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"Le istituzioni e le persone", di Michele Ainis

Un conflitto di attribuzioni non è una guerra nucleare. Serve a delimitare il perimetro dei poteri dello Stato, a restituire chiarezza sulle loro competenze. E la democrazia non deve aver paura dei conflitti: meglio portarli allo scoperto, che nascondere la polvere sotto i tappeti. Sono semmai le dittature a governare distribuendo sedativi. Eppure c’è un che d’eccezionale nel contenzioso aperto da Napolitano contro la Procura di Palermo. Perché esiste un solo precedente, quello innescato da Ciampi nel 2005 circa il potere di grazia. Perché stavolta il capo dello Stato – a differenza del suo predecessore – rischia d’incassare il verdetto della Consulta mentre è ancora in carica, sicché sta mettendo in gioco tutto il suo prestigio. Perché infine il conflitto investe il ruolo stesso della presidenza della Repubblica, la sua posizione costituzionale.

Domanda: ma è possibile intercettare il presidente? La risposta è iscritta nella legge n. 219 del 1989: sì, ma a tre condizioni. Quando nei suoi confronti il Parlamento apra l’impeachment per alto tradimento o per attentato alla Costituzione; quando in seguito a tale procedura la Consulta ne disponga la sospensione dall’ufficio; quando intervenga un’autorizzazione espressa dal Comitato parlamentare per i giudizi d’accusa. Quindi non è vero che il presidente sia «inviolabile», come il re durante lo Statuto albertino. Però nessuna misura giudiziaria può disporsi finché lui rimane in carica, e senza che lo decida il Parlamento.

Dinanzi a questo quadro normativo la Procura di Palermo ha scavato a sua volta una triplice trincea. Primo: nessuna intercettazione diretta sull’utenza di Napolitano, semmai un ascolto casuale mentre veniva intercettato l’ex ministro Mancino. Secondo: le conversazioni telefoniche del presidente sono comunque penalmente irrilevanti. Terzo: i nastri registrati non sono mai stati distrutti perché possono servire nei confronti di Mancino, e perché in ogni caso la loro distruzione passa attraverso l’udienza stralcio regolata dal codice di rito.

Deciderà, com’è giusto, la Consulta. Ma usando il coltello della logica, è difficile accettare che sia un giudice a esprimersi sulla rilevanza stessa dell’intercettazione. Perché delle due l’una: o quest’ultima rivela che il presidente ha commesso gli unici due reati dei quali è responsabile, per esempio vendendo segreti di Stato a una potenza straniera; e allora la Procura di Palermo avrebbe dovuto sporgere denuncia ai presidenti delle Camere, cui spetta ogni valutazione. Oppure no, ma allora i nastri vanno subito distrutti, senza farli ascoltare alle parti processuali. Come avviene, peraltro, per ogni cittadino, se intercettato mentre parla con il proprio difensore (articoli 103 e 271 del codice di procedura penale). E come stabilì il Senato nel marzo 1997, quando Scalfaro venne a sua volta intercettato. In quell’occasione anche Leopoldo Elia, costituzionalista insigne, dichiarò illegittime le intercettazioni telefoniche del capo dello Stato, sia dirette che indirette. Perché ne va dell’istituzione, non della persona. Le persone passano, le istituzioni restano.

Il Corriere della Sera 17.07.12

Istat, Ghizzoni: “uscire dalla crisi favorendo l’istruzione”

Le parole della deputata Pd contro l’aumento delle tasse universitarie in Spending Review. Conoscenza, ricerca e istruzione come imprescindibili impulsi per agevolare la formazione del capitale umano. È quanto sostiene Manuela Ghizzoni, Presidente della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei Deputati, contro la norma contenuta nella Spending Review, che, al contrario, aprirà la strada ad un amento delle tasse universitarie, colpendo le fasce più deboli e meno scolarizzate della cittadinanza. Di seguito, per esteso, la sua dichiarazione: «Solo un cieco non vede la connessione tra povertà e livello di istruzione», ha rimarcato Manuela Ghizzoni a commento del report Istat sulla povertà in Italia. «I dati Istat fanno emergere quello che già è noto, basta saper guardare la realtà: ad avere la più alta incidenza di povertà assoluta sono le famiglie con i titoli di studio più bassi, quelle con la più bassa scolarizzazione. Come non capire che per uscire dalla crisi dobbiamo dotare le cittadine e i cittadini di competenze, che derivano dall’istruzione? Non possiamo limitarci agli annunci: è necessario che la conoscenza, la ricerca e l’istruzione siano messe realmente nelle condizioni di essere il volano della crescita. A questo proposito – ha spiegato la Presidente Ghizzoni – la norma contenuta nella Spending Review, che, di fatto, consentirà l’aumento delle tasse universitarie, va nella direzione sbagliata e non porterà all’auspicato aumento della formazione del capitale umano. Le politiche economiche – ha concluso la Presidente della Commissione Cultura – non possono non tenere conto del Paese reale, neppure a fronte di una seppur necessaria Spending Review.»

"Mi restano le parole" lettera aperta di una docente al Ministro Fornero

Cara Signora Fornero, prima di tutto voglio che sappia che io apprezzo e stimo la conoscenza e il sapere sopra ogni altra prerogativa umana quando siano associati a onestà e lealtà e che quindi, a priori lei aveva la mia stima, per quel che può contare e, del resto, se non avessi pensato che poteva capire quello che avrei scritto, non l’avrei scelta come interlocutrice.
Apprezzo anche lo stile sobrio suo e dei suoi colleghi di governo che si contrappone, per quanto mi riguarda felicemente, con le modalità volgari e sopra le righe dei suoi/ vostri predecessori.
Ma non basta. Non basta perché parole grandi e importanti come equità richiedono che ci sia dietro una conoscenza della realtà tale da affrontare i problemi e le questioni sapendo concretamente di cosa si parla e, per questo, non è sufficiente essere illuminati professori universitari, magari teoricamente utile se non necessario, ma certo non sufficiente.
E se con un poco di speranza ho inizialmente guardato a lei/voi come a qualcuno che avrebbe potuto aiutare gli italiani e il paese a ritrovare fiducia nel potere politico come emanazione di una volontà popolare volta a tutelare il bene comune, ho dovuto presto ricredermi: le parole usate dal professor Monti al momento dell’insediamento non hanno da subito trovato riscontro coerente con le cose che poi avete portato avanti.
Ho invece sempre di più l’impressione che sia/siate lontana/i anni luce da quello che la gente, gli italiani vivono e che neppure ve ne accorgiate abituati come siete a condurre la vostra vita al riparo da tutte quelle incombenze che complicano la vita ai più e che, anche senza l’attuale crisi, devono non solo fare i conti sul come arrivare a fine a mese, ma anche destreggiarsi per riuscire a fare tutto quello che una comune esistenza oggi richiede se non si hanno colf, portaborse, baby sitter e aiuti vari a disposizione.
Non c’è né astio né invidia nelle mie parole, ma fastidio sì. Sono infastidita e urtata dalle vostre belle parole sull’equità e sulla giustizia sociale quando poi non avete avuto il coraggio di introdurre una tassazione sui patrimoni e, cosa che avrei saputo fare anch’io che sono laureata in filosofia, avete continuato a prendere dove era sicuro che si poteva: dalle tasche dei lavoratori dipendenti, gli unici che certamente le tasse le pagano tutte.
Vi sembra giusto? Sinceramente, potete pensare che lo sia? Io sono insegnante di scuola media e sto insegnando ai miei ragazzi, sempre molto attenti alle preferenze e alle presunte ingiustizie,che non c’è cosa più iniqua che valutare tutti con lo stesso metro perché ciascuno deve essere valutato in relazione alle sue capacità e possibilità e lo capiscono. Perché voi agite come se tutti gli italiani fossero ricchi in uguale misura? Sapete che per un lavoratore dipendente che vive del suo stipendio (tra i più bassi d’Europa) è complicato condurre una vita dignitosa? E nella vita dignitosa ci metto anche il diritto a divertirsi e ad acculturarsi. Io credo che non lo sappiate, o meglio che non lo sappiate nel senso che, siccome per sapere bisogna provare, voi non avete idea di cosa voglia dire.
E allora ecco spiegata la distanza con cui parlate e pontificate, con cui decidete delle vite degli altri (sì cara signora Fornero, perché quello che lei ha fatto con la manovra sulle pensioni è stato proprio questo, della mia vita ha deciso: sono del 1952, appartengo al gruppo della cosiddetta quota 96, pensando ad una pensione imminente ho rinunciato a fare il concorso da preside, sapendo di avere ancora tanto tempo da passare nella scuola certo ci avrei provato!)
La distanza, la scarsa umanità e vicinanza ai problemi delle persone che vi caratterizza altro non è se non la chiara manifestazione della vostra appartenenza a un gruppo che non solo non sa, ma anche non sente per umana compassione (nel senso letterale del termine che significa capacità di sentire in modo condiviso) quello che altri simili, altri cittadini altrettanto degni di questo nome, sentono o provano.
Vede, vorrei vedere lei e i suoi colleghi vivere la vita di un operaio, di un impiegato, di un insegnante; dignitosa, seria e pagata poco da sempre e da ora precaria, incerta, con il timore di vedere i propri figli, non importa quanto meritevoli e pluri laureati, arrancare alla ricerca di un lavoro con la prospettiva di un futuro vago e indefinibile davanti a sé.
Dispiace vedere che ancora conta più di chi sei figlio che quello che sai fare, ho sbagliato, dovevo dire non “ancora”, ma “sempre di più” perché se fino ad oggi da una generazione all’altra è stato possibile progredire (mio padre e mia madre non avevano potuto studiare e noi figli sì) da ora in poi le classi sociali potrebbero trasformarsi in caste, ovvero classi sociali chiuse senza possibilità di cambiamento nello status sia economico che di istruzione e quindi con una possibilità sempre più ridotta di contare davvero nelle scelte decisionali.
Voi rappresentate sostanzialmente un governo di classe e sono convinta, tuttavia non senza stupore, che riteniate davvero di operare per il bene comune. Il bene di chi, vi chiedo, di quali cittadini? Ve lo domandate?
Inoltre: si dice che bisognava adeguarsi ai livelli europei per quanto riguarda pensioni e normativa sul lavoro, d’accordo, ma perché non bisogna adeguarsi invece all’Europa anche per quanto riguarda gli stipendi e l’insieme del welfare, di tutti quei servizi che restituiscono ai cittadini i loro sforzi e le loro fatiche sotto forma ad esempio, di prestiti da parte dello stato ai giovani che vogliono laurearsi (per di più in ottemperanza al dettato costituzionale) oppure di asili nido e scuole dell’infanzia in numero adeguato rispetto alle esigenze? Ritorniamo sempre al modo improprio con cui usate il concetto di equità, anche in questo caso il riferimento all’Europa va bene solo quando si tratta di prendere e non di dare! E poi, avete pensato che se le persone lavoreranno fino a 70 anni verrà a mancare un sostegno fondamentale per le famiglie giovani? I nonni non avranno infatti più il tempo per riempire quei “buchi” derivanti dai tempi diversi di ciascuna occupazione rispetto a quelli dei diversi ordini di scuola (e pensando a nidi e scuole dell’infanzia, poi, là dove esistono, perché la loro distribuzione non è di certo omogenea in ogni regione italiana!) Ma sicuramente ci avrete pensato e avrete un piano per rispondere a queste esigenze, perché solo pochi possono permettersi aiuti privati.
Voglio ancora soffermarmi sulla questione delle pensioni e mi scuso con tutti gli altri dipendenti se mi dedico al mio ambito lavorativo, ma è solo perché lo conosco meglio e spero invece che altri raccontino e parlino della situazione che riguarda loro e la categoria a cui appartengono perché si devono sapere le cose nella loro specificità e realtà.
Avete deciso unilateralmente di cambiare le carte in tavola non tenendo in alcun conto i diritti acquisiti dei lavoratori senza preoccuparvi di nulla, ma ci sono questioni che bisognerà approfondire: avete ad esempio pensato che sarebbe giusto restituire il denaro (con gli interessi maturati ad oggi) a tutti coloro che hanno riscattato gli anni di università per il raggiungimento delle cosiddette quote relative alle pensioni di anzianità? Io e come me altri miei colleghi abbiamo versato somme consistenti per questo riscatto che ora non ci servirà a nulla, poiché avete abolito “l’anomalia” delle pensioni di anzianità. Bisognava farlo? Forse, magari con una gradualità che non sconvolgesse le aspettative delle persone rispetto al futuro immediato! Ridateci almeno quel denaro inutilmente versato che diventa un regalo visto che ci avete cambiato la normativa in corso d’opera! Sarebbe equo e, se non ci avete pensato, fatelo.
Voglio citare un’altra ingiustizia che state commettendo pur conoscendo le cose visto che era stato proposto un emendamento in tal senso nel decreto mille proroghe. L’emendamento del PD che è stato cassato, prevedeva per gli insegnanti lo spostamento al 31 agosto della data di verifica del possesso dei requisiti per fruire del sistema pensionistico precedente alla riforma Fornero. La ragione è che per gli insegnanti esiste una sola finestra in uscita, al primo settembre di ogni anno, proprio per la caratteristica organizzativa dell’anno scolastico, che non coincide con l’anno solare e che non consente il pensionamento durante il percorso annuale. Proprio per questo le normative sul pensionamento avevano sempre fatto riferimento alla data del 1 settembre e mi chiedo se lei ha approfondito la questione, che già portava a qualche svantaggio rispetto agli altri dipendenti anche prima, o l’ha ritenuta irrilevante? Credo che sarebbe equo intervenire anche su questa vera disparità di trattamento .
Sinceramente non credo che mi prenderà in considerazione, ma mi restano le parole perché non c’è partito oggi in Italia da cui io mi senta rappresentata, esercito quindi un diritto in cui continuo a sperare e che appartiene al significato vero della politica che nulla ha ormai a che fare con i partiti.
Concludo la mia filippica con un invito che è volutamente una provocazione: venga signora Fornero a insegnare per un po’ di tempo alle scuole medie, mi dirà alla fine dell’esperienza se continuerà a pensare che se ne possa avere l’energia necessaria anche fino a 67 e più anni!
La saluto cordialmente
Professoressa Nadia Lusetti

"Abbiamo bisogno di un motore pubblico per la crescita", di Laura Pennacchi

Affinché con il voto del 2013 nel nostro Paese siano ripristinate le normali condizioni democratiche e si affermi una chiara alternatività destra-sinistra, tra le discontinuità da far valere rispetto al governo Monti ce n’è una che riguarda crucialmente la linea dell’austerità. La riflessione su di essa deve illuminare anche la difficile valutazione dei recenti vertici europei. I loro esiti, infatti, vanno soppesati non solo in base alla significatività o meno dei movimenti in direzione dell’adozione del calmieratore degli spread per Paesi con le finanze pubbliche in ordine e della possibilità di operare interventi di ricapitalizzazione delle banche in difficoltà senza influire sui bilanci pubblici. E sotto questo profilo è difficile dubitare del valore dei passi in avanti compiuti in via teorica e di principio e, al tempo stesso, non rimanere perplessi quanto alla loro lunga scansione temporale e ai molti controversi aspetti tecnici. Ma i recenti vertici vanno valutati anche per un altro aspetto decisivo e cioè il fatto che in nessun caso – anche quando la loro significatività venga giudicata totale – si può dire che la politica di austerità imposta a tutti i Paesi europei dalla Germania della Merkel sia stata rimessa in discussione. Eppure la spirale fallimentare a cui l’ortodossia restrittiva e deflazionistica sta dando luogo è sotto gli occhi di tutti: azioni draconiane sui deficit pubblici, mentre spingono in recessione tutti i Paesi europei (il Pil dell’Italia nel 2012 diminuirà del 2,4% secondo Confindustria) e fanno esplodere la disoccupazione, aggravano e non risolvono i problemi del debito, per affrontare i quali si ricorre a nuove misure di contenimento del deficit che, sempre più spingendo l’economia verso contrazioni aggiuntive e aggiuntivi cali delle entrate, si risolvono in ulteriori incrementi del debito e del deficit. In Italia il ruolo recessivo che giocherà la spending review (con un taglio della spesa nella sanità, nel pubblico impiego, nelle Regioni e negli enti locali, nei servizi di più di 20 miliardi addizionali in tre anni) è emblematico di questa spirale perversa. L’intenzionale ed esplicita finalizzazione dell’austerità, dei tagli, delle privatizzazioni e dell’«arretramento» del perimetro pubblico – quest’ultimo assunto indiscriminatamente come «degenerazione statalistica» – converge verso il depotenziamento e il depauperamento del ruolo e della leva pubblica. Perché questo avviene? E proprio in un momento in cui tutto ci dice – dalla attuale keynesiana “trappola delle liquidità” che impedisce agli investimenti di prendere una via produttiva, all’esplosione della recessione e della disoccupazione, alla necessità non soddisfatta dal mercato di dare vita a un nuovo modello di sviluppo basato su riqualificazione ambientale, beni sociali, beni comuni – che solo un big push (una «grande spinta») trainato dal motore pubblico può rovesciare lo status quo e dare vita a una spirale benefica di crescita/equilibrio di bilancio/crescita? Non può trattarsi solo di masochismo. Bisogna risalire ai convincimenti profondi sottostanti, che in parte accomunano la Merkel a personaggi come Monti (il quale pure ha già realizzato una personale discontinuità passando dal sostegno all’asse Merkel-Sarkozy al praticare un asse ben diverso con Hollande). Emerge qui la questione di quella variante di destra dell’economia sociale di mercato, racchiusa nell’«ordoliberalismo», pregiudizialmente ostile a un interventismo di tipo keynesiano (di cui ho scritto in precedenti articoli sull’Unità e su cui si è soffermata Barbara Spinelli su La Repubblica dell’11 luglio). Questa visione si concentra esclusivamente sui problemi dell’offerta cosicché un forte intervento dello Stato è considerato necessario solo per imporre la concorrenza. Per tutto il resto l’economia va liberata dai vincoli statali. Infatti, l’imputata – che spiazzerebbe l’investimento privato – è sempre la spesa pubblica specie sociale, ridurre la quale sarebbe il prerequisito primario per liberare l’offerta, sollecitare la concorrenza e la competizione, stimolare l’investimento privato e così attivare, magari dopo una ventina d’anni, la crescita. Per questa impostazione le divergenze di competitività vanno recuperate, non essendo possibile svalutare unavaluta nazionale di cui non si dispone più, mediante «svalutazioni interne» affidate alla compressione dei salari, derivante da ulteriori flessibilizzazioni del mercato del lavoro, e alla deflazione salariale. Perciò la concertazione si dà per sepolta, accusata addirittura di aver causato l’incremento della disoccupazione giovanile con una sconcertante riproposizione della contrapposizione padri-figli. I problemi della domanda sono fuori dell’attenzione, il modello sociale europeo viene decretato defunto, gli investimenti pubblici non vengono nemmeno presi in considerazione, le sofferenze che per molti anni si dovranno vivere sono viste come un male doloroso ma necessario. L’alternativa richiede di sostituire all’immagine di un’Europa «deflazionistica» quella di un’Europa «progressista», con la mutualizzazione e l’europeizzazione del debito anche mediante Eurobond, il ruolo di prestatore di ultima istanza attribuito alla Bce, l’allargamento del bilancio comunitario per il rilancio degli investimenti e il superamento delle divergenze.

L’Unità 17.07.12

"Povertà colpisce 11,1% delle famiglie", di repubblica.it

Dati sostanzialmente stabili rispetto al 2010, ma peggiora la condizione tra le famiglie di operai. Al Sud povera una famiglia su quattro. Nel 2011 l’11,1% delle famiglie è relativamente povero (per un totale di 8.173mila persone) e il 5,2% lo è in termini assoluti (3.415 mila). La soglia di povertà relativa, per una famiglia di due componenti, è pari a 1.011,03 euro. Lo rileva l’Istat nel rapporto sulla povertà in Italia. La sostanziale stabilità della povertà relativa rispetto all’anno precedente deriva dal peggioramento del fenomeno per le famiglie in cui non vi sono redditi da lavoro o vi sono operai, compensato dalla diminuzione della povertà tra le famiglie di dirigenti/impiegati.

Segnali di peggioramento si osservano, tuttavia, tra le famiglie senza occupati né ritirati dal lavoro, famiglie cioè senza alcun reddito proveniente da attività lavorative presenti o pregresse, per le quali l’incidenza della povertà, pari al 40,2% nel 2010, sale al 50,7% nel 2011. I tre quarti di queste famiglie risiedono nel Mezzogiorno, dove la relativa incidenza passa dal 44,7% al 60,7%. Un aumento della povertà si osserva anche per le famiglie con tutti i componenti ritirati dal lavoro (dall’8,3% al 9,6%), che, in oltre il 90% per cento dei casi, sono anziani soli e coppie di anziani; un leggero miglioramento, tra le famiglie in cui vi sono esclusivamente redditi da pensione, si osserva solo laddove la pensione percepita riesce ancora a sostenere il peso economico dei componenti che non lavorano, tanto da non indurli a cercare lavoro (dal 17,1% al 13,5%).

Una dinamica negativa si osserva anche tra le famiglie con un figlio minore, in particolare coppie con un figlio (a seguito della diminuzione di quelle in cui entrambi i coniugi sono occupati e dell’aumento di quelle con uno solo e con nessun occupato), dove l’incidenza di povertà relativa dall’11,6% sale al 13,5%; la dinamica è particolarmente evidente nel Centro, dove l’incidenza tra le coppie con un figlio passa dal 4,6% al 7,3%.

A Sud povera una famiglia su quattro . Quasi una famiglia su quattro pari al 23,3% risultata povera al Sud nel 2011. Tra queste l’8% è stata colpita da povertà assoluta vale a dire con un tenore di vita che non permette di conseguire uno standard di vita minimamente accettabile. L’istituto nazionale di statistica evidenzia inoltre come a fronte della stabilità della povertà relativa al Nord e al Centro, nel Mezzogiorno si osserva un aumento dell’intensità della povertà relativa: dal 21,5% al 22,3%. In questa ripartizione la spesa media equivalente delle famiglie povere si attesta a 785,94 euro (contro gli 827,43 e 808,72 euro del Nord e del Centro. Ad eccezione dell’Abruzzo, dove il valore dell’incidenza di povertà non è statisticamente diverso dalla media nazionale, in tutte le altre regioni del Mezzogiorno la povertà è più diffusa rispetto al resto del Paese. Le situazioni più gravi si osservano tra le famiglie residenti in Sicilia (27,3%) e Calabria (26,2%), dove sono povere oltre un quarto delle famiglie.

Rischio povertà per il 7,6% delle famiglie . Il 7,6% delle famiglie italiane è a rischio povertà. Una spesa imprevista potrebbe portarle a diventare povere. Anche tra le famiglie non povere – spiega l’Istat – esistono gruppi a rischio di povertà; si tratta delle famiglie con spesa per consumi equivalente superiore, ma molto prossima, alla linea di povertà: il 3,7% delle famiglie residenti presenta valori di spesa superiori alla linea di povertà di non oltre il 10%, quota che sale al 6,5% nel Mezzogiorno. Le famiglie ‘sicuramente’ non povere, infine, sono l’81,4% del totale, con valori pari al 90,5% del Nord, all’87,5% del Centro e al 63,8% del Mezzogiorno.

Esaminando i gruppi di famiglie sotto la soglia di povertà standard, risultano ‘sicuramente’ povere, cioè quelle che hanno livelli di spesa mensile equivalente inferiori alla linea standard di oltre il 20%, circa 1 milione 272mila famiglie, il 5,1% del totale delle famiglie residenti. Il 6% delle famiglie residenti in Italia risulta ‘appena’ povero (ha una spesa inferiore alla linea di non oltre il 20%) e tra queste più della metà (cioè il 3,3% del totale delle famiglie) presenta livelli di spesa per consumi molto prossimi alla linea di povertà (inferiori di non oltre il 10%).

La Repubblica 17.07.12

"Chi insulta la dignità femminile insulta il Paese", di Valeria Fedeli

L’insulto violento e la volgarità sessista sono qualcosa di intimo, connaturato allo sguardo verso il mondo. Sono un modo di relazionarsi con il prossimo e di vivere i rapporti con la propria comunità. Con la battuta su Rosy Bindi, Beppe Grillo ci ha fornito così un ulteriore disvelamento del suo vero animo: un animo becero, indecente, irrispettoso, capace di qualsiasi parola (e chissà, qualora avesse il potere, di quali atti) pur di fare notizia. Forse preoccupato dall’annuncio del ritorno in campo di Berlusconi, Grillo ha pensato bene di occupare subito lo spazio del populismo più volgare, quasi a rendere quel ritorno inutile. D’altra parte finora, nel panorama politico italiano degli ultimi vent’anni, Berlusconi era stato il protagonista assoluto di un linguaggio sboccato, di comportamenti sessisti, di atteggiamenti insultanti per tutte le donne. Da oggi è in buona compagnia. Da oggi Grillo farà decisamente più fatica a presentarsi come paladino delle libertà, di un Paese più equo, di una tensione che rompe e ribalta le gerarchie di potere. Il bene dell’Italia, nuove regole democratiche e rispettose di tutti, un confronto civile ed educato anche quando diventa aspro, il merito delle posizioni e non i tratti personali come oggetto del dibattere: quelli che a tutti i sinceri democratici appaiono come principi basilari di chi vuole rappresentare gli altri e giocare un ruolo positivo nel dibattito pubblico sono valori estranei a Grillo. E non ci si nasconda ipocritamente dietro la difesa delle libertà delle coppie gay, che Grillo sembra usare solo strumentalmente per condurre un attacco che fa notizia, per continuare ad insultare il prossimo, cosa che gli riesce davvero bene. Sono favorevole al matrimonio tra coppie omosessuali e ad una sincera e positiva apertura della società italiana verso le libertà di ciascuno. E ho trovato non corrispondente al mio sentire la stessa gestione della presidenza durante l’assemblea nazionale del Pd. Ma discutere di merito e di opinioni differenti, non può mai essere un pretesto per offendere la persona. Ma quella di Grillo non è una battaglia di merito e sul merito. Il suo successo si fonda sulla rendita di un capopopolo che insulta, che non accetta il confronto democratico, che si presume portatore di verità infusa (le stesse cose che hanno caratterizzato la lunga egemonia berlusconiana sul Paese): Grillo non attacca la Bindi per sostenere i gay, ma usa i gay per attaccare la Bindi. E non si dica che si tratta solo di una dichiarazione sfuggita al politicamente corretto. Non è una correttezza solo formale quella che ci si aspetta dai protagonisti del dibattito pubblico, che possono anche concedersi sfumature di linguaggio ironiche provocatorie. Ma nessun insulto può essere giustificato. Gli insulti, l’attacco alla sfera intima, lo scherno dei difetti fisici, non devono trovare alcun posto in un confronto che vogliamo democratico, civile, fondato sul rispetto. Insomma Grillo può alzare il dito medio contro la casta, per quanto qualcuno può trovarlo sgradevole, ma non può insultare una persona per le proprie scelte di vita. Chi sceglie questa strada si mette da solo fuori dal contesto democratico. Chi insulta le donne e non ha rispetto delle persone sceglie di stare sulla scia del peggiore berlusconismo, con una concezione antiquata della cultura di genere, con le scelte di libertà e autonomia personale, con un sessismo che ha fatto male al Paese negli ultimi vent’anni e che dobbiamo e vogliamo superare. Occorre quindi stigmatizzare, indignarsi, protestare, contrastare. Le donne l’hanno fatto con il 13 febbraio del 2011 e successivamente ogni giorno. Le donne italiane sono pronte e in campo per contrastare sempre chi le offende. Chiunque lo faccia. Vale anche per Grillo e per chiunque altro mostrerà di non rispettare le donne. Perché, come in tante abbiamo detto, la dignità delle donne è la dignità del Paese.

L’Unità 17.07.12

"Scrutini, bocciare non serve", di Alessandra Ricciardi

La classe come comunità resta. Ma può essere superata durante l’anno attraverso percorsi trasversali, finalizzati ad aiutare i ragazzi in difficoltà e anche quelli che hanno invece livelli di apprendimento più alti. La ricetta, già in uso presso alcuni istituti, «dovrebbe essere portata a sistema, per mettere a frutto le competenze e le potenzialità di tutti», dice Elena Ugolini, sottosegretario all’istruzione. E per evitare di dover bocciare, «perché bocciare molto spesso non serve». A pochi giorni dalla rilevazione sugli scrutini di fine anno, la Ugolini ammette che l’aumento percentuale del numero dei promossi, dello 0,4% alle medie e dell1,2% alle superiori, non è statisticamente rilevante.

Domanda. Aumentano i promossi. C’è chi parla di una scuola tornata ad essere più lassista.

Risposta. Non possiamo mettere in dubbio che gli scrutini siano veritieri, significherebbe dire che i docenti hanno smesso di essere tali. E poi le percentuali di aumento non sono statisticamente rilevanti, è un aumento minimo che non segnala un cambiamento di tendenza significativo.

R. Eppure, lo stato risparmia centinaia di milioni…

D. Non credo che i docenti nel decidere se promuovere o no abbiano in mente che così lo stato risparmia. Molti ragazzi piuttosto devono recuperare dei debiti, e stanno seguendo i corsi attivati dalle scuole.

D. Ma bocciare serve?

R. É dimostrato che non serve a nulla, lo testimoniano le ricerche dell’Invalsi condotte dal 2008 in poi, se con cambia l’offerta della scuola e di conseguenza l’interesse del ragazzo: lo stesso anno, ripetuto uguale a se stesso, non dà nulla in più, è l’anticamera dei neet, i ragazzi che non studiano più e non lavorano. É utile invece se non si ripetono gli stessi errori, da parte degli alunni, ma anche di genitori e insegnanti .

D. Spaventa il gap che esiste tra medie e superiori. Che succede?

R. Alle superiori vengono fuori i problemi accumulati nel primo ciclo. E c’è un approccio dei prof che a volte disorienta i ragazzi. Noi stiamo rivendendo le indicazioni del primo ciclo, e lo scopo è proprio quello di individuare i traguardi essenziali che occorre raggiungere alla fine della scuola primaria e secondaria di primo grado. E intendiamo poi rafforzare la formazione dei docenti, perché sappiano intercettare i bisogni dei ragazzi sulle discipline fondamentali.

D. Tutti parlano dell’importanza della formazione in servizio, salvo poi ridurre i fondi.

R. Le risorse ci sono, non vanno disperse. Dobbiamo utilizzarle in modo preciso, per priorità.

D. Le bocciature colpiscono soprattutto i primi due anni delle superiori, e questo è un trend consolidato.

R. É necessario agire con prontezza, individuando già nel primo mese le difficoltà e i bisogni dei ragazzi. E poi ragionare attraverso moduli flessibili di insegnamento.

D. Che significa, abbandonare la classe?

R. No la tradizione del gruppo-classe come gruppo comunità va mantenuta, aiuta a crescere grazie alla ricchezza delle differenze. Ma si possono avere interventi personalizzati trasversali, attraverso lo strumento della flessibilità e dell’autonomia didattica, che già oggi molti utilizzano. Va portato a sistema. Così da creare all’interno di più classi gruppi differenziati per livello di apprendimento. Un po’ come avviene nei corsi di lingue E lo si può fare utilizzando gli stessi docenti su livelli diversi, incrociando così le classi.

D. I livelli di bocciatura più alti sono registrati nei tecnici e nei professionali. Restano una formazione di serie B?

R. Sono fondamentali per la ripresa economica, ma vanno rimessi in sesto. Stiamo lavorando a nuove linee guida che rendano omogenei i livelli della formazione sul territorio attraverso la sinergia tra imprese, scuola e università.

D. Le linee guida non sono ancora passate al vaglio della conferenza stato-regioni. Ce la farete per il prossimo anno?

R. Spero che vadano in conferenza per agosto, ma comunque noi già ci muoviamo in piccolo. Siamo riusciti per esempio a trovare, attraverso la camera di commercio, le attrezzature necessarie per il laboratorio di moda dell’istituto Falcone-Borsellino di Brindisi. Certo, il tempo è quello che è.

da ItaliaOggi 17.07.12