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"Gerico, la prima smart city", di Alberto Melloni

Una teleferica che sale rovente al dirupo del Monastero delle Tentazioni permette di vedere dall’alto gli scavi archeologici sul bordo dell’oasi di Gerico, considerata la più antica città del mondo. È iniziata proprio qui 9500 anni fa una forma di vita — la città — che continua ad essere leva della condizione umana. Il portale Treccani (accessibile gratis come Wikipedia, ma immune dall’ideologismo dei wikiwriters) ricorda le «città» di Ur, Ugarit, Mersinia, Menfi, Harappa, Mohenjo-Daro che dalla fine del calcolitico entrano nella narrazione storica. Più su stanno le città-icona: Atene, che dà linguaggio alla politica come sacralità intrinseca alla vita comune; Sodoma, che, profanata la legge dell’ospitalità, sprofonda nel fuoco di giustizia dell’Altro per antonomasia.
Icone fragili, le città erano il tema dell’Expo di Shanghai del 2010, che in un padiglione rappresentava la vita urbana come un tetto che non rovinava sui visitatori perché sorretto da due colonne di volumi: i libri sull’utopia. Da Campanella a Platone, da Confucio alla Bibbia ciò che impedisce ad Atene di diventare Sodoma, insegnava la Cina, è qualcosa di impalpabile e solidissimo. Lo si chiami utopia, pensiero, silenzio — è questo cibo che nutre l’anima (un tema che l’Expo di Milano potrà davvero eludere?), che rende la città il moltiplicatore di sviluppo, di conoscenza, di interessi, di conflitti. Non a caso la «modernità» della guerra colpisce le città: per distruggere questo tessuto più e come le infrastrutture. E non per niente la modernità ha bisogno di spazi urbani per moltiplicare bisogni e opportunità, nel mondo così come in Europa.
Unico continente del pianeta privo di megalopoli, l’Europa nasce dalla confessionalizzazione e dalle guerre di religione, trasforma le città di mercanti e frati in città degli affari, e celebra con disinvoltura il grande crimine del furore colonialista costruendo capitali dorate ai propri imperi globali. Inventa la città industriale, fa del binomio sfruttamento-fumo una poetica. E adesso, nel pieno di un default politico che sembra più la causa che l’effetto della recessione, si interroga su cosa nutra la città pluralista.
La Pira avrebbe parlato d’anima. Dal 2008 questa riflessione usa un aggettivo ormai entrato nel gergo di Bruxelles: «Smart». «Smart cities» — nel senso di facili, gradevoli, simpaticamente utili. Il concetto non è di conio europeo: l’amministratore delegato dell’Ibm Sam Palmisano, il 6 novembre 2008, davanti al Council on Foreign Relations a New York, spiegava che nell’inizio del secolo XXI il pianeta non era più solo interconnesso, ma anche «smarter», sempre più capace, cioè, di «infondere intelligenza nel modo in cui il mondo funziona: i sistemi e i processi che attivano beni fisici da sviluppare, fabbricare, comprare e vendere, servizi da proporre». L’Unione Europea — Chiara Del Bo, Andrea Caragliu e Massimo Florio, in Statale e al Politecnico di Milano, ne sono i migliori analisti — adottava nello stesso torno di mesi i termini «smart» e «smart cities» su larga scala, per indicare non una tendenza (come implicava il comparativo «smarter» usato da Palmisano davanti al think tank della 68ma strada), ma una qualifica in cerca del suo spessore politico.
Nei suoi primi esperimenti la «smart city» europea era dunque quella città che — a disuguaglianze invariate — erogava prestazioni a più alto contenuto tecnologico al cittadino. Avevano iniziato le regioni europee affacciate sul Mare del Nord. Poi Belgrado con i suoi 20 mila sensori o Santander che con 12 mila apparecchi regola il traffico, i parcheggi, gli accessi ai servizi. Oggi si cercano nuovi orizzonti semantici, come quelli che a fine settembre saranno discussi al «MonAmi» di Amburgo (è la sigla del «Mobile Networks and Management» di cui fa parte il centro trentino del Create-Net). Perché perfino gli opliti della tecnocrazia bruxellese hanno ormai capito che la correlazione fra una città piena di tecnologia e prosperità non è così univoca.
Da Gerico in qua la città non è solo ottimizzazione di prestazioni all’individuo, siano esse il riparo dalle tempeste del deserto o la riduzione delle emissioni di CO2. Non è solo la fornitura di un supporto alla perpetuazione dello status sociale della famiglia, espresso nel medioevo dai Palazzi dei notai ed oggi dalle infrastrutture necessarie a celebrare il culto svuotatore del weekend. La città è spazio di solidarietà potenzialmente eversive (quando nell’Emilia terremotata tutti hanno tolto le password e aperto liberamente i loro wifi sembrava d’essere in California). È sperimentare diversità riconciliate dalla (appunto) «cittadinanza»: è l’ambito dove le opportunità non sono meramente eguali, ma sono quella cosa che rende eguali o meno diseguali. La città è il luogo dove si consuma una cultura che è fatta anche di prodotti, ma dove si produce cultura fatta di contenuti intellettuali, spirituali, artistici, tecnici.
Anche questo obiettivo fa parte delle sfide che l’Europa vede profilarsi e su cui il programma di ricerca «Horizon 2020» investirà nei prossimi anni 85 miliardi di euro, dedicati in parte alla ricerca sulle «smart cities». Molti Paesi europei si sono attrezzati a questa competizione da un lato con grandi aggregati di ricerca e sviluppo detti clusters e dall’altro «clusterizzando» gli specialismi (la Germania ha un cluster su religione e politica, ad esempio). In Italia il ministro Profumo ha messo a bando i primi clusters di trasferimento tecnologico, di cui ad ottobre sapremo la fisionomia: essa ci dirà moltissimo sulla lealtà e sulla capacità di servire l’interesse generale del nostro sistema industriale, accademico, politico. Per costruire città migliori e prospere non bastano infatti le tecnologie.
La tecnologia può sensorizzare le città per favorire la transumanza dei turisti cinesi, per pascolare gli indigeni in auto, per dare ai bambini l’equivalente touch del calamaio, per colmare la solitudine adolescenziale con la sociabilità virtuale, che distilla cose buffe o velenose con la stessa facilità. Ma se dietro e dentro la tecnologia non ci sono contenuti le città rimangono muti aggregati dell’umano sfinimento. Provare a renderle «smart» per tutti è la sola cosa che le rende smart davvero, anche per il business. E per questo servono culture di giustizia, conoscenza, politica. Che non devono essere pure loro smart: basta che siano semplicemente giustizia, conoscenza, politica. Senza di esse le rovine arroventate di Gerico ci ricordano che di fare una città che fosse smart per pochi sono stati capaci tutti. Da quasi diecimila anni.
La Lettura/Corriere della Sera 09.09.12

"Il matematico che disse no, Volterra rifiutò di giurare fedeltà a Mussolini", di Pietro Greco

È all’inizio di novembre dell’anno 1931 che Benito Mussolini mette alla prova l’università italiana e ordina a tutti i suoi 1.200 professori di giurare fedeltà al suo regime. Non ne esce bene, l’università. Solo in 12, tra quegli illustri docenti, rifiutano. Tra quei pochi coraggiosi c’è un matematico marchigiano, Vito Volterra. Senatore del Regno, Presidente dell’Accademia dei Lincei. È lui la figura di maggior spicco della scienza italiana. È lui che «salva la faccia» degli scienziati italiani di fronte la mondo.
È davvero impossibile riassumere in poche righe la vita di Vito Volterra. Perché è stato un grande «creatore di scienza», protagonista assoluto di quella «primavera della matematica» che tra la fine dell’800 e l’inizio del 900 fece della povera Italia una delle tre grandi potenze mondiali nella scienza dei numeri. Perché è stato un grande «organizzatore di scienza», fondatore di una quantità di società e istituzioni tra cui spicca, per importanza il Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr): il massimo Ente scientifico del nostro Paese. Perché è stato un grande «politico della ricerca», che si è battuto con lucidità e determinazione per trasformare non solo la cultura italiana nella cultura di un Paese moderno, ma anche l’economia italiana nell’economia di un Paese moderno. E, infine, perché è stato un fiero avversario del fascismo, pagando un conto salatissimo alla sua coerenza e alla sua dignità.
Chi lo volesse conoscere più da vicino e in maniera più approfondita in ciascuno di questi aspetti, può consultare il libro Vito Volterra, pubblicato qualche anno fa da Angelo Guerraggio e Gianni Paoloni. L’unica biografia ricca e completa sul grande matematico italiano che sia stata scritta da storici italiani. Noi ci limiteremo a delineare la sua strategia di «politico della ricerca». Perché estremamente moderna allora. E, ahinoi, di estrema attualità anche oggi. Ma per farlo abbiamo bisogno di indicare le principali coordinate della sua ricca e intensa vita.
Vito Volterra nasce ad Ancona, il 3 maggio 1860. I suoi genitori sono ebrei e vivono nell’antico ghetto, edificato nel XVI secolo, del capoluogo marchigiano. Il padre, Abramo, muore che Vito ha appena due anni. Si assume la cure della famiglia orfana Alfonso Almagià, lo zio di Vito fratello della madre, Angelica. Il ragazzo è bravo e lo zio premuroso. In breve: nel 1878, a 18 anni e con il diploma in tasca, Vito si iscrive all’Università di Pisa. L’anno seguente entra alla Scuola Normale, dove ha come docenti due grandi matematici, Enrico Betti e Ulisse Dini. Vito, come farà per la sua intera vita scientifica, ha interessi che spaziano dal campo matematico più stretto, l’analisi, alla fisica-matematica. E, infatti, nel 1882, a soli 22 anni, si laurea proprio in fisica, discutendo una tesi di idrodinamica. L’anno dopo lo troviamo che già insegna, all’università di Pisa, meccanica razionale.
Come matematico puro studia le equazioni differenziali e quelle integrali, di cui sviluppa la teoria. Gli storici dicono che le sue ricerche sulle «funzioni di linea», le funzioni le cui variabili sono altre funzioni, sono di notevole importanza perché consentono i confini di quella che il francese Jacques Hadamard battezzerà «analisi funzionale». Come fisico matematico Volterra ottiene risultati non meno importanti, nel campo della teoria della luce che attraversa i mezzi birifrangenti e nella teoria delle distorsioni elastiche.
Nel 1892 muore Enrico Betti e Volterra è chiamato a sostituirlo sulla cattedra di meccanica dell’università di Torino. Cinque anni dopo, nel 1897, contribuisce a fondare la Società italiana di fisica (Sif), di cui diventerà presidente. Nell’anno 1900 si trasferisce a Roma, professore di fisica matematica alla Sapienza. Ormai è uno degli scienziati italiani più noti, anche all’estero. Non a caso è lui che i colleghi europei eleggono a Presidente del Consiglio internazionale delle ricerche. Osservatorio oltremodo privilegiato. Perché è da lì che Volterra ha modo di verificare come la scienza non abbia solo un valore culturale in sé; ma sia sempre più un mezzo con cui le nazioni europee più avanzate producono la propria ricchezza.
Nel 1905 è nominato Senatore del Regno e subito dopo ecco la sua prima grande intuizione come «politico della ricerca»: prendendo esempio da analoghe istituzioni presenti da tempo in Europa fonda, infatti, la Società italiana per l’avanzamento delle scienze (Sips), di cui diventa presidente. Volterra vuole la Sips non abbia un carattere accademico ma « che questa società abbia una larga base, che possa stendere le sue radici liberamente in tutto il paese e abbracciare tutti coloro che volenterosi amano la scienza; sia quelli che hanno direttamente portato ad essa un contributo, sia quelli che desiderano solamente impadronirsi di quanto altri hanno scoperto». Lo scopo è chiaro: vuole che la scienza esca dalle università e che la cultura scientifica si diffonda nel Paese. In un Paese, che, spiega: «non apprezza ancora nel suo giusto valore l’importanza della ricerca scientifica né quale forza rappresenti per la prosperità civile ed economica di una nazione».
Vito Volterra sostiene che la scienza ha un valore strategico per il Paese, sia perché ha un valore culturale intrinseco, come spiega in polemica a don Benedetto Croce che lo nega. Sia perché è la leva principale per assicurare «al prosperità civile ed economica di una nazione». La società accademiche, come la Sif, servono per irrobustire dall’interno la comunità scientifica italiana. Ma le società non accademiche, come la Sifs, servono per stabilire i contatti tra la scienza e la società italiana, compresa la sua componente politica. Un dialogo decisivo non solo e non tanto per la comunità scientifica, ma anche e soprattutto per il Paese.
Volterra è un sincero patriota. Cui non difetta il coraggio. Ed è per questo che il Senatore decide di partecipare nella maniera più diretta possibile alla Prima guerra mondiale: arruolandosi, a 55 anni, nel Corpo Militare degli Ingegneri. Malgrado i suoi numerosi impegni pubblici e, persino, militari Volterra non cessa di essere un matematico creativo. Non è certo un caso che proprio in questi anni ottenga uno dei suoi risultati scientifici più noti anche la grande pubblico: l’equazione che spiega il rapporto tra prede e predatori nella dinamica delle popolazioni. L’equazione – passata alla storia come equazione Lotka-Volterra – è la prima applicata in ecologia e inaugura un nuovo campo di studi: l’ecologia matematica.
INCARICO ANCHE A PARIGI
Quando finisce la guerra, Volterra riprende a tessere la sua tela di «politico della ricerca». Se il Paese vuole agganciare il treno dei più ricchi ed evoluti, deve dotarsi delle necessarie strutture. In particolare lo stato deve creare un luogo dove una massa critica di ricercatori possa portare avanti i suoi studi, nell’ambito delle scienze fondamentali e soprattutto applicate, senza distrazioni. Neppure quelle didattiche che sottraggono tempo ai docenti universitari. E così inizia a proporre ai colleghi scienziati e ai colleghi politici la creazione di un Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr). Non è impresa facile. Ma neppure la determinazione del matematico senatore è cosa banale. Nel 1923 il Consiglio Nazionale delle Ricerche vede finalmente la luce. E lui, Vito Volterra ne è il presidente. Intanto, dal 1921, è presidente anche del Bureau International des Poids et Mesures, l’ufficio internazionale dei pesi e delle misure che ha sede a Parigi. Conserverà questa carica fino alla morte. Nel 1923 diventa presidente anche dell’Accademia dei Lincei.
Non c’è dubbio che Volterra gestisca molto potere, in Italia e all’estero. Ma non c’è dubbio neppure che per il matematico marchigiano il potere è un mezzo, non un fine. Pronto a metterlo in discussione, se sul piatto della bilancia c’è un ideale. Lo ha dimostrato in passato. Lo dimostra quando Mussolini diventa Presidente del Consiglio e inizia a costruire il regime. Vito Volterra non ha dubbi. La sua opposizione al fascismo è immediata e senza tentennamenti. Pronto a pagarne tutte le conseguenze. Nel 1925 non esita a firmare il manifesto intellettuali antifascisti redatto dal suo amico/avversario, don Benedetto: noto come «Manifesto Croce». Mussolini, purtroppo, non è meno determinato. E l’anno dopo, nel 1926, il Duce lo caccia dal Cnr, chiamando a sostituirlo, nel tentativo di salvare la faccia davanti al mondo, il celeberrimo Guglielmo Marconi.
Nel 1930 i fascisti chiudono il Parlamento. Non è più senatore. Nel 1931, come abbiamo detto, Vito Volterra rifiuta di giurare fedeltà al regime: non è più professore. Nel 1934 i fascisti lo cacciano da ogni residua posizione: non è più accademico dei Lincei. Vito Volterra muore l’11 ottobre 1940. Da pochi mesi l’Italia è entrata in guerra. Da molti anni ha perso il treno su cui aveva cercato di farla salire un testardo matematico marchigiano.

da www.unita.it

"Il matematico che disse no, Volterra rifiutò di giurare fedeltà a Mussolini", di Pietro Greco

È all’inizio di novembre dell’anno 1931 che Benito Mussolini mette alla prova l’università italiana e ordina a tutti i suoi 1.200 professori di giurare fedeltà al suo regime. Non ne esce bene, l’università. Solo in 12, tra quegli illustri docenti, rifiutano. Tra quei pochi coraggiosi c’è un matematico marchigiano, Vito Volterra. Senatore del Regno, Presidente dell’Accademia dei Lincei. È lui la figura di maggior spicco della scienza italiana. È lui che «salva la faccia» degli scienziati italiani di fronte la mondo.
È davvero impossibile riassumere in poche righe la vita di Vito Volterra. Perché è stato un grande «creatore di scienza», protagonista assoluto di quella «primavera della matematica» che tra la fine dell’800 e l’inizio del 900 fece della povera Italia una delle tre grandi potenze mondiali nella scienza dei numeri. Perché è stato un grande «organizzatore di scienza», fondatore di una quantità di società e istituzioni tra cui spicca, per importanza il Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr): il massimo Ente scientifico del nostro Paese. Perché è stato un grande «politico della ricerca», che si è battuto con lucidità e determinazione per trasformare non solo la cultura italiana nella cultura di un Paese moderno, ma anche l’economia italiana nell’economia di un Paese moderno. E, infine, perché è stato un fiero avversario del fascismo, pagando un conto salatissimo alla sua coerenza e alla sua dignità.
Chi lo volesse conoscere più da vicino e in maniera più approfondita in ciascuno di questi aspetti, può consultare il libro Vito Volterra, pubblicato qualche anno fa da Angelo Guerraggio e Gianni Paoloni. L’unica biografia ricca e completa sul grande matematico italiano che sia stata scritta da storici italiani. Noi ci limiteremo a delineare la sua strategia di «politico della ricerca». Perché estremamente moderna allora. E, ahinoi, di estrema attualità anche oggi. Ma per farlo abbiamo bisogno di indicare le principali coordinate della sua ricca e intensa vita.
Vito Volterra nasce ad Ancona, il 3 maggio 1860. I suoi genitori sono ebrei e vivono nell’antico ghetto, edificato nel XVI secolo, del capoluogo marchigiano. Il padre, Abramo, muore che Vito ha appena due anni. Si assume la cure della famiglia orfana Alfonso Almagià, lo zio di Vito fratello della madre, Angelica. Il ragazzo è bravo e lo zio premuroso. In breve: nel 1878, a 18 anni e con il diploma in tasca, Vito si iscrive all’Università di Pisa. L’anno seguente entra alla Scuola Normale, dove ha come docenti due grandi matematici, Enrico Betti e Ulisse Dini. Vito, come farà per la sua intera vita scientifica, ha interessi che spaziano dal campo matematico più stretto, l’analisi, alla fisica-matematica. E, infatti, nel 1882, a soli 22 anni, si laurea proprio in fisica, discutendo una tesi di idrodinamica. L’anno dopo lo troviamo che già insegna, all’università di Pisa, meccanica razionale.
Come matematico puro studia le equazioni differenziali e quelle integrali, di cui sviluppa la teoria. Gli storici dicono che le sue ricerche sulle «funzioni di linea», le funzioni le cui variabili sono altre funzioni, sono di notevole importanza perché consentono i confini di quella che il francese Jacques Hadamard battezzerà «analisi funzionale». Come fisico matematico Volterra ottiene risultati non meno importanti, nel campo della teoria della luce che attraversa i mezzi birifrangenti e nella teoria delle distorsioni elastiche.
Nel 1892 muore Enrico Betti e Volterra è chiamato a sostituirlo sulla cattedra di meccanica dell’università di Torino. Cinque anni dopo, nel 1897, contribuisce a fondare la Società italiana di fisica (Sif), di cui diventerà presidente. Nell’anno 1900 si trasferisce a Roma, professore di fisica matematica alla Sapienza. Ormai è uno degli scienziati italiani più noti, anche all’estero. Non a caso è lui che i colleghi europei eleggono a Presidente del Consiglio internazionale delle ricerche. Osservatorio oltremodo privilegiato. Perché è da lì che Volterra ha modo di verificare come la scienza non abbia solo un valore culturale in sé; ma sia sempre più un mezzo con cui le nazioni europee più avanzate producono la propria ricchezza.
Nel 1905 è nominato Senatore del Regno e subito dopo ecco la sua prima grande intuizione come «politico della ricerca»: prendendo esempio da analoghe istituzioni presenti da tempo in Europa fonda, infatti, la Società italiana per l’avanzamento delle scienze (Sips), di cui diventa presidente. Volterra vuole la Sips non abbia un carattere accademico ma « che questa società abbia una larga base, che possa stendere le sue radici liberamente in tutto il paese e abbracciare tutti coloro che volenterosi amano la scienza; sia quelli che hanno direttamente portato ad essa un contributo, sia quelli che desiderano solamente impadronirsi di quanto altri hanno scoperto». Lo scopo è chiaro: vuole che la scienza esca dalle università e che la cultura scientifica si diffonda nel Paese. In un Paese, che, spiega: «non apprezza ancora nel suo giusto valore l’importanza della ricerca scientifica né quale forza rappresenti per la prosperità civile ed economica di una nazione».
Vito Volterra sostiene che la scienza ha un valore strategico per il Paese, sia perché ha un valore culturale intrinseco, come spiega in polemica a don Benedetto Croce che lo nega. Sia perché è la leva principale per assicurare «al prosperità civile ed economica di una nazione». La società accademiche, come la Sif, servono per irrobustire dall’interno la comunità scientifica italiana. Ma le società non accademiche, come la Sifs, servono per stabilire i contatti tra la scienza e la società italiana, compresa la sua componente politica. Un dialogo decisivo non solo e non tanto per la comunità scientifica, ma anche e soprattutto per il Paese.
Volterra è un sincero patriota. Cui non difetta il coraggio. Ed è per questo che il Senatore decide di partecipare nella maniera più diretta possibile alla Prima guerra mondiale: arruolandosi, a 55 anni, nel Corpo Militare degli Ingegneri. Malgrado i suoi numerosi impegni pubblici e, persino, militari Volterra non cessa di essere un matematico creativo. Non è certo un caso che proprio in questi anni ottenga uno dei suoi risultati scientifici più noti anche la grande pubblico: l’equazione che spiega il rapporto tra prede e predatori nella dinamica delle popolazioni. L’equazione – passata alla storia come equazione Lotka-Volterra – è la prima applicata in ecologia e inaugura un nuovo campo di studi: l’ecologia matematica.
INCARICO ANCHE A PARIGI
Quando finisce la guerra, Volterra riprende a tessere la sua tela di «politico della ricerca». Se il Paese vuole agganciare il treno dei più ricchi ed evoluti, deve dotarsi delle necessarie strutture. In particolare lo stato deve creare un luogo dove una massa critica di ricercatori possa portare avanti i suoi studi, nell’ambito delle scienze fondamentali e soprattutto applicate, senza distrazioni. Neppure quelle didattiche che sottraggono tempo ai docenti universitari. E così inizia a proporre ai colleghi scienziati e ai colleghi politici la creazione di un Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr). Non è impresa facile. Ma neppure la determinazione del matematico senatore è cosa banale. Nel 1923 il Consiglio Nazionale delle Ricerche vede finalmente la luce. E lui, Vito Volterra ne è il presidente. Intanto, dal 1921, è presidente anche del Bureau International des Poids et Mesures, l’ufficio internazionale dei pesi e delle misure che ha sede a Parigi. Conserverà questa carica fino alla morte. Nel 1923 diventa presidente anche dell’Accademia dei Lincei.
Non c’è dubbio che Volterra gestisca molto potere, in Italia e all’estero. Ma non c’è dubbio neppure che per il matematico marchigiano il potere è un mezzo, non un fine. Pronto a metterlo in discussione, se sul piatto della bilancia c’è un ideale. Lo ha dimostrato in passato. Lo dimostra quando Mussolini diventa Presidente del Consiglio e inizia a costruire il regime. Vito Volterra non ha dubbi. La sua opposizione al fascismo è immediata e senza tentennamenti. Pronto a pagarne tutte le conseguenze. Nel 1925 non esita a firmare il manifesto intellettuali antifascisti redatto dal suo amico/avversario, don Benedetto: noto come «Manifesto Croce». Mussolini, purtroppo, non è meno determinato. E l’anno dopo, nel 1926, il Duce lo caccia dal Cnr, chiamando a sostituirlo, nel tentativo di salvare la faccia davanti al mondo, il celeberrimo Guglielmo Marconi.
Nel 1930 i fascisti chiudono il Parlamento. Non è più senatore. Nel 1931, come abbiamo detto, Vito Volterra rifiuta di giurare fedeltà al regime: non è più professore. Nel 1934 i fascisti lo cacciano da ogni residua posizione: non è più accademico dei Lincei. Vito Volterra muore l’11 ottobre 1940. Da pochi mesi l’Italia è entrata in guerra. Da molti anni ha perso il treno su cui aveva cercato di farla salire un testardo matematico marchigiano.
da www.unita.it

"Sempre più disoccupati in Italia", di Giuseppe Caruso

Un terzo dei nuovi disoccupati in Europa è italiano. A fornire un altro dato inquietante sullo stato di salute dell’economia del Belpaese ci ha pensato l’isituto di ricerche Ires, fondato dalla Cgil. Rielaborando i dati Istat e Eurostat, l’Ires ha reso noto che tra gennaio e luglio del 2012 i disoccupati nel nostro Paese sono aumentati di 292.000 unità passando da 2.472.000 a 2.764.000. Nello stesso periodo l’Ue nel suo complesso ha registrato 881.000 disoccupati in più. Ma le cattive notizie non finiscono qui, visto che nello studio si sottolinea come ci siano anche quasi 4 milioni e mezzo di persone all’interno dell’area della così detta sofferenza occupazionale . Per definire quest’area l`Ires ha scelto di prendere come riferimento, oltre ai disoccupati, i così detti scoraggiati , vale a dire quelle persone comunque disponibili a lavorare o che si trovano in cassaintegrazione. Si arriva così all’enorme cifra di 4 milioni e 392mila persone. Per capire il peggioramento della situazione, basti pensare che con gli stessi parametri, nel secondo trimestre del 2007, cioè prima della grande crisi, le persone che potevano rientrare in questa sfera ammontavano a 2 milioni e 475mila (l`aumento è del 77% ndr). Raffaele Minelli, presidente dell’Ires Cgil, e Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Di Vittorio, commentando lo studio hanno rilevato che per troppo tempo «si è sbagliato, sostenendo che l’Italia si trovava in una situazione di vantaggio rispetto all’Europa guardando solo ai dati dei disoccupati formalmente riconosciuti e non tenendo in alcun conto l’enorme area dell’inattività. Questa differenza è ormai superata e come si vede l’aumento dei disoccupati in Italia è ora molto più forte della media europea». «Risulta evidente» hanno aggiunto MInelli e Fammoni «come l’andamento della crisi e le scelte fatte per contrastarla producano nel nostro Paese un netto peggioramento, con effetti insopportabilmente negativi sull’occupazione. Questo dato comporta un primo giudizio severo e negativo sull’operato del Governo. Vista la rilevanza del tema, l’Ires produrrà stabilmente approfondimenti sulla disoccupazione e sulla qualità dell’occupazione». «Il primo aspetto» hanno concluso «riguarda l’area della vera sofferenza occupazionale. Il secondo invece prende in esame il problema dell’inattività, un fenomeno molto più diffuso nel nostro paese rispetto al resto dell’Europa, un fenomeno dentro al quale si trova una parte rilevante di esclusi dal mondo del lavoro non formalmente riconosciuti come disoccupati. A questi milioni di persone non si può dire che la prospettiva di essere travolti dalla crisi si è allontanata. È evidente che il lavoro è il principale fattore non affrontato dal governo per uscire dalla crisi». Una crisi, quella dell’occupazione, che in Italia è costante da ormai diversi anni. La Coldiretti per esempio ieri ha reso noto che a causa del caldo e della siccità che hanno tagliato i raccolti estivi ed autunnali, rischiano di rimanere a casa molti dei 200 mila giovani impegnati nelle attività di raccolta di frutta, verdura e nella vendemmia. «Sui dati relativi all’occupazione nel terzo trimestre» spiega la Coldiretti «si farà sentire purtroppo il crollo dei raccolti agricoli che va dal 22 per cento per le pere al 13 per cento per le mele ma arriva al 50 per cento per il pomodoro in Puglia e al 5 per cento per la vendemmia, tutti settori che richiedono una elevato impiego di manodopera. Si tratta degli effetti negativi dovuti all’andamento climatico sfavorevole che ha provocato danni diretti per circa tre miliardi di euro all’agricoltura nazionale, con inevitabili ricadute anche sull’indotto in termini economici ed occupazionali».

L’Unità 09.09.12

"Sempre più disoccupati in Italia", di Giuseppe Caruso

Un terzo dei nuovi disoccupati in Europa è italiano. A fornire un altro dato inquietante sullo stato di salute dell’economia del Belpaese ci ha pensato l’isituto di ricerche Ires, fondato dalla Cgil. Rielaborando i dati Istat e Eurostat, l’Ires ha reso noto che tra gennaio e luglio del 2012 i disoccupati nel nostro Paese sono aumentati di 292.000 unità passando da 2.472.000 a 2.764.000. Nello stesso periodo l’Ue nel suo complesso ha registrato 881.000 disoccupati in più. Ma le cattive notizie non finiscono qui, visto che nello studio si sottolinea come ci siano anche quasi 4 milioni e mezzo di persone all’interno dell’area della così detta sofferenza occupazionale . Per definire quest’area l`Ires ha scelto di prendere come riferimento, oltre ai disoccupati, i così detti scoraggiati , vale a dire quelle persone comunque disponibili a lavorare o che si trovano in cassaintegrazione. Si arriva così all’enorme cifra di 4 milioni e 392mila persone. Per capire il peggioramento della situazione, basti pensare che con gli stessi parametri, nel secondo trimestre del 2007, cioè prima della grande crisi, le persone che potevano rientrare in questa sfera ammontavano a 2 milioni e 475mila (l`aumento è del 77% ndr). Raffaele Minelli, presidente dell’Ires Cgil, e Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Di Vittorio, commentando lo studio hanno rilevato che per troppo tempo «si è sbagliato, sostenendo che l’Italia si trovava in una situazione di vantaggio rispetto all’Europa guardando solo ai dati dei disoccupati formalmente riconosciuti e non tenendo in alcun conto l’enorme area dell’inattività. Questa differenza è ormai superata e come si vede l’aumento dei disoccupati in Italia è ora molto più forte della media europea». «Risulta evidente» hanno aggiunto MInelli e Fammoni «come l’andamento della crisi e le scelte fatte per contrastarla producano nel nostro Paese un netto peggioramento, con effetti insopportabilmente negativi sull’occupazione. Questo dato comporta un primo giudizio severo e negativo sull’operato del Governo. Vista la rilevanza del tema, l’Ires produrrà stabilmente approfondimenti sulla disoccupazione e sulla qualità dell’occupazione». «Il primo aspetto» hanno concluso «riguarda l’area della vera sofferenza occupazionale. Il secondo invece prende in esame il problema dell’inattività, un fenomeno molto più diffuso nel nostro paese rispetto al resto dell’Europa, un fenomeno dentro al quale si trova una parte rilevante di esclusi dal mondo del lavoro non formalmente riconosciuti come disoccupati. A questi milioni di persone non si può dire che la prospettiva di essere travolti dalla crisi si è allontanata. È evidente che il lavoro è il principale fattore non affrontato dal governo per uscire dalla crisi». Una crisi, quella dell’occupazione, che in Italia è costante da ormai diversi anni. La Coldiretti per esempio ieri ha reso noto che a causa del caldo e della siccità che hanno tagliato i raccolti estivi ed autunnali, rischiano di rimanere a casa molti dei 200 mila giovani impegnati nelle attività di raccolta di frutta, verdura e nella vendemmia. «Sui dati relativi all’occupazione nel terzo trimestre» spiega la Coldiretti «si farà sentire purtroppo il crollo dei raccolti agricoli che va dal 22 per cento per le pere al 13 per cento per le mele ma arriva al 50 per cento per il pomodoro in Puglia e al 5 per cento per la vendemmia, tutti settori che richiedono una elevato impiego di manodopera. Si tratta degli effetti negativi dovuti all’andamento climatico sfavorevole che ha provocato danni diretti per circa tre miliardi di euro all’agricoltura nazionale, con inevitabili ricadute anche sull’indotto in termini economici ed occupazionali».
L’Unità 09.09.12

"L’agonia infinita di Pompei crolla trave nella Villa dei Misteri", di Conchita Sannino

Forse l’umidità sedimentata nel tempo. Forse un’infiltrazione aggravata dalle ultime piogge. A rovinare sul suolo degli Scavi di Pompei, stavolta, è una pesante trave di castagno che risale agli anni Settanta e non servirà prendersela con Giove Pluvio. Per fortuna capita di notte e non c’è nessuno a rischiare il collo: l’asse di legno marcita, lunga quasi cinque metri, si stacca dalla struttura che sorregge le tegole e vola giù per quasi otto metri sul pavimento dello splendido (solitamente affollato) porticato: è il peristilio con affreschi della famosa Villa dei Misteri. Alla propaggine estrema di un parco archeologico, lungo 44 ettari, sorvegliato da pochissimi custodi, penalizzato da sette crolli negli ultimi ventidue mesi.
La trave non ha alcun valore, dunque, e non c’è danno alle strutture della domus: eppure non basta questo sollievo a placare le polemiche sugli Scavi a rischio abbandono, e sul tema sicurezza che pende — è il caso di dire — sulla testa di lavoratori e turisti, oltreché su un inestimabile patrimonio.
Protestano i sindacati, Legambiente, parlamentari di destra e sinistra. Dalla senatrice Pdl Diana De Feo che parla di «manutenzione inesistente e rischio incolumità per i turisti», al collega Pd Andrea Marcucci, che denuncia: «Esiste uno spread culturale, non meno grave di quello finanziario. Il governo assuma come priorità gli interventi su Pompei». Solo sei mesi fa, a febbraio, volò via l’intonaco della Domus di Venere in Conchiglia. Un danno che già allungava la lista dei clamorosi cedimenti degli ultimi anni, cominciati con il crollo nel cuore della Schola Armaturarum del novembre 2010. In meno di due anni, siamo al settimo episodio. Ma diventano 21 se si parte dal 2003. Fortuna che, mentre si ripropone l’eterna giostra delle reazioni, sul futuro di Pompei credono più a Bruxelles. I 105 milioni stanziati dall’Unione europea già lo scorso inverno sono i unici fondi grazie ai quali potranno partire, (seppure con ritardo di alcuni mesi), sia il restauro di 5 Domus, sia la messa in sicurezza delle tre aree più a rischio: le Regio Sesta, Settima e Ottava.
Da ieri è interdetta la sola area del peristilio. La soprintendente ai beni archeologici di Napoli e Pompei, Teresa Cinquantaquattro, assicura il via all’istruttoria interna «per capire cosa sia stato a
provocare il cedimento». Aggiunge la soprintendente: «Forse, a pesare in maniera determinante sono state le piogge violente degli ultimi giorni, che evidentemente hanno aggravato una fragilità che non era visibile, da quanto ci viene riferito dai tecnici». Scatta subito il sopralluogo dei carabinieri. E la conseguente apertura di un quarto fascicolo sugli Scavi da parte della Procura di Torre Annunziata. Le altre tre indagini, in corso, riguardano i precedenti cedimenti degli Scavi e denunce di presunti illeciti nella gestione pregressa dei fondi. Proprio il commissariamento degli anni scorsi ha lasciato opacità e vuoti di gestione che — con i tagli alle risorse, il calo progressivo della manutenzione e i cedimenti di vario livelli delle scorse stagioni — continuano a presentare un grave conto. Restano in piedi le altre domande. Cosa sarebbe accaduto se il crollo fosse avvenuto di giorno? Soprattutto: quante sono le altre travi “potenzialmente” killer?

La Repubblica 09.09.12