Forse l’umidità sedimentata nel tempo. Forse un’infiltrazione aggravata dalle ultime piogge. A rovinare sul suolo degli Scavi di Pompei, stavolta, è una pesante trave di castagno che risale agli anni Settanta e non servirà prendersela con Giove Pluvio. Per fortuna capita di notte e non c’è nessuno a rischiare il collo: l’asse di legno marcita, lunga quasi cinque metri, si stacca dalla struttura che sorregge le tegole e vola giù per quasi otto metri sul pavimento dello splendido (solitamente affollato) porticato: è il peristilio con affreschi della famosa Villa dei Misteri. Alla propaggine estrema di un parco archeologico, lungo 44 ettari, sorvegliato da pochissimi custodi, penalizzato da sette crolli negli ultimi ventidue mesi.
La trave non ha alcun valore, dunque, e non c’è danno alle strutture della domus: eppure non basta questo sollievo a placare le polemiche sugli Scavi a rischio abbandono, e sul tema sicurezza che pende — è il caso di dire — sulla testa di lavoratori e turisti, oltreché su un inestimabile patrimonio.
Protestano i sindacati, Legambiente, parlamentari di destra e sinistra. Dalla senatrice Pdl Diana De Feo che parla di «manutenzione inesistente e rischio incolumità per i turisti», al collega Pd Andrea Marcucci, che denuncia: «Esiste uno spread culturale, non meno grave di quello finanziario. Il governo assuma come priorità gli interventi su Pompei». Solo sei mesi fa, a febbraio, volò via l’intonaco della Domus di Venere in Conchiglia. Un danno che già allungava la lista dei clamorosi cedimenti degli ultimi anni, cominciati con il crollo nel cuore della Schola Armaturarum del novembre 2010. In meno di due anni, siamo al settimo episodio. Ma diventano 21 se si parte dal 2003. Fortuna che, mentre si ripropone l’eterna giostra delle reazioni, sul futuro di Pompei credono più a Bruxelles. I 105 milioni stanziati dall’Unione europea già lo scorso inverno sono i unici fondi grazie ai quali potranno partire, (seppure con ritardo di alcuni mesi), sia il restauro di 5 Domus, sia la messa in sicurezza delle tre aree più a rischio: le Regio Sesta, Settima e Ottava.
Da ieri è interdetta la sola area del peristilio. La soprintendente ai beni archeologici di Napoli e Pompei, Teresa Cinquantaquattro, assicura il via all’istruttoria interna «per capire cosa sia stato a
provocare il cedimento». Aggiunge la soprintendente: «Forse, a pesare in maniera determinante sono state le piogge violente degli ultimi giorni, che evidentemente hanno aggravato una fragilità che non era visibile, da quanto ci viene riferito dai tecnici». Scatta subito il sopralluogo dei carabinieri. E la conseguente apertura di un quarto fascicolo sugli Scavi da parte della Procura di Torre Annunziata. Le altre tre indagini, in corso, riguardano i precedenti cedimenti degli Scavi e denunce di presunti illeciti nella gestione pregressa dei fondi. Proprio il commissariamento degli anni scorsi ha lasciato opacità e vuoti di gestione che — con i tagli alle risorse, il calo progressivo della manutenzione e i cedimenti di vario livelli delle scorse stagioni — continuano a presentare un grave conto. Restano in piedi le altre domande. Cosa sarebbe accaduto se il crollo fosse avvenuto di giorno? Soprattutto: quante sono le altre travi “potenzialmente” killer?
La Repubblica 09.09.12
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"Ora il Pd si gioca tutto", di Claudio Sardo
L’affermazione della linea Draghi nella Bce ha consentito all’Italia e all’Europa di tirare un sospiro di sollievo. La partita non è conclusa, anzi è appena iniziata, visto il groviglio di questioni politiche, economiche, istituzionali che i Paesi dell’Eurozona sono chiamati a sciogliere per invertire la rotta suicida degli ultimi anni. E il punto decisivo – persino più del rischio di commissariamento che può inficiare la qualità democratica degli Stati costretti a ricorrere al Fondo salva-spread – resta la capacità di attuare finalmente una nuova politica, di spezzare la spirale recessiva, di creare lavoro e innovazione, di liberarci insomma dai dogmi fallimentari della dottrina liberista. L’Europa è la sola dimensione dove si può combattere questa battaglia decisiva. Maggiore integrazione politica e cambio della rotta economica (verso un nuovo, competitivo modello di sviluppo) sono due facce della stessa medaglia. Non ci sarà l’una senza l’altra. Ma non è scontato che l’una porti l’altra con sé.
Il successo di Draghi e il conseguente allentamento della pressione speculativa hanno da noi rianimato i sostenitori del Monti-bis. Sono numerose e trasversali le forze che lavorano per un prolungamento dell’esecutivo tecnico. A partire dalla destra berlusconiana, che ha perso la credibilità per proporsi come alternativa, e da certi salotti della borghesia italiana, che anziché investire per rafforzare e innovare le proprie aziende preferiscono investire per tenere la politica al guinzaglio, screditata e impotente, nell’illusione così di proteggersi meglio dal mercato esterno. Ma sono ancora più numerosi coloro che portano, consapevoli o meno, acqua al mulino della soluzione tecnocratica o oligarchica (perché tale sarebbe un governo tecnico che andasse oltre una fase limitata di emergenza). E tra questi in prima fila ci sono i predicatori di sfiducia verso la democrazia costituzionale, quelli che «sono tutti uguali e rubano tutti alla stessa maniera», quelli che parlano di rinnovamento ma non si preoccupano delle diseguaglianze sociali, del dramma di chi perde il lavoro, dell’affanno dei più poveri, riducendo così la dialettica vecchio/nuovo soltanto a un conflitto interno al teatrino della politica.
Dare alle prossime elezioni un carattere aperto, consentire ai cittadini di scegliere tra opzioni alternative e legittime è condizione anch’essa, non meno del cambio di indirizzo nelle politiche europee, per restituire fiducia e dinamicità al nostro Paese. Se l’esito del voto fosse nullo, se la campagna elettorale fosse celebrata all’insegna dell’inutilità, l’Italia sprofonderebbe nelle sabbie mobili. Non ci sarebbe il prolungamento della tregua, ma si gonfierebbero le vele dei partiti anti-europei e anti-sistema e si avvicinerebbe il collasso greco. Questione sociale e questione democratica sono fattori connessi ad una realistica idea di governabilità. E non è un caso che i populisti di destra e di sinistra – quelli che oggi urlano di più contro un nuovo centrosinistra – sperano nel Monti-bis non certo per sostenerne l’eventuale azione, ma per lucrare sul dissenso sociale. La politica può tentare di assorbire nel tempo i radicalismi: la giustapposizione tra oligarchie ed esasperazione sociale rischia invece di aprire la porta ad avventure autoritarie ed eversive.
Certo, non basterà al Pd e al centrosinistra lanciare l’allarme per scongiurare i pericoli. Non basterà dire no al Monti-bis per evitarlo. La battaglia politica sarà molto dura, come ha scritto ieri Alfredo Reichlin in un articolo su l’Unità che tutti i democratici dovrebbero leggere. E non ci saranno furbizie o tatticismi capaci di eludere i nodi cruciali. Assicurare stabilità finanziaria al Paese e al tempo stesso dare corpo in Europa ad un’alleanza dei progressisti. Mantenere gli impegni assunti a nome dell’Italia e avviare un concreto, realistico piano del lavoro in accordo con le imprese che vogliono giocare nella serie A del mondo. Fare tesoro dei risultati del governo Monti e superarne i limiti sociali, tenendo insieme innovazione ed equità, maggiore competitività del sistema e riduzione della forbice dei redditi e delle opportunità. Ovviamente, per imprimere questa svolta, è necessaria anche una nuova legge elettorale, che consenta di formare un esecutivo attorno al leader del partito che ha ottenuto i maggiori consensi. Come in ogni Paese con forma di governo parlamentare.
Bersani ha deciso di avviare questo percorso, rinunciando alle prerogative che gli offriva lo statuto del Pd e convocando nuove primarie aperte. Il rischio che lo strumento stravolga il fine perseguito, cioè costruire un solido e più condiviso progetto di rinnovamento, va tenuto ben presente. Abbiamo avuto esperienza di primarie ben riuscite e di primarie cattive, che hanno portato divisioni e sconfitte. C’è un ancora irrisolto il problema di regole per assicurare ai sostenitori del centrosinistra un voto senza inquinamenti. Ma, oltre al difficile quadro europeo, insiste sulla crisi italiana un diffuso sentimento di sfiducia, di delusione, di critica per il progressivo blocco del sistema politico, che va affrontato con coraggio, sfidando apertamente l’antipolitica che sta mettendo radici nel nostro campo. Chi ha responsabilità deve mettersi in gioco. Senza rete. Si tratta di una battaglia di portata storica, dal cui esito dipenderà almeno il prossimo decennio. C’è una responsabilità collettiva che va assunta. Il Pd può trovarsi alla testa di una ricostruzione oppure sfasciarsi. Occorre cementare al più presto una base comune tra chi compete alle primarie. E dalle primarie non potrà non sortire una sintesi impegnativa, senza escludere neppure lo sbocco in una forza politica unitaria, in un Pd più grande.
Tanto più i progressisti devono farlo, se intendono dare un valore costituente alla prossima legislatura e coinvolgere nel governo le forze moderate disponibili ad un progetto di rinnovamento e di coesione sociale.
L’Unità 09.09.12
"Ora il Pd si gioca tutto", di Claudio Sardo
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Il successo di Draghi e il conseguente allentamento della pressione speculativa hanno da noi rianimato i sostenitori del Monti-bis. Sono numerose e trasversali le forze che lavorano per un prolungamento dell’esecutivo tecnico. A partire dalla destra berlusconiana, che ha perso la credibilità per proporsi come alternativa, e da certi salotti della borghesia italiana, che anziché investire per rafforzare e innovare le proprie aziende preferiscono investire per tenere la politica al guinzaglio, screditata e impotente, nell’illusione così di proteggersi meglio dal mercato esterno. Ma sono ancora più numerosi coloro che portano, consapevoli o meno, acqua al mulino della soluzione tecnocratica o oligarchica (perché tale sarebbe un governo tecnico che andasse oltre una fase limitata di emergenza). E tra questi in prima fila ci sono i predicatori di sfiducia verso la democrazia costituzionale, quelli che «sono tutti uguali e rubano tutti alla stessa maniera», quelli che parlano di rinnovamento ma non si preoccupano delle diseguaglianze sociali, del dramma di chi perde il lavoro, dell’affanno dei più poveri, riducendo così la dialettica vecchio/nuovo soltanto a un conflitto interno al teatrino della politica.
Dare alle prossime elezioni un carattere aperto, consentire ai cittadini di scegliere tra opzioni alternative e legittime è condizione anch’essa, non meno del cambio di indirizzo nelle politiche europee, per restituire fiducia e dinamicità al nostro Paese. Se l’esito del voto fosse nullo, se la campagna elettorale fosse celebrata all’insegna dell’inutilità, l’Italia sprofonderebbe nelle sabbie mobili. Non ci sarebbe il prolungamento della tregua, ma si gonfierebbero le vele dei partiti anti-europei e anti-sistema e si avvicinerebbe il collasso greco. Questione sociale e questione democratica sono fattori connessi ad una realistica idea di governabilità. E non è un caso che i populisti di destra e di sinistra – quelli che oggi urlano di più contro un nuovo centrosinistra – sperano nel Monti-bis non certo per sostenerne l’eventuale azione, ma per lucrare sul dissenso sociale. La politica può tentare di assorbire nel tempo i radicalismi: la giustapposizione tra oligarchie ed esasperazione sociale rischia invece di aprire la porta ad avventure autoritarie ed eversive.
Certo, non basterà al Pd e al centrosinistra lanciare l’allarme per scongiurare i pericoli. Non basterà dire no al Monti-bis per evitarlo. La battaglia politica sarà molto dura, come ha scritto ieri Alfredo Reichlin in un articolo su l’Unità che tutti i democratici dovrebbero leggere. E non ci saranno furbizie o tatticismi capaci di eludere i nodi cruciali. Assicurare stabilità finanziaria al Paese e al tempo stesso dare corpo in Europa ad un’alleanza dei progressisti. Mantenere gli impegni assunti a nome dell’Italia e avviare un concreto, realistico piano del lavoro in accordo con le imprese che vogliono giocare nella serie A del mondo. Fare tesoro dei risultati del governo Monti e superarne i limiti sociali, tenendo insieme innovazione ed equità, maggiore competitività del sistema e riduzione della forbice dei redditi e delle opportunità. Ovviamente, per imprimere questa svolta, è necessaria anche una nuova legge elettorale, che consenta di formare un esecutivo attorno al leader del partito che ha ottenuto i maggiori consensi. Come in ogni Paese con forma di governo parlamentare.
Bersani ha deciso di avviare questo percorso, rinunciando alle prerogative che gli offriva lo statuto del Pd e convocando nuove primarie aperte. Il rischio che lo strumento stravolga il fine perseguito, cioè costruire un solido e più condiviso progetto di rinnovamento, va tenuto ben presente. Abbiamo avuto esperienza di primarie ben riuscite e di primarie cattive, che hanno portato divisioni e sconfitte. C’è un ancora irrisolto il problema di regole per assicurare ai sostenitori del centrosinistra un voto senza inquinamenti. Ma, oltre al difficile quadro europeo, insiste sulla crisi italiana un diffuso sentimento di sfiducia, di delusione, di critica per il progressivo blocco del sistema politico, che va affrontato con coraggio, sfidando apertamente l’antipolitica che sta mettendo radici nel nostro campo. Chi ha responsabilità deve mettersi in gioco. Senza rete. Si tratta di una battaglia di portata storica, dal cui esito dipenderà almeno il prossimo decennio. C’è una responsabilità collettiva che va assunta. Il Pd può trovarsi alla testa di una ricostruzione oppure sfasciarsi. Occorre cementare al più presto una base comune tra chi compete alle primarie. E dalle primarie non potrà non sortire una sintesi impegnativa, senza escludere neppure lo sbocco in una forza politica unitaria, in un Pd più grande.
Tanto più i progressisti devono farlo, se intendono dare un valore costituente alla prossima legislatura e coinvolgere nel governo le forze moderate disponibili ad un progetto di rinnovamento e di coesione sociale.
L’Unità 09.09.12
"Un rebus in tre punti per l'Euro", di Bill Emmott
Sarebbe bello prevedere che l’autunno porterà un po’ di sole alle nostre cupe economie europee, una luce alla fine del tunnel della crisi dell’euro. Purtroppo, però, sarebbe avventato presumerlo, anche dopo l’importante annuncio di Mario Draghi, giovedì, alla Banca centrale europea. Perché nessuno dei tre principali problemi che affliggono l’euro è stato ancora risolto. E’ vero che il quadro non pare molto più felice dall’altra parte della Manica, in Gran Bretagna o dall’altra parte dell’Atlantico negli Stati Uniti. La scorsa settimana il primo ministro britannico, David Cameron, ha annunciato un pacchetto di misure presumibilmente intese a rafforzare la crescita economica, ma il pacchetto, in definitiva, era vuoto: ha dimostrato che il suo governo non sa cosa fare. Allo stesso modo, il presidente Barack Obama nel suo discorso alla Convenzione del partito democratico non è riuscito a delineare un vero programma di quello che vorrebbe fare se a novembre sarà rieletto presidente.
Almeno il presidente della Bce, Draghi sa cosa fare: «Tutto il possibile», e, se necessario, comprerà titoli di Stato italiani o spagnoli in misura sufficiente a ridurre a livelli accettabili i costi di finanziamento di tali Paesi.
In altre parole, nella sua visione, occorre rimuovere il premio caricato dagli istituti di credito sui governi per coprire il rischio di un crollo dell’euro. L’euro non sta per crollare, dice, quindi non c’è bisogno di un premio.
Si tratta di un piano ingegnoso e rappresenta un notevole progresso che Draghi sia riuscito ad annunciarlo nonostante l’opposizione politica tedesca. Se dovesse funzionare, potrebbe addirittura riportare il sorriso sui volti del primo ministro Cameron e del presidente Obama, perché loro sanno che la recessione e il possibile crollo della zona euro deprimono le loro economie e rendono più guardinghe le loro aziende. Ma anche se il piano di Draghi è necessario e anche se può riuscire a far sì che non siano solo i mercati finanziari a determinare il futuro dell’euro, non basta a risolvere l’inghippo dell’eurozona.
Questo rebus ha tre punti. Il primo è pratico: come ristabilizzare la moneta europea, come vogliono i tedeschi, gli olandesi e gli altri Paesi creditori del Nord Europa, in base a rigorose norme di bilancio e a severe condizioni per eventuali salvataggi, finché c’è un Paese membro – la Grecia – che notoriamente non può obbedire alle regole e avrà inevitabilmente bisogno di altri aiuti? Espellere la Grecia metterà in pericolo la moneta e il sistema bancario europeo, ma tenerla come membro mina la credibilità di tutte le regole e le «condizioni» a cui la Germania e Draghi fanno riferimento. Su questo non è stato fatto alcun progresso e per la fine di settembre occorrerà decidere per un nuovo salvataggio della Grecia.
Il secondo è politico. Se, come dicono i creditori, la mutualizzazione del debito, un’unione bancaria e le misure di solidarietà del tipo appena annunciato da Draghi richiedono un passo verso l’unione politica e il trasferimento di sovranità alle istituzioni europee di tutti i tipi, come può accadere ciò in un frangente in cui l’andamento della politica nazionale in tutta l’Unione Europea si sta muovendo virtualmente nella direzione opposta? Il voto olandese del 12 settembre sarà un test per questo. Ma anche se la politica nazionale non si muove attivamente verso una posizione anti-euro, dappertutto, e particolarmente in Germania c’è resistenza a una maggiore centralizzazione.
Il terzo e ultimo enigma è di natura economica, ma alla fine è politico, ed è meglio illustrato dall’Italia stessa. La domanda è come la moneta, e con essa le società e le democrazie dell’Europa occidentale, possono essere salvate dalla sola austerità fiscale. L’Italia illustra quest’aspetto attraverso la combinazione dei tagli di bilancio del governo Monti, che erano necessari per rispettare gli impegni europei e rassicurare gli investitori internazionali, e una profonda recessione. E anche attraverso i frequenti riferimenti del presidente Monti alla «buona condotta» dell’Italia e al fatto che i suoi «fondamentali economici» non giustificano gli elevati costi di finanziamento. Queste affermazioni sono del tutto vere se si guarda solo alla politica fiscale. L’Italia è virtuosa, obbedisce alle regole dell’eurozona e presenta un deficit di bilancio di gran lunga inferiore rispetto alla Gran Bretagna. Ma non sono vere se si guardano la crescita economica e le sue prospettive. Senza la crescita economica, il debito sovrano dell’Italia crescerà a una percentuale ancora più elevata del Pil, e molto probabilmente il presidente Monti non raggiungerà del tutto i suoi obiettivi di bilancio. E, cosa più importante, senza la prospettiva di un ritorno alla crescita economica, la situazione politica potrebbe rivelarsi abbastanza brutta.
Gli italiani questo lo sanno, naturalmente. Ma come molti altri europei, sono anche riluttanti ad accettare il tipo di riforme di liberalizzazione che vorrebbero il presidente Monti e altri come lui. Il mondo europeo è troppo definito dall’austerità, dal sacrificio, dalle misure di salvataggio un po’ difficili da comprendere, come quelle della Banca centrale europea.
L’ingrediente mancante è quello che il presidente François Hollande ha messo in luce in primavera durante la sua campagna elettorale, ma che da allora è caduto nel dimenticatoio: un riequilibrio della politica europea verso la crescita, con l’allentamento fiscale al Nord e la liberalizzazione al Sud. Miracoli esclusi, finché questo non accade, e fino a quando gli altri due enigmi dell’eurozona non saranno adeguatamente affrontati, l’Europa è destinata a continuare a zoppicare, da una crisi all’altra.
Traduzione di Carla Reschia
La Stampa 09.09.12
"Un rebus in tre punti per l'Euro", di Bill Emmott
Sarebbe bello prevedere che l’autunno porterà un po’ di sole alle nostre cupe economie europee, una luce alla fine del tunnel della crisi dell’euro. Purtroppo, però, sarebbe avventato presumerlo, anche dopo l’importante annuncio di Mario Draghi, giovedì, alla Banca centrale europea. Perché nessuno dei tre principali problemi che affliggono l’euro è stato ancora risolto. E’ vero che il quadro non pare molto più felice dall’altra parte della Manica, in Gran Bretagna o dall’altra parte dell’Atlantico negli Stati Uniti. La scorsa settimana il primo ministro britannico, David Cameron, ha annunciato un pacchetto di misure presumibilmente intese a rafforzare la crescita economica, ma il pacchetto, in definitiva, era vuoto: ha dimostrato che il suo governo non sa cosa fare. Allo stesso modo, il presidente Barack Obama nel suo discorso alla Convenzione del partito democratico non è riuscito a delineare un vero programma di quello che vorrebbe fare se a novembre sarà rieletto presidente.
Almeno il presidente della Bce, Draghi sa cosa fare: «Tutto il possibile», e, se necessario, comprerà titoli di Stato italiani o spagnoli in misura sufficiente a ridurre a livelli accettabili i costi di finanziamento di tali Paesi.
In altre parole, nella sua visione, occorre rimuovere il premio caricato dagli istituti di credito sui governi per coprire il rischio di un crollo dell’euro. L’euro non sta per crollare, dice, quindi non c’è bisogno di un premio.
Si tratta di un piano ingegnoso e rappresenta un notevole progresso che Draghi sia riuscito ad annunciarlo nonostante l’opposizione politica tedesca. Se dovesse funzionare, potrebbe addirittura riportare il sorriso sui volti del primo ministro Cameron e del presidente Obama, perché loro sanno che la recessione e il possibile crollo della zona euro deprimono le loro economie e rendono più guardinghe le loro aziende. Ma anche se il piano di Draghi è necessario e anche se può riuscire a far sì che non siano solo i mercati finanziari a determinare il futuro dell’euro, non basta a risolvere l’inghippo dell’eurozona.
Questo rebus ha tre punti. Il primo è pratico: come ristabilizzare la moneta europea, come vogliono i tedeschi, gli olandesi e gli altri Paesi creditori del Nord Europa, in base a rigorose norme di bilancio e a severe condizioni per eventuali salvataggi, finché c’è un Paese membro – la Grecia – che notoriamente non può obbedire alle regole e avrà inevitabilmente bisogno di altri aiuti? Espellere la Grecia metterà in pericolo la moneta e il sistema bancario europeo, ma tenerla come membro mina la credibilità di tutte le regole e le «condizioni» a cui la Germania e Draghi fanno riferimento. Su questo non è stato fatto alcun progresso e per la fine di settembre occorrerà decidere per un nuovo salvataggio della Grecia.
Il secondo è politico. Se, come dicono i creditori, la mutualizzazione del debito, un’unione bancaria e le misure di solidarietà del tipo appena annunciato da Draghi richiedono un passo verso l’unione politica e il trasferimento di sovranità alle istituzioni europee di tutti i tipi, come può accadere ciò in un frangente in cui l’andamento della politica nazionale in tutta l’Unione Europea si sta muovendo virtualmente nella direzione opposta? Il voto olandese del 12 settembre sarà un test per questo. Ma anche se la politica nazionale non si muove attivamente verso una posizione anti-euro, dappertutto, e particolarmente in Germania c’è resistenza a una maggiore centralizzazione.
Il terzo e ultimo enigma è di natura economica, ma alla fine è politico, ed è meglio illustrato dall’Italia stessa. La domanda è come la moneta, e con essa le società e le democrazie dell’Europa occidentale, possono essere salvate dalla sola austerità fiscale. L’Italia illustra quest’aspetto attraverso la combinazione dei tagli di bilancio del governo Monti, che erano necessari per rispettare gli impegni europei e rassicurare gli investitori internazionali, e una profonda recessione. E anche attraverso i frequenti riferimenti del presidente Monti alla «buona condotta» dell’Italia e al fatto che i suoi «fondamentali economici» non giustificano gli elevati costi di finanziamento. Queste affermazioni sono del tutto vere se si guarda solo alla politica fiscale. L’Italia è virtuosa, obbedisce alle regole dell’eurozona e presenta un deficit di bilancio di gran lunga inferiore rispetto alla Gran Bretagna. Ma non sono vere se si guardano la crescita economica e le sue prospettive. Senza la crescita economica, il debito sovrano dell’Italia crescerà a una percentuale ancora più elevata del Pil, e molto probabilmente il presidente Monti non raggiungerà del tutto i suoi obiettivi di bilancio. E, cosa più importante, senza la prospettiva di un ritorno alla crescita economica, la situazione politica potrebbe rivelarsi abbastanza brutta.
Gli italiani questo lo sanno, naturalmente. Ma come molti altri europei, sono anche riluttanti ad accettare il tipo di riforme di liberalizzazione che vorrebbero il presidente Monti e altri come lui. Il mondo europeo è troppo definito dall’austerità, dal sacrificio, dalle misure di salvataggio un po’ difficili da comprendere, come quelle della Banca centrale europea.
L’ingrediente mancante è quello che il presidente François Hollande ha messo in luce in primavera durante la sua campagna elettorale, ma che da allora è caduto nel dimenticatoio: un riequilibrio della politica europea verso la crescita, con l’allentamento fiscale al Nord e la liberalizzazione al Sud. Miracoli esclusi, finché questo non accade, e fino a quando gli altri due enigmi dell’eurozona non saranno adeguatamente affrontati, l’Europa è destinata a continuare a zoppicare, da una crisi all’altra.
Traduzione di Carla Reschia
La Stampa 09.09.12
"Per l'Europa o contro la scelta è questa", di Eugenio Scalfari
Mario Monti è molto soddisfatto delle decisioni prese da Mario Draghi: le Borse europee sono state in netto rialzo dopo quelle decisioni, lo “spread” è in netto ribasso, la speculazione si è “accucciata”. Ad un giornalista tedesco che gli domandava se l’euro avesse ancora un futuro il presidente della Bce ha risposto: «L’euro è irrinunciabile». È vero, il piano d’azione deciso dall’Eurotower rappresenta una svolta epocale di questa crisi ed anche un rafforzamento significativo della Banca centrale, della sua indipendenza e dei suoi poteri. Ma, per quanto ci riguarda, è necessario un altro passo avanti del governo, del Parlamento e dei partiti: bisogna europeizzare l’Italia affinché l’Italia contribuisca efficacemente ad europeizzare l’Europa. L’ha detto con estrema chiarezza Giorgio Napolitano nel suo recente discorso di Venezia: l’Italia deve puntare sulla nascita d’uno Stato federale europeo e non può farlo se non europeizzando i propri comportamenti.
Monti ha già iniziato questo percorso ma ora si trova anche lui di fronte ad una svolta difficile: deve accettare le nuove “condizionalità”, cioè ulteriori “compiti da fare a casa” ottenendo l’okay del fondo “salva Stati”, senza il quale Draghi non renderà operativo il suo intervento per quando riguarda il nostro Paese.
Le Borse, l’abbiamo già detto, hanno festeggiato e lo “spread” è calato di cento punti in pochissimi giorni, la speculazione è stata bloccata, ma questi positivi risultati non dureranno a lungo se l’intervento della Bce non diventerà operativo. Tanto più se la Spagna, come è assai probabile, accetterà di chiedere l’okay del fondo “salva Stati”. Se noi restassimo fermi nella nostra posizione di non chiedere quel-l’aiuto, la speculazione probabilmente lascerebbe in pace la Spagna e piomberebbe addosso a noi con rinnovato vigore.
Questo è dunque il passaggio che il nostro governo dovrebbe compiere e la maggioranza parlamentare che lo sostiene dovrebbe votare.
Per evitarlo senza conseguenze negative Monti ha in mente di creare un organo di controllo indipendente “in ambito parlamentare” che esamini quotidianamente tutti i provvedimenti in corso e dia il suo parere vincolante. In realtà questo organo esiste già in ambito parlamentare ed è il comitato di bilancio del quale è necessario il bollino di copertura prima che le commissioni competenti procedano sul merito. Fuori dall’ambito parlamentare ma nell’architettura costituzionale c’è poi la Corte dei conti. Non si vede dunque la novità della proposta allo studio.
***
In che cosa consiste il piano d’intervento della Bce è noto: acquisterà sul mercato secondario titoli pubblici con scadenze fino a tre anni, anche residuali rispetto alle date di emissione; la quantità degli acquisti sarà illimitata; la Bce non sarà un creditore privilegiato; nel frattempo il fondo “salva Stati” interverrà se necessario alle aste indette dal Tesoro italiano.
L’obiettivo è quello di far diminuire i tassi di interesse dei Paesi “aiutati” con l’obiettivo di armonizzare i tassi in tutta l’eurozona. Ma per ottenere questi risultati estremamente significativi i paesi interessati – e cioè Italia e Spagna – dovranno accettare ulteriori condizioni il cui adempimento sarà controllato dalla “troika” composta da Bce, Fondo monetario internazionale e Commissione di Bruxelles. Controlli trimestrali e risultati certificati dall’Eurostat.
Non è un commissariamento tipo Grecia, specialmente per quanto riguarda l’Italia che la maggior parte dei suoi “compiti a casa” li ha già fatti, ma certo è l’assunzione di ulteriori responsabilità. Mario Draghi ha fabbricato il “bazooka” per bloccare la speculazione e Mario Monti dovrà metterselo sulla spalla e farlo funzionare.
Non c’è molto tempo. Prima avverrà e meglio sarà per noi e per l’euro, cioè per l’Europa.
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Non è detto che le “nuove condizioni” chieste dalla “troika” si concentrino su nuovi sacrifici, nuova fiscalità, nuovi tagli alla politica sociale. Da questo punto di vista infatti il governo Monti ha già fatto molto, a cominciare dalla riforma delle pensioni, da quella del lavoro, dalla lotta all’evasione, dalla riforma della sanità e da un inizio di riqualificazione della spesa. Il risultato è l’avanzo della spesa corrente che sfiora ormai il 4 per cento.
Se l’intervento della Bce farà diminuire il tasso di interesse, ogni punto in meno di quel tasso significherà una diminuzione di 16 miliardi annui nell’onere del Tesoro per il debito pubblico.
Con ogni probabilità le “nuove condizioni” riguardano dunque l’incremento della produttività, lo snellimento della pubblica amministrazione, una “spending review” più incisiva, una tassazione sulle rendite per eliminarle. Infine l’esecuzione rapida dei provvedimenti già approvati.
Le “nuove condizioni” hanno dunque un obiettivo che unisce il mantenimento del rigore e i presupposti della crescita. Se il nostro governo, dopo opportuni negoziati, arriverà all’accordo, entreremo in una fase nuova dove anche le istanze sociali potranno trovare più ampio accoglimento.
Ma le “nuove condizioni” hanno anche e inevitabilmente un risvolto politico: esse impegnano il nostro Paese fino a quando la crisi non sarà superata. Detto in modo ancora più chiaro, significa che il nuovo governo che si insedierà dopo le elezioni del 2013 avrà, per quanto riguarda l’economia nel suo complesso, la strada già tracciata. Alla pietanza in corso di cottura potrà aggiungere una manciata di basilico o di prezzemolo o di menta ma non molto di più.
Il rilancio contro la recessione vero e proprio sarà l’Europa tutta insieme a doverlo sostenere e un’Italia in regola potrà dare un contributo di grande importanza. Quando il nostro Presidente della Repubblica parla di europeizzare l’Italia ed europeizzare l’Europa è proprio questo che pensa e che esorta a fare. Ben per noi se seguiranno la sua esortazione.
***
Alcune forme d’opposizione hanno preso iniziative che si definiscono
da sole. Roberto Maroni ha lanciato un referendum leghista che riserva l’uso dell’euro alle sole regioni virtuose (ovviamente del Nord). Le altre tornino alla liretta d’un tempo.
Antonio Di Pietro invece ha avuto un’altra pensata: raccogliere le firme e indire un referendum per l’abolizione dell’articolo 18 del codice del lavoro. Vendola si è associato. Acqua fresca per racimolare qualche voto vagante ma incitare le piccole imprese a scomparire nel sommerso.
Immaginiamo per amore d’ipotesi che i voti populisti di questo tipo si raccolgano insieme e mettano in imbarazzo la maggioranza parlamentare futura o addirittura la scavalchino come reagirebbero i mercati? E immaginiamo che quel bel ragazzo di Matteo Renzi, abilissimo nell’arrampicarsi sulla pertica dell’“outsider”, sia lui a guidare un moncone dell’ex Pd insieme ad un moncone del Pdl e spetti a lui di rappresentarci in Europa. Il presidente della Bundesbank un’ipotesi del genere per buttare l’Italia fuori dall’euro se la sogna la notte.
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Angela Merkel sta attraversando un passaggio molto stretto. I falchi della Bundesbank non si limitano a manifestare il loro dissenso dalla politica di Draghi votandogli contro nel Consiglio direttivo della Bce, ma lo attaccano ripetutamente e radicalmente sui giornali di mezzo mondo in compagnia dei liberali e della Csu bavarese e perfino di alcuni “colonnelli” del partito della Cancelliera. Gran parte dell’opinione pubblica tedesca è con loro, non vuole che la Germania ceda sovranità all’Europa spendacciona. Rifiuta l’Europa ed auspica che la Corte costituzionale di cui si attende il verdetto il 12 prossimo, dichiari incostituzionali i fondi “salva Stati”.
Che cosa farà la Cancelliera nei prossimi giorni per bloccare quest’offensiva? Tra le varie ipotesi c’è quella che attribuisce alla Merkel l’intenzione di pretendere per il suo governo la supervisione sulle “nuove condizioni” da imporre ai Paesi che chiedano l’auto del “salva Stati”, ma si tratta di un’ipotesi priva di senso: le “nuove condizioni” – se la Spagna e anche l’Italia decideranno di chiederle – prevedono il controllo della “troika” (Bce, Commissione Ue, Fmi). La Germania è ampiamente rappresentata in tutte e tre le istituzioni; inoltre la Bce è indipendente dai governi, sicché quest’ipotesi non sta in piedi.
In realtà la Merkel ha un’altra strada da seguire, che ha già imboccato da alcuni mesi senza però farne il centro della sua politica. Adesso è venuto il momento di porre come obiettivo primario la fondazione dello Stato federale europeo del quale la Germania non può che essere il perno di sostegno.
Ciò significa dare la priorità – almeno per quanto riguarda la politica economica e sociale – all’Europa rispetto agli Stati nazionali. Se sceglierà questa la strada, la prossima campagna elettorale tedesca si svolgerà all’insegna d’una scelta tra Europa e Germania.
Stando agli attuali sondaggi non c’è dubbio che l’opinione pubblica tedesca sceglierebbe la “nazionalità” e rifiuterebbe l’europeizzazione, ma un risultato del genere farebbe saltare l’intera costruzione europea a cominciare
dalla moneta comune. Questa è una responsabilità che per ragioni se non altro storiche la Germania non può assumersi.
Infine: le previsioni dell’Ocse dicono che nei prossimi due trimestri il Pil tedesco sarà negativo, rispettivamente dello 0,2 e dello 0,8 per cento. Recessione dunque anche in quel paese fin qui considerato il motore del continente. Se la previsione sarà confermata la Germania avrà un disperato bisogno d’una politica di rilancio della domanda e degli investimenti, che è l’esatto contrario di quanto predicano gli avversari di Draghi L’europeizzazione degli Stati nazionali è la sola strada pensabile e questa è la sfida che tutti ci coinvolge, Germania in testa. La Cancelliera ha la capacità politica di percorrerla ponendola fin d’ora al primo posto nell’ordine del giorno dell’Europa.
L’Italia non può che essere parte attiva di questa partita. Monti ha sempre sostenuto questo obiettivo, Napolitano altrettanto e non a caso l’ha richiamato nel suo discorso di Venezia e lo richiamerà ancora proprio oggi a Cernobbio. Noi abbiamo una campagna elettorale ormai imminente. Se le forze politiche la smetteranno di “pettinare le bambole” (come ha scritto Alfredo Reichlin sull’“Unità” di ieri) e capiranno che anche per noi è venuto il momento di porre la costruzione dell’Europa al centro della politica italiana, si sarà compiuto un passo avanti fondamentale. Oppure, nel caso contrario, un passo indietro drammatico perché il baratro in cui non siamo caduti è ancora lì, aperto e a poca distanza.
La Repubblica 09.09.12
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“Napolitano: vigileremo sugli impegni dell’Italia Monti: adesso difendere l’Ue”, di UMBERTO ROSSO
Si fa “garante” dell’agenda Monti, della continuità delle scelte del governo per tenere fede agli impegni contratti con l’Europa. Giorgio Napolitano lo considera «un mio dovere, fino al termine del mandato presidenziale ». Molto è stato fatto dal premier ma «non illudiamoci, tanto resta da fare». Da qui alle elezioni, «da tenere entro e non oltre l’aprile del 2013», dunque, il presidente della Repubblica avrà un target preciso: vigilare perché «venga esplicitamente e largamente condiviso l’impegno a dar seguito e sviluppo a scelte di fondo concordate in sede europea». E a rafforzare l’asse fra Colle e Palazzo
Chigi, ecco che Monti a Cernobbio riprende proprio un allarme lanciato da Napolitano due giorni fa: il rischio populismo in Europa. Il presidente del Consiglio ha proposto perciò, incontrando Van Rompuy, un vertice straordinario dei paesi della Ue a Roma, in Campidoglio, luogo altamente simbolico, dove si firmarono i trattati del 1956. «Triste e pericoloso è un fenomeno di disgregazione che si manifesta in tutti gli Stati membri — ha denunciato il premier — e dobbiamo reagire». Dal presidente del Consiglio europeo ha incassato subito l’ok.
Napolitano, nel suo videomessaggio al Forum Ambrosetti, si è rivolto a tutti gli schieramenti politici che si preparano alla battaglia delle urne chiedendo che, almeno sul terreno degli impegni da rispettare con la Ue, riconoscano «un impegno convergente ». Ma la linea indicata dal capo dello Stato, evidentemente, si proietta anche sul dopo, sul governo che verrà, che potrebbe essere lo stesso Napolitano in caso di elezioni anticipate di pochi mesi a tenere a battesimo. Il capo dello Stato solleva il velo sulle preoccupazioni e i timori che girano in Europa sul post-Monti. Un interrogativo, ammette, che «comprendiamo bene» e che riguarda «gli scenari politici e le soluzioni di governo che potranno scaturire dal risultato delle prossime elezioni parlamentari».
Pone il tema ma, ovviamente, non può indicare soluzioni. La platea di Cernobbio interpreta le parole del capo dello Stato come una volata ad un super Mario bis (chi meglio di Monti potrebbe portare avanti l’agenda Monti?) però il messaggio del capo dello Stato non entra (e non potrebbe) nel merito di tempi e formule per Palazzo Chigi. Anche per la semplice ragione che non è chiaro ancora con quale sistema elettorale andremo a votare. Così, in cima ad una auspicata «costruttiva conclusione della legislatura», Napolitano torna a mettere la riforma elettorale, per creare finalmente «condizioni favorevoli a una migliore rappresentatività e governabilità del sistema politico-istituzionale». Via il Porcellum, torna a sollecitare di fronte allo stallo delle trattative. E siccome non solo in Italia ma in tutta Europa le elezioni presentano «incognite ed esiti incerti», con riferimento implicito alle ventate di antipolitica e di rifiuto dei partiti, Napolitano lancia un appello ad avere «fiducia nel metodo democratico». Come? Contando sulla «maturità delle nostre opinioni pubbliche», e con un sereno svolgimento delle competizioni elettorali garantendo «l’affidabilità di ciascun nostro paese negli anni successivi ». E certo non farebbe male, ammonisce, un po’ di «self restraint » (di autocontrollo) di quanti in Europa con dichiarazioni in libertà generano «confusione e incertezza sui mercati».
La Repubblica 09.09.12
"Per l'Europa o contro la scelta è questa", di Eugenio Scalfari
Mario Monti è molto soddisfatto delle decisioni prese da Mario Draghi: le Borse europee sono state in netto rialzo dopo quelle decisioni, lo “spread” è in netto ribasso, la speculazione si è “accucciata”. Ad un giornalista tedesco che gli domandava se l’euro avesse ancora un futuro il presidente della Bce ha risposto: «L’euro è irrinunciabile». È vero, il piano d’azione deciso dall’Eurotower rappresenta una svolta epocale di questa crisi ed anche un rafforzamento significativo della Banca centrale, della sua indipendenza e dei suoi poteri. Ma, per quanto ci riguarda, è necessario un altro passo avanti del governo, del Parlamento e dei partiti: bisogna europeizzare l’Italia affinché l’Italia contribuisca efficacemente ad europeizzare l’Europa. L’ha detto con estrema chiarezza Giorgio Napolitano nel suo recente discorso di Venezia: l’Italia deve puntare sulla nascita d’uno Stato federale europeo e non può farlo se non europeizzando i propri comportamenti.
Monti ha già iniziato questo percorso ma ora si trova anche lui di fronte ad una svolta difficile: deve accettare le nuove “condizionalità”, cioè ulteriori “compiti da fare a casa” ottenendo l’okay del fondo “salva Stati”, senza il quale Draghi non renderà operativo il suo intervento per quando riguarda il nostro Paese.
Le Borse, l’abbiamo già detto, hanno festeggiato e lo “spread” è calato di cento punti in pochissimi giorni, la speculazione è stata bloccata, ma questi positivi risultati non dureranno a lungo se l’intervento della Bce non diventerà operativo. Tanto più se la Spagna, come è assai probabile, accetterà di chiedere l’okay del fondo “salva Stati”. Se noi restassimo fermi nella nostra posizione di non chiedere quel-l’aiuto, la speculazione probabilmente lascerebbe in pace la Spagna e piomberebbe addosso a noi con rinnovato vigore.
Questo è dunque il passaggio che il nostro governo dovrebbe compiere e la maggioranza parlamentare che lo sostiene dovrebbe votare.
Per evitarlo senza conseguenze negative Monti ha in mente di creare un organo di controllo indipendente “in ambito parlamentare” che esamini quotidianamente tutti i provvedimenti in corso e dia il suo parere vincolante. In realtà questo organo esiste già in ambito parlamentare ed è il comitato di bilancio del quale è necessario il bollino di copertura prima che le commissioni competenti procedano sul merito. Fuori dall’ambito parlamentare ma nell’architettura costituzionale c’è poi la Corte dei conti. Non si vede dunque la novità della proposta allo studio.
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In che cosa consiste il piano d’intervento della Bce è noto: acquisterà sul mercato secondario titoli pubblici con scadenze fino a tre anni, anche residuali rispetto alle date di emissione; la quantità degli acquisti sarà illimitata; la Bce non sarà un creditore privilegiato; nel frattempo il fondo “salva Stati” interverrà se necessario alle aste indette dal Tesoro italiano.
L’obiettivo è quello di far diminuire i tassi di interesse dei Paesi “aiutati” con l’obiettivo di armonizzare i tassi in tutta l’eurozona. Ma per ottenere questi risultati estremamente significativi i paesi interessati – e cioè Italia e Spagna – dovranno accettare ulteriori condizioni il cui adempimento sarà controllato dalla “troika” composta da Bce, Fondo monetario internazionale e Commissione di Bruxelles. Controlli trimestrali e risultati certificati dall’Eurostat.
Non è un commissariamento tipo Grecia, specialmente per quanto riguarda l’Italia che la maggior parte dei suoi “compiti a casa” li ha già fatti, ma certo è l’assunzione di ulteriori responsabilità. Mario Draghi ha fabbricato il “bazooka” per bloccare la speculazione e Mario Monti dovrà metterselo sulla spalla e farlo funzionare.
Non c’è molto tempo. Prima avverrà e meglio sarà per noi e per l’euro, cioè per l’Europa.
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Non è detto che le “nuove condizioni” chieste dalla “troika” si concentrino su nuovi sacrifici, nuova fiscalità, nuovi tagli alla politica sociale. Da questo punto di vista infatti il governo Monti ha già fatto molto, a cominciare dalla riforma delle pensioni, da quella del lavoro, dalla lotta all’evasione, dalla riforma della sanità e da un inizio di riqualificazione della spesa. Il risultato è l’avanzo della spesa corrente che sfiora ormai il 4 per cento.
Se l’intervento della Bce farà diminuire il tasso di interesse, ogni punto in meno di quel tasso significherà una diminuzione di 16 miliardi annui nell’onere del Tesoro per il debito pubblico.
Con ogni probabilità le “nuove condizioni” riguardano dunque l’incremento della produttività, lo snellimento della pubblica amministrazione, una “spending review” più incisiva, una tassazione sulle rendite per eliminarle. Infine l’esecuzione rapida dei provvedimenti già approvati.
Le “nuove condizioni” hanno dunque un obiettivo che unisce il mantenimento del rigore e i presupposti della crescita. Se il nostro governo, dopo opportuni negoziati, arriverà all’accordo, entreremo in una fase nuova dove anche le istanze sociali potranno trovare più ampio accoglimento.
Ma le “nuove condizioni” hanno anche e inevitabilmente un risvolto politico: esse impegnano il nostro Paese fino a quando la crisi non sarà superata. Detto in modo ancora più chiaro, significa che il nuovo governo che si insedierà dopo le elezioni del 2013 avrà, per quanto riguarda l’economia nel suo complesso, la strada già tracciata. Alla pietanza in corso di cottura potrà aggiungere una manciata di basilico o di prezzemolo o di menta ma non molto di più.
Il rilancio contro la recessione vero e proprio sarà l’Europa tutta insieme a doverlo sostenere e un’Italia in regola potrà dare un contributo di grande importanza. Quando il nostro Presidente della Repubblica parla di europeizzare l’Italia ed europeizzare l’Europa è proprio questo che pensa e che esorta a fare. Ben per noi se seguiranno la sua esortazione.
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Alcune forme d’opposizione hanno preso iniziative che si definiscono
da sole. Roberto Maroni ha lanciato un referendum leghista che riserva l’uso dell’euro alle sole regioni virtuose (ovviamente del Nord). Le altre tornino alla liretta d’un tempo.
Antonio Di Pietro invece ha avuto un’altra pensata: raccogliere le firme e indire un referendum per l’abolizione dell’articolo 18 del codice del lavoro. Vendola si è associato. Acqua fresca per racimolare qualche voto vagante ma incitare le piccole imprese a scomparire nel sommerso.
Immaginiamo per amore d’ipotesi che i voti populisti di questo tipo si raccolgano insieme e mettano in imbarazzo la maggioranza parlamentare futura o addirittura la scavalchino come reagirebbero i mercati? E immaginiamo che quel bel ragazzo di Matteo Renzi, abilissimo nell’arrampicarsi sulla pertica dell’“outsider”, sia lui a guidare un moncone dell’ex Pd insieme ad un moncone del Pdl e spetti a lui di rappresentarci in Europa. Il presidente della Bundesbank un’ipotesi del genere per buttare l’Italia fuori dall’euro se la sogna la notte.
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Angela Merkel sta attraversando un passaggio molto stretto. I falchi della Bundesbank non si limitano a manifestare il loro dissenso dalla politica di Draghi votandogli contro nel Consiglio direttivo della Bce, ma lo attaccano ripetutamente e radicalmente sui giornali di mezzo mondo in compagnia dei liberali e della Csu bavarese e perfino di alcuni “colonnelli” del partito della Cancelliera. Gran parte dell’opinione pubblica tedesca è con loro, non vuole che la Germania ceda sovranità all’Europa spendacciona. Rifiuta l’Europa ed auspica che la Corte costituzionale di cui si attende il verdetto il 12 prossimo, dichiari incostituzionali i fondi “salva Stati”.
Che cosa farà la Cancelliera nei prossimi giorni per bloccare quest’offensiva? Tra le varie ipotesi c’è quella che attribuisce alla Merkel l’intenzione di pretendere per il suo governo la supervisione sulle “nuove condizioni” da imporre ai Paesi che chiedano l’auto del “salva Stati”, ma si tratta di un’ipotesi priva di senso: le “nuove condizioni” – se la Spagna e anche l’Italia decideranno di chiederle – prevedono il controllo della “troika” (Bce, Commissione Ue, Fmi). La Germania è ampiamente rappresentata in tutte e tre le istituzioni; inoltre la Bce è indipendente dai governi, sicché quest’ipotesi non sta in piedi.
In realtà la Merkel ha un’altra strada da seguire, che ha già imboccato da alcuni mesi senza però farne il centro della sua politica. Adesso è venuto il momento di porre come obiettivo primario la fondazione dello Stato federale europeo del quale la Germania non può che essere il perno di sostegno.
Ciò significa dare la priorità – almeno per quanto riguarda la politica economica e sociale – all’Europa rispetto agli Stati nazionali. Se sceglierà questa la strada, la prossima campagna elettorale tedesca si svolgerà all’insegna d’una scelta tra Europa e Germania.
Stando agli attuali sondaggi non c’è dubbio che l’opinione pubblica tedesca sceglierebbe la “nazionalità” e rifiuterebbe l’europeizzazione, ma un risultato del genere farebbe saltare l’intera costruzione europea a cominciare
dalla moneta comune. Questa è una responsabilità che per ragioni se non altro storiche la Germania non può assumersi.
Infine: le previsioni dell’Ocse dicono che nei prossimi due trimestri il Pil tedesco sarà negativo, rispettivamente dello 0,2 e dello 0,8 per cento. Recessione dunque anche in quel paese fin qui considerato il motore del continente. Se la previsione sarà confermata la Germania avrà un disperato bisogno d’una politica di rilancio della domanda e degli investimenti, che è l’esatto contrario di quanto predicano gli avversari di Draghi L’europeizzazione degli Stati nazionali è la sola strada pensabile e questa è la sfida che tutti ci coinvolge, Germania in testa. La Cancelliera ha la capacità politica di percorrerla ponendola fin d’ora al primo posto nell’ordine del giorno dell’Europa.
L’Italia non può che essere parte attiva di questa partita. Monti ha sempre sostenuto questo obiettivo, Napolitano altrettanto e non a caso l’ha richiamato nel suo discorso di Venezia e lo richiamerà ancora proprio oggi a Cernobbio. Noi abbiamo una campagna elettorale ormai imminente. Se le forze politiche la smetteranno di “pettinare le bambole” (come ha scritto Alfredo Reichlin sull’“Unità” di ieri) e capiranno che anche per noi è venuto il momento di porre la costruzione dell’Europa al centro della politica italiana, si sarà compiuto un passo avanti fondamentale. Oppure, nel caso contrario, un passo indietro drammatico perché il baratro in cui non siamo caduti è ancora lì, aperto e a poca distanza.
La Repubblica 09.09.12
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“Napolitano: vigileremo sugli impegni dell’Italia Monti: adesso difendere l’Ue”, di UMBERTO ROSSO
Si fa “garante” dell’agenda Monti, della continuità delle scelte del governo per tenere fede agli impegni contratti con l’Europa. Giorgio Napolitano lo considera «un mio dovere, fino al termine del mandato presidenziale ». Molto è stato fatto dal premier ma «non illudiamoci, tanto resta da fare». Da qui alle elezioni, «da tenere entro e non oltre l’aprile del 2013», dunque, il presidente della Repubblica avrà un target preciso: vigilare perché «venga esplicitamente e largamente condiviso l’impegno a dar seguito e sviluppo a scelte di fondo concordate in sede europea». E a rafforzare l’asse fra Colle e Palazzo
Chigi, ecco che Monti a Cernobbio riprende proprio un allarme lanciato da Napolitano due giorni fa: il rischio populismo in Europa. Il presidente del Consiglio ha proposto perciò, incontrando Van Rompuy, un vertice straordinario dei paesi della Ue a Roma, in Campidoglio, luogo altamente simbolico, dove si firmarono i trattati del 1956. «Triste e pericoloso è un fenomeno di disgregazione che si manifesta in tutti gli Stati membri — ha denunciato il premier — e dobbiamo reagire». Dal presidente del Consiglio europeo ha incassato subito l’ok.
Napolitano, nel suo videomessaggio al Forum Ambrosetti, si è rivolto a tutti gli schieramenti politici che si preparano alla battaglia delle urne chiedendo che, almeno sul terreno degli impegni da rispettare con la Ue, riconoscano «un impegno convergente ». Ma la linea indicata dal capo dello Stato, evidentemente, si proietta anche sul dopo, sul governo che verrà, che potrebbe essere lo stesso Napolitano in caso di elezioni anticipate di pochi mesi a tenere a battesimo. Il capo dello Stato solleva il velo sulle preoccupazioni e i timori che girano in Europa sul post-Monti. Un interrogativo, ammette, che «comprendiamo bene» e che riguarda «gli scenari politici e le soluzioni di governo che potranno scaturire dal risultato delle prossime elezioni parlamentari».
Pone il tema ma, ovviamente, non può indicare soluzioni. La platea di Cernobbio interpreta le parole del capo dello Stato come una volata ad un super Mario bis (chi meglio di Monti potrebbe portare avanti l’agenda Monti?) però il messaggio del capo dello Stato non entra (e non potrebbe) nel merito di tempi e formule per Palazzo Chigi. Anche per la semplice ragione che non è chiaro ancora con quale sistema elettorale andremo a votare. Così, in cima ad una auspicata «costruttiva conclusione della legislatura», Napolitano torna a mettere la riforma elettorale, per creare finalmente «condizioni favorevoli a una migliore rappresentatività e governabilità del sistema politico-istituzionale». Via il Porcellum, torna a sollecitare di fronte allo stallo delle trattative. E siccome non solo in Italia ma in tutta Europa le elezioni presentano «incognite ed esiti incerti», con riferimento implicito alle ventate di antipolitica e di rifiuto dei partiti, Napolitano lancia un appello ad avere «fiducia nel metodo democratico». Come? Contando sulla «maturità delle nostre opinioni pubbliche», e con un sereno svolgimento delle competizioni elettorali garantendo «l’affidabilità di ciascun nostro paese negli anni successivi ». E certo non farebbe male, ammonisce, un po’ di «self restraint » (di autocontrollo) di quanti in Europa con dichiarazioni in libertà generano «confusione e incertezza sui mercati».
La Repubblica 09.09.12
