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"La pagella delle Università ecco le migliori in Italia", di Caterina Pasolini

Ognuno ha la sua università ideale, quella dei sogni e delle aspettative. Poi ci sono i fatti: produttività, didattica, ricerca, borse di studio, rapporti con l’estero, strutture. Nella classifica degli atenei stilata dal Censis, e rielaborata nella Grande Guida Università di Repubblica, prima tra quelli sopra i 40mila iscritti, non per i fasti antichi ma soltanto per meriti attuali, è sicuramente l’Università di Bologna con un punteggio di 91,5 su 100 di media, seguita da Padova (87,5) e Firenze (85,2). Pavia, Siena, Camerino e il Politecnico di Torino sono in testa nelle altre categorie. Statistiche che confermano ancora una volta la storia che le è valsa la definizione di “Bologna la dotta”, mentre a dimostrare che l’eccellenza nel nostro Paese è diffusa sul territorio e si trova anche nelle città più piccole, la ricerca del Censis assegna a Siena il voto più alto in assoluto: 103,1 punti di media.
Tutto questo lo racconta la XIII edizione della Grande Guida Università Repubblica/Censis, con le classifiche per Ateneo e per Facoltà delle Università statali e non statali, che sarà in vendita in edicola da giovedì 19 luglio.
Un volume denso di informazioni concrete e circostanziate per i neo maturi in cerca di un futuro possibile e di un lavoro, una mappa per inoltrarsi nel mondo universitario senza perdersi, capendo quali sono atout e debolezze di ogni facoltà.
Per seguire meglio il filo degli interessi e delle proprie capacità, delle possibili trasferte e dei vantaggi economici, ecco nel volume
l’elenco delle migliori facoltà. Da Agraria (Bologna) a Medicina (Padova), da Lettere (Udine) o Economia (Padova). Indicando in quale città abitare per studiare al meglio Ingegneria (Milano, Politecnico), Scienze della formazione (Udine), e Farmacia (Pavia).
Atenei classici sparsi nelle oltre seicento pagine cariche di analisi, punteggi, rilevazioni, ma anche indirizzi su dove formarsi online, dove è più facile ottenere una borsa di studio e quali sono le lauree che daranno più lavoro secondo gli esperti e il paniere della spesa per ogni città universitaria Una fotografia con punteggi dei migliori atenei in versione podio, come se fossero le premiazioni delle Olimpiadi dello studio e dell’insegnamento. Così gli aspiranti emuli di Giò Ponti per l’architettura sarà bene che vadano a Ferrara che merita la medaglia d’oro con 108 punti su 110 per la didattica o in seconda battuta a Sassari, o Venezia. I futuri salvatori dell’economia hanno ancora una volta Padova come faro (109 in produttività e 110 per i rapporti internazionali,) Trento che quest’anno ha spodestato Pavia, o Siena, bronzo meritatissimo.
Sempre alla città di Sant’Antonio dovranno puntare gli studenti di Medicina e Chirurgia (107 punti per la didattica), mentre medaglia d’argento va a Perugia che ha spodestato la Milano Bicocca, e al terzo posto Udine.
Per i futuri principi del foro come l’anno scorso resta confermata Giurisprudenza a Siena (110 punti per l’attenzione alla ricerca), pari merito con Trento, bronzo a Bologna. Scienze Politiche ha la sua roccaforte quest’anno nella Dotta, che ha cacciato al terzo posto Trieste, mentre Siena si tiene la medaglia d’argento. Lettere vedono al primo posto Udine, (107 per la didattica), l’università di Modena e Reggio Emilia e Pavia che hanno rispettivamente spodestato Siena e Padova.
Chi vuole studiare Agraria al meglio, può scegliere tra Bologna (100 punti per la didattica ben 110 per la ricerca) Perugia o l’università di Modena e Reggio Emilia che hanno mantenuto le posizioni conquistate nel 2011. Per Farmacia poi, non si discute, la migliore è Pavia (110 in produttività e 107 in didattica), seconda Trieste, bronzo Padova, che ha fatto scendere dal medagliere Bologna. Gli ingegneri, si sa, hanno come luogo del cuore il Politecnico di Milano, indiscutibilmente al primo posto con ben 110 punti per borse e ricerca, seguito da quello di Torino e infine dall’università di Genova che con le nuove votazioni ha preso il posto a Pavia.
Per gli amanti del mondo, per chi si cimenta con le Lingue straniere, resta come meta obbligata della facoltà di Lettere e lingue l’università degli studi di Udine, seguita da Ca Foscari a Venezia e da Salerno. Sempre in Emilia dovranno andare i futuri psicologi, a Bologna che ha un 110 in produttività e ottimi rapporti con università straniere, oppure a Trento o Torino.
Per Scienze politiche ritorna ancora Bologna, Siena e in ultimo Trieste. Mentre Trento resta da decenni la migliore università per sociologia (il massimo dei voti in produttività e rapporti internazionali, 110, 109 in didattica), seguita dalla Milano Biccocca e da Urbino.
Così dicono gli esperti che hanno raccolto i dati per la guida, che seguono da anni il mondo della scuola mentre sette ministri sono passati a gestire l’educazione in questo paesi tra piccole e grandi riforme.
Classifiche, podi, medaglie, tenendo conto però che in molte facoltà, a causa della riforma Gelmini che ha deciso molti accorpamenti, sono arrivati o arriveranno i dipartimenti a cambiare le carte in tavola. E forse anche le future
classifiche.

La Repubblica 18.07.12

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“Nuovi dipartimenti governance difficile e un futuro incerto”, di ROBERTO CIAMPICACIGLI * AURELIO MAGISTÀ

Avete mai provato a prendere un colibrì, minuscolo volatile famoso per i suoi imprevedibili cambi di velocità e di direzione? Esaminare con accuratezza l’università italiana presenta più o meno le stesse difficoltà. Da ormai quattordici anni, con la Grande Guida, seguiamo i cambiamenti del mondo accademico e ogni volta diventa più difficile. Governo dopo governo, il virus della riforma ha contagiato tutti e sette i ministri passati sulla poltrona del Miur.
Quest’anno le conseguenze più importanti della rivoluzione permanente investono la governance degli atenei con la soppressione delle facoltà. Al loro posto stanno nascendo degli enti nuovi e potenti, che decideranno in merito alla didattica e alla ricerca. La nascita di questi enti, si chiamino dipartimenti, scuole, facoltà riformate (la legge di riforma 240/10, al comma 2 dell’articolo 2, lascia una certa autonomia alle università) è un percorso accidentato dallo stratificarsi di norme e interpretazioni che aggiungerà altra burocrazia a quella già esistente.
Un ulteriore segno di confusione e disagio, quest’anno, lo abbiamo verificato raccogliendo direttamente le informazioni università per università. Spesso, chiedendo a che punto era la soppressione delle facoltà e come si configurava la nuova situazione, la risposta era un’altra domanda, sintomatica di un certo disorientamento: «Ma gli altri che cosa stanno facendo?».
Ma non sarà che questo rincorrersi di norme abbia alla fine prodotto cambiamenti tali che nulla è cambiato? E che forse sarebbe banalmente necessario ripensare a tre linee guida semplici: lezioni, ricerca e servizi. Tre parole chiave sulle quali tornare a riflettere e investire risorse. L’università forse ha solo bisogno di una pausa per resettarsi e tornare ai valori fondamentali, recuperando tempi e stimoli che pure fanno parte del bagaglio e del patrimonio detenuto da molti atenei, da molti dipartimenti, da molti docenti.
Invece, i cambiamenti continuano a complicare il funzionamento e la missione universitaria stessa. E rendono più accidentato il lavoro di valutazione della
Grande Guida, i cui principali risultati sono pubblicati in queste pagine: la transizione del nuovo modello di governance rende sempre più complesso il compimento della ricerca di «omogeneità» (misurare unità confrontabili) condizione necessaria per ogni valutazione e per la costruzione di ogni ranking. Sarà necessario — il prossimo anno — rintracciare gli elementi di confronto all’interno dei dipartimenti e questo richiederà uno sforzo ben superiore a quello profuso in questi anni, basato sulle facoltà. Anche se il prezzo più alto rischiano di pagarlo i ragazzi che devono iscriversi al primo anno: arrivare all’università nel bel mezzo di una transizione aumenta molto il rischio di una scelta disorientata.
*Direttore del Censis Servizi

La Repubblica 18.07.12

"Ammortizzatori e flessibilità. Corretta la riforma Fornero", di Massimo Franchi

C’è anche una norma per evitare il ripetersi della «vergogna» esodati all’interno delle modifiche alla riforma del lavoro approvate ieri. L’emendamento al decreto sviluppo votato dalle commissione Finanze e Attività produttive della Camera istituisce «l’archivio dei contratti e degli accordi collettivi di gestione di crisi aziendali». In questo modo sarà sempre possibile tenere sotto controllo i numeri dei futuri «esodati». Il testo nel suo complesso ha subito una riformulazione dopo la trattativa tra partiti che sostengono al maggioranza e il governo. Prevede dieci punti di modifica della riforma Fornero che entra in vigore domani. Molte nelle novità fanno parte delle richieste contenute nell’avviso comune sottoscritto da sindacati e Confindustria. Le principali riguardano la proroga al 31 dicembre 2014 della mobilità secondo le regole attuali. Sul fronte della flessibilità in entrata vengono ridotti gli intervalli tra un contratto e l’altro a tempo determinato, nel caso dei lavori stagionali. La definizione delle pause di lavoro sono demandate alla contrattazione. L’emendamento poi spalma su due anni (anziché uno, come previsto nella riforma) due criteri che servono a individuare le fase partite Iva, cioè la collaborazione con lo stesso committente per più di 8 mesi e l’importo del reddito fino a 18 mila euro. Altra novità per le partite Iva e gli iscritti alla gestione separata dell’Inps è il blocco dell’aumento delle aliquote pensionistiche che nel 2013 restano al 27%. Per compensare le mancate entrata derivanti dal blocco viene accelerato l’aumento delle aliquote dei pensionati che hanno collaborazioni (l’aumento al 24% previsto nel 2018 viene anticipato al 2016). Altre modifiche: le aziende in crisi con prospettiva di ripresa potranno utilizzare la cassa integrazione straordinaria fino al 2015, si agevola il trasferimento dei rami d’azienda per quelle in crisi e si stabilisce che i contratti a termine fino a 6 mesi non siano inclusi nel conteggio del numero dei dipendenti. Nel solo 2013 sarà poi possibile per i «percettori di prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito» integrare il reddito fino a 3 mila euro. Il confronto tra Ministero del Lavoro e parti sociali per una «ricognizione delle prospettive economiche e occupazionali» al fine di «verificare la corrispondenza a tali prospettive della disciplina transitoria e proporre eventuali conseguenti iniziative» infine è previsto entro il 31 ottobre 2014. «La battaglia condotta dal Pd commenta soddisfatto Cesare Damiano, regista dell’emendamento ha conseguito un importante risultato dando attuazione all’impegno del presidente Monti. La scelta di prolungare la mobilità a tutto il 2014 aggiunge mette al sicuro i lavoratori e le imprese di fronte al protrarsi della crisi. Abbiamo concluso positivamente l’intervento di correzione del mercato del lavoro e possiamo dedicarci nella spending review ai cosiddetti esodati. Sono previsti solo 55mila nuovi salvaguardati, un numero insufficiente a risolvere il problema», conclude. «Sono modifiche che recepiscono le indicazioni delle parti ma che non cambiano il giudizio negativo sull’impianto di una riforma che va ridiscussa e modificata commenta Serena Sorrentino, segretario confederale Cgil tre toppe non fanno l’abito nuovo». Più positivi i commenti dagli altri sindacati. «Le modifiche vanno nella giusta direzione e ne miglioreranno l’efficacia: la proroga della mobilità e la clausola di salvaguardia per una verifica dei nuovi ammortizzatori sono importanti», spiega il segretario generale aggiunto della Cisl, Giorgio Santini. «La celerità con la quale il governo ha accettato le integrazioni proposte unitariamente dimostra che il confronto tra le parti sociali è l’unico metodo per trovare le soluzioni necessarie per accompagnare il Paese fuori dalla crisi», afferma il segretario confederale della Uil Gugliemo Loy. «Quando parti sociali, Parlamento e governo si confrontano è possibile raggiungere soluzioni utili per il Paese afferma il segretario confederale dell’Ugl Paolo Varesi ma la partita per uscire dall’emergenza è ancora molto lunga».

l’Unità 18.07.12

"Il triste sequel del Cavaliere", di Barbara Spinelli

Nessuno, tra i politici italiani, e in particolare tra quanti sostengono Monti, sembra propenso a pensare che il declassamento notificato venerdì da Moody’s sia in connessione con l’annuncio di un ritorno di Berlusconi alla guida dell’Italia.
Ritorno confermato da Alfano due giorni prima, ma da tempo evocato, invocato, dai fan dell’ex premier sui siti web. C’è stata invece un’unanime insurrezione, molto patriottica e risentita, e l’inaffidabilità delle agenzie di rating (Moody’s, Standard & Poor’s) è stata non senza valide ragioni denunciata: le stesse agenzie che sono all’origine della crisi scoppiata in America nel 2007, continuano infatti a dettar legge, fidando nell’oblio di cittadini, governi, istituzioni internazionali. Ciononostante, quel che veramente conta resta nell’ombra: non in Italia, ma ovunque in Europa, il verdetto di Moody’s (che pure non nomina il fondatore di Forza Italia) viene d’istinto associato all’infida maggioranza di Monti, e più specialmente alla decisione di Berlusconi di tentare per la sesta volta la scalata del potere: per ridiventare premier o salire al Quirinale, ancora non è chiaro. Monti sarebbe insomma un interludio, non l’inizio di una rifondazione della Repubblica.
È quanto dicono le radio francesi, gli editoriali sulla che senza infingimenti adombra la possibilità di una ricomparsa in Italia del Der Pate, Teil IV,
il Padrino parte IV: il nomignolo, si aggiunge, è da anni diffuso in Europa. Accade spesso che lo sguardo esterno dica verità sgradevoli a Paesi che da soli non osano guardarsi allo specchio: è successo nell’Italia postmussoliniana come nella Francia dopo il fascismo di Pétain. La Sueddeutsche chiede che l’Europa lanci «un segnale chiaro: con Berlusconi il Paese si riavvicinerà al baratro», e non a causa dei festini a Arcore. Il commentatore Stefan Ulrich non sarà probabilmente ascoltato, perché purtroppo così stanno le cose nell’Europa della moneta unica: paradossalmente i governi autoritari godono di margini più ampi di libertà, da quando le loro economie sono tutelate da Bruxelles.
I parametri finanziari vengono prima della democrazia. L’Unione s’allarma assai più del bilancio greco che dello Stato di diritto calpestato in Ungheria, Romania o Italia, ottusamente trascurando i costi immensi della non-democrazia, della corruzione, dell’impunità, della consegna alle mafie di territori e attività economiche. Resta lo sguardo severo, molto più del nostro, che da fuori cade su di noi. Si pensi al candore con cui l’economista Nouriel Roubini dice, a Eugenio Occorsio su la Repubblica del 15 luglio: «Sicuramente Monti ha molto credito presso la Merkel, infinitamente più del suo predecessore che si faceva notare solo per la buffoneria e i comportamenti personali diciamo eccentrici. Guardate che i mercati stanno cominciando a considerare con terrore l’ipotesi di un ritorno di Berlusconi al potere. Sarebbe un incubo per l’Italia, per il suo spread e per il suo rating. So per certo che la Merkel non vorrebbe neanche guardarlo in faccia».
C’è dunque qualcosa di malsano nella rabbia suscitata in Italia da Moody’s, quali che siano gli intrallazzi dell’agenzia. C’è una sorta di narcotizzata coscienza di sé. Una nube d’oblio ci avvolge, coprendo pericoli che altri vedono ma noi no: il rientro di Berlusconi è considerato dagli italiani o normale, o un incidente di percorso. Significa che da quell’esperienza non siamo usciti. Che questo governo, troppo concentrato sull’economia e troppo poco su democrazia e diritto, non incarna la rottura di continuità che pareva promettere. Non ne sono usciti i partiti, se l’unico aggettivo forte è quello di Pier Luigi Bersani: «agghiacciante». Che vuol dire agghiacciante? Nulla: è il commento di un passante che s’acciglia e va oltre. Più allarmante ancora l’intervista che Enrico Letta (vice di Bersani) ha dato al Corriere della Sera il 13 luglio, e non solo perché preferisce «che i voti vadano al Pdl piuttosto che disperdersi verso Grillo» (le accuse rivolte a Grillo possono esser rivolte a gran parte del Pdl e alla Lega).
La frase più sconcertante viene dopo: «Non vorrei che si tornasse alla logica dell’antiberlusconismo e delle ammucchiate contro il Cavaliere». Per la
verità, di ammucchiate antiberlusconiane se ne sono viste poche in 18 anni. Altro si è visto: la condiscendenza verso il Cavaliere, la rinuncia sistematica, quando governava la sinistra, a tagliare il nodo del conflitto d’interessi e delle leggi ad personam. Non solo: l’ascesa di Berlusconi fu permessa, favorita, nonostante esistessero leggi che avrebbero potuto allontanare dal potere un grande magnate dei mezzi di comunicazione. Fu Violante, il 28 Febbraio 2002 alla Camera, a rivelare i servizi fatti dai Ds a Berlusconi: «Per certo gli è stata data la garanzia piena, non adesso ma nel 1994, che non sarebbero state toccate le televisioni, questo lo sa lui e lo sa Gianni Letta. Comunque la questione è un’altra: voi ci avete accusato di regime, nonostante non avessimo fatto il conflitto d’interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni, avessimo aumentato di cinque volte durante il centrosinistra il fatturato di Mediaset». Morale (o meglio immorale) della storia: Berlusconi poté candidarsi nonostante un decreto (30 marzo 1957, n° 361) che dichiara ineleggibili i titolari di pubbliche concessioni.
Questo significa che il primordiale male italiano (l’assenza di anticorpi, che espellano da soli le cellule malate senza attendere i magistrati o la Corte costituzionale) resta non sanato. Che un esame del berlusconismo tuttora manca. Il conflitto di interessi è anzi diventato normale, da quando altri manager «scendono in campo». Montezemolo sarà forse candidato, e nessuno l’interroga sugli interessi in Ferrari, in Maserati, nel Corriere della Sera, nel Nuovo trasporto viaggiatori (Ntv). Il silenzio sul suo conflitto d’interessi banalizza una volta per tutte quello di Berlusconi. Non è antipolitica, la convinzione che i manager siano meglio dei politici?
Viene infine il governo. Un governo di competenti, che non sembrano attaccati alla poltrona. Una persona come Fabrizio Barca lavora senza pensare a carriere politiche. Dice addirittura che per fare riforme per la crescita servono «visioni del capitalismo che solo un mandato elettorale può attribuire», e solo un «governo nato da una competizione elettorale vera» può attuare ( la Repubblica,
15 luglio) Monti ha fatto molto per ridare credibilità all’Italia. Quando parla dell’Unione, è senza dubbio più preparato di Hollande e della Merkel. Ma a causa della maggioranza da cui dipende, molte cose le tralascia. Ha tentato di restituire indipendenza alla Rai, ma sulla giustizia i compromessi sono tanti: a cominciare dalla legge contro le intercettazioni che potrebbe passare que-st’estate, fino ai legami tuttora torbidi che conferiscono al clero un potere abnorme sulla politica.
L’ultimo episodio riguarda la Banca del Vaticano, lo Ior. Risale al 4 luglio l’ordine che il governo ha dato alle autorità antiriciclaggio della Banca d’Italia, invitate a dire quel che sapevano sui traffici illeciti dello Iot, affinché tenessero chiusa la bocca in una riunione degli ispettori di Moneyval, l’organismo antiriciclaggio del Consiglio d’Europa convocato a Strasburgo. Talmente chiusa che Giovanni Castaldi, capo dell’Unità di informazione finanziaria (Uif, organo di Bankitalia), ha ritirato i suoi due delegati dall’incontro.
Gli anticorpi restano inattivi, se certe abitudini persistono. Se il governo si piega a poteri non politici. Se lascia soli i magistrati che indagano sulla trattativa Stato-mafia. Se non garantisce che il vecchio non tornerà. Non solo il vecchio rappresentato dal debito pubblico. Anche il vecchio che per anni ha offeso lo Stato di diritto. Possibile che Il Padrino-Parte IV sia
un film horror per i giornali tedeschi, e non per gli italiani?

La Repubblica 18.07.12

"Così l'Europa spreca il cervello delle donne", di Birgitta Ohlsson*

Nell’Unione Europea il 60% degli studenti universitari è composto da donne. Tuttavia l’occupazione è inferiore tra le donne rispetto a quanto invece accade per gli uomini. Solo un dirigente di azienda su dieci è donna; solo il 24% dei parlamentari è costituito da donne. Nei Paesi più ricchi della terra il salario maschile è del 18% superiore a quello femminile, nonostante la forza lavoro femminile sia più qualificata di quella maschile. L’Europa spreca il cervello delle donne. È noto ormai il diffuso allarme contro la fuga dei cervelli che si sta verificando in Europa, il cosiddetto «brain drain». Ma direi che oggi ancor più grande e problematico è il «brain in vain», cioè il fenomeno per cui molte donne raggiungono un livello d’istruzione superiore senza che se ne sfruttino poi le competenze. Se l’Europa vorrà risolvere la scottante crisi del debito e la crescente competizione sul mercato mondiale, una maggiore parità è assolutamente necessaria.

Una risposta risolutiva dell’Europa alle sfide economiche e demografiche non può prescindere da un maggiore impiego delle donne sul mercato del lavoro. Nell’Unione Europea è attivo sul mercato del lavoro in media il 76% degli uomini, contro solo il 62% delle donne. I risultati di una ricerca condotta presso l’Università di Umeå mostrano che il Pil di tutti Paesi dell’Unione Europea messi insieme avrebbe un potenziale di crescita del 27% se le donne lavorassero nella stessa misura degli uomini.

Innanzitutto le donne devono essere parte del mercato del lavoro per se stesse. Il fine della parità è accrescere la libertà individuale. E in questi tempi di crisi sarebbe profondamente sbagliato prescindere dal fatto che le donne sono forse la più grande risorsa, ancora poco utilizzata, che l’Europa possiede.

L’ultimo «Global Gender Gap Report» del World Economic Forum (Wef) mostra una relazione palesemente positiva tra la parità tra i sessi, da un lato, e la competitività, dall’altro, accompagnata da crescita economica del Pil pro capite e sviluppo sociale. La diminuzione del divario tra i sessi è dunque legata a un’economia più forte, all’aumento del benessere e a migliori condizioni di vita. Misure per evitare il «brain in vain» sono state messe in atto dal Consiglio Europeo, ad esempio nel giugno 2010, quando, su iniziativa della Svezia, ha deciso che il numero degli occupati non doveva essere inferiore al 75% dell’occupazione sia per gli uomini che per le donne.

È inaccettabile che ancora nel 2012 molte donne siano costrette a scegliere tra famiglia e carriera. La Svezia ha fatto grandi progressi per quanto concerne la questione della parità, sebbene rimangano ancora molte sfide da affrontare. Per il bene dell’Europa il femminismo svedese dovrebbe essere esportato.

Qui in Svezia, abbiamo cinque proposte per incrementare e rafforzare la parità:

Maggiori possibilità di accedere all’assistenza per l’infanzia. Una buona assistenza per l’infanzia non deve rappresentare un privilegio, ma deve essere accessibile a tutti i genitori. Deve valer la pena lavorare, anche dopo la nascita di un figlio. Per questo l’assistenza all’infanzia deve essere sovvenzionata e deducibile.

Migliore assistenza agli anziani. Anche l’assistenza agli anziani deve essere incrementata. Oggi la responsabilità della cura dei genitori anziani grava spesso, senza sussidi economici, sulle figlie adulte. Non si deve aver bisogno di fare un figlio per garantirsi una vecchiaia sicura.

Un modello di assicurazione parentale più paritario. Un aspetto importante del modello paritario nordico di assicurazione parentale è la destinazione in parti uguali dell’assicurazione a entrambi i genitori, il che ha chiaramente favorito una più equa ripartizione delle responsabilità familiari. Una più equilibrata distribuzione di permessi per l’assistenza ai figli è una premessa alla diminuzione del divario tra uomini e donne sul mercato del lavoro.

Unificare l’età pensionabile per uomini e donne. Non è sostenibile differenziare l’età pensionabile per gli uomini e le donne, l’età di pensionamento nel pubblico impiego deve essere uguale per tutti.

Abolizione dell’imposizione congiunta. Molti Paesi europei presentano ancora un sistema di tassazione dove è la famiglia, e non l’individuo, a essere tassata. Ne consegue che per le donne lavorare è non remunerativo.

Incrementare la parità è prima di tutto una responsabilità nazionale. Ma l’Unione Europea deve operare attivamente al fine di ridurre il divario tra donne e uomini – se non altro perché il futuro benessere dell’Europa dipende in gran parte dall’arresto del fenomeno del «brain in vain».

La Commissione dell’Unione Europea annualmente conduce un’indagine tra gli Stati membri per rilevare quanto questi si adeguino alle indicazioni europee al fine di raggiungere gli scopi della «Strategia Europa 2012» nell’ambito di una crescita intelligente e sostenibile per tutti.

Ebbene, fra le raccomandazioni di quest’anno agli Stati membri, la Commissione ha compiuto passi avanti nella giusta direzione. A molti Stati dell’Unione si raccomanda di rafforzare e incrementare la parità tra i sessi attraverso, tra le altre cose, l’aumento dell’accessibilità all’assistenza ai bambini e agli anziani, l’unificazione dell’età pensionabile tra uomini e donne e l’abolizione dell’imposizione congiunta.

Oggi l’Europa è il continente più ricco del mondo. Se nel futuro vorrà essere il centro economico del mondo e non solo il più grande museo del mondo, dobbiamo lavorare molto di più per incrementare la parità. L’Europa non ha le possibilità economiche per permettersi le casalinghe più istruite e colte del mondo.

*Ministro svedese per l’Unione Europea e Young Global Leader of the World Economic Forum, 2012

La Stampa 18.07.12

“Dovremo fare altri sacrifici”, di Massimo Giannini

«Siamo dentro un percorso di guerra», sostiene Monti. E purtroppo non ha torto. L’Italia è un Paese “in trincea”. Fuori ci sono i falchi dell’Europa teutonica e finnica, e i mercati finanziari bombardano a colpi di spread. Dentro ci sono lacrime e sangue, che pesano su famiglie e imprese e sembrano non bastare mai. C’è una “exit strategy”, per tirarsi fuori da questo assedio permanente, interno e internazionale? Vittorio Grilli, neo-promosso ministro del Tesoro, qualche idea l’ha messa a fuoco. Il pranzo di ieri a Palazzo Chigi, insieme al presidente del Consiglio e al governatore della Banca d’Italia, serve a fare il punto. Più che una colazione di lavoro, un “gabinetto di guerra”, appunto, in vista delle prossime “battaglie”. L’Eurogruppo di venerdì prossimo, il vertice dei Capi di Stato e di governo del 25 luglio, e poi, soprattutto, il “generale agosto”, che dal crac Lehman in poi è sempre foriero di rovinosi disastri per l’economia globale.
Grilli arriva al tavolo con una convinzione. «Stiamo facendo tutto quello che possiamo e che dobbiamo, per fronteggiare l’emergenza. Non c’è un altro Paese, in Europa, che in otto mesi ha fatto manovre e riforme strutturali come quelle che abbiamo fatto noi. Dunque, il problema non è qui, ma è in Europa». La discussione tra il premier, il ministro e il governatore parte proprio da qui. L’Italia sta facendo «i compiti a casa, come e più degli altri». E se i mercati non ci credono, e se il differenziale tra i tassi di interesse dei nostri titoli di Stato e quelli dei titoli tedeschi continua a orbitare intorno a una pericolosa quota 480, questo dipende certamente dalla nostra «scarsa stabilità politica» e dalla «profonda incertezza intorno a quello che accadrà dopo il 2013», come lo stesso Monti ripete da tempo. Ma nell’analisi di Grilli, navigato frequentatore e coordinatore dei vertici di Bruxelles fin da prima di Tremonti a Via XX Settembre, l’attenzione si sposta soprattutto sulla percezione negativa che i mercati, ormai, hanno della moneta unica.
ELIMINARE LA PULCE
È quella che, al desco allestito nell’ufficio di Monti, i tre autorevoli commensali definiscono la «maledetta pulce» che, dallo sciagurato vertice di Deauville, si è infiltrata negli orecchi degli investitori internazionali: l’idea, cioè, che secondo le stesse cancellerie europee ad essere a rischio non sia questo o quel Paese, ma proprio l’euro in quanto tale. La sensazione che i governi, da allora, abbiano cominciato a prendere in considerazione l’ipotesi che la moneta unica si possa anche dissolvere. Questa è la “pulce” che da allora stuzzica gli appetiti degli speculatori, e tormenta i Paesi dell’Eurozona più deboli e dunque più esposti alla “dittatura dello spread”. Gli Stati, finora, non hanno fatto abbastanza per catturare e spazzare via la “pulce”. Anzi, Angela Merkel, per evidenti ragioni di campagna elettorale, ha fatto il contrario. «Così – è la considerazione condivisa al tavolo di Palazzo Chigi – l’euro stesso è diventata una currency risk».
L’Italia, per questo, paga «il prezzo più alto». Il conto che paghiamo alla roulette degli spread è salatissimo: quasi 90 miliardi all’anno di maggior onere sul debito pubblico. Monti è preoccupato, per questo. Ricorda bene che nel 1996-1998 Ciampi riuscì a tagliare il traguardo di Maastricht proprio grazie all’azzeramento del differenziale tra i rendimenti italiani e quelli tedeschi, e al relativo, enorme risparmio che questo comportò nella spesa per interessi. Grilli, su questo punto, appare un po’ meno preoccupato. «La struttura del nostro debito è profondamente mutata, oggi i tassi sui titoli a breve sono più bassi di quelli a lungo termine, e questo ne riduce il costo». E poi, come il ministro conferma al premier e al governatore, «finora non abbiamo avuto problemi di accesso ai mercati, le aste vanno bene e il deflusso degli investitori internazionali non è tale da destare allarmi». Su questo, Visco è invece più cauto. Già in occasione dell’assemblea annuale la Banca d’Italia aveva parlato di un deflusso complessivo di capitali dall’Italia pari a 274 miliardi. Ora, nel nuovo Bollettino, si parla di «circa 47 miliardi di disinvestimento nei primi quattro mesi, soprattutto dai titoli a medio-lungo termine».
LO SCUDO ANTI SPREAD
In queste condizioni, la pausa agostana diventa un’altra mina innescata. Con pochi scambi e tanta volatilità, basta un niente perché un debito sovrano salti per aria. Il premier non ci dorme la notte, Il ministro lo rassicura: «Certo, agosto è sempre un mese particolare, ma noi non dovremmo essere a rischio. Abbiamo solo un’asta dei Bot il 14, e sul breve non abbiamo mai avuto problemi…». Il grosso dei collocamenti arriverà in autunno: fino a fine 2012 il Tesoro dovrà piazzare
218 miliardi di euro. Ma per la ripresa l’auspicio di Monti, Grilli e Visco è che lo scenario europeo sia finalmente cambiato. «Quello che serve è una chiara e definitiva assunzione di responsabilità politica da parte dei governi dell’Eurozona, che devono manifestare con i fatti la volontà di considerare l’euro una conquista irreversibile, e dunque di accelerare l’integrazione, non solo fiscale, e di attivare tutti gli strumenti necessari a stabilizzare la moneta unica». Il governatore, in questa chiave, considera decisivo lo Scudo salva-spread, anche se aspetta di verificare quali passi concreti saranno compiuti, qui ed ora, per renderlo tecnicamente operativo.
Grilli concorda: «Dopo l’Eurogruppo della scorsa settimana è necessario mettere in condizioni i fondi Efsf e Esm di agire con risorse e regole precise ». L’impegno del governo, di qui ai prossimi due appuntamenti europei in agenda, è questo. Il messaggio che i governi, attraverso queste due istituzioni europee, devono far passare sui mercati è il seguente: «Noi siamo qui, con tutta la determinazione politica e la disponibilità finanziaria dell’Eurozona, pronti a difendere fino in fondo la moneta unica. Ora regolatevi voi…». Il “firewall”, se costruito così, funziona anche solo in virtù della sua deterrenza: «Basta sapere che il muro di fuoco c’è ed è pronto in ogni momento, per disarmare gli speculatori. E magari, a quel punto, a domare gli spread non serve nemmeno che i due fondi intervengano davvero a sostegno dei titoli di Stato». Questo è lo schema che Monti e Grilli condividono, e che Visco appoggia senza riserve.
NO ALLA TROJKA
Questo, per altro, è anche il motivo per cui, ancora una volta, il ministro del Tesoro ribadisce che «l’Italia non ha alcun bisogno di chiedere aiuti alle istituzioni sovranazionali». Le pressioni, anche in queste ore, continuano ad essere forti. Soprattutto dalla Germania, dall’Olanda e dalla Finlandia: si vuole che l’Italia chieda formalmente gli aiuti, per sottoporla alla “tutela” della Trojka che è già intervenuta in Grecia. «Ma a noi – come Grilli spiega ai suoi commensali – non servono fondi, né per 10 né per 100 miliardi. Quest’anno chiuderemo con un cospicuo avanzo primario, nel 2013 raggiungeremo l’obiettivo del pareggio di bilancio “strutturale”. La qualità e la quantità del nostro risanamento non è in discussione, ed è persino migliore di quello di altri Paesi. Per questo non abbiamo bisogno di “tutele” né di risorse dirette, ma solo di meccanismi che riportino lo spread a livelli congrui rispetto ai fondamentali, che ci consentano di portare avanti il fisiologico roll-over del nostro debito e di completare il cammino delle riforme».
La Germania, preda di una sua sottile “linea d’ombra” che la rende oscura al resto d’Europa, continua a esitare. Di questo Monti è consapevole, e nelle prossime settimane continuerà a sua volta la “moral suasion” sulla Merkel. Grilli farà lo stesso, cercando di far capire al suo omologo Schaeuble la seguente verità: non è affatto scontato che se un Paese come l’Italia esce dalla morsa dello spread, e smette di sentire la pressione dei mercati e della Ue, molla il rigore e cede immediatamente al solito “lassismo finanziario” da Club Med. Questo, l’Italia di Monti e di Grilli non lo farà comunque. L’unica, amara certezza che esce dal “gabinetto di guerra” è che «i sacrifici continueranno». La via maestra per curare il paziente senza ucciderlo è la “spending review”. Su questo Grilli vuole andare fino in fondo, per ricavare anche più di quanto è già stato preventivato quest’anno.
Per l’anno prossimo ha già detto che «servono almeno 6 miliardi ». Le tasse, purtroppo, non possono calare, Ma l’obiettivo «irrinunciabile» è scongiurare anche per l’intero 2013 l’aumento delle aliquote Iva. Non è molto, ma è già qualcosa. Anche sul piano politico. Come avverte Piero Giarda da giorni, «a giugno del prossimo anno non possiamo lasciare la stangata in eredità al nuovo governo appena uscito dalle urne».
Dal pranzo di Palazzo Chigi resta vuoto il piatto della crescita. E su questo insiste soprattutto il governatore: «Come possiamo reggere fino alla possibile “ripresina” di fine 2013, con un Pil che crolla del 2% e una disoccupazione che sale oltre l’11%?». Se l’orizzonte si sposta da Eurolandia all’Italia, purtroppo, a questa domanda non c’è ancora risposta. Magari qualcosa verrà fuori da Corrado Passera, nella prossima riunione del Comitato per il coordinamento della politica economica istituito da Monti. Ma dopo tanti annunci, nessuno si fa troppe
illusioni.

La Repubblica 18.07.12

"Sono gli operai i nuovi poveri", di Chiara Saraceno

Non è solo la “solita” fotografia della povertà quella che emerge dagli ultimi dati. C’è un allarme ulteriore accanto al dato noto, e sconfortante, della persistenza, ed accentuazione, del divario tra Centro-Nord e Mezzogiorno Oltre alla maggiore vulnerabilità delle famiglie numerose, e di quelle in cui tutte le persone in età da lavoro sono inoccupate, vi sono segnali di preoccupazione ulteriore come conseguenza del modo selettivo con cui sta colpendo la crisi occupazionale.
Il primo è l’aumento della povertà tra le famiglie con persona di riferimento operaia o comunque a bassa qualifica. Anche quando il lavoro non è stato perso, la riduzione della possibilità di aumentare il reddito facendo straordinari, o la cassa integrazione più o meno temporanea, hanno colpito duramente il reddito degli operai, già dall’inflazione, riducendone la capacità di far fronte ai bisogni di tutta la famiglia. Allo stesso tempo, come segnalano anche i dati sul mercato del lavoro, è diminuito, per lo più in queste stesse famiglie, il numero di percettori di reddito. Molte mogli-madri hanno perso il lavoro o sono costrette involontariamente al lavoro a tempo parziale. E i giovani figli e figlie spesso non riescono neppure ad avere una occupazione. Non ci si può sorprendere che una quota di queste famiglie non ce la faccia più a galleggiare al di sopra della linea di povertà relativa e che qualcuna precipiti anche nella povertà assoluta. La percentuale di famiglie in cui un solo reddito da lavoro deve sostenere (anche) il peso di almeno una persona in cerca di lavoro è infatti raddoppiata dal 2007 al 2011, passando dal 5,5% all’11,5%.
La diminuzione del numero di percettori di reddito in famiglia, in particolare delle moglimadri occupate, spiega anche il secondo fenomeno allarmante: l’aumento delle famiglie in cui la presenza di anche un solo figlio minore fa cadere in povertà. Questo aumento è stato particolarmente vistoso – quasi tre punti percentuali in un solo anno, tra il 2010 e il 2011 – nelle regioni del Centro, anche se in queste stesse regioni rimane ancora al di sotto della media nazionale. La disoccupazione, o inattività più o meno forzata, delle madri causata dalla crisi occupazionale, unita alle crescenti difficoltà che le madri lavoratrici incontrano nel conciliare famiglia e lavoro a causa della riduzione e aumento dei costi di servizi già insufficienti, sta minando alle basi la principale protezione dalla povertà dei bambini, specie nelle famiglie a reddito modesto: appunto, l’occupazione e il reddito da lavoro delle madri.
Di conseguenza, terzo fenomeno allarmante, la povertà minorile, che da anni aveva raggiunto percentuali problematiche, anche se non sufficientemente messe a fuoco nell’agenda politica, è destinata ad aumentare ancora, con conseguenze negative di lungo periodo innanzitutto per i minori coinvolti, ma anche per la società nel suo complesso. Il rischio è infatti di disperdere il capitale umano di una grossa fetta, circa un quarto, delle nuove generazioni, già molto ridotte demograficamente. È tra questi minori poveri, specie tra le ragazze, che si concentrano o si concentreranno in futuro i poveri.

La Repubblica 18.07.12

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«LA FAMIGLIA COME WELFARE ALTERNATIVO NON REGGE PIÙ», di Chiara Saraceno

La famiglia, grande ammortizzatore sociale nel nostro Paese, non ce la fa più a reggere il peso, i redditi modesti diventano sempre più vulnerabili, e a vederla in prospettiva la situazione non sta affatto migliorando».

Però l’Istat parla di una sostanziale stabilità della povertà relativa. «I problemi di fondo restano gli stessi, ma stavolta ci sono alcuni segnali ancora più preoccupanti». La sociologa Chiara Saraceno analizza il rapporto Istat 2011 sulla povertà in Italia: 8 milioni di persone povere, tre quarti delle quali risiedono al Sud, mentre il 7,6% delle famiglie vive appena sopra la soglia critica, col rischio di scivolare per una qualsiasi spesa imprevista.

Quali sono i segnali più preoccupanti? «Il fatto che la povertà sia in aumento anche tra le famiglie con uno o due figli, quindi non solo tra quelle più numerose. E soprattutto che sia peggiorata la situazione delle famiglie in cui il reddito di riferimento peggio ancora, l’unico è operaio. Gli operai, insomma, sono sempre meno in grado di far fronte ai costi familiari: per colpa dell’inflazione e dell’effettiva riduzione del reddito, che deve spesso fare i conti con la cassa integrazione e con l’impossibilità di integrare con gli straordinari. In più, moglie e figli nel mercato del lavoro non riescono proprio ad entrarci, il che significa che non c’è più compensazione, né integrazione, come invece accadeva più diffusamente fino ad un paio di anni fa. Adesso anche il principale percettore di reddito arranca. Fanno più fatica in generale i lavoratori dipendenti, inclusa una buona quota di autonomi».

Le famiglie a reddito modesto, insomma,non ce la fanno più: o sono già povere, o rischiano di diventarlo. «Di sicuro, non possiamo continuare a pensare che “tanto ci pensa la famiglia”, che il reddito scarso o intermittente dei giovani venga integrato con quello degli adulti. Di converso, chi ha migliorato in termini relativi la propria situazione sono i pensionati: non che si siano arricchiti, ovvio, è solo perché possono contare su un reddito fisso, sicuro. Il problema è che tutta questa situazione rischia solo di peggiorare».

È la tendenza ad essere negativa,insomma. «Esatto. Perché il mercato del lavoro non sta migliorando, anzi: i dati dei due trimestri 2012 non sono affatto rosei, peggiora la situazione dei giovani, che ovviamente sempre meno si possono permettere di uscire di casa, aumenta la cassa integrazione, i salari non crescono, le donne fanno sempre più fatica, e i servizi si vanno riducendo».

Itagli alla sanità (enonsolo)previsti dalla spending review non aiutano. «Rischiamo l’effetto avvitamento: più donne quelle in famiglie con reddito modesto costrette a casa per il lavoro di cura. Poveri sempre più poveri, insomma. Se spending review si traduce nel tagliare i servizi, invece che gli sprechi, significa che si sta selezionando chi può rivolgersi al privato e chi no».

Ma la riforma del mercato del lavoro non doveva agevolare i giovani?«Chiamiamola con il suo nome: quella è una, parziale, riforma degli ammortizzatori sociali per costruire protezioni più adeguate per chi non ne aveva affatto. Ma non fa sviluppo, né crescita, né aiuta a creare e aumentare il lavoro per nessuno. L’hanno enfatizzata come soluzione alla scarsa flessibilità, ma non è certo quello il problema del lavoro».

Una situazione sociale che si fa insostenibile: come arginarla? «Io sono sempre molto perplessa quando vedo che tutta la spesa sociale viene considerata improduttiva. E credo che nel capitolo investimenti vadano considerati anche l’istruzione e i servizi, intesi come infrastrutture sociali. Bisognerebbe fare come col Fondo sociale europeo per il Mezzogiorno: sono investimenti in capitale umano, in coesione sociale, in una società un po’ più equa. In una parola, nel futuro. E, tra i molti, un comparto produttivo cui mettere mano è senza dubbio il turismo: se ci superano Grecia e Spagna è perché il nostro è troppo costoso e non di eccelsa qualità».

l’Unità 18.07.12

"L’ANVUR è capace di correggersi? Una risposta ad Andrea Bonaccorsi", di Luciano Modica

Mi auguro proprio che l’ANVUR sia capace di correggersi, secondo il titolo che Il Sole 24 ore di domenica 8 luglio ha dato all’intervento di Andrea Bonaccorsi, autorevole componente del consiglio direttivo dell’Agenzia. E mi auguro soprattutto che Bonaccorsi stesso sia capace di correggersi perché il suo articolo, al di là delle opinioni tutte rispettabili, contiene una lettura dei fatti (cioè dei documenti) che ritengo discordante dalla realtà e persino fuorviante. Mi scuso dei tecnicismi ma qui sono assolutamente necessari. L’argomento sono i criteri, parametri e indicatori che serviranno a valutare la qualità scientifica dei curricula dei candidati alle procedure di abilitazione scientifica nazionale. Se mai si svolgeranno, visti i molti annunciati e autorevoli ricorsi per via giurisdizionale. Tali criteri, parametri e indicatori sono contenuti nel regolamento pubblicato con decreto ministeriale n. 76 del 7 giugno 2012, mentre alcune specifiche modalità di calcolo sono state stabilite dall’ANVUR nella sua delibera n. 50 del 21 giugno scorso. Per semplificare si tratterà solo il caso delle abilitazioni per l’accesso alla fascia dei professori ordinari delle discipline “scientifiche”, ma le stesse osservazioni varrebbero per le discipline “umanistiche” e per la fascia dei professori associati.

Il comma 1 dell’articolo 4 del decreto elenca una serie di criteri generali di valutazione (abbastanza condivisibili), mentre i commi 2 e 3 contengono rispettivamente quattro criteri e due parametri per la valutazione delle pubblicazioni scientifiche scelte presentate dai candidati, da 16 a 20 a seconda delle aree disciplinari. Infine il comma 4, come scrive correttamente Bonaccorsi, elenca ben dieci parametri per la valutazione dei titoli presentati dai candidati, tra cui naturalmente l’elenco dell’intera produzione scientifica.

Parafrasando Orwell, vi è però uno dei dieci parametri che è più eguale degli altri, quello dell’impatto della produzione scientifica complessiva indicato alla lettera a) del comma 4. Infatti, mentre gli altri nove parametri sono affidati alla valutazione discrezionale e competente della commissione, su quello dell’impatto il decreto ritorna nell’articolo 6 e fissa d’autorità anche gli indicatori bibliometrici quantitativi relativi. Non solo: i valori di tali indicatori diventano dirimenti per l’attribuzione dell’abilitazione. Si legge infatti nell’articolo 6, comma 1, che “l’abilitazione può essere attribuita esclusivamente ai candidati” (la sottolineatura è mia) che: (a) superino certi valori numerici degli indicatori bibliometrici individuati nell’allegato A al decreto e inoltre (b) siano valutati positivamente per ciascuno degli altri nove parametri.

Consultando l’allegato A si scopre al punto n. 2 che gli indicatori bibliometrici sono tre: numero degli articoli pubblicati negli ultimi dieci anni, numero totale delle citazioni, indice di Hirsch, calcolati utilizzando certe “normalizzazioni per l’età accademica” su cui qui si sorvolerà anche se varrebbe la pena tornarci in altra occasione per un’analisi accurata delle loro possibili conseguenze.

Subito dopo, al punto n.3, si svela infine il mistero a lungo custodito: può essere attribuita l’abilitazione esclusivamente ai candidati che superino, per almeno due dei tre indicatori, il corrispondente valore mediano dell’insieme dei professori ordinari del medesimo settore. Il calcolo dei tre valori mediani sarà effettuato dall’ANVUR (punto n. 4 dell’allegato). Sorvoliamo ancora, per brevità, sulla debolezza scientifica, statistica e giuridica di un simile criterio.

Fin qui i fatti, non sfuggiti a chiunque abbia letto attentamente il decreto. Osserva però Bonaccorsi sul Sole: le commissioni di abilitazione “possono discostarsi dalle mediane se dichiarano anticipatamente e in modo trasparente altri criteri”. Bello e giusto … se fosse vero.

Torniamo al testo del decreto, perché matematici e giuristi hanno il vizio della pignoleria nella lettura dei testi e non si lasciano convincere da affermazioni vaghe e vagamente anestetizzanti. Si trova allora il comma 5 dell’articolo 6 che stabilisce: “Qualora la commissione intenda discostarsi dai suddetti principi è tenuta a darne motivazione preventivamente, con le modalità di cui all’articolo 3, comma 3, e nel giudizio finale”. La caccia al tesoro non è dunque finita. Andiamo a leggere il comma 3 dell’articolo 3 e si trova che: “L’individuazione del tipo di pubblicazioni, la ponderazione di ciascun criterio e parametro, di cui agli articoli 4 e 5, da prendere in considerazione e l’eventuale utilizzo di ulteriori criteri e parametri più selettivi ai fini della valutazione delle pubblicazioni e dei titoli sono predeterminati dalla commissione” (la sottolineatura è mia).

Dunque, se la logica e la lingua italiana hanno ancora un senso, le commissioni possono solo rafforzare e mai indebolire i criteri e i parametri fissati dal regolamento ministeriale. Quindi non vi è alcuna possibilità per le commissioni di evitare che il parametro del superamento delle due mediane su tre mantenga il suo carattere dirimente e serva ad escludere senza appello i candidati che non lo soddisfino, qualunque sia il giudizio scientifico della commissione.

Si tratta proprio di quanto asserito dall’autorevole commissione scientifica dell’Unione Matematica Italiana che ha duramente e giustamente criticato il ricorso a metodi automatici di valutazione. E’ dunque fuorviante, purtroppo, l’affermazione di Bonaccorsi che “è stato evitato il più possibile l’utilizzo di strumenti automatici, proprio ascoltando rilievi critici di questo tipo”. Né nella successiva mozione ANVUR n. 50 ho trovato alcun cenno alla questione, tenendo anche conto che sarebbe giuridicamente assurdo che la delibera di un’agenzia, per quanto autorevole, possa superare il disposto di un regolamento ministeriale. Mi auguro dunque, come dicevo all’inizio, una pronta correzione di quest’affermazione fuorviante.

Mi si lasci un ultimo addolorato commento sull’articolo di Bonaccorsi che si chiude con le parole: “la valutazione è un esperimento sociale e non può evitare di produrre effetti non intenzionali, taluni anche perversi”. Lasciamo perdere l’intenzionalità (ci mancherebbe altro!), ma accettare a priori che una valutazione concorsuale sia un esperimento sociale che può generare effetti perversi fa raggelare. Il reclutamento e l’avanzamento di carriera dei professori universitari toccano nel profondo la vita lavorativa e la passione nella didattica e nella ricerca di decine di migliaia di ricercatori (precari e non precari) e professori associati, giovani e meno giovani. Non dovrebbe essere concesso a sette professori ordinari di giocare a fare esperimenti sulla loro pelle.

da www.roars.it