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"Quella fede incrinata", di Michele Serra

Farsi infilzare da un “fuori onda” (vecchio colpo basso di un vecchio medium come la tivù) è, per un grillino, il classico colmo: come per un astronauta avere un incidente di motorino. La forza (e/o la presunzione) delle Cinque Stelle, infatti, sta soprattutto nell’idea di appartenere a una cultura mediatico-politica superiore. Nella convinzione che il web consenta di bypassare qualunque altra forma di mediazione e di comunicazione.
Per usare le parole di Beppe Grillo, con il web «le persone sono al centro di ogni processo, e le intermediazioni economiche e politiche sono soppresse». È (anche) per questo che Grillo non gradisce che i suoi compagni di avventura vadano in tivù: perché ritiene di avere trasferito in una dimensione molto più evoluta — appunto il web — ogni forma di relazione “economica e politica”. Il resto, come ripete spesso, è vecchio, è morto, è inutile ma soprattutto è inaffidabile. Perché, come spiega l’ideologo delle Cinque Stelle Gianroberto Casaleggio, «fino a qualche anno fa le relazioni tra persone, oggetti ed eventi erano attribuite al caso. La vita e l’evoluzione delle reti segue invece leggi precise, e la conoscenza di queste regole ci permette di utilizzare le reti a nostro vantaggio». Traduzione: in tivù si soggiace alle regole del caso. Sul web, trionfa l’intelligenza umana.
Lo sfortunato consigliere regionale Giovanni Favia, non bastandogli la sola “vita nova” che la rete dona a chi vi trasmigra (lasciandosi alle spalle il nostro farraginoso mondo, con tutti i suoi equivoci), ha voluto fare un passo indietro, tornando a precedenti e più rudimentali forme di vita come la televisione. Ci è rimasto intrappolato; ma quel che è peggio, si è lasciato sfuggire sostanziosi dubbi sulla sua nuova dimensione di appartenenza. Il più devastante dei quali è che «la conoscenza delle regole del web» (Casaleggio) ne consenta un uso manipolatore. Ad opera «di una mente freddissima, molto acculturata e molto intelligente, che di organizzazione, di dinamiche umane, di politica se ne intende». E aggiungendo quella che, nei suoi paraggi, è la più terribile delle bestemmie: «Io non ci credo, alle votazioni on line».
Il giorno dopo, ovviamente sul web, il Favia cliccante ha parzialmente smentito il Favia parlante, definendo «sfogo infelice» la sua tirata, un po’ come avrebbe fatto un politico vecchio stile, a dimostrazione di quanto sia difficile, per tutti, cambiare registro, ed essere finalmente e definitivamente «nuovi». Resta il sapore, abbastanza indefinibile, di un «incidente politico» che, in realtà, va a toccare sfere, e pratiche, e credenze che non sono tutte interpretabili con il metro della politica. C’è un’idea salvifica (quasi religiosa) del web, non più e non più soltanto prodigiosa innovazione tecnologica, ma strumento di vera e propria palingenesi sociale che riesce a «mettere al centro la persona» superando (anzi «sopprimendo », scrive Grillo) ogni precedente forma di «intermediazione economica e politica». La macchinosa, spesso indecente crisi delle vecchie forme di rappresentanza risolta da un medium che, lui sì, è finalmente il messaggio, è la Rivelazione.
A sentire la voce dal sen sfuggita al giovane Favia, l’architetto di Cinque Stelle Casaleggio assomiglierebbe più a Ron Hubbard (il guru dei Dianetici) che a Marcello Dell’Utri o a qualunque altra eminenza grigia della vecchia politica. Ma è un’interpretazione malevola e facile che va lasciata ai blogger d’assalto. Più del fanatismo, è l’ingenuità che colpisce: l’idea semi-folle che un processo complicatissimo come la democrazia possa d’un tratto sustanziarsi in rete non fa paura, fa soprattutto tenerezza, tanto profondo è l’equivoco tra le facoltà enormi che la rete aggiunge alla vita umana, e una sua presunta possibilità di redimere la società da ogni imperfezione.
Lasciando sbollire le grida (pro e contro) sul web e altrove, sarebbe interessante e utile che le tante persone appassionate di politica (non certo di antipolitica) che si riconoscono in quel movimento valutassero, insieme ai tanti pregi, i rischi concreti (anche di manipolazione) che non il web, ma «l’ideologia del web» porta con sé: dal vantaggio quasi «strutturale » che concede alle opinioni poco ponderate alle tentazioni di assemblearismo un tanto al chilo, anzi al gigabyte, che non solo non mettono «al centro la persona», ma la rendono più dipendente e più suggestionabile, davanti al video o al tablet, della casalinga di Voghera davanti alla tivù.

La Repubblica 08.09.12

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“IL GURU OMBRA DEL WEB”, di MICHELE SMARGIASSI

Come il capo della Spectre nelle storie di Ian Fleming, il temutissimo, imperscrutabile uomo-ombra della politica italiana fa sapere di sé che ama carezzare le sue due gatte persiane.
LO FA quando torna nella sua casa tra i boschi di Quincinetto, sopra Ivrea. Ma Gianroberto Casaleggio non è più così imperscrutabile: tre mesi fa, forse spinto dall’entusiasmo per le travolgenti avanzate elettorali del MoVimento 5 Stelle, con una lettera al Corriere ha scelto di rivendicare per intero il suo ruolo: «Non sono mai stato dietro a Beppe Grillo, ma al suo fianco.
Sono cofondatore di questo movimento».
Fino a quel momento, di Casaleggio si parlava come del «guru di Grillo», il geniale consulente di strategie Web, l’uomo che aveva convinto il comico genovese a smettere di sfasciare i computer sul palcoscenico per usarli come arma letale della grande guerra al potere dei «morti viventi», aprendogli il blog che secondo la rivista Forbes è uno dei dieci più influenti del mondo. Ci si chiedeva se Grillo pagasse i servigi della Casaleggio Associati, azienda milanese di punta nella gestione dell’e-business, e quanto, visto che per gestire il suo sito Internet pare che Di Pietro gli versasse 700 mila euro l’anno.
Bene, il dubbio non c’è più. Di Grillo, incontrato nel 2004 e mai più lasciato, Casaleggio è sicuramente consulente, consigliere, amico, editore, co-autore di libri, verosimile ghost-writer, ma anche molto di più. Ha contributo a scrivere il “Non Statuto” del MoVimento, ha steso le regole per la selezione delle candidature, ha gestito raccolte di firme, ha organizzato il V-Day, tutte cose che non rientrano nel catalogo di un fornitore di servizi informatici, ma sono pienamente politiche. Casaleggio è a tutti gli effetti uno dei due leader di un movimento politico accreditato di consensi che avrebbero fatto invidia a molti protagonisti della politica italiana del passato. Ma la maggioranza dei simpatizzanti del Mo-Vimento Cinquestelle hanno familiarizzato col suo nome solo da pochi mesi, e tuttora sanno ben poco di quest’uomo che per un grillino della prim’ora come Giovanni Favia è «spietato e vendicativo», «decide tutto», «è la vera mente» e ha sequestrato la democrazia interna. A vederlo, chi lo direbbe. Chioma riccia, occhialetti tondi, sembra lo zio di Donovan il folksinger,
più cravatta yuppie e completo grigio. Viene dall’arcipelago Telecom, dove diresse a lungo una società controllata, la Webegg, prima di mettersi in proprio nel 2004 con l’azienda che porta il suo nome. Ma il brillante curriculum non dice tutto. Casaleggio ha il profilo del pensatore visionario. Adora Gengis Khan, che per lui è il progenitore del Web perché spediva i suoi veloci cavalieri mongoli a cercare notizie ovunque. Disegna scenari orwelliani: nel video Gaia profetizza
una terza guerra mondiale vinta nel 2040 dall’Occidente della Web-democracy sull’Oriente del Potere. Ma sa anche maneggiare con abilità le leve di Internet, sulla scorta del suo ispiratore Paul Gillin studia la teoria degli
influencer, ossia come usare quel 10% di navigatori consapevoli che impone le proprie opinioni al restante 90%.
Queste cose le spiega ai giovani quadri del MoVimento, convocati a Milano per brevi corsi (vietate telecamere e registratori) dove i suoi uomini insegnano a gestire un blog, a governare un forum, dove si disegna il profilo del candidato vincente, che «deve possedere più soft skills che hard skills», più attitudini che competenze, saper «smanettare sulla Rete», saper «parlare in pubblico» e mostrare «una faccia pulita».
Sugli intenti di Casaleggio, in Rete girano le teorie più estreme, dall’esoterismo ai complotti internazionali contro l’Euro, ma lui se ne fa beffe: «Mi hanno attribuito legami coi poteri forti, dalla massoneria alla Goldman Sachs con cui non ho mai avuto alcun rapporto, dietro Casaleggio c’è solo Casaleggio
». In realtà, a spaventare quelli come Favia non sono neppure cose più prosaiche come la sua abilissima gestione del consenso sul blog, il suo potere sulle candidature e di scomunica dei dissenzienti. A torto o a ragione, le giovani leve del MoVimento temono di essere usati come materiale per un esperimento mediologico delle dimensioni di un intero sistema politico: «Siamo delle cavie in vitro», si lasciò scappare uno di loro in una discussione riservata che Grillo, o forse Casaleggio, scoprì e mise subito alla gogna sul blog.
«Grillo è un istintivo, non sarebbe in grado di pianificare una cosa del genere», lo giustifica il ribelle Favia. È il mito dello Zar buono mal consigliato da Rasputin. Ma la diarchia a 5 Stelle è meno precaria di quanto ai frondisti del MoVimento piacerebbe, è una formazione da battaglia che non si romperà facilmente: «Siamo in guerra e la vinceremo», hanno scritto nel loro libro a quattro mani, «la Rete è dalla nostra parte». Web mit uns.

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Bufera in rete tra i grillini i dissidenti tifano per Favia Pizzarotti si smarca dal capo”, SILVIA BIGNAMI e CATERINA GIUSBERTI

«Nel Movimento5Stelle la democrazia non esiste ». La madre di tutte le accuse, il fuorionda rubato al consigliere regionale emiliano Giovanni Favia e mandato in onda su La7 giovedì sera, scatena uno tsunami tra i grillini. Il popolo del web è spaccato a metà e sotto choc, i commenti sono migliaia. Il day after inizia alle 5 di mattina, su Facebook. Favia prova a scusarsi per «lo sfogo privato e scomposto » e si dice pronto a rassegnare le dimissioni per fare decidere ai cittadini, come del resto già avviene ogni sei mesi. Ma la “confessione” in diretta nazionale compatta due nuovi schieramenti. L’ex enfant prodige incassa l’alleato di maggior peso, il più importante sindaco a Cinque Stelle in circolazione. Federico Pizzarotti da Parma invoca un congresso del Movimento prima delle politiche e difende Favia, cercando di scongiurare le sue dimissioni: «Non mi sembra assolutamente il caso. Le cose si risolvono sempre con il dialogo». Con Favia e Pizzarotti c’è anche l’epurato numero uno, Valentino Tavolazzi di Ferrara, che già a marzo aveva spinto per una svolta partitica del Movimento. Ufficialmente si tratta di una riunione «per discutere, per approfondire il dialogo». Ma non è un segreto che dietro questa dicitura si nasconda la volontà di trovare una forma più democratica delle temute primarie online per decidere il candidato premier e il programma.
All’attacco di Favia, lo Staff risponde con poche parole sul blog di Grillo, che portano la firma di Gianroberto Casaleggio. Hanno il sapore di un giuramento: «Né io, né Beppe Grillo abbiamo mai definito le liste per le elezioni comunali e regionali. Né io, né Beppe Grillo, abbiamo mai scritto un programma comunale o regionale. Né io, né Beppe Grillo abbiamo mai dato indicazioni per le votazioni consiliari, né infiltrato persone nel Movimento Cinque Stelle ». Sul web, gli attivisti si spaccano. «Favia rimette il mandato ogni sei mesi, lo faccia anche Casaleggio! », scrive Ferdinando Noce, mentre Monica (ed è il commento più votato nel blog di Grillo) scrive: «Giovanni ha posto un problema importante. Ritengo ci sia bisogno di un chiarimento più articolato e concreto, non due righe da comunicato stampa». Ma altrettanti sono gli attacchi a Favia. «Spari addosso a chi ti ha dato un posto da privilegiato, se non ti va bene c’è sempre la fonderia a 900-1000 euro al mese», scrive Alberto Selva sul profilo Facebook del consigliere. E sul blog di Grillo Giovanni Manzo posta: «Non comprendo le critiche a Casaleggio. Se è vero che dietro al Movimento 5 Stelle c’è la sua mente, beh allora dobbiamo solo dirgli grazie!».
Grillo risponde a Favia per interposta persona, postando due interventi contro di lui: Gilda Caronti del movimento milanese e, soprattutto, Giancarlo Cancelleri, candidato M5S in Sicilia. «Le dichiarazioni di Favia mi lasciano basito- attacca – stiamo facendo un lavoro straordinario sia per la condivisione e scrittura del programma che per la scelta dei candidati, sentire che è deciso tutto da Casaleggio offende il lavoro di migliaia di persone». Il Pd, intanto, brinda. «Io mi rendo conto perfettamente di tutto quello che ha detto Favia. So tutto», commenta il segretario Pierluigi Bersani, replicando a Favia che aveva detto che i leader nazionali non capivano che dietro Grillo c’era l’eminenza grigia. Mentre Prodi coglie l’occasione per ricordare a Grillo che se facesse un referendum sull’euro, lo perderebbe.

La Repubblica 08.09.12

"Quella fede incrinata", di Michele Serra

Farsi infilzare da un “fuori onda” (vecchio colpo basso di un vecchio medium come la tivù) è, per un grillino, il classico colmo: come per un astronauta avere un incidente di motorino. La forza (e/o la presunzione) delle Cinque Stelle, infatti, sta soprattutto nell’idea di appartenere a una cultura mediatico-politica superiore. Nella convinzione che il web consenta di bypassare qualunque altra forma di mediazione e di comunicazione.
Per usare le parole di Beppe Grillo, con il web «le persone sono al centro di ogni processo, e le intermediazioni economiche e politiche sono soppresse». È (anche) per questo che Grillo non gradisce che i suoi compagni di avventura vadano in tivù: perché ritiene di avere trasferito in una dimensione molto più evoluta — appunto il web — ogni forma di relazione “economica e politica”. Il resto, come ripete spesso, è vecchio, è morto, è inutile ma soprattutto è inaffidabile. Perché, come spiega l’ideologo delle Cinque Stelle Gianroberto Casaleggio, «fino a qualche anno fa le relazioni tra persone, oggetti ed eventi erano attribuite al caso. La vita e l’evoluzione delle reti segue invece leggi precise, e la conoscenza di queste regole ci permette di utilizzare le reti a nostro vantaggio». Traduzione: in tivù si soggiace alle regole del caso. Sul web, trionfa l’intelligenza umana.
Lo sfortunato consigliere regionale Giovanni Favia, non bastandogli la sola “vita nova” che la rete dona a chi vi trasmigra (lasciandosi alle spalle il nostro farraginoso mondo, con tutti i suoi equivoci), ha voluto fare un passo indietro, tornando a precedenti e più rudimentali forme di vita come la televisione. Ci è rimasto intrappolato; ma quel che è peggio, si è lasciato sfuggire sostanziosi dubbi sulla sua nuova dimensione di appartenenza. Il più devastante dei quali è che «la conoscenza delle regole del web» (Casaleggio) ne consenta un uso manipolatore. Ad opera «di una mente freddissima, molto acculturata e molto intelligente, che di organizzazione, di dinamiche umane, di politica se ne intende». E aggiungendo quella che, nei suoi paraggi, è la più terribile delle bestemmie: «Io non ci credo, alle votazioni on line».
Il giorno dopo, ovviamente sul web, il Favia cliccante ha parzialmente smentito il Favia parlante, definendo «sfogo infelice» la sua tirata, un po’ come avrebbe fatto un politico vecchio stile, a dimostrazione di quanto sia difficile, per tutti, cambiare registro, ed essere finalmente e definitivamente «nuovi». Resta il sapore, abbastanza indefinibile, di un «incidente politico» che, in realtà, va a toccare sfere, e pratiche, e credenze che non sono tutte interpretabili con il metro della politica. C’è un’idea salvifica (quasi religiosa) del web, non più e non più soltanto prodigiosa innovazione tecnologica, ma strumento di vera e propria palingenesi sociale che riesce a «mettere al centro la persona» superando (anzi «sopprimendo », scrive Grillo) ogni precedente forma di «intermediazione economica e politica». La macchinosa, spesso indecente crisi delle vecchie forme di rappresentanza risolta da un medium che, lui sì, è finalmente il messaggio, è la Rivelazione.
A sentire la voce dal sen sfuggita al giovane Favia, l’architetto di Cinque Stelle Casaleggio assomiglierebbe più a Ron Hubbard (il guru dei Dianetici) che a Marcello Dell’Utri o a qualunque altra eminenza grigia della vecchia politica. Ma è un’interpretazione malevola e facile che va lasciata ai blogger d’assalto. Più del fanatismo, è l’ingenuità che colpisce: l’idea semi-folle che un processo complicatissimo come la democrazia possa d’un tratto sustanziarsi in rete non fa paura, fa soprattutto tenerezza, tanto profondo è l’equivoco tra le facoltà enormi che la rete aggiunge alla vita umana, e una sua presunta possibilità di redimere la società da ogni imperfezione.
Lasciando sbollire le grida (pro e contro) sul web e altrove, sarebbe interessante e utile che le tante persone appassionate di politica (non certo di antipolitica) che si riconoscono in quel movimento valutassero, insieme ai tanti pregi, i rischi concreti (anche di manipolazione) che non il web, ma «l’ideologia del web» porta con sé: dal vantaggio quasi «strutturale » che concede alle opinioni poco ponderate alle tentazioni di assemblearismo un tanto al chilo, anzi al gigabyte, che non solo non mettono «al centro la persona», ma la rendono più dipendente e più suggestionabile, davanti al video o al tablet, della casalinga di Voghera davanti alla tivù.
La Repubblica 08.09.12
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“IL GURU OMBRA DEL WEB”, di MICHELE SMARGIASSI
Come il capo della Spectre nelle storie di Ian Fleming, il temutissimo, imperscrutabile uomo-ombra della politica italiana fa sapere di sé che ama carezzare le sue due gatte persiane.
LO FA quando torna nella sua casa tra i boschi di Quincinetto, sopra Ivrea. Ma Gianroberto Casaleggio non è più così imperscrutabile: tre mesi fa, forse spinto dall’entusiasmo per le travolgenti avanzate elettorali del MoVimento 5 Stelle, con una lettera al Corriere ha scelto di rivendicare per intero il suo ruolo: «Non sono mai stato dietro a Beppe Grillo, ma al suo fianco.
Sono cofondatore di questo movimento».
Fino a quel momento, di Casaleggio si parlava come del «guru di Grillo», il geniale consulente di strategie Web, l’uomo che aveva convinto il comico genovese a smettere di sfasciare i computer sul palcoscenico per usarli come arma letale della grande guerra al potere dei «morti viventi», aprendogli il blog che secondo la rivista Forbes è uno dei dieci più influenti del mondo. Ci si chiedeva se Grillo pagasse i servigi della Casaleggio Associati, azienda milanese di punta nella gestione dell’e-business, e quanto, visto che per gestire il suo sito Internet pare che Di Pietro gli versasse 700 mila euro l’anno.
Bene, il dubbio non c’è più. Di Grillo, incontrato nel 2004 e mai più lasciato, Casaleggio è sicuramente consulente, consigliere, amico, editore, co-autore di libri, verosimile ghost-writer, ma anche molto di più. Ha contributo a scrivere il “Non Statuto” del MoVimento, ha steso le regole per la selezione delle candidature, ha gestito raccolte di firme, ha organizzato il V-Day, tutte cose che non rientrano nel catalogo di un fornitore di servizi informatici, ma sono pienamente politiche. Casaleggio è a tutti gli effetti uno dei due leader di un movimento politico accreditato di consensi che avrebbero fatto invidia a molti protagonisti della politica italiana del passato. Ma la maggioranza dei simpatizzanti del Mo-Vimento Cinquestelle hanno familiarizzato col suo nome solo da pochi mesi, e tuttora sanno ben poco di quest’uomo che per un grillino della prim’ora come Giovanni Favia è «spietato e vendicativo», «decide tutto», «è la vera mente» e ha sequestrato la democrazia interna. A vederlo, chi lo direbbe. Chioma riccia, occhialetti tondi, sembra lo zio di Donovan il folksinger,
più cravatta yuppie e completo grigio. Viene dall’arcipelago Telecom, dove diresse a lungo una società controllata, la Webegg, prima di mettersi in proprio nel 2004 con l’azienda che porta il suo nome. Ma il brillante curriculum non dice tutto. Casaleggio ha il profilo del pensatore visionario. Adora Gengis Khan, che per lui è il progenitore del Web perché spediva i suoi veloci cavalieri mongoli a cercare notizie ovunque. Disegna scenari orwelliani: nel video Gaia profetizza
una terza guerra mondiale vinta nel 2040 dall’Occidente della Web-democracy sull’Oriente del Potere. Ma sa anche maneggiare con abilità le leve di Internet, sulla scorta del suo ispiratore Paul Gillin studia la teoria degli
influencer, ossia come usare quel 10% di navigatori consapevoli che impone le proprie opinioni al restante 90%.
Queste cose le spiega ai giovani quadri del MoVimento, convocati a Milano per brevi corsi (vietate telecamere e registratori) dove i suoi uomini insegnano a gestire un blog, a governare un forum, dove si disegna il profilo del candidato vincente, che «deve possedere più soft skills che hard skills», più attitudini che competenze, saper «smanettare sulla Rete», saper «parlare in pubblico» e mostrare «una faccia pulita».
Sugli intenti di Casaleggio, in Rete girano le teorie più estreme, dall’esoterismo ai complotti internazionali contro l’Euro, ma lui se ne fa beffe: «Mi hanno attribuito legami coi poteri forti, dalla massoneria alla Goldman Sachs con cui non ho mai avuto alcun rapporto, dietro Casaleggio c’è solo Casaleggio
». In realtà, a spaventare quelli come Favia non sono neppure cose più prosaiche come la sua abilissima gestione del consenso sul blog, il suo potere sulle candidature e di scomunica dei dissenzienti. A torto o a ragione, le giovani leve del MoVimento temono di essere usati come materiale per un esperimento mediologico delle dimensioni di un intero sistema politico: «Siamo delle cavie in vitro», si lasciò scappare uno di loro in una discussione riservata che Grillo, o forse Casaleggio, scoprì e mise subito alla gogna sul blog.
«Grillo è un istintivo, non sarebbe in grado di pianificare una cosa del genere», lo giustifica il ribelle Favia. È il mito dello Zar buono mal consigliato da Rasputin. Ma la diarchia a 5 Stelle è meno precaria di quanto ai frondisti del MoVimento piacerebbe, è una formazione da battaglia che non si romperà facilmente: «Siamo in guerra e la vinceremo», hanno scritto nel loro libro a quattro mani, «la Rete è dalla nostra parte». Web mit uns.
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Bufera in rete tra i grillini i dissidenti tifano per Favia Pizzarotti si smarca dal capo”, SILVIA BIGNAMI e CATERINA GIUSBERTI
«Nel Movimento5Stelle la democrazia non esiste ». La madre di tutte le accuse, il fuorionda rubato al consigliere regionale emiliano Giovanni Favia e mandato in onda su La7 giovedì sera, scatena uno tsunami tra i grillini. Il popolo del web è spaccato a metà e sotto choc, i commenti sono migliaia. Il day after inizia alle 5 di mattina, su Facebook. Favia prova a scusarsi per «lo sfogo privato e scomposto » e si dice pronto a rassegnare le dimissioni per fare decidere ai cittadini, come del resto già avviene ogni sei mesi. Ma la “confessione” in diretta nazionale compatta due nuovi schieramenti. L’ex enfant prodige incassa l’alleato di maggior peso, il più importante sindaco a Cinque Stelle in circolazione. Federico Pizzarotti da Parma invoca un congresso del Movimento prima delle politiche e difende Favia, cercando di scongiurare le sue dimissioni: «Non mi sembra assolutamente il caso. Le cose si risolvono sempre con il dialogo». Con Favia e Pizzarotti c’è anche l’epurato numero uno, Valentino Tavolazzi di Ferrara, che già a marzo aveva spinto per una svolta partitica del Movimento. Ufficialmente si tratta di una riunione «per discutere, per approfondire il dialogo». Ma non è un segreto che dietro questa dicitura si nasconda la volontà di trovare una forma più democratica delle temute primarie online per decidere il candidato premier e il programma.
All’attacco di Favia, lo Staff risponde con poche parole sul blog di Grillo, che portano la firma di Gianroberto Casaleggio. Hanno il sapore di un giuramento: «Né io, né Beppe Grillo abbiamo mai definito le liste per le elezioni comunali e regionali. Né io, né Beppe Grillo, abbiamo mai scritto un programma comunale o regionale. Né io, né Beppe Grillo abbiamo mai dato indicazioni per le votazioni consiliari, né infiltrato persone nel Movimento Cinque Stelle ». Sul web, gli attivisti si spaccano. «Favia rimette il mandato ogni sei mesi, lo faccia anche Casaleggio! », scrive Ferdinando Noce, mentre Monica (ed è il commento più votato nel blog di Grillo) scrive: «Giovanni ha posto un problema importante. Ritengo ci sia bisogno di un chiarimento più articolato e concreto, non due righe da comunicato stampa». Ma altrettanti sono gli attacchi a Favia. «Spari addosso a chi ti ha dato un posto da privilegiato, se non ti va bene c’è sempre la fonderia a 900-1000 euro al mese», scrive Alberto Selva sul profilo Facebook del consigliere. E sul blog di Grillo Giovanni Manzo posta: «Non comprendo le critiche a Casaleggio. Se è vero che dietro al Movimento 5 Stelle c’è la sua mente, beh allora dobbiamo solo dirgli grazie!».
Grillo risponde a Favia per interposta persona, postando due interventi contro di lui: Gilda Caronti del movimento milanese e, soprattutto, Giancarlo Cancelleri, candidato M5S in Sicilia. «Le dichiarazioni di Favia mi lasciano basito- attacca – stiamo facendo un lavoro straordinario sia per la condivisione e scrittura del programma che per la scelta dei candidati, sentire che è deciso tutto da Casaleggio offende il lavoro di migliaia di persone». Il Pd, intanto, brinda. «Io mi rendo conto perfettamente di tutto quello che ha detto Favia. So tutto», commenta il segretario Pierluigi Bersani, replicando a Favia che aveva detto che i leader nazionali non capivano che dietro Grillo c’era l’eminenza grigia. Mentre Prodi coglie l’occasione per ricordare a Grillo che se facesse un referendum sull’euro, lo perderebbe.
La Repubblica 08.09.12

"Gli italiani riformisti immaginari", di Luigi La Spina

La premessa è doverosa, anche se può sembrare scontata, perché è giusto ricordare certi meriti, soprattutto in un momento in cui il nostro Paese è troppo facilmente messo sotto processo: il welfare sanitario assicurato dallo Stato in Italia è una conquista di civiltà di cui andare assolutamente fieri. Tanto è vero che i cittadini di tutto il mondo invidiano le nostre garanzie di assistenza pubblica. Garanzie che pur con grandi differenze regionali di qualità e con le inevitabile carenze episodiche, offrono cure adeguate e sostanzialmente gratuite a milioni di italiani.

Il problema, perciò, è quello non solo di preservare i vantaggi di questo sistema, ma di adattarlo ai tempi, correggerne i difetti, uniformare su tutto il territorio nazionale gli standard di efficienza per permetterne la sostenibilità finanziaria nei prossimi decenni. In momenti di crisi della spesa pubblica come quelli attuali, infatti, il livello del nostro welfare sanitario può sembrare un lusso che non ci possiamo più permettere. E’, invece, miope considerarlo solo un costo, perché toglie al cittadino quella paura del futuro che costituisce uno dei più grandi freni allo sviluppo di un Paese. La sicurezza di essere curati adeguatamente, anche nel caso della perdita del lavoro, di una improvvisa emergenza sanitaria che metta a rischio il bilancio familiare rappresenta un importante fattore di coesione sociale e di stimolo al coraggio di investire, di impiegare i propri risparmi nel ciclo produttivo. Ecco perché è proprio nei momenti di difficoltà economica di una nazione che un welfare sanitario efficiente è una importante risorsa, non solo un costo.

Se questo dev’essere l’obbiettivo del nostro Stato in questo settore, occorre riconoscere che il «decretone Balduzzi» individua, con correttezza, i tre principali problemi della sanità pubblica, come si è sviluppata in Italia negli ultimi decenni. Il primo, quello più evidente, è la crescita abnorme della spesa. I bilanci delle Regioni sono occupati, per più dell’ottanta per cento in molti casi, dal finanziamento agli ospedali e, in genere, alle strutture dell’assistenza sanitaria. Con un rapporto, peraltro, prevalentemente inverso tra la spesa e la qualità del servizio. Una osservazione da non trascurare per smentire i tanti luoghi comuni che molti amministratori invocano come alibi alle loro incapacità.

Il secondo importante difetto del nostro welfare sanitario è, tra l’altro, causa principale del primo, con l’aggravante che ricade direttamente sulle spalle degli utenti: la scarsa opera di filtro e di prevenzione costituita dal sistema dei medici di famiglia. Non per colpa loro, perché il loro impegno e la loro preparazione professionale sono, nella maggioranza dei casi, abbastanza adeguati, ma proprio perché gli orari ridotti, le lunghe file negli ambulatori, il sovraccarico della burocrazia finiscono per scaricare sui «pronti soccorso» degli ospedali una quantità di malati, o di presunti tali, da elevare insopportabilmente sia i costi dell’assistenza, sia le inefficienze del servizio. Il ricorso, poi, a indagini diagnostiche «a tappeto», con una moltiplicazione delle spese per lo Stato, viene indotto da quella medicina cosiddetta «difensiva» adottata ormai diffusamente, per paura di un contenzioso legale con i pazienti, logorante sul piano finanziario e umiliante su quello professionale e morale.

L’ultimo principale problema è quello dell’invadenza partitica nella sanità pubblica. Proprio l’elevato livello della spesa ha fatto diventare il sistema uno dei principali centri di potere, di corruzione, di clientelismo politico presenti sul territorio nazionale. Così, è notorio che l’appartenenza a un partito o a una corrente di partito, spesso, prevale sui meriti professionali nelle carriere dei medici. Con ricadute gravi sulla buona organizzazione dei reparti e, magari, sulla salute dei pazienti.

Il «decretone Balduzzi» cerca di affrontare questi mali con una terapia molto meno rivoluzionaria di quanto appaia, poiché, in parte, ricalca leggi e norme già approvate e, quasi mai, applicate. La disposizione che ha fatto più notizia, quella sull’apertura continua degli studi dei medici di famiglia, nei pochissimi casi in cui è già stata sperimentata, dimostra non solo la fattibilità operativa, ma che il solito lamento delle Regioni sulla necessità di maggiori finanziamenti è ingiustificato. Si tratta di un accorpamento delle guardie mediche con gli ambulatori che richiede uno sforzo di buona volontà e di razionalizzazione, sia delle risorse, sia del personale, certamente non impossibile.

La questione vera è un’altra e più generale: in Italia, ormai, qualsiasi riforma, buona o cattiva che sia, rischia l’inapplicabilità. Perché le resistenze degli interessi, effettivamente o presuntivamente colpiti, delle corporazioni, dei privilegi e, persino, delle abitudini e dei vizi sono talmente forti da bloccare, ritardare, vanificare ogni innovazione. Perché siamo un Paese non solo di rivoluzionari «marxisti immaginari», come scriveva, in anni sessantottini, Vittoria Ronchey, ma di riformisti altrettanto immaginari.

La Stampa 07.09.12

"Gli italiani riformisti immaginari", di Luigi La Spina

La premessa è doverosa, anche se può sembrare scontata, perché è giusto ricordare certi meriti, soprattutto in un momento in cui il nostro Paese è troppo facilmente messo sotto processo: il welfare sanitario assicurato dallo Stato in Italia è una conquista di civiltà di cui andare assolutamente fieri. Tanto è vero che i cittadini di tutto il mondo invidiano le nostre garanzie di assistenza pubblica. Garanzie che pur con grandi differenze regionali di qualità e con le inevitabile carenze episodiche, offrono cure adeguate e sostanzialmente gratuite a milioni di italiani.
Il problema, perciò, è quello non solo di preservare i vantaggi di questo sistema, ma di adattarlo ai tempi, correggerne i difetti, uniformare su tutto il territorio nazionale gli standard di efficienza per permetterne la sostenibilità finanziaria nei prossimi decenni. In momenti di crisi della spesa pubblica come quelli attuali, infatti, il livello del nostro welfare sanitario può sembrare un lusso che non ci possiamo più permettere. E’, invece, miope considerarlo solo un costo, perché toglie al cittadino quella paura del futuro che costituisce uno dei più grandi freni allo sviluppo di un Paese. La sicurezza di essere curati adeguatamente, anche nel caso della perdita del lavoro, di una improvvisa emergenza sanitaria che metta a rischio il bilancio familiare rappresenta un importante fattore di coesione sociale e di stimolo al coraggio di investire, di impiegare i propri risparmi nel ciclo produttivo. Ecco perché è proprio nei momenti di difficoltà economica di una nazione che un welfare sanitario efficiente è una importante risorsa, non solo un costo.
Se questo dev’essere l’obbiettivo del nostro Stato in questo settore, occorre riconoscere che il «decretone Balduzzi» individua, con correttezza, i tre principali problemi della sanità pubblica, come si è sviluppata in Italia negli ultimi decenni. Il primo, quello più evidente, è la crescita abnorme della spesa. I bilanci delle Regioni sono occupati, per più dell’ottanta per cento in molti casi, dal finanziamento agli ospedali e, in genere, alle strutture dell’assistenza sanitaria. Con un rapporto, peraltro, prevalentemente inverso tra la spesa e la qualità del servizio. Una osservazione da non trascurare per smentire i tanti luoghi comuni che molti amministratori invocano come alibi alle loro incapacità.
Il secondo importante difetto del nostro welfare sanitario è, tra l’altro, causa principale del primo, con l’aggravante che ricade direttamente sulle spalle degli utenti: la scarsa opera di filtro e di prevenzione costituita dal sistema dei medici di famiglia. Non per colpa loro, perché il loro impegno e la loro preparazione professionale sono, nella maggioranza dei casi, abbastanza adeguati, ma proprio perché gli orari ridotti, le lunghe file negli ambulatori, il sovraccarico della burocrazia finiscono per scaricare sui «pronti soccorso» degli ospedali una quantità di malati, o di presunti tali, da elevare insopportabilmente sia i costi dell’assistenza, sia le inefficienze del servizio. Il ricorso, poi, a indagini diagnostiche «a tappeto», con una moltiplicazione delle spese per lo Stato, viene indotto da quella medicina cosiddetta «difensiva» adottata ormai diffusamente, per paura di un contenzioso legale con i pazienti, logorante sul piano finanziario e umiliante su quello professionale e morale.
L’ultimo principale problema è quello dell’invadenza partitica nella sanità pubblica. Proprio l’elevato livello della spesa ha fatto diventare il sistema uno dei principali centri di potere, di corruzione, di clientelismo politico presenti sul territorio nazionale. Così, è notorio che l’appartenenza a un partito o a una corrente di partito, spesso, prevale sui meriti professionali nelle carriere dei medici. Con ricadute gravi sulla buona organizzazione dei reparti e, magari, sulla salute dei pazienti.
Il «decretone Balduzzi» cerca di affrontare questi mali con una terapia molto meno rivoluzionaria di quanto appaia, poiché, in parte, ricalca leggi e norme già approvate e, quasi mai, applicate. La disposizione che ha fatto più notizia, quella sull’apertura continua degli studi dei medici di famiglia, nei pochissimi casi in cui è già stata sperimentata, dimostra non solo la fattibilità operativa, ma che il solito lamento delle Regioni sulla necessità di maggiori finanziamenti è ingiustificato. Si tratta di un accorpamento delle guardie mediche con gli ambulatori che richiede uno sforzo di buona volontà e di razionalizzazione, sia delle risorse, sia del personale, certamente non impossibile.
La questione vera è un’altra e più generale: in Italia, ormai, qualsiasi riforma, buona o cattiva che sia, rischia l’inapplicabilità. Perché le resistenze degli interessi, effettivamente o presuntivamente colpiti, delle corporazioni, dei privilegi e, persino, delle abitudini e dei vizi sono talmente forti da bloccare, ritardare, vanificare ogni innovazione. Perché siamo un Paese non solo di rivoluzionari «marxisti immaginari», come scriveva, in anni sessantottini, Vittoria Ronchey, ma di riformisti altrettanto immaginari.
La Stampa 07.09.12

"Sono primarie o è una sfilata?", di Michele Prospero

Ce la farà la sinistra ad interpretare in maniera efficace e non autodistruttiva la tornata delle primarie di coalizione che, per la prima volta in Italia, assumono vesti altamente competitive? Le prove tecniche di primarie hanno già svelato una preoccupante inadeguatezza per via di un ardore polemico spericolato. Non è l’intensità dei fendenti che preoccupa. Che i gazebo non siano mai una cerimonia di gala è cosa scontata. E però andrebbe evitato che le primarie si traducano in una occasione afferrata al volo per assestare dei colpi agli organigrammi congressuali e per tendere delle imboscate al quartier generale.
Senza la condivisione di un percorso politico, e sguarnite di un senso del limite, le primarie possono rivelarsi un incidente utile per un avversario a corto di chance. Quello che urta è perciò la mancata comprensione del carattere specifico delle primarie. Il destinatario vero della contesa non può essere l’elettore astratto, raggiunto ovunque esso si collochi nello spazio politico e stimolato con l’arte della provocazione e con le metafore della esagerazione. Per quanto le primarie siano aperte, esse non possono rivolgersi all’opinione pubblica indifferenziata, che presta attenzione solo ai messaggi più eccentrici. Non bisogna confondere le primarie, che tendono a mobilitare una parte soltanto della società, che condivide simboli, lessico e riti, con le elezioni politiche che sono invece una battaglia rivolta al popolo nel suo complesso. Il confronto che si chiuderà nei gazebo ha per referenti principali gli iscritti e, insieme ad essi, quella delimitata, sebbene ampia, porzione di elettorato affezionato e partecipe che per tradizione è vicino alla sinistra. Ciò deve avere delle conseguenze ineludibili nelle strategie anche linguistiche che devono essere rispettate dai candidati. La fissazione per gli effetti magici della esasperazione mediatica, che reclama eterne battute contro i gruppi dirigenti e attira ironie sulla età del ceto politico, non può tradursi in una accentuata curvatura comunicativa che va alla ricerca di corpi nuovi e non di politiche nuove. Chi, invece che rivolgerli alla propria parte per definire altri stimoli ad agire e suscitare dei più forti motivi di impegno, orienta i ritrovati della comunicazione (se non del marketing) verso una spregiudicata deriva elettoralistica cercherà in ogni modo di alterare il senso delle primarie per tramutarle in una indebita simulazione del voto per il Parlamento. Ma le primarie, per loro vocazione differenziale, non devono conquistare il territorio elettorale altrui, quello presidiato dalle destre, devono al contrario far scattare una più nitida identità e una più solida convinzione nel proprio mondo, che così assapora la vittoria. Per un malinteso disegno di sfondare già con le primarie nell’altro campo, si nota l’ossessiva ricerca di effetti speciali studiati a tavolino dai consulenti di immagine per stimolare la compiacente copertura dei media, la cui proprietà è da tempo infastidita dagli echi di pretese torsioni neosocialdemocratiche in atto nel Pd. Le primarie svaniscono ogni senso di rimobilitazione (del proprio campo politico e sociale, a stento ritrovato) se le distanze ideali dei protagonisti del confronto appaiono abissali e restano tali in virtù della costruzione mediatica di una diversità effimera basata solo sull’immagine.
Certe declinazioni sul ricambio generazionale come valore in sé, talune sortite sulle facoltà quasi divinatorie delle attardate pratiche liberiste, certe compiaciute esposizioni in abiti sportivi per curare la visibilità del corpo danno di sicuro l’impressione di un partito che ha dentro di sé una polarizzazione assiale piuttosto clamorosa, non inferiore per intensità a quella che di solito distingue all’esterno la destra e la sinistra. Se la battaglia in corso tra la politica rimotivata e le forme dell’antipolitica rigonfiate dalla rabbia smisurata dei poteri forti si svolge in forme carnevalesche già dentro il partito è evidente che il virus del populismo non potrà essere estirpato. Tutto il paziente lavoro fin qui svolto per sconfiggere le forze materiali e immateriali dell’antipolitica rischia di franare, travolto dalla riedizione postuma di una fiacca politica sub specie comunicationis.
L’agenda politica delle primarie non può essere quella che mira a stuzzicare l’appetito dei media con effetti speciali ingannevoli ma deve consistere in una calibrata differenza di accenti e di sensibilità all’interno di un medesimo paradigma dell’innovazione (Europa politica e sociale, riassetto delle istituzioni, rilancio del valore del lavoro, nesso tra crisi sociale e crisi democratica). Se invece di primarie sobrie tra candidati che muovono da una stessa identità programmatica, sia pure declinata con accenti diversi, si svolge un duello rusticano che si prolunga scomposto dinanzi alla luce della ribalta allora è meglio lasciar stare. Si chiamano primarie ma diventano in realtà una maldestra pratica impoliticamente assistita per favorire a telecamere accese il mesto suicidio della sinistra che balbetta una polarità incandescente nuovo-vecchio, utile solo per risollevare gli umori di una destra che pareva derelitta.

L’Unità 07.09.12

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Bersani: «Coraggio Pd mettiamoci in gioco», di Maria Zegarelli

Il leader democratico incontra i segretari regionali: «Non sarò seduto ad aspettare». Renzi elogia le primarie americane: «Funzionano e danno entusiasmo». «Il segretario del Pd non starà seduto nella sua stanza ad aspettare una vittoria annunciata, né alle primarie né alle elezioni»: è questo che dice Pier Luigi Bersani incontrando i segretari regionali e i membri della segreteria al Nazareno. E se sceglie toni sobri, non scende in polemica e continua a parlare dei problemi concreti del Paese, spiega, non è perché sta sottovalutando insidie e difficoltà. «Non sottovaluto nulla dicealtrimenti mi sarei appellato al regolamento, ma il Paese chiede alla politica di avere coraggio e spetta soprattutto a noi dimostrare di averlo. Dobbiamo guardare gli italiani negli occhi e non avere paura di andare incontro a primarie in mare aperto». Questa è la strada, secondo il segretario, per fare delle primarie un grande evento di partecipazione, «una risposta concreta a quanti guardano la politica un po’ schifati, perché il contrario di populismo è popolarità». Il numero uno del Nazareno non nasconde la preoccupazione per i toni del dibattito interno e per una discussione che rischia come di fatto sta già accadendo di apparire chiusa e lontana dai problemi reali delle persone. Per questo chiede a tutti, leader, giovani e vecchi, di moderare i toni, «c’è bisogno di un cambio di passo, di un time out perché dopo le primarie ci sono le elezioni politiche e noi, un attimo dopo il voto per la leadership, dobbiamo essere un’unica squadra, unita, che lavora per vincere». E questo sarà il messaggio che lancerà chiudendo la festa nazionale a Reggio Emilia domenica prossima: parlare al Paese, perché la «passione per la politica si riaccende se si è credibili, affidabili e se
si discute dei temi concreti», di quel rapporto tra sviluppo e coesione sociale su cui il centrosinistra vuole fondare il suo Patto con il Paese.
«Il Paese sta vivendo un periodo di grande difficoltàdice Andrea Manciulli, segretario della Toscana -, le file davanti al distributore della benzina per risparmiare qualche euro sono un segnale forte. Il Pd non può chiudersi alla società civile discutendo di primarie e battaglie interne, noi dobbiamo dare una prospettiva realistica agli italiani». C’è anche chi, nel corso dell’incontro andato avanti per oltre due ore, chiede di arrivare a regole certe per le primarie al più presto, «anche se sarebbe stato meglio non rimettere tutto in discussione non dando troppa voce ai tanti desiderata di cui si legge in questi giorni». «Delle regole risponde Bersani discuteremo alla prossima Assemblea nazionale».
LE REGOLE
«Dobbiamo cogliere le primarie aperte come un’occasione per rafforzarci e non per indebolire il partito dice la presidente del partito Rosy Bindi -. Se le primarie saranno un’occasione per parlare di problemi veri, di scelte e di programmi per l’Italia, sarà sicuramente positivo. Se viceversa si approfitterà delle primarie per una competizione elettorale, allora forse si rischia non tanto di indebolire il Pd ma la politica italiana tutta». Matteo Renzi, che torna convinto dagli Usa che «è bello quando la politica riesce ad emozionare», senza rinunciare al suo repertorio made in Italy, ormai consolidato, contro l’establishment del suo partito. Assicura che le primarie saranno «un’occasione, poi chi perde dà una mano a chi ha vinto. Noi partecipiamo con rispetto ed umiltà, rinnovando a Bersani amicizia e affetto perché non è una gara gli uni contro gli altri, ma per il bene dell’Italia. Faremo questa gara senza litigare, ma raccontando idee diverse: noi siamo perché cambi il gruppo dirigente, vadano a casa quelli che da vent’anni sono in Parlamento e si rottamino le idee che hanno portato l’Italia a non funzionare». Sulle regole dice di non voler mettere bocca, purché siano primarie aperte. «L’esperienza americana aggiunge è un’occasione per verificare anche solo per 24 ore un modello di partito in cui le primarie hanno assolutamente una funzione centrale e insostituibile».
Massimo D’Alema, in un’intervista al Corriere della Sera, dice: «Renzi sembra aver lanciato una campagna rivolta non alla costruzione di una prospettiva di governo ma esclusivamente contro il gruppo dirigente del Pd e tutti i potenziali alleati di governo del centrosinistra». E registra «con amarezza» che il primo cittadino fiorentino sembra essere «sostenuto soprattutto da quelli che il Pd al governo non lo vogliono». Paolo Gentiloni, che non nasconde simpatie per Renzi, critica i suoi colleghi: «A me l’aria che è tirata in questi giorni in cui la classe dirigente del Pd ha dato talvolta l’impressione di essere una specie di nomenclatura un po’ impaurita dal ciclone Renzi, penso che sia un errore». E invita a fare le primarie «con le regole con cui si sono fatte sempre», per Prodi, Bersani, De Magistris e Pisapia. Antonello Giacomelli, invece, parlando dei «giovani turchi» evoca Achille Occhetto e chiede al segretario di dire «parole chiare». «A me sembra che l’obiettivo di Matteo Orfini e dei “giovani turchi” sia quello di fare di Bersani il leader di una nuova gioiosa macchina da guerra», afferma Bersani legge i botta e risposta tra i democrat che le agenzie rilanciano e avverte: «Bisogna avere le spalle larghe, mostrare solidità e sobrietà perché le primarie non sono un congresso. Quello si farà poco dopo, nel 2013. Prima dobbiamo vincere le elezioni».
Fase doppiamente delicata per il segretario: tenere insieme il partito, lavorare al programma da sottoporre al Paese e alla futura alleanza, e contemporaneamente giocarsi la partita per la leadership, «farò il segretario fino all’ultimo minuto», assicura ben sapendo che i prossimi mesi saranno difficilissimi: una doppia campagna elettorale da condurre in un autunno che farà sentire tutto il peso sociale della crisi, con la disoccupazione e l’inoccupazione giovanile ai massimi e il lavoro che resta la prima emergenza del Paese.

L’Unità 07.09.12

"Sono primarie o è una sfilata?", di Michele Prospero

Ce la farà la sinistra ad interpretare in maniera efficace e non autodistruttiva la tornata delle primarie di coalizione che, per la prima volta in Italia, assumono vesti altamente competitive? Le prove tecniche di primarie hanno già svelato una preoccupante inadeguatezza per via di un ardore polemico spericolato. Non è l’intensità dei fendenti che preoccupa. Che i gazebo non siano mai una cerimonia di gala è cosa scontata. E però andrebbe evitato che le primarie si traducano in una occasione afferrata al volo per assestare dei colpi agli organigrammi congressuali e per tendere delle imboscate al quartier generale.
Senza la condivisione di un percorso politico, e sguarnite di un senso del limite, le primarie possono rivelarsi un incidente utile per un avversario a corto di chance. Quello che urta è perciò la mancata comprensione del carattere specifico delle primarie. Il destinatario vero della contesa non può essere l’elettore astratto, raggiunto ovunque esso si collochi nello spazio politico e stimolato con l’arte della provocazione e con le metafore della esagerazione. Per quanto le primarie siano aperte, esse non possono rivolgersi all’opinione pubblica indifferenziata, che presta attenzione solo ai messaggi più eccentrici. Non bisogna confondere le primarie, che tendono a mobilitare una parte soltanto della società, che condivide simboli, lessico e riti, con le elezioni politiche che sono invece una battaglia rivolta al popolo nel suo complesso. Il confronto che si chiuderà nei gazebo ha per referenti principali gli iscritti e, insieme ad essi, quella delimitata, sebbene ampia, porzione di elettorato affezionato e partecipe che per tradizione è vicino alla sinistra. Ciò deve avere delle conseguenze ineludibili nelle strategie anche linguistiche che devono essere rispettate dai candidati. La fissazione per gli effetti magici della esasperazione mediatica, che reclama eterne battute contro i gruppi dirigenti e attira ironie sulla età del ceto politico, non può tradursi in una accentuata curvatura comunicativa che va alla ricerca di corpi nuovi e non di politiche nuove. Chi, invece che rivolgerli alla propria parte per definire altri stimoli ad agire e suscitare dei più forti motivi di impegno, orienta i ritrovati della comunicazione (se non del marketing) verso una spregiudicata deriva elettoralistica cercherà in ogni modo di alterare il senso delle primarie per tramutarle in una indebita simulazione del voto per il Parlamento. Ma le primarie, per loro vocazione differenziale, non devono conquistare il territorio elettorale altrui, quello presidiato dalle destre, devono al contrario far scattare una più nitida identità e una più solida convinzione nel proprio mondo, che così assapora la vittoria. Per un malinteso disegno di sfondare già con le primarie nell’altro campo, si nota l’ossessiva ricerca di effetti speciali studiati a tavolino dai consulenti di immagine per stimolare la compiacente copertura dei media, la cui proprietà è da tempo infastidita dagli echi di pretese torsioni neosocialdemocratiche in atto nel Pd. Le primarie svaniscono ogni senso di rimobilitazione (del proprio campo politico e sociale, a stento ritrovato) se le distanze ideali dei protagonisti del confronto appaiono abissali e restano tali in virtù della costruzione mediatica di una diversità effimera basata solo sull’immagine.
Certe declinazioni sul ricambio generazionale come valore in sé, talune sortite sulle facoltà quasi divinatorie delle attardate pratiche liberiste, certe compiaciute esposizioni in abiti sportivi per curare la visibilità del corpo danno di sicuro l’impressione di un partito che ha dentro di sé una polarizzazione assiale piuttosto clamorosa, non inferiore per intensità a quella che di solito distingue all’esterno la destra e la sinistra. Se la battaglia in corso tra la politica rimotivata e le forme dell’antipolitica rigonfiate dalla rabbia smisurata dei poteri forti si svolge in forme carnevalesche già dentro il partito è evidente che il virus del populismo non potrà essere estirpato. Tutto il paziente lavoro fin qui svolto per sconfiggere le forze materiali e immateriali dell’antipolitica rischia di franare, travolto dalla riedizione postuma di una fiacca politica sub specie comunicationis.
L’agenda politica delle primarie non può essere quella che mira a stuzzicare l’appetito dei media con effetti speciali ingannevoli ma deve consistere in una calibrata differenza di accenti e di sensibilità all’interno di un medesimo paradigma dell’innovazione (Europa politica e sociale, riassetto delle istituzioni, rilancio del valore del lavoro, nesso tra crisi sociale e crisi democratica). Se invece di primarie sobrie tra candidati che muovono da una stessa identità programmatica, sia pure declinata con accenti diversi, si svolge un duello rusticano che si prolunga scomposto dinanzi alla luce della ribalta allora è meglio lasciar stare. Si chiamano primarie ma diventano in realtà una maldestra pratica impoliticamente assistita per favorire a telecamere accese il mesto suicidio della sinistra che balbetta una polarità incandescente nuovo-vecchio, utile solo per risollevare gli umori di una destra che pareva derelitta.
L’Unità 07.09.12
*******
Bersani: «Coraggio Pd mettiamoci in gioco», di Maria Zegarelli
Il leader democratico incontra i segretari regionali: «Non sarò seduto ad aspettare». Renzi elogia le primarie americane: «Funzionano e danno entusiasmo». «Il segretario del Pd non starà seduto nella sua stanza ad aspettare una vittoria annunciata, né alle primarie né alle elezioni»: è questo che dice Pier Luigi Bersani incontrando i segretari regionali e i membri della segreteria al Nazareno. E se sceglie toni sobri, non scende in polemica e continua a parlare dei problemi concreti del Paese, spiega, non è perché sta sottovalutando insidie e difficoltà. «Non sottovaluto nulla dicealtrimenti mi sarei appellato al regolamento, ma il Paese chiede alla politica di avere coraggio e spetta soprattutto a noi dimostrare di averlo. Dobbiamo guardare gli italiani negli occhi e non avere paura di andare incontro a primarie in mare aperto». Questa è la strada, secondo il segretario, per fare delle primarie un grande evento di partecipazione, «una risposta concreta a quanti guardano la politica un po’ schifati, perché il contrario di populismo è popolarità». Il numero uno del Nazareno non nasconde la preoccupazione per i toni del dibattito interno e per una discussione che rischia come di fatto sta già accadendo di apparire chiusa e lontana dai problemi reali delle persone. Per questo chiede a tutti, leader, giovani e vecchi, di moderare i toni, «c’è bisogno di un cambio di passo, di un time out perché dopo le primarie ci sono le elezioni politiche e noi, un attimo dopo il voto per la leadership, dobbiamo essere un’unica squadra, unita, che lavora per vincere». E questo sarà il messaggio che lancerà chiudendo la festa nazionale a Reggio Emilia domenica prossima: parlare al Paese, perché la «passione per la politica si riaccende se si è credibili, affidabili e se
si discute dei temi concreti», di quel rapporto tra sviluppo e coesione sociale su cui il centrosinistra vuole fondare il suo Patto con il Paese.
«Il Paese sta vivendo un periodo di grande difficoltàdice Andrea Manciulli, segretario della Toscana -, le file davanti al distributore della benzina per risparmiare qualche euro sono un segnale forte. Il Pd non può chiudersi alla società civile discutendo di primarie e battaglie interne, noi dobbiamo dare una prospettiva realistica agli italiani». C’è anche chi, nel corso dell’incontro andato avanti per oltre due ore, chiede di arrivare a regole certe per le primarie al più presto, «anche se sarebbe stato meglio non rimettere tutto in discussione non dando troppa voce ai tanti desiderata di cui si legge in questi giorni». «Delle regole risponde Bersani discuteremo alla prossima Assemblea nazionale».
LE REGOLE
«Dobbiamo cogliere le primarie aperte come un’occasione per rafforzarci e non per indebolire il partito dice la presidente del partito Rosy Bindi -. Se le primarie saranno un’occasione per parlare di problemi veri, di scelte e di programmi per l’Italia, sarà sicuramente positivo. Se viceversa si approfitterà delle primarie per una competizione elettorale, allora forse si rischia non tanto di indebolire il Pd ma la politica italiana tutta». Matteo Renzi, che torna convinto dagli Usa che «è bello quando la politica riesce ad emozionare», senza rinunciare al suo repertorio made in Italy, ormai consolidato, contro l’establishment del suo partito. Assicura che le primarie saranno «un’occasione, poi chi perde dà una mano a chi ha vinto. Noi partecipiamo con rispetto ed umiltà, rinnovando a Bersani amicizia e affetto perché non è una gara gli uni contro gli altri, ma per il bene dell’Italia. Faremo questa gara senza litigare, ma raccontando idee diverse: noi siamo perché cambi il gruppo dirigente, vadano a casa quelli che da vent’anni sono in Parlamento e si rottamino le idee che hanno portato l’Italia a non funzionare». Sulle regole dice di non voler mettere bocca, purché siano primarie aperte. «L’esperienza americana aggiunge è un’occasione per verificare anche solo per 24 ore un modello di partito in cui le primarie hanno assolutamente una funzione centrale e insostituibile».
Massimo D’Alema, in un’intervista al Corriere della Sera, dice: «Renzi sembra aver lanciato una campagna rivolta non alla costruzione di una prospettiva di governo ma esclusivamente contro il gruppo dirigente del Pd e tutti i potenziali alleati di governo del centrosinistra». E registra «con amarezza» che il primo cittadino fiorentino sembra essere «sostenuto soprattutto da quelli che il Pd al governo non lo vogliono». Paolo Gentiloni, che non nasconde simpatie per Renzi, critica i suoi colleghi: «A me l’aria che è tirata in questi giorni in cui la classe dirigente del Pd ha dato talvolta l’impressione di essere una specie di nomenclatura un po’ impaurita dal ciclone Renzi, penso che sia un errore». E invita a fare le primarie «con le regole con cui si sono fatte sempre», per Prodi, Bersani, De Magistris e Pisapia. Antonello Giacomelli, invece, parlando dei «giovani turchi» evoca Achille Occhetto e chiede al segretario di dire «parole chiare». «A me sembra che l’obiettivo di Matteo Orfini e dei “giovani turchi” sia quello di fare di Bersani il leader di una nuova gioiosa macchina da guerra», afferma Bersani legge i botta e risposta tra i democrat che le agenzie rilanciano e avverte: «Bisogna avere le spalle larghe, mostrare solidità e sobrietà perché le primarie non sono un congresso. Quello si farà poco dopo, nel 2013. Prima dobbiamo vincere le elezioni».
Fase doppiamente delicata per il segretario: tenere insieme il partito, lavorare al programma da sottoporre al Paese e alla futura alleanza, e contemporaneamente giocarsi la partita per la leadership, «farò il segretario fino all’ultimo minuto», assicura ben sapendo che i prossimi mesi saranno difficilissimi: una doppia campagna elettorale da condurre in un autunno che farà sentire tutto il peso sociale della crisi, con la disoccupazione e l’inoccupazione giovanile ai massimi e il lavoro che resta la prima emergenza del Paese.
L’Unità 07.09.12

"La ricerca dei cervelli in fuga: in 100 potranno insegnare al sud", da Agenzia Dire

L’iniziativa lanciata dai ministri Barca e Profumo: bando a settembre. Saranno i “messaggeri” dell’eccellenza. Un bando per riportare in Italia (seppur per un periodo limitato) 100 cervelli in fuga, cento ricercatori italiani che lavorano oltre confine e che dovranno aiutare il Sud Italia a “mescolare il sangue”, a trovare punti di contatto con importanti centri esteri di ricerca. Lo hanno lanciato questa mattina i ministri Francesco Profumo (Istruzione) e Fabrizio Barca (Coesione Territoriale). “Messaggeri” e’ il titolo del progetto che puo’ contare su 5,3 milioni di euro per questo anno accademico e ha gia’ un hashtag, #messaggeri, per farsi largo su twitter e farsi conoscere fra i ragazzi.

IL PROGETTO – A meta’ settembre sara’ pubblicato un bando che riguardera’ le quattro regioni della convergenza (Campania, Calabria, Puglia e Sicilia). I fondi a disposizione (europei) serviranno per dare vita a tre step. Innazitutto saranno selezionati 100 ricercatori fra tutti quelli che presenteranno ai dipartimenti universitari le loro proposte didattiche. L’inizitiva e’ aperta anche agli stranieri, ma dovranno insegnare in italiano “per evitare- spiegano i tecnici- che il progetto coinvolga solo i nostri studenti eccellenti che gia’ conoscono bene una lingua estera e tagli fuori gli altri”. Saranno coinvolte tutte le discipline. Purche’ il ricercatore che aderisce provenga da un centro estero di eccellenza. I ricercatori-docenti dovranno indicare le modalita’ per selezionare gruppi ristretti (25-30 ragazzi) di studenti che parteciperanno a lezioni di elevata qualita’. Il taglio dovra’ essere “fresco e divulgativo”. La selezione dei partecipanti sara’ il secondo step. Nel terzo i migliori andranno poi a “mescolare il sangue” all’estero nel centro del loro insegnante dove faranno uno stage. Le spese saranno coperte dal progetto. I ragazzi che hanno avuto queste opportunita’ dovranno tornare poi nelle loro facolta’ e trasmettere cio’ che hanno appreso, raccontare le opportunita’ che ci sono fuori dalla porta. Insomma, si dovranno mettere in circolo le informazioni “per far capire anche a chi non ha i mezzi come puo’ andare a formarsi in un centro di eccellenza”, spiegano i ministri.

UN PROGETTO-MODELLO – Il progetto che parte su piccola scala “dovra’ diventare un modello per il paese e speriamo anche per l’Europa”, ha detto Profumo. Intanto “sara’ una opportunita’ per questi ragazzi per spendersi in un mercato del lavoro che oggi e’ come minimo europeo se non mondiale”. Il bando sara’ replicato anche nei prossimi due anni.

“Stiamo cercando di mettere insieme una domanda e una offerta che di solito non si parlano- afferma Barca- Stiamo invitando i nostri ricercatori che sono all’estero a fare qualcosa per il Sud, a contaminarlo con le loro idee. Il Sud del resto ha molte isole di innovazione che ancora devono esplodere”. L’iniziativa e’ accolta con favore dalla Conferenza dei rettori, Crui: “NOn e’ il solito sostegno alla mobilita’ degli studenti-commenta il presidente Marco Mancini- ma un sostegno ad una mobilita’ molto finalizzata”. Che, secondo Profumo, “dovra’ esere una ulteriore spinta alla crescita del Sud senza la quale non cresce il paese”

AGENZIA DIRE