E’ inutile girare attorno all’ostacolo. Le prossime primarie per sciegliere il candidato premier del centro sinistra possono essere una grande opportunità per l’espansione elettorale del Pd e, quindi, della intera coalizione; oppure possono trasformarsi in un poderoso boomerang. Innanzitutto per il Pd, per la sua immagine, la sua credibilità e il suo progetto politico. Per noi si tratta di una questione di scelta politica, di rapporti interni al partito e anche di scelte regolamentari.
Ma andiamo con ordine. Le primarie si devono fare.
Così ha deciso Bersani e così ha scelto il Pd. Primarie che servono per dare un’ampia legittimazione popolare e democratica al futuro candidato Premier e anche per rispondere ad una domanda di rinnovamento che sale con forza dalla società italiana. Ma le primarie, che sono e restano uno strumento e non un dogma da santificare e venerare ogni giorno, non possono diventare un espediente per “scassare” il partito e demolire la stessa impalcatura di un soggetto politico che è nato appena 5 anni fa. Francamente non crediamo che questo rientri tra gli obiettivi politici del sindaco di Firenze, ma è indubbio che gli attacchi quotidiani al segretario, a larga parte del gruppo dirigente e a tutto ciò che è stato fatto in questi anni, è una ghiotta occasione per tutti i detrattori, gli avversari e i nemici del Pd per ridimensionare, se non fiaccare, le ambizioni di governo del più grande partito riformista del Paese. Quindi, un sì convinto alle primarie purché non diventino una sorta di competizione cruenta tesa unicamente a delegittimare politicamente e personalmente il gruppo dirigente del partito.
Lo hanno già detto altri e noi lo ripetiamo perché lo condividiamo: il tema dei mandati, della “rottamazione” di tutto il gruppo dirigente del partito e dello sventolio in ogni piazza e in ogni via della carta di identità, che cosa hanno a che fare con l’agenda programmatica del dopo Monti? Noi non sottovalutiamo affatto questi elementi di dibattito. Ma un conto è il congresso di un partito, lo scontro interno e la fisiologica competizione per assumere la sua guida politica. Altra cosa, del tutto diversa, è la ricetta programmatica del Pd e del centrosinistra per la guida del Paese nel prossimo quinquennio. Come abbiamo già detto, indubbiamente la carta di identità è importante, ma la contesa delle future primarie va giocata esclusivamente sul terreno politico e programmatico. Perché se la disputa diventa tutta interna al gruppo dirigente, forse è bene convocare un congresso straordinario per affrontare i problemi e sciogliere i nodi. Ma è questo il tema dominante ed esclusivo del dopo Monti? A noi, francamente, pare di no, perché siamo interessati a conoscere innanzitutto il programma di governo di ciascun candidato e a comprendere qual è la strada che viene indicata per uscire dall’attuale e drammatica crisi economica e sociale.
Ecco perché il capitolo delle regole questa volta è importante e decisivo.
Nessuno vuole attenuare o ridurre la partecipazione popolare. Anzi. Chi non appartiene alla scuola demagogica e populista del grillismo più aggressivo ed irresponsabile, sa benissimo che le primarie vanno disciplinate. E la proposta avanzata su queste colonne da Franco Marini non può e non deve cadere nel vuoto. Il cosiddetto «albo degli elettori» non è utile solo al Pd, ma è utile per la credibilità, la trasparenza e la correttezza delle primarie e della stessa politica.
Non vogliamo affatto ingigantire le degenerazioni e gli inquinamenti che sono capitati a Napoli, a Palermo e in altre città italiane. Ma è indubbio che una consultazione popolare di questo genere, priva di qualsiasi regolamentazione, è credibile e seria se non è inquinata e, soprattutto, se non è condizionata da persone, gruppi di pressione, cordate di interessi e lobby del tutto esterne al Pd e all’intero centro sinistra. È sintomatico, al riguardo, che a invocare primarie senza regole siano soprattutto tutti quei mondi o pregiudizialmente ostili al Pd o che avversano e combattono un esito positivo al centro sinistra alle prossime elezioni.
Facciamo, pertanto, un pubblico appello al segretario Bersani e alla Direzione del partito affinché si affronti in modo tempestivo ed approfondito questo tema. Senza regole definite e condivise rischiamo di trasformare le primarie in uno scontro dove la voglia di azzerare e di liquidare il Pd può entrare prepotentemente in gioco, nonostante la nostra volontà. E questo è un epilogo che non condividiamo e che vogliamo battere senza esitazioni e senza tentennamenti.
L’Unità 08.09.12
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"La vera battaglia del rinnovamento si fa in Europa", di Alfredo Reichlin
Le decisioni prese ieri dalla BCE sotto la guida di Mario Draghi segnano forse un punto di svolta. I tremendi problemi della crisi italiana non sono affatto risolti. Possiamo però affrontarli con più fiducia e più realismo. Finalmente la lotta politica italiana può cominciare a spostarsi in avanti, a quel livello europeo dove si decide intorno a cose come l’identità e la sopravvivenza della nazione, dove alla disgregazione dello Stato si può opporre una prospettiva di «europeizzazione», dove si può opporre alla situazione attuale in cui la politica è stata ridotta a sottosistema dell’economia, la possibilità di rimettere in gioco non solo le banche ma i soggetti sociali, le culture e i partiti europei. Dove la scelta tra destra e sinistra torna decisiva. Ecco perché sento, lo confesso, un senso di rigetto e di fastidio per questa ridicola disputa tra vecchi e giovani. Ridicola perché paradossale. Vedo anch’io molti vecchi che sopravvivono, ma il guaio è che non vedo molti giovani.
Non dal punto di vista anagrafico, evidentemente, ma nel senso che vedo uno scarto enorme tra questa vacua chiacchiera politica e il bisogno fortissimo di qualcuno o di qualcosa (un leader, un pensiero, una iniziativa) che ci apra gli occhi sull’enorme novità del problema che sta davanti a noi.
Parlo del nuovo tempo storico che già sta cambiando il modo di essere e il destino degli italiani. È evidente che la politica attuale non funziona. Non funziona per tante ragioni (compreso il suo miserevole livello etico-politico) ma per una soprattutto, quella di cui ha parlato ieri Giorgio Napolitano. Cioè il fatto che il futuro della «europeizzazione» è già cominciato e quindi «è nel complesso dell’Europa quale oggi ci si presenta che la politica è in affanno, naviga a vista perché le vecchie mappe risultano sempre più inservibili e le nuove restano ancora lontano dal giungere a un disegno compiuto». Sono parole dette l’altro giorno a Mestre da un uomo che non è più un giovane ma che mentalmente lo è più di tanti altri.
Insomma, si comincia ad aprire un futuro rispetto al tunnel in cui siamo stati finora: sacrifici senza nessuna prospettiva. Attenzione. Io non voglio esagerare e vedo benissimo tutti i rischi che perdurano. Parlo però del fatto che dopo la fase tutt’ora non chiusa dell’emergenza in cui non potevamo fare altro che aggrapparci all’orlo del precipizio per «non fare la fine della Grecia», se ne sta aprendo un’altra.
Decisioni politiche capitali si stanno prendendo in queste settimane e mesi. Non sto parlando di «spread» e di astrusi marchingegni monetari. Sto parlando del fatto che, dietro le quinte delle manovre finanziarie, si sta sviluppando in forme ancora coperte un dibattito più di fondo che riguarda il futuro politico degli europei, e che è volto a definire i caratteri di una nuova entità europea di tipo federale. È su questa strada che ci stiamo incamminando? Certo, non è questo che ha detto Draghi. Ma nella misura in cui, dopo una lotta feroce,
stanno prevalendo a livello europeo le forze che considerano l’euro irreversibile e la sua scomparsa una tragedia, l’avvio di un disordine ingovernabile dell’economia mondiale, diventa inevitabile cominciare a ridefinire il quadro politico: il potere della Germania, il ruolo della Francia e il tipo di assetto per l’Italia, un Paese con problemi strutturali enormi come il Mezzogiorno, la disoccupazione, il degrado dello Stato (amministrazione, corruzione, inefficienze della giustizia). Insomma, in un modo o nell’altro, si comincia a riscrivere la nostra storia.
Ecco il punto a cui volevo arrivare. Come si può più sopportare questa confusione che sta colpendo il prestigio di tutte le componenti del Pd? Come si può parlare della sinistra, di riforme, di difesa dell’industria, di giustizia sociale e di riequilibrio tra le classi, e soprattutto di rilancio dello sviluppo fuori da questo contesto? Cari amici giovani che scalpitate, io vi voglio bene ma voi diventate irrilevanti se non partite da qui. E tutti i dirigenti del Pd dovrebbero capire perché il distacco della gente dalla politica diventa sempre più grande. Ma è evidente. La gente non è stupida, né qualunquista in partenza. La gente sente nel suo istinto profondo e nella sua antica intelligenza che siamo entrati in un mondo nuovo, altro, sconosciuto. E ciò la spaventa, l’inquieta, la spinge a cercare una nuova guida. Se non la trova che cosa può fare se non protestare, fino a votare per Grillo? È difficile credere a un partito se esso si riduce a una rissa continua e credere in una politica che (anche se diretta da giovani) è vecchia per la semplice ragione che non parla del futuro. Come si può parlare, per esempio, del problema meridionale se non all’interno del nuovo contesto europeo e rispetto al futuro del nuovo contesto arabo mediterraneo?
Tutto assume nuovi significati.
Che cos’è la destra e che cos’è la sinistra. Io sento tutta la insufficienza della tesi che considera il governo Monti una parentesi «tecnica» alla quale seguirà come cosa naturale il ritorno dei partiti. Ma sento anche l’anacronismo di una disputa tra «neo-socialdemocratici» che vogliono una «svolta a sinistra» e neo-liberali che considerano l’agenda Monti come la sola garanzia del «rigore». Ma smettiamola. È evidente che Monti è un grande leader politico europeo di cui l’Italia avrà ancora bisogno ma è giusto pensare per dirla con Agostino Giovagnoli che è venuto il tempo di scelte di fondo molto più ampie dell’attuale «agenda Monti» e che siano in grado di sfidare i tempi nuovi.
Bersani mi sembrava aver capito questo. E che perciò chiede primarie aperte. Per proporsi come quella guida di cui l’Italia ha bisogno, l’uomo di uno schieramento molto largo che riunifica il campo della sinistra ma in funzione di un disegno di governo dell’Italia che deve comprendere, che non può non comprendere, larga parte del mondo moderato. Ma allora si imponga. I progressisti italiani, se sono dei veri progressisti, devono fare una nuova analisi, la devono smettere di «pettinare le bambole». Le nazioni sovrane del passato non sono più il quadro in cui possono risolversi i problemi del presente. La ragione è (come diceva Padoa Schioppa) che stiamo arrivando a un «punto di svolta e di non ritorno». In quanto (cito) «è giunto il momento in cui la lotta politica diviene europea, in cui l’oggetto per il quale lottano uomini e partiti sarà il potere europeo».
Il Sole 24 Ore ha detto chiaro ieri quale sarà l’argomento principale della campagna elettorale per impedire a noi di vincere. L’argomento è che il Pd non è in grado di reggere le nuove sfide dell’Europa. Ma questo è esattamente l’argomento su cui noi dovremmo chiedere il voto per noi, noi che siamo la componente di quella grande forza che è la sinistra europea. Non è la disputa tra vecchi e giovani. Spetta a Bersani fare chiarezza.
L’Unità 08.09.12
"La vera battaglia del rinnovamento si fa in Europa", di Alfredo Reichlin
Le decisioni prese ieri dalla BCE sotto la guida di Mario Draghi segnano forse un punto di svolta. I tremendi problemi della crisi italiana non sono affatto risolti. Possiamo però affrontarli con più fiducia e più realismo. Finalmente la lotta politica italiana può cominciare a spostarsi in avanti, a quel livello europeo dove si decide intorno a cose come l’identità e la sopravvivenza della nazione, dove alla disgregazione dello Stato si può opporre una prospettiva di «europeizzazione», dove si può opporre alla situazione attuale in cui la politica è stata ridotta a sottosistema dell’economia, la possibilità di rimettere in gioco non solo le banche ma i soggetti sociali, le culture e i partiti europei. Dove la scelta tra destra e sinistra torna decisiva. Ecco perché sento, lo confesso, un senso di rigetto e di fastidio per questa ridicola disputa tra vecchi e giovani. Ridicola perché paradossale. Vedo anch’io molti vecchi che sopravvivono, ma il guaio è che non vedo molti giovani.
Non dal punto di vista anagrafico, evidentemente, ma nel senso che vedo uno scarto enorme tra questa vacua chiacchiera politica e il bisogno fortissimo di qualcuno o di qualcosa (un leader, un pensiero, una iniziativa) che ci apra gli occhi sull’enorme novità del problema che sta davanti a noi.
Parlo del nuovo tempo storico che già sta cambiando il modo di essere e il destino degli italiani. È evidente che la politica attuale non funziona. Non funziona per tante ragioni (compreso il suo miserevole livello etico-politico) ma per una soprattutto, quella di cui ha parlato ieri Giorgio Napolitano. Cioè il fatto che il futuro della «europeizzazione» è già cominciato e quindi «è nel complesso dell’Europa quale oggi ci si presenta che la politica è in affanno, naviga a vista perché le vecchie mappe risultano sempre più inservibili e le nuove restano ancora lontano dal giungere a un disegno compiuto». Sono parole dette l’altro giorno a Mestre da un uomo che non è più un giovane ma che mentalmente lo è più di tanti altri.
Insomma, si comincia ad aprire un futuro rispetto al tunnel in cui siamo stati finora: sacrifici senza nessuna prospettiva. Attenzione. Io non voglio esagerare e vedo benissimo tutti i rischi che perdurano. Parlo però del fatto che dopo la fase tutt’ora non chiusa dell’emergenza in cui non potevamo fare altro che aggrapparci all’orlo del precipizio per «non fare la fine della Grecia», se ne sta aprendo un’altra.
Decisioni politiche capitali si stanno prendendo in queste settimane e mesi. Non sto parlando di «spread» e di astrusi marchingegni monetari. Sto parlando del fatto che, dietro le quinte delle manovre finanziarie, si sta sviluppando in forme ancora coperte un dibattito più di fondo che riguarda il futuro politico degli europei, e che è volto a definire i caratteri di una nuova entità europea di tipo federale. È su questa strada che ci stiamo incamminando? Certo, non è questo che ha detto Draghi. Ma nella misura in cui, dopo una lotta feroce,
stanno prevalendo a livello europeo le forze che considerano l’euro irreversibile e la sua scomparsa una tragedia, l’avvio di un disordine ingovernabile dell’economia mondiale, diventa inevitabile cominciare a ridefinire il quadro politico: il potere della Germania, il ruolo della Francia e il tipo di assetto per l’Italia, un Paese con problemi strutturali enormi come il Mezzogiorno, la disoccupazione, il degrado dello Stato (amministrazione, corruzione, inefficienze della giustizia). Insomma, in un modo o nell’altro, si comincia a riscrivere la nostra storia.
Ecco il punto a cui volevo arrivare. Come si può più sopportare questa confusione che sta colpendo il prestigio di tutte le componenti del Pd? Come si può parlare della sinistra, di riforme, di difesa dell’industria, di giustizia sociale e di riequilibrio tra le classi, e soprattutto di rilancio dello sviluppo fuori da questo contesto? Cari amici giovani che scalpitate, io vi voglio bene ma voi diventate irrilevanti se non partite da qui. E tutti i dirigenti del Pd dovrebbero capire perché il distacco della gente dalla politica diventa sempre più grande. Ma è evidente. La gente non è stupida, né qualunquista in partenza. La gente sente nel suo istinto profondo e nella sua antica intelligenza che siamo entrati in un mondo nuovo, altro, sconosciuto. E ciò la spaventa, l’inquieta, la spinge a cercare una nuova guida. Se non la trova che cosa può fare se non protestare, fino a votare per Grillo? È difficile credere a un partito se esso si riduce a una rissa continua e credere in una politica che (anche se diretta da giovani) è vecchia per la semplice ragione che non parla del futuro. Come si può parlare, per esempio, del problema meridionale se non all’interno del nuovo contesto europeo e rispetto al futuro del nuovo contesto arabo mediterraneo?
Tutto assume nuovi significati.
Che cos’è la destra e che cos’è la sinistra. Io sento tutta la insufficienza della tesi che considera il governo Monti una parentesi «tecnica» alla quale seguirà come cosa naturale il ritorno dei partiti. Ma sento anche l’anacronismo di una disputa tra «neo-socialdemocratici» che vogliono una «svolta a sinistra» e neo-liberali che considerano l’agenda Monti come la sola garanzia del «rigore». Ma smettiamola. È evidente che Monti è un grande leader politico europeo di cui l’Italia avrà ancora bisogno ma è giusto pensare per dirla con Agostino Giovagnoli che è venuto il tempo di scelte di fondo molto più ampie dell’attuale «agenda Monti» e che siano in grado di sfidare i tempi nuovi.
Bersani mi sembrava aver capito questo. E che perciò chiede primarie aperte. Per proporsi come quella guida di cui l’Italia ha bisogno, l’uomo di uno schieramento molto largo che riunifica il campo della sinistra ma in funzione di un disegno di governo dell’Italia che deve comprendere, che non può non comprendere, larga parte del mondo moderato. Ma allora si imponga. I progressisti italiani, se sono dei veri progressisti, devono fare una nuova analisi, la devono smettere di «pettinare le bambole». Le nazioni sovrane del passato non sono più il quadro in cui possono risolversi i problemi del presente. La ragione è (come diceva Padoa Schioppa) che stiamo arrivando a un «punto di svolta e di non ritorno». In quanto (cito) «è giunto il momento in cui la lotta politica diviene europea, in cui l’oggetto per il quale lottano uomini e partiti sarà il potere europeo».
Il Sole 24 Ore ha detto chiaro ieri quale sarà l’argomento principale della campagna elettorale per impedire a noi di vincere. L’argomento è che il Pd non è in grado di reggere le nuove sfide dell’Europa. Ma questo è esattamente l’argomento su cui noi dovremmo chiedere il voto per noi, noi che siamo la componente di quella grande forza che è la sinistra europea. Non è la disputa tra vecchi e giovani. Spetta a Bersani fare chiarezza.
L’Unità 08.09.12
Kabul, uccisa un’attrice la maledizione delle donne", di Renzo Guolo
Essere donna in Afghanistan è difficile. Essere una donna attrice ancora di più. L’assassinio a Kabul di una donna protagonista di una serie Tv e l’allucinante avventura capitata alle sue colleghe, la dice lunga sulla condizione femminile, e sui diritti umani, nel Paese dei Monti. Dopo essere state coinvolte nella violenta aggressione in cui ha perso la vita la giovane Benafsha, lasciata sanguinante davanti a una moschea, le sue compagne, le sorelle Azema e Tamana, sono state condotte in prigione e sottoposte al test di verginità. Il dubbio, o meglio, il pregiudizio, che ha mosso le autorità afgane riguardava la presunta “complicità” delle attrici con quanti le hanno aggredite.
Ipotesi stigmatizzante che, in qualche modo, legittima le minacce di quanti ritenevano le tre colpevoli di “immodestia” per le loro esibizioni in tv. Un’accusa che nel tradizionalista mondo afgano, non solo di matrice taliban, equivale a quella di prostituzione. La modestia, infatti, prevede un atteggiamento pubblicamente contenuto che non deve dare adito a provocazioni, anche solo oggettive, nei confronti dei maschi. Si tratta di una categoria morale ritenuta un obbligo, alla quale qualsiasi donna si deve ispirare. Nel tradizionalismo afgano, sul quale si è innestata la rigida predicazione dell’islam deobandi e del wahhabismo estremo, questo concetto è stato dilatato sino all’estremo.
Nella pedagogia disciplinare dei corpi che il tradizionalismo religioso continua a esercitare in Afghanistan, le attrici, così come le musiciste o le artiste, che osano esibirsi pubblicamente, sono doppiamente colpevoli: in quanto donne e in quanto soggetti che, con la loro professione, trasformano la seduzione in sedizione. Un sentimento collettivo di rigetto che unisce tutta la società maschile, nel tentativo di unificare il corpo sociale mediante la sottomissione del corpo femminile. E che rimanda al tempo scuro dell’Emirato del Mullah Omar, quando non solo venivano distrutti i televisori “portatori di corruzione sulla terra” ma alle donne, espulse dal lavoro, veniva anche vietato di indossare i tacchi: secondo gli “studenti coranici” il loro rumore sul selciato “disturbava i fedeli dal pensiero di Dio”. Una visione del mondo che mostra una concezione delle donne come qualcosa da imbrigliare, sotto il velo o le volte dei dettami della Legge e della tradizione, in quanto potenzialmente dirompente per la coesione sociale.
Constatare il permanere di una simile, diffusa, mentalità, tanto più tra le autorità succedute al regno dei Taliban a undici anni dalla loro caduta, rattrista. È noto ormai che in Afghanistan poteri clanici, gruppi etnici, tribù, signori della guerra, attendono la partenza delle truppe straniere. E che i seguaci del Mullah Omar, con i quali pur si combatte, partecipano, attraverso la mediazione del presidente Karzai, a discussioni sul futuro del paese. La realpolitik prevale su qualsiasi altra considerazione e i talebani sono sempre più forti. Esigenze di carattere strategico inducono, così, i paesi che hanno una presenza militare ai piedi dell’Hindu Kush a non interferire su temi che hanno a che fare con i costumi e con un ordinamento giuridico che si è mostrato, nonostante i diritti acquisiti dalle donne, refrattario a qualsiasi mutamento nelle questioni di genere. Ma quando sarà il momento di fare un serio bilancio sui risultati prodotti dalla politica di nation-building senza society-building, la questione della libertà femminile, cartina tornasole dell’effettivo cambiamento nelle società della Mezzaluna, non potrà essere ignorata. Anche se, purtroppo, il bilancio appare già chiaro.
La Repubblica 08.09.12
Kabul, uccisa un’attrice la maledizione delle donne", di Renzo Guolo
Essere donna in Afghanistan è difficile. Essere una donna attrice ancora di più. L’assassinio a Kabul di una donna protagonista di una serie Tv e l’allucinante avventura capitata alle sue colleghe, la dice lunga sulla condizione femminile, e sui diritti umani, nel Paese dei Monti. Dopo essere state coinvolte nella violenta aggressione in cui ha perso la vita la giovane Benafsha, lasciata sanguinante davanti a una moschea, le sue compagne, le sorelle Azema e Tamana, sono state condotte in prigione e sottoposte al test di verginità. Il dubbio, o meglio, il pregiudizio, che ha mosso le autorità afgane riguardava la presunta “complicità” delle attrici con quanti le hanno aggredite.
Ipotesi stigmatizzante che, in qualche modo, legittima le minacce di quanti ritenevano le tre colpevoli di “immodestia” per le loro esibizioni in tv. Un’accusa che nel tradizionalista mondo afgano, non solo di matrice taliban, equivale a quella di prostituzione. La modestia, infatti, prevede un atteggiamento pubblicamente contenuto che non deve dare adito a provocazioni, anche solo oggettive, nei confronti dei maschi. Si tratta di una categoria morale ritenuta un obbligo, alla quale qualsiasi donna si deve ispirare. Nel tradizionalismo afgano, sul quale si è innestata la rigida predicazione dell’islam deobandi e del wahhabismo estremo, questo concetto è stato dilatato sino all’estremo.
Nella pedagogia disciplinare dei corpi che il tradizionalismo religioso continua a esercitare in Afghanistan, le attrici, così come le musiciste o le artiste, che osano esibirsi pubblicamente, sono doppiamente colpevoli: in quanto donne e in quanto soggetti che, con la loro professione, trasformano la seduzione in sedizione. Un sentimento collettivo di rigetto che unisce tutta la società maschile, nel tentativo di unificare il corpo sociale mediante la sottomissione del corpo femminile. E che rimanda al tempo scuro dell’Emirato del Mullah Omar, quando non solo venivano distrutti i televisori “portatori di corruzione sulla terra” ma alle donne, espulse dal lavoro, veniva anche vietato di indossare i tacchi: secondo gli “studenti coranici” il loro rumore sul selciato “disturbava i fedeli dal pensiero di Dio”. Una visione del mondo che mostra una concezione delle donne come qualcosa da imbrigliare, sotto il velo o le volte dei dettami della Legge e della tradizione, in quanto potenzialmente dirompente per la coesione sociale.
Constatare il permanere di una simile, diffusa, mentalità, tanto più tra le autorità succedute al regno dei Taliban a undici anni dalla loro caduta, rattrista. È noto ormai che in Afghanistan poteri clanici, gruppi etnici, tribù, signori della guerra, attendono la partenza delle truppe straniere. E che i seguaci del Mullah Omar, con i quali pur si combatte, partecipano, attraverso la mediazione del presidente Karzai, a discussioni sul futuro del paese. La realpolitik prevale su qualsiasi altra considerazione e i talebani sono sempre più forti. Esigenze di carattere strategico inducono, così, i paesi che hanno una presenza militare ai piedi dell’Hindu Kush a non interferire su temi che hanno a che fare con i costumi e con un ordinamento giuridico che si è mostrato, nonostante i diritti acquisiti dalle donne, refrattario a qualsiasi mutamento nelle questioni di genere. Ma quando sarà il momento di fare un serio bilancio sui risultati prodotti dalla politica di nation-building senza society-building, la questione della libertà femminile, cartina tornasole dell’effettivo cambiamento nelle società della Mezzaluna, non potrà essere ignorata. Anche se, purtroppo, il bilancio appare già chiaro.
La Repubblica 08.09.12
"Quei bimbi in fuga dalla disperazione", di Domenico Quirico
So che cosa hanno provato, i naufraghi bambini di Lampedusa. E’ il momento in cui il motore si arresta e al gorgoglio dei pistoni rantolanti, della pompa che aspira l’acqua dalla stiva marcia si sostituisce l’immenso, fragoroso silenzio del mare. E poi: i frenetici tentativi, con un cacciavite con le mani con gli stracci con le preghiere, di far ripartire il motore esausto. Il pilota il cui volto si fa livido di paura, il fremito che comincia a circolare tra le file dei migranti, stipati sul ponte a file fitte e ordinate con il divieto di alzarsi di muoversi. E invece i primi che si alzano, e le grida delle donne (sul mio barcone non c’erano donne, era un altro tempo: come tutto è cambiato orribilmente, nel giro di un solo anno). Nessuno all’inizio ha capito: perché ci siamo fermati? Proprio ora, dove venti ore in mare, quando pensavamo di essere ormai vicino a Lampedusa?
Ma già l’acqua comincia a salire, lenta, inesorabile: la puoi vedere, tu stesso, attraverso la piccola apertura della stiva. E’ allora che anche i bambini hanno capito che «il viaggio», quel viaggio straordinario che sembrava svolgersi, il mare, bagnati dall’acqua e da pallide onde di sole giallo, come un’affascinante avventura si convertiva, malvagio, in tragedia e paura e morte. La tensione che penetra in tutti i pori della mente, quel tipo di tensione che si avverte negli incubi infantili quando da un momento all’altro, sbucando da un mobile o dietro una porta, può accadere qualcosa di vago e di ignoto.
Queste vecchie barche, come era la mia, muoiono lentamente, lasciano che il mare le abbracci e le soffochi. C’è tempo per pensare: allora è questa la sensazione che uno avverte al momento della morte: questo vuoto, questa sospensione tra essere e non essere? se è così, non c’è quasi da averne paura.
Bambini migranti, bambini aspiranti «clandestini», come diventeranno con parola orrenda nei verbali, nella burocrazia di questa tragedia senza fine. So che cosa hanno provato quando sono partiti. La barca che li aspetta su una spiaggia fuori mano della Tunisia, le raccomandazioni dei nonni, dei parenti che li hanno accompagnati al luogo di raccolta e li hanno consegnati al passeur, con i soldi per il passaggio: come se fossero cose, oggetti da spedire. Loro sono soli felici eccitati. Deve essere la felicità questa, ma non lo sanno ancora. Hanno raccontato loro, per invogliarli, di un altro mondo al di là del mare, dove ci sono parenti o amici che li accoglieranno, città dove, al calar del sole, la vita invece di finire sembra cominciare.
Nel Maghreb, in Africa, come tra tutti i poveri del mondo, l’età tramonta di colpo come il sole; prima sono bambini, un attimo dopo già vecchi. Come assomigliano ai ragazzi con cui sono salito, un anno fa, su un’altra barca della speranza, tutti popolo di questo Mediterraneo così gonfio di speranze e di divieti. Erano più grandi, allora, erano i giovani ribelli che avevano appena cacciato il tiranno e esercitavano il loro diritto di partire, di andare a scoprire altri mondi. In fondo il loro era un atto politico, quasi rivoluzionario. Ma questi bambini di quale nuova delusione, di quale nuova disperazione sono figli, naufraghi, vittime? Al confine tra gli Stati Uniti e il Messico raccontano che sempre più spesso a tentare di attraversare il deserto (in fondo un altro mare pieno di insidie e di vuoto) sono minorenni, soli. Tentano di raggiungere i genitori che sono già dall’altra parte, nel mondo dei ricchi: perché la miseria è tanta e i parenti non riescono più a mantenerli; perché pensano che la nostra soglia del rifiuto e dell’indifferenza si abbassi e sia più clemente con chi è piccolo, che riconosceremo in loro più facilmente la vittima a cui destinare la nostra misericordia, più che ai fratelli ai genitori ai nonni. L’indifferenza: la perfezione dell’egoismo.
Un anno fa il popolo di Lampedusa era fatto di ragazzi ardenti indomiti, in loro una insofferenza, un furore, un miscuglio, direi, di odio e di amore. Ma questi bambini cosa si portano dentro? Sono partiti per l’enorme pressione della povertà che scorre, si ramifica e si estende come l’acqua alluvionale nel mondo. Ecco la verità: nulla è cambiato dall’altra parte del mare, c’è lo stesso riconoscibile dolore di ogni giorno, la vita come sappiamo che lì viene vissuta, senza lavoro e senza speranza, che prosegue monotonamente il suo cammino. Il dopo primavera araba è una cosa molto ordinata e pulita, ma dalla distanza da cui noi la guardiamo: certo ora votano liberamente, i giornali sono liberi, si può perfino manifestare. E’ tanto, è molto. Ma i rivoluzionari vittoriosi sono poveri come un anno fa, forse ancor più perché hanno perso la speranza. E ora fanno partire i bambini.
La Stampa 08.09.12
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I migranti bambini mandati verso l’ignoto Sono cinque i minori sbarcati ieri: centinaia dall’inizio dell’anno”, di RICCARDO ARENA
Partono spesso senza i familiari, piccoli uomini che sfidano il mare e la solitudine quando arriveranno a destinazione: sono stati 183 dall’inizio dell’anno, su 184 arrivati, i «minori non accompagnati» sbarcati a Lampedusa.
E anche ieri, fra i 56 naufraghi dell’isolotto di Lampione, c’erano 5 adolescenti, subito mandati in un’area destinata a loro e alle donne, all’interno del Cpsa, il centro di prima accoglienza e soccorso. Il viavai è continuo: poco prima dei nuovi arrivi c’erano state sedici partenze di ragazzi tra 14 e 15 anni. Erano 15 somali, 13 arrivati nei giorni scorsi, altri due sbarcati a Lampedusa mercoledì, più un tunisino. Sono stati mandati nei centri sparsi in Italia, in attesa di una destinazione definitiva.
Prime vittime dei mercanti di uomini, i ragazzi sono destinati a peregrinazioni e problemi, ma hanno la certezza di non poter essere rimpatriati. Tante volte – ed è successo anche nel naufragio di giovedì – si tratta pure di morti: il mare, l’altro ieri, stando al racconto dei superstiti, avrebbe inghiottito sei minorenni, tra cui un bimbo di 5 anni. Versioni ancora confuse, da verificare. Ma il dramma rimane tale. Lo sanno bene gli operatori di Save the Children, l’organizzazione umanitaria che lavora sul campo, a Lampedusa e non solo.
«Stiamo seguendo anche i nuovi arrivati – dice Michele Prosperi, uno dei dirigenti dell’associazione – per supportarli e incoraggiarli. Sono molto provati per quanto hanno affrontato. Dato che sono tunisini è probabile che vorranno raggiungere i loro familiari in altri Paesi, soprattutto in Francia». L’estate scorsa l’ex base Loran di Lampedusa, destinata ai minorenni privi di familiari, era stata trasformata in una sorta di centro di detenzione: fu chiusa dopo le proteste dei suoi ospiti e al suo posto oggi funziona il Cpsa, la cui ristrutturazione dev’essere però completata.
Aggiunge Valerio Neri, direttore generale di Save the Children Italia: «Deve essere immediatamente revocata la dichiarazione di “porto non sicuro” per Lampedusa, cosa che garantirebbe a tutti i migranti immediato soccorso e prima accoglienza». Solo dal 18 agosto scorso i nuovi arrivi sono stati 803, per la maggior parte eritrei, somali e tunisini, dei quali 65 donne e 95 minori, di cui 87 non accompagnati. I tunisini sono arrivati soprattutto dal 29 agosto in poi: tra i 118 migranti una donna e 7 ragazzi senza familiari. «Le famiglie – spiega Prosperi – per spedire i figli oltremare, pagano i trafficanti di uomini. Gli stessi ragazzi devono lavorare per questo. Noi cerchiamo di non farli sparire, li seguiamo, ad esempio a Roma, al centro “Civico Zero”, per farli inserire in un percorso d’integrazione, ma non è facile».
Assieme all’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, all’Oim e alla Croce rossa, Save the Children ha dato vita al progetto Praesidium. L’anno scorso fu individuato un caso emblematico: quello di Mohamed (nome fittizio), un somalo oggi 17enne, che aveva provato quattro volte, sempre da solo, dopo avere raggiunto la Libia, a imbarcarsi per la Sicilia. Le prime tre gli andò male e nell’ultimo caso fu uno dei 40 superstiti di un naufragio che fece oltre 500 vittime. Pochi giorni dopo ripartì e a maggio del 2011 sbarcò a Lampedusa. Oggi non si sa più dove si trovi.
La Stampa 08.09.12
"Quei bimbi in fuga dalla disperazione", di Domenico Quirico
So che cosa hanno provato, i naufraghi bambini di Lampedusa. E’ il momento in cui il motore si arresta e al gorgoglio dei pistoni rantolanti, della pompa che aspira l’acqua dalla stiva marcia si sostituisce l’immenso, fragoroso silenzio del mare. E poi: i frenetici tentativi, con un cacciavite con le mani con gli stracci con le preghiere, di far ripartire il motore esausto. Il pilota il cui volto si fa livido di paura, il fremito che comincia a circolare tra le file dei migranti, stipati sul ponte a file fitte e ordinate con il divieto di alzarsi di muoversi. E invece i primi che si alzano, e le grida delle donne (sul mio barcone non c’erano donne, era un altro tempo: come tutto è cambiato orribilmente, nel giro di un solo anno). Nessuno all’inizio ha capito: perché ci siamo fermati? Proprio ora, dove venti ore in mare, quando pensavamo di essere ormai vicino a Lampedusa?
Ma già l’acqua comincia a salire, lenta, inesorabile: la puoi vedere, tu stesso, attraverso la piccola apertura della stiva. E’ allora che anche i bambini hanno capito che «il viaggio», quel viaggio straordinario che sembrava svolgersi, il mare, bagnati dall’acqua e da pallide onde di sole giallo, come un’affascinante avventura si convertiva, malvagio, in tragedia e paura e morte. La tensione che penetra in tutti i pori della mente, quel tipo di tensione che si avverte negli incubi infantili quando da un momento all’altro, sbucando da un mobile o dietro una porta, può accadere qualcosa di vago e di ignoto.
Queste vecchie barche, come era la mia, muoiono lentamente, lasciano che il mare le abbracci e le soffochi. C’è tempo per pensare: allora è questa la sensazione che uno avverte al momento della morte: questo vuoto, questa sospensione tra essere e non essere? se è così, non c’è quasi da averne paura.
Bambini migranti, bambini aspiranti «clandestini», come diventeranno con parola orrenda nei verbali, nella burocrazia di questa tragedia senza fine. So che cosa hanno provato quando sono partiti. La barca che li aspetta su una spiaggia fuori mano della Tunisia, le raccomandazioni dei nonni, dei parenti che li hanno accompagnati al luogo di raccolta e li hanno consegnati al passeur, con i soldi per il passaggio: come se fossero cose, oggetti da spedire. Loro sono soli felici eccitati. Deve essere la felicità questa, ma non lo sanno ancora. Hanno raccontato loro, per invogliarli, di un altro mondo al di là del mare, dove ci sono parenti o amici che li accoglieranno, città dove, al calar del sole, la vita invece di finire sembra cominciare.
Nel Maghreb, in Africa, come tra tutti i poveri del mondo, l’età tramonta di colpo come il sole; prima sono bambini, un attimo dopo già vecchi. Come assomigliano ai ragazzi con cui sono salito, un anno fa, su un’altra barca della speranza, tutti popolo di questo Mediterraneo così gonfio di speranze e di divieti. Erano più grandi, allora, erano i giovani ribelli che avevano appena cacciato il tiranno e esercitavano il loro diritto di partire, di andare a scoprire altri mondi. In fondo il loro era un atto politico, quasi rivoluzionario. Ma questi bambini di quale nuova delusione, di quale nuova disperazione sono figli, naufraghi, vittime? Al confine tra gli Stati Uniti e il Messico raccontano che sempre più spesso a tentare di attraversare il deserto (in fondo un altro mare pieno di insidie e di vuoto) sono minorenni, soli. Tentano di raggiungere i genitori che sono già dall’altra parte, nel mondo dei ricchi: perché la miseria è tanta e i parenti non riescono più a mantenerli; perché pensano che la nostra soglia del rifiuto e dell’indifferenza si abbassi e sia più clemente con chi è piccolo, che riconosceremo in loro più facilmente la vittima a cui destinare la nostra misericordia, più che ai fratelli ai genitori ai nonni. L’indifferenza: la perfezione dell’egoismo.
Un anno fa il popolo di Lampedusa era fatto di ragazzi ardenti indomiti, in loro una insofferenza, un furore, un miscuglio, direi, di odio e di amore. Ma questi bambini cosa si portano dentro? Sono partiti per l’enorme pressione della povertà che scorre, si ramifica e si estende come l’acqua alluvionale nel mondo. Ecco la verità: nulla è cambiato dall’altra parte del mare, c’è lo stesso riconoscibile dolore di ogni giorno, la vita come sappiamo che lì viene vissuta, senza lavoro e senza speranza, che prosegue monotonamente il suo cammino. Il dopo primavera araba è una cosa molto ordinata e pulita, ma dalla distanza da cui noi la guardiamo: certo ora votano liberamente, i giornali sono liberi, si può perfino manifestare. E’ tanto, è molto. Ma i rivoluzionari vittoriosi sono poveri come un anno fa, forse ancor più perché hanno perso la speranza. E ora fanno partire i bambini.
La Stampa 08.09.12
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I migranti bambini mandati verso l’ignoto Sono cinque i minori sbarcati ieri: centinaia dall’inizio dell’anno”, di RICCARDO ARENA
Partono spesso senza i familiari, piccoli uomini che sfidano il mare e la solitudine quando arriveranno a destinazione: sono stati 183 dall’inizio dell’anno, su 184 arrivati, i «minori non accompagnati» sbarcati a Lampedusa.
E anche ieri, fra i 56 naufraghi dell’isolotto di Lampione, c’erano 5 adolescenti, subito mandati in un’area destinata a loro e alle donne, all’interno del Cpsa, il centro di prima accoglienza e soccorso. Il viavai è continuo: poco prima dei nuovi arrivi c’erano state sedici partenze di ragazzi tra 14 e 15 anni. Erano 15 somali, 13 arrivati nei giorni scorsi, altri due sbarcati a Lampedusa mercoledì, più un tunisino. Sono stati mandati nei centri sparsi in Italia, in attesa di una destinazione definitiva.
Prime vittime dei mercanti di uomini, i ragazzi sono destinati a peregrinazioni e problemi, ma hanno la certezza di non poter essere rimpatriati. Tante volte – ed è successo anche nel naufragio di giovedì – si tratta pure di morti: il mare, l’altro ieri, stando al racconto dei superstiti, avrebbe inghiottito sei minorenni, tra cui un bimbo di 5 anni. Versioni ancora confuse, da verificare. Ma il dramma rimane tale. Lo sanno bene gli operatori di Save the Children, l’organizzazione umanitaria che lavora sul campo, a Lampedusa e non solo.
«Stiamo seguendo anche i nuovi arrivati – dice Michele Prosperi, uno dei dirigenti dell’associazione – per supportarli e incoraggiarli. Sono molto provati per quanto hanno affrontato. Dato che sono tunisini è probabile che vorranno raggiungere i loro familiari in altri Paesi, soprattutto in Francia». L’estate scorsa l’ex base Loran di Lampedusa, destinata ai minorenni privi di familiari, era stata trasformata in una sorta di centro di detenzione: fu chiusa dopo le proteste dei suoi ospiti e al suo posto oggi funziona il Cpsa, la cui ristrutturazione dev’essere però completata.
Aggiunge Valerio Neri, direttore generale di Save the Children Italia: «Deve essere immediatamente revocata la dichiarazione di “porto non sicuro” per Lampedusa, cosa che garantirebbe a tutti i migranti immediato soccorso e prima accoglienza». Solo dal 18 agosto scorso i nuovi arrivi sono stati 803, per la maggior parte eritrei, somali e tunisini, dei quali 65 donne e 95 minori, di cui 87 non accompagnati. I tunisini sono arrivati soprattutto dal 29 agosto in poi: tra i 118 migranti una donna e 7 ragazzi senza familiari. «Le famiglie – spiega Prosperi – per spedire i figli oltremare, pagano i trafficanti di uomini. Gli stessi ragazzi devono lavorare per questo. Noi cerchiamo di non farli sparire, li seguiamo, ad esempio a Roma, al centro “Civico Zero”, per farli inserire in un percorso d’integrazione, ma non è facile».
Assieme all’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, all’Oim e alla Croce rossa, Save the Children ha dato vita al progetto Praesidium. L’anno scorso fu individuato un caso emblematico: quello di Mohamed (nome fittizio), un somalo oggi 17enne, che aveva provato quattro volte, sempre da solo, dopo avere raggiunto la Libia, a imbarcarsi per la Sicilia. Le prime tre gli andò male e nell’ultimo caso fu uno dei 40 superstiti di un naufragio che fece oltre 500 vittime. Pochi giorni dopo ripartì e a maggio del 2011 sbarcò a Lampedusa. Oggi non si sa più dove si trovi.
La Stampa 08.09.12
