparsa più preparata, più competente, più attrezzata culturalmente e nella pratica politica e diplomatica nazionale e internazionale. L’esigenza del cambiamento, dell’uomo capace di cambiare direzione, dello sparigliamo le carte e vediamo cosa succede, ha prevalso su tutto. Come era già capitato in Italia, come sta capitando in tante democrazie europee. Successe così con Prodi nel 2006, con Berlusconi nel 2008, sta succedendo così oggi con il Movimento 5 stelle, si veda il voto amministrativo a Roma. Un’idea, quella americana, peraltro solidamente impiantata a destra: non è un caso che la prima a congratularsi con Trump sia stata Marine Le Pen. E d’altronde si vota molto di più con la pancia che con la testa. Sempre più chi vince nelle elezioni è chi è stato capace di trasmettere un sogno di miglioramento, indipendentemente da come poi sarà in grado di declinarlo. Trump non ha mai detto come si muoverà, quello che pare certo è che costruirà muri e taglierà diritti. Ma questo al suo elettore non importa. Il sogno è la rivalsa dell’americano bianco, di classe media, impaurito dalla crisi economica, dal continuo arrivo di immigrati, privato della speranza che il domani sarà comunque migliore. Quella speranza che Trump ha saputo interpretare e la Clinton no. L’America non è ancora pronta per una presidente donna o era la donna sbagliata quella che si è presentata? Rimane questo il grande interrogativo a cui, al momento, nessuno sembra saper dare una risposta. Sanders aveva saputo far sognare il proprio elettorato, così come a suo tempo aveva fatto Obama e come, forse, secondo alcuni, sarebbe stata in grado di fare la moglie Michelle. Rimane, poi, il dato di fatto che i sondaggisti non sono riusciti a fotografare questa grande voglia di cambiamento: che gli elettori di Trump siano l’America più muta, o che chi potenzialmente si vergogna del suo voto, non lo verbalizzi nei sondaggi, ma lo scriva nel segreto dell’urna, è un altro aspetto che interroga tutti – italiani, europei, americani – in vista delle tornate elettorali future e della predisposizione di programmi che parlino non solo alla pancia degli elettori, ma al raggiungimento di obiettivi di bene comune.

By Gage Skidmore, CC BY-SA 3.0, Link

Stragi nazi-fasciste, creare una memoria storica condivisa

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Insieme ai colleghi modenesi del Pd Davide Baruffi, Maria Cecilia Guerra, Giuditta Pini e Stefano Vaccari ho convintamente firmato la mozione – presentata alla Camera dal deputato De Maria e al Senato dal senatore Chiti – con cui si impegna il Governo a perseguire tutte le azioni necessarie, in rapporto anche con la Germania, per far sì che si crei una memoria storica condivisa sugli anni di guerra dal ’43 al ’45, in particolare per quanto riguarda le stragi nazi-fasciste, in modo che sul passato non cali l’oblio e non si lasci spazio a un revisionismo storiografico potenzialmente pericoloso per il presente.

A fine Seconda guerra mondiale furono aperti oltre 2.300 fascicoli riguardanti gli eccidi dei nazi-fascisti sul territorio italiano che, si è calcolato, causarono la morte di qualcosa come 15/20mila civili. Quei fascicoli, nell’immediato dopoguerra, furono sottratti ai magistrati militari territoriali, come confermato dal ritrovamento, nel 1994, di 659 di questi fascicoli “sepolti” nel cosiddetto Armadio della vergogna presso la Procura generale militare di Roma. Da allora, i magistrati militari territoriali sono riusciti ad aprire oltre 300 processi, un modo non solo per affermare giustizia, ma anche per ristabilire la verità storica. Il tema rimane, infatti, di stretta attualità visti i rigurgiti neo-fascisti e neo-nazisti che riappaiono in giro per l’Europa ed è oggetto di una mozione presentata, nei giorni scorsi, alla Camera dal deputato De Maria e al Senato dal senatore Chiti, che ho convintamente firmato anche io insieme ai colleghi modenesi del Pd Davide Baruffi, Maria Cecilia Guerra, Giuditta Pini e Stefano Vaccari. “Abbiamo il dovere di coltivare la memoria e di favorirne la trasmissione alle nuove generazioni – confermano i parlamentari Pd – Passi avanti, in questi anni, ne sono stati fatti. Le magistrature militari di La Spezia, Verona e Roma hanno avviato i processi nei confronti dei criminali nazisti, anche se poi di fatto nessuno ha scontato la condanna. Grazie a un accordo con la Germania che ha sostenuto anche economicamente lo studio, è stato fatto un censimento accurato delle stragi ora a disposizione su Internet di studiosi e cittadini. Anche le autorità tedesche hanno, in più occasioni, convenuto come la conciliazione non possa essere oblio. Bisogna continuare, però, sulla strada della ricostruzione di una memoria storica condivisa di quegli anni, per ragioni di giustizia, di verità e anche per evitare potenzialmente pericolose revisioni di quanto accaduto”. Per queste ragioni, con la mozione si impegna il Governo ad adoperarsi affinché sia assicurata l’esecuzione sotto il profilo civile e penale delle sentenze di condanna dei criminali tedeschi, ad assumere iniziative presso la Repubblica federale tedesca affinché si ricostruisca una memoria storica condivisa e vi siano riparazioni morali per le vittime e la Germania confermi il proprio impegno economico anche per il prossimo quadriennio nel Fondo per il futuro. Il Governo deve impegnarsi, inoltre, per promuovere studi e ricerche storiche e per la conservazione dei luoghi della memoria.

Testo della mozione_De Maria_stragi-nazi-fasciste

 

Riforma costituzionale, risparmi di spesa per il funzionamento di parlamento e consigli regionali (art. 69 e 122)

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Il viaggio nella riforma costituzionale affronta, oggi, il tema della riduzione delle spese per il funzionamento del Parlamento e dei consigli regionali, attraverso l’analisi degli articoli che riguardano l’indennità parlamentare (art. 69) ed il limite agli emolumenti per i consiglieri regionali (art. 122).
Per effetto della modifica apportata all’articolo 69, ai senatori non sarà più riconosciuta alcuna indennità, che verrà quindi corrisposta ai soli deputati, secondo quanto stabilito dalla legge.
La legge vigente (n. 1261 del 1965), al fine di garantire “il libero svolgimento del mandato”, stabilisce che l’indennità non può superare il trattamento lordo corrisposto ai magistrati presidenti di Sezione della Corte di Cassazione, diminuito del 10%. Esso è costituito da quote mensili “comprensive anche del rimborso di spese di segreteria e di rappresentanza”oltre alla diaria, a titolo di rimborso delle spese di soggiorno a Roma. La modifica dell’art. 69 determina quindi che ai senatori, che sono anche sindaci e consiglieri regionali, spetterà solo il compenso per la carica di rappresentanza territoriale che rivestono. Per i nuovi senatori di nomina presidenziale (5 complessivamente, che abbiano “illustrato la patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”) non è prevista alcuna indennità, mentre lo è per i senatori ex Presidenti della Repubblica e per i senatori a vita attualmente in carica (e che permarranno nel ruolo, ad ogni effetto, fino a decadenza “naturale”).
L’argomento dell’indennità parlamentare è all’ordine del giorno, ed è stato discusso all’inizio della settimana scorsa alla Camera: ne ho parlato in un altro post, al quale rinvio.
Sulla nuova disposizione dell’art. 69, interviene anche la modifica apportata all’art. 122, che individua nell’importo spettante ai sindaci dei Comuni capoluogo di Regione il limite agli emolumenti del presidente della Giunta e dei consiglieri regionali. Il limite fa riferimento ad un parametro che non è unitario, ma che varia da Comune a Comune in base ad una serie di fattori, in particolare alla dimensione demografica dell’ente. Questa disposizione non si applicherà alle Regioni a statuto speciale ed alle Province autonome di Trento e di Bolzano fino alla revisione dei rispettivi statuti sulla base di intese con le medesime.
Riguardo al limite agli emolumenti dei consiglieri regionali, si ricorda anche un’altra disposizione della legge di riforma costituzionale (articolo 40, comma 2), che vieta la corresponsione di “rimborsi o analoghi trasferimenti monetari recanti oneri a carico della finanza pubblica in favore dei gruppi politici presenti nei Consigli regionali”.
Questo insieme di norme – ed altre sulle quali ci si soffermerà nelle prossime “puntate” – rientrano in quel “contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni” richiamato nel titolo della legge costituzionale e che è stato utilizzato come quesito referendario.

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La riduzione della spesa pubblica non è, ovviamente, la motivazione principale della riforma costituzionale (e già mi sono espressa negativamente, per il messaggio sbagliato che lancia, sulla campagna pubblicitaria per il Sì che annuncia – tra le motivazioni per un voto favorevole – la diminuzione dei politici); l’obiettivo prioritario è quello di rendere il nostro sistema parlamentare più semplice e più efficiente, anche attraverso l’eliminazione del bicameralismo paritario (su cui ebbe ad esprimere perplessità anche il presidente della Commissione dei 75, Meuccio Ruini, nell’illustrare i lavori all’Assemblea costituente) e la realizzazione di un procedimento legislativo più snello. Un obiettivo di efficacia e sobrietà che si raggiunge, comunque, anche attraverso la riduzione del numero dei senatori (215 in meno), la mancata previsione delle indennità per i nuovi senatori, il limite agli emolumenti dei consiglieri regionali e il divieto di rimborsi pubblici ai gruppi politici presenti nei Consigli regionali… In sintesi – per dirla con le parole della vice presidente della Camera, Marina Sereni – la “riforma serve per ridurre i costi diretti delle istituzioni e per incidere sui costi indiretti, sulle inefficienze e lentezze del sistema che fanno perdere al Paese investimenti, dinamismo, credibilità”.

Approvata la legge sul cinema e l’audiovisivo, grande risorsa della cultura italiana

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Alla Camera, stamattina, dopo l’esame del Senato, abbiamo approvato in via definitiva la nuova legge per il cinema e l’audiovisivo: una norma attesa da trent’anni, a cui la legge di stabilità per il 2016 ha fornito i fondi necessari per il definitivo decollo. Ricordo che, dieci anni fa, da capogruppo Pd in Commissione Cultura alla Camera, fui ricevuta, con il mio omologo al Senato, dall’allora ministro della Cultura Rutelli che ci annunciò l’avvio di due importanti provvedimenti legislativi sollecitati e sostenuti dal Governo Prodi: la legge sullo spettacolo dal vivo, di cui si sarebbe occupata la Camera e la legge sul cinema, che sarebbe stata di competenza del Senato. Quella legislatura durò troppo poco per permettere alle due iniziative di essere concluse… Nella legislatura successiva (governi Berlusconi e Monti) alla Camera riprendemmo l’esame sullo spettacolo dal vivo, senza concluderlo… Oggi, invece, la legge sul cinema, diventa finalmente realtà. Come ho detto, è un provvedimento collegato alla legge di Stabilità dello scorso anno: siamo riusciti a farlo diventare legge nel giro di “appena” un anno (periodo breve per i tempi parlamentari), grazie al ricorso di un “escamotage” procedurale che, credo, valga la pena spiegare. Il disegno di legge nasce con una dotazione di fondi importante, doppia rispetto a quella consueta e per non tardarne oltremodo la fruibilità a vantaggio di tutti coloro che, a vario titolo, lavorano nel mondo del cinema e dell’audiovisivo, è stato necessario muoversi con (relativa) rapidità. Ebbene, l’unico modo per accelerare il procedimento, stanti i meccanismi attuali di bicameralismo paritario, è stato quello di superare la consueta “navetta” tra i due rami del Parlamento, concentrando la grande mole di lavoro di esame del provvedimento nel solo Senato. Si è voluto, infatti, costruire misure che andassero incontro alle esigenze reali e attuali del mondo del cinema e, quindi, sono state effettuate più di sessanta audizioni. Poi, sempre al Senato, si è lavorato alla stesura e alle modifiche al testo. La Camera ha rinunciato, di fatto, in nome di un obiettivo condiviso, a svolgere la propria funzione legislativa prevista oggi dalla Costituzione ed ha “ratificato” il testo trasmesso dal Senato. Quando, nelle mie considerazioni sulla riforma costituzionale svolte sul mio blog, parlo di semplificazione e snellimento delle procedure legislative, mi riferisco anche a questo. Superare il bicameralismo paritario, concentrare il lavoro legislativo in una delle Camere, vorrà dire davvero accelerare il procedimento legislativo, a tutto vantaggio delle comunità interessate dai provvedimenti in esame. Ricordo solo brevemente, e rimando alle schede allegate, che la nuova legge istituisce un Fondo per il cinema e l’audiovisivo con uno stanziamento minimo di 400 milioni di euro. Si innalza il tax credit per produttori, distributori ed esercenti. Vengono stanziati 120 milioni a fondo perduto per ristrutturare sale cinematografiche, pubbliche e private. Viene premiata la produzione di qualità e si aiutano le opere prime con finanziamenti ad hoc. Particolare attenzione, infine, è riservata anche alla crescita di un pubblico più consapevole, con, ad esempio, misure per la formazione degli insegnanti e l’introduzione dell’educazione all’immagine nelle scuole.

Dossier Legge Cinema e audiovisivo (Pdf)

By Kotivalo (Own work) [CC BY-SA 4.0], via Wikimedia Commons

Hillary Clinton, sul valore del voto

“Sono le elezioni più importanti della nostra vita. In gioco c’è il diritto stesso al voto. C’è il clima: se pensate che il riscaldamento globale sia in corso, dovete votare. Se siete per una riforma dell’immigrazione che porti alla cittadinanza, dovete votare. Se volete la parità dei matrimoni, posti di lavoro e infrastrutture, istruzione universitaria accessibile, dignità per tutte le donne, e questo speravo di non doverlo dire, dovete votare perché sarà in gioco nelle urne.” Hillary Clinton, verso l’8 novembre 2016

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