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"Uomini che odiano il mistero delle donne", di Massimo Recalcati – la Repubblica 25.11.14

La conta degli stupri, dei maltrattamenti, degli omicidi di cui sono vittime le donne lascia sempre sgomenti. Tutta questa violenza brutale ha una chiara matrice razzista. Soprattutto se interpretiamo il razzismo, come ci invitava a fare Lacan, come odio irriducibile nei confronti della libertà dell’Altro. La donna, infatti, è una delle incarnazioni più forti, anarchiche, erratiche, impossibile da misurare e da governare, di questa libertà. Il suo stesso sesso non è visibile, sfugge alla rappresentazione, è nascosto, si sottrae alla presa dell’evidenza. La loro identità, difficile da decifrare, non risponde mai a quella della divisa fallica degli uomini. Proprio per questo le donne possono essere l’oggetto di una violenza inaudita. Possono essere aggredite, offese, maltrattate, uccise proprio perché sfuggono ad ogni tentativo di possesso, perché coincidono con la libertà. L’uomo può rispondere a questa coincidenza con l’arroganza razzista e insopportabile della sopraffazione provando in tutti i modi a cancellarla.
È UN disegno fallimentare che costringe ad una iterazione disperata. Invece di scegliere la via dell’amore per la differenza prende quella dell’odio rabbioso e sterilmente rivendicativo (“sei mia!”). L’esercizio della violenza è sempre una alternativa secca a quella della parola. Mentre la legge della parola prova sempre a rendere giustizia della libertà dell’altro, la violenza la vorrebbe sopprimere, calpestarla, ridurla al silenzio. È innanzitutto una battaglia culturale che dovremmo cominciare magari ripensando seriamente a quello che usiamo chiamare “educazione sessuale”. Questa educazione non è forse innanzitutto — essenzialmente — una educazione alla legge della parola? Non dovremmo imparare dai poeti più che dalle slide che classificano scientificamente i sessi mostrando il funzionamento oggettivo dei loro organi? È davvero tutta lì quella che chiamiamo differenza sessuale? È davvero quello il mistero dell’amore?
La battaglia culturale contro la violenza di genere non può non passare da un ripensamento dell’educazione sessuale come educazione della sessualità al mistero dell’amore. Non dovremmo inseguire l’ideale di una sessualità normale — che la psicoanalisi ha dichiarato non esistere — ma valorizzare l’incontro tra i sessi — a prescindere dalla loro anatomia — come un incontro tra differenze. Dovremmo pensare che l’educazione alla sessualità implichi sempre una educazione al rispetto dell’alterità. Dovremmo pensare che essa sia una educazione al discorso amoroso. La domanda d’amore che muove l’uno verso l’altro, non deve mai essere scambiata con il sopruso che annienta la libertà, ma come un dono di libertà. Non è questa la forma più alta e intensa dell’amore, quando c’è? Amare la libertà dell’altro, amare la sua differenza inassimilabile di cui la donna è il simbolo. Per questo Lacan affermava che si ama, quando si ama, sempre e solo una donna. Per questa ragione amare — dovremmo sempre aggiungere — contempla il rischio della caduta e dell’abbandono. È sempre una esposizione rischiosa all’altro che ci rende tutti più indifesi e più femminili. Ci esponiamo senza riserve alla libertà dell’altro che ha sempre, in ogni momento, il diritto di scegliere se rinnovare o interrompere il patto che ci unisce. Ed è, come sappiamo, di fronte a questo diritto del discorso amoroso che la violenza dei maschi può scagliarsi come una freccia avvelenata contro il corpo delle donne.
Colpire, sfregiare, mutilare, straziare per ribadire una proprietà che non esiste. Per coloro che vivono senza educazione alla legge della parola la libertà della donna non è sopportabile se non è imprigionata. Nemmeno per le donne è facile abitare quella alterità che esse portano con sé. Per questa ragione Freud sosteneva che il “rifiuto della femminilità” non riguardasse solo gli uomini, ma attraversasse anche le donne. Non è proprio questa difficoltà che talvolta può consegnare una donna nelle braccia di chi la umilia, la offende, la violenta, la uccide? La donna che rifiuta inconsciamente la propria femminilità può credere che si possa essere una donna solo consegnandosi passivamente ad un uomo, magari seguendo l’esempio sacrificale delle proprie madri. È però del tutto evidente che si tratta di una atroce illusione. Nessun uomo sa cosa sia una donna. Ecco allora consumarsi il terribile equivoco: lei si consegna nelle mani dell’uomo per essere una donna, ma si ritrova ad essere ridotta a corpo-cosa, corpo-strumento, a “roba”, come direbbe il Mastro Don Gesualdo di Verga. È una lezione disturbante che l’esperienza clinica può confermare. La violenza porta con sé una seduzione silente che in alcune donne può nutrire l’illusione fatale che avere un padrone possa sollevarle dal difficile compito di abitare la libertà radicale della femminilità. Ma tutto questo non deve scaricare in nessun modo sulle donne la responsabilità che grava solo su coloro che scelgono la via della violenza al posto di quella della parola. Questa scelta è sempre colpevole. Preferisce il dominio cieco al rischio dell’esposizione, l’affermazione autarchica del proprio Io al suo decentramento, la potenza narcisistica del fallo (sempre un po’ idiota, secondo Lacan) all’incontro con l’alterità di un corpo, come quello femminile, fatto di segreti. Se l’amore è sempre un salto nel vuoto è perché esso implica la rinuncia a rendere l’altro una nostra proprietà, la rinuncia alla violenza come soluzione (impossibile) del problema della libertà.

"Morta neonata: deputate Pd, possibile parto in anonimato, tutela per tutti" – comunicato stampa 24.11.14

Abbiamo letto con grandissimo dolore quanto accaduto oggi alla neonata abbandonata a Palermo, poche ore di vita con il pianto sempre più flebile, un destino tragico inaccettabile nel nostro paese. Vogliamo ribadire con forza che esiste in Italia la possibilità del parto in anonimato in ogni ospedale e che in molte parti del nostro territorio le amministrazioni locali hanno rafforzato questa tutela con servizi a garanzia della madre e del nascituro. Queste sono informazioni essenziali che devono essere note a tutti e a tutte anche con campagne informative che possano raggiungere chi vive in condizioni di particolare disagio, che richiedono anche un sostegno specifico da definire con un piano di contrasto alla povertà estrema. Ci sentiamo pienamente impegnate ad assicurare l’esercizio effettivo dei diritti e delle tutele che le nostre leggi riconoscono per evitare che accadano di nuovo fatti così tragici.
Stella Bianchi, Roberta Agostini, Barbara Pollastrini, Micaela Campana, Silvia Fregolent, Donata Lenzi, Maria Coscia, Anna Rossomando, Caterina Pes, Manuela Ghizzoni, Lorenza Bonaccorsi, Alessia Rotta, Valeria Valente, Sandra Zampa, Valentina Paris, Fabrizia Giuliani, Daniela Gasparini.

"Amami da vivere" , di Roberta Agostini – www.partitodemocratico.it 24.11.14

25 novembre 2014  amami_da_vivere_det

Il 2013 è stato un anno pesante, come scrive il Rapporto Eures sul femminicidio in Italia: 179 le donne uccise, il 70% in famiglia e il 92,4% per mano di un uomo. Una su sei uccisa dopo la decisione di lasciare il proprio partner. Una su dieci era una collega o una dipendente del suo assassino. Nella metà dei casi sono morte di botte, o strangolate. Maltrattate dal proprio uomo, che spesso avevano denunciato.
Da leggere insieme a questi, i dati della ricerca “Rosa Shocking – Violenza, stereotipi e altre questioni del genere”, presentato alla Camera e realizzato da WeWorld Intervita per ipsos. Per un italiano su tre la violenza domestica sulle donne è un fatto privato, che si risolve in famiglia. Per uno su cinque è accettabile denigrare una donna con uno sfottò a sfondo sessuale. Uno su 10 pensa che se le donne non indossassero abiti provocanti non subirebbero violenza. Uno su 4 è convinto che se una donna resta con il marito che la picchia, diventa lei stessa colpevole.
La violenza contro le donne non è un’emergenza, è prima di tutto un fenomeno che affonda le sue radici nella cultura diffusa e nelle disparità di potere tra uomini e donne. Affrontarla significa mettere in discussione stereotipi e luoghi comuni e promuovere una relazione diversa tra i generi, un modo diverso di concepire i rapporti tra uomini e donne, nella vita pubblica e in quella privata.
La ratifica della Convenzione di Istanbul è stato uno dei primi atti del Parlamento in questa legislatura, a cui è seguita l’approvazione della legge cosiddetta sul femminicidio.
Con la Convenzione di Istanbul, per la prima volta, la violenza sulle donne viene definita come una violazione dei diritti umani fondamentali, si indica la strategia per la prevenzione, l’accoglienza delle donne, la punizione del colpevole. Si fissa l’obiettivo di costruire una rete territoriale attraverso il coinvolgimento di tanti soggetti e la valorizzazione delle politiche migliori.
Ora dobbiamo lavorare con forza per dare attuazione a questi impegni e per monitorare costantemente i problemi aperti e i risultati raggiunti.
Senza questo sforzo politico e culturale la battaglia contro la violenza sulle donne rientrerebbe nei ranghi della categoria dell’emergenza e “dell’ordine pubblico” dalla quale faticosamente si sta tentando di uscire in questi anni grazie al lavoro e all’impegno di tante donne e di alcuni uomini. Se la violenza non è riconducibile semplicemente a devianza o patologia individuale, per contrastarla efficacemente dobbiamo rafforzare quei servizi (ci sono, anche se ancora troppo pochi) che sono anche un po’ dei laboratori sociali, perché provano ad immaginare relazioni diverse ed un modo nuovo di stare insieme per uomini e donne. Bisogna insegnare il valore positivo delle differenze ai bambini e alle bambine, formare insegnanti ed operatori, lavorare affinché anche i media si pongano il tema di una comunicazione rispettosa della dignità delle donne. Le leggi sono necessarie ma non bastano. Bisogna cambiare le teste, educare ai sentimenti. Lavorare dentro e fuori le istituzioni per promuovere una nuova cultura fondata sul rispetto, sulla libertà e sull’autonomia femminile, perché nell’affermazione della libertà e dell’autonomia femminile si aprono spazi di libertà per tutti.

Farlo ora, farlo insieme.

"L’età dell’odio che va fermata", di Aldo Cazzullo – Corriere della Sera 23.11.14

  Pare di vivere nell’età dell’odio. Dopo anni passati a stupirci che la crisi non producesse conflittualità sociale, ora lo scenario è cambiato. Il linguaggio della discussione pubblica ha quasi raggiunto la virulenza degli anni 70, e alle parole cominciano a seguire i fatti. Gli incendiari grillini sono stati scavalcati dalla rivolta di Tor Sapienza, mentre i centri sociali aggrediscono leader sgraditi (e provocatori), e quasi ogni giorno viene devastata una sede di partito.
Le cause sono molte. La sofferenza di chi perde il lavoro. La disperazione dei giovani che non lo trovano e talora neppure lo cercano. Ma anche la diffidenza reciproca di categorie che si detestano, di corporazioni che additano nelle altre la causa del male italiano assolvendo solo se stesse. E l’immigrazione senza controllo ha acceso una guerra tra poveri, scatenando la rabbia delle periferie e generando negli stranieri estraneità e frustrazione che, sommate al senso di impunità che lo Stato italiano comunica ai nuovi arrivati, minacciano di innescare tensioni già esplose ai margini delle metropoli europee.
La risposta della politica è debole. L’allarme di Napolitano sugli estremismi interni e sul timore di «lupi solitari» islamici è passato quasi inosservato. Il durissimo scontro tra Renzi e la Cgil non aiuta. Il baratro apertosi a destra è stato riempito da Salvini, che ha schierato la Lega con i nazionalisti francesi.
Sia chiaro: il passato non torna. Ma può insegnarci qualcosa. Il pericolo non viene solo dalle centrali del terrore; anche la violenza diffusa, l’odio manifesto, la crisi morale che ha il suo riflesso quotidiano nel degrado dei rapporti umani possono fare molto male alle nostre vite. La lezione della storia recente è che la violenza non va tollerata; altrimenti si riprodurrà in modo esponenziale. Com’è ovvio, il diritto a manifestare pacificamente non può essere messo in discussione: le prove di forza, di solito esercitate sui deboli, non servono a nulla se non ad alimentare la spirale dell’odio. Si tratta invece di ripristinare la legalità: non è possibile che chi si ritrova la casa «sequestrata» dal racket delle occupazioni non abbia gli strumenti per riprendersela, non è possibile rassegnarsi all’idea che in Italia sia lecito fare qualsiasi cosa senza prendersene la responsabilità. Nello stesso tempo chi partecipa alla vita pubblica dovrebbe tenere i nervi saldi, ristabilire un minimo di rispetto reciproco, e impegnarsi perché il governo italiano e quello europeo mettano in campo una politica sociale, che attenui la sofferenza e crei opportunità per i giovani. Il rogo dell’odio va spento, prima che ci avveleni l’aria e bruci le nuove generazioni.

"I 3,9 miliardi che i migranti danno all’economia italiana", di Gian Antonio Stella – Corriere della Sera 23.11.14l

Ha ragione papa Francesco: gli immigrati sono una ricchezza. Lo dicono i numeri. Fatti i conti costi-benefici, spiega un dossier della fondazione Moressa, noi italiani ci guadagniamo 3,9 miliardi l’anno. E la crisi, senza i nuovi arrivati che hanno fondato quasi mezzo milione di aziende, sarebbe ancora più dura. Certo, è facile in questi tempi di pesanti difficoltà titillare i rancori, le paure, le angosce di tanti disoccupati, esodati, sfrattati ormai allo stremo. Soprattutto in certe periferie urbane abbruttite dal degrado e da troppo tempo vergognosamente abbandonate dalle pubbliche istituzioni. Ma può passar l’idea che il problema siano «gli altri»?
Non c’è massacro contro i nostri nonni emigrati, da Tandil in Argentina a Kalgoorlie in Australia, da Aigues Mortes in Francia a Tallulah negli Stati Uniti, che non sia nato dallo scoppio di odio dei «padroni di casa» contro gli italiani che «rubavano il lavoro». Basti ricordare il linciaggio di New Orleans del 15 marzo 1891, dove tra i più assatanati nella caccia ai nostri nonni c’erano migliaia di neri, rimpiazzati nei campi di cotone da immigrati siciliani, campani, lucani.
Eppure quei nostri nonni contribuirono ad arricchire le loro nuove patrie («la patria è là dove si prospera», dice Aristofane) proprio come ricorda Francesco: «I Paesi che accolgono traggono vantaggi dall’impiego di immigrati per le necessità della produzione e del benessere nazionale».
Creano anche un mucchio di problemi? Sì. Portano a volte malattie che da noi erano ormai sconfitte? Sì. Affollano le nostre carceri soprattutto per alcuni tipi di reati? Sì. Vanno ad arroccarsi in fortini etnici facendo esplodere vere e proprie guerre di quartiere? Sì. E questi problemi vanno presi di petto. Con fermezza. C’è dell’altro, però . E non possiamo ignorarlo.
Due rapporti della Fondazione Leone Moressa e Andrea Stuppini, collaboratore de «lavoce.info», spiegano che non solo le imprese create da immigrati sono 497 mila (l’8,2% del totale: a dispetto della crisi) per un valore aggiunto di 85 miliardi di euro, ma che nei calcoli dare-avere chi ci guadagna siamo anche noi. Nel 2012 i contribuenti nati all’estero sono stati poco più di 3,5 milioni e «hanno dichiarato redditi per 44,7 miliardi di euro (mediamente 12.930 euro a persona) su un totale di 800 miliardi di euro, incidendo per il 5,6% sull’intera ricchezza prodotta». L’imposta netta versata «ammonta in media a 2.099 euro, per un totale complessivo pari a 4,9 miliardi». Con disparità enorme: 4.918 euro pro capite di Irpef pagata nel 2013 in provincia di Milano, 1.499 in quella di Ragusa.
A questa voce, però, ne vanno aggiunte altre. Ad esempio l’Iva: «Una recente indagine della Banca d’Italia ha evidenziato come la propensione al consumo delle famiglie straniere (ovvero il rapporto tra consumo e reddito) sia pari al 105,8%: vale a dire che le famiglie straniere tendono a non risparmiare nulla, anzi ad indebitarsi o ad attingere a vecchi risparmi. Ipotizzando che il reddito delle famiglie straniere sia speso in consumi soggetti ad Iva per il 90% (escludendo rimesse, affitti, mutui e altre voci non soggette a Iva), il valore complessivo dell’imposta indiretta sui consumi arriva a 1,4 miliardi di euro». Più il gettito dalle imposte sui carburanti (840 milioni circa), i soldi per lotto e lotterie (210 milioni) e rinnovi dei permessi di soggiorno (1.741.501 nel 2012 per 340 milioni) e così via: «Sommando le diverse voci, si ottiene un gettito fiscale di 7,6 miliardi». Poi c’è il contributo previdenziale: «Considerando che secondo l’ultimo dato ufficiale Inps (2009) i contributi versati dagli stranieri rappresentano il 4,2% del totale, si può stimare un gettito contributivo di 8,9 miliardi». Cosicché «sommando gettito fiscale e contributivo, le entrate riconducibili alla presenza straniera raggiungono i 16,6 miliardi».
Ma se questo è quanto danno, quanto ricevono poi gli immigrati? «Considerando che dopo le pensioni la sanità è la voce di gran lunga più importante e che all’interno di questa circa l’80% della spesa è assorbita dalle persone ultrasessantacinquenni», risponde lo studio, l’impatto dei nati all’estero (nettamente più giovani e meno acciaccati degli italiani) è decisamente minore sul peso sia delle pensioni sia della sanità, dai ricoveri all’uso di farmaci. Certo, è maggiore nella scuola «dove l’incidenza degli alunni con cittadinanza non italiana ha raggiunto l’8,4%», ma qui «la parte preponderante della spesa è fissa».
E i costi per la giustizia? «Una stima dei costi si aggira su 1,75 miliardi di euro annui». E le altre spese? Contate tutte, rispondono Stuppini e la Fondazione. Anche quelle per i Centri di Identificazione ed Espulsione: «Per il 2012 il costo complessivo si può calcolare in 170 milioni».
In ogni caso, prosegue il dossier, «si è considerata la spesa pubblica utilizzando il metodo dei costi standard, stimando la spesa pubblica complessiva per l’immigrazione in 12,6 miliardi di euro, pari all’1,57% della spesa pubblica nazionale. Ripartendo il volume di spesa per la popolazione straniera nel 2012 (4,39 milioni), si ottiene un valore pro capite di 2.870 euro». Risultato: confrontando entrate e uscite, «emerge come il saldo finale sia in attivo di 3,9 miliardi». Per capirci: quasi quanto il peso dell’Imu sulla prima casa. Poi, per carità, restano tutti i problemi, i disagi e le emergenze che abbiamo detto. Che vanno affrontati, quando serve, anche con estrema durezza. Ma si può sostenere, davanti a questi dati, che mantenere l’estensione della social card ai cittadini nati all’estero ma col permesso di soggiorno è «un’istigazione al razzismo»?
Per non dire dell’apporto dei «nuovi italiani» su altri fronti. Dice uno studio dell’Istituto Ricerca Sociale che ci sono in Italia 830 mila badanti, quasi tutte straniere, che accudiscono circa un milione di non autosufficienti. Il quadruplo dei ricoverati nelle strutture pubbliche. Se dovesse occuparsene lo Stato, ciao: un posto letto, dall’acquisto del terreno alla costruzione della struttura, dai mobili alle lenzuola, costa 150 mila euro. Per un milione di degenti dovremmo scucire 150 miliardi. E poi assumere (otto persone ogni dieci posti letto) 800 mila addetti per una spesa complessiva annuale (26mila euro l’uno) di quasi 21 miliardi l’anno. Più spese varie. Con un investimento complessivo nei primi cinque anni di oltre 250 miliardi.

"Un'alleanza per rilanciare la cultura europea", di Silvia Costa – ll Sole 24 Ore 23.11.14

Pur nel pieno della crisi economica, cultura, educazione e creatività non hanno subito tagli nella programmazione Ue 2014-2020 e anzi hanno registrato un incremento negli investimenti. Un segnale chiaro, fondato sulla convinzione che il sostegno a questi settori porti ai territori crescita sostenibile e occupazione di qualità, nel rispetto del modello sociale europeo. Una battaglia del Parlamento, senza la cui azione oggi Horizon 2020 non includerebbe le scienze umanistiche; i Por Fesr non contemplerebbero più le parole cultura, valorizzazione del cultural heritage e delle industrie culturali e creative (Icc) tra gli Obiettivi tematici; il Fondo Sociale non sosterrebbe la formazione e lo sviluppo tecnologico e occupazionale per le attività culturali; l’Agenda Digitale avrebbe ignorato le Icc; Cosme non dedicherebbe specifica attenzione alle Pmi del turismo.
È giunto il momento di cogliere le opportunità mettendo a regime con decisione gli spazi che la nuova programmazione apre nei programmi a gestione diretta, nei Piani operativi nazionali e soprattutto regionali, nelle azioni per le città metropolitane e le aree interne. Ma anche nei Gal e nei Leader dello Sviluppo Rurale. In Parlamento Europeo presenteremo Relazioni sulla revisione di Europa 2020 perché la cultura sia più centrale e stiamo lavorando alla relazione sulla comunicazione della Commissione per un approccio integrato al patrimonio culturale. Attendiamo gli esiti del Semestre di Presidenza Italiana, in particolare su workplan, heritage e audiovisivo. Sui programmi diretti tocca ora ai beneficiari, invitati a presentare progetti di qualità per Europa Creativa, Horizon 2020, Cosme, Erasmus+, Connecting Europe. Gli enti locali non devono considerarsi estranei a questi interventi, anzi: spesso sono loro a fare la differenza. È soprattutto nella programmazione territoriale che essi possono dare corpo alla loro visione di sviluppo, legato alle radici e proiettato verso l’Europa. Nel settore pubblico quanto in quello privato, profit e non, le Icc sono prevalentemente piccole realtà che affrontano con difficoltà il salto ad una maggior dimensione gestionale, tecnologica, di rete, di investimenti, di promozione e marketing sovranazionale.
La creazione di distretti, la messa in comune di servizi, la pratica delle residenze per artisti e creativi, l’adesione a progetti di lungo periodo, come le Capitali europee della Cultura, le Città capitali dei giovani o il marchio Unesco hanno fatto maturare nuovi know-how e capacità progettuali integrate e dotate di maggiore attrattività per i finanziamenti e impatto sulla vita dei cittadini. Il caso del turismo culturale merita una riflessione specifica. La cultura è la prima ragione per visitare l’Europa, prima meta turistica mondiale.
La qualità di sviluppo indotta dal turismo culturale è la più desiderabile: educata, pulita, veicola dialogo interculturale con ricadute dirette sull’ospitalità e la valorizzazione del paesaggio, delle strutture di accoglienza e degli edifici storici, della gastronomia e del lifestyle. E sulla consapevolezza dei cittadini, specie giovani. Parlamento Europeo, Commissione e Consiglio d’Europa con le Regioni, i Comuni e le associazioni hanno stretto un’alleanza forte, che ho personalmente promosso e incoraggiato, per un rilancio strategico del Programma degli itinerari culturali europei, con l’impegno dell’Italia a completare il tracciato della Via Francigena fino a Gerusalemme.
Ma l’approccio integrato riguarda anche il modo di lavorare del Parlamento e della Commissione: la non adeguata percezione della trasversalità della cultura dipende anche dal riparto inadeguato delle competenze. Da qui, la necessità di lavorare in costante collegamento. Sul fronte della comunità culturale e creativa è tempo di metabolizzare la legittimazione economica che il settore ha acquisito e affrontare il tema del valore intrinseco di cultura, creatività e innovazione per società coese, democratiche e animate da cittadini più felici.
L’autrice è Presidente della commissione cultura
del Parlamento Europeo

"Ci sono capacità prive di cultura?", di Benedetto Vertecchi – www.flcgil.it 22.11.14

Agli inizi di settembre l’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) ha diffuso il consueto rapporto annuale sui sistemi educativi (Education at a Glance, 2014). In modo altrettanto consueto in Italia le indicazioni contenute nel rapporto sono state immediatamente piegate per sostenere questa o quella linea di politica scolastica rilevante soprattutto da un punto di vista interno. Così ha avuto immediate ripercussioni nel dibattito in corso sulla scuola (anche per la concomitanza con la presentazione da parte del Governo del piano per la Buona Scuola) il richiamo alla modestia degli investimenti pubblici o all’ampiezza di fenomeni negativi, come quello della dispersione. Eppure, ci sarebbe da stupirsi solo dello stupore di chi, vivendo in Italia, e magari avendo incarichi di responsabilità nel sistema educativo, ha avuto bisogno che certi fenomeni comparissero nel rapporto dell’Ocse per prenderne atto. È per lo meno paradossale che dei limiti della spesa per l’istruzione o dell’incapacità del sistema educativo di far fronte alle esigenze di larghi strati della popolazione (specialmente nella fascia dell’adolescenza) si sia consapevoli a Parigi, dove il rapporto è stato elaborato, ma non a Roma, da cui pure provengono i dati che sono stati presi in considerazione. Ci sono almeno due spiegazioni per la stranezza rilevata. La prima, e per molti versi più evidente, è che il nostro sistema educativo continua a essere privo della capacità di riflettere sul proprio funzionamento. In altre parole, non c’è alla base del sistema educativo un’organizzazione conoscitiva, capace di sostenere l’elaborazione di politiche e l’assunzione di decisioni che non siano piattamente ripetitive del senso comune. L’altra, più insidiosa, è che la modestia delle proposte e la sconnessione che caratterizza gli interventi sul sistema educativo siano una conseguenza della mancanza di modelli interpretativi dai quali possa derivare la definizione di percorsi validi per il medio e il lungo periodo. Si continua quindi a battibeccare su interventi a carattere contingente e si propongono soluzioni che al massimo servono da tampone, ma non si ha idea di quale profilo culturale si vorrebbe promuovere per la popolazione italiana nei prossimi decenni. Al massimo si ripropongono come verità indubitabili slogan che possono soddisfare i servizi di propaganda delle multinazionali, ma che corrispondono a scelte che non resistono oltre il tempo necessario a svolgere la loro funzione di promozione consumista. Quella che si è venuta a depositare sul sistema educativo è una cortina ideologica, nella quale le suggestioni nuoviste fanno da traino a interessi di breve momento, in particolari quelli espressi dalle imprese, pronte ad accreditarsi come istituzioni che possono trasferire ai ragazzi la cultura della quale sono portatrici. Che poi si tratti di una cultura destinata a essere superata prima che i giovani che hanno concluso il loro percorso scolastico possano sperare di ottenere un contratto di lavoro sembra non interessare nessuno. La ripresa degli argomenti che trovano spazio nei rapporto dell’Ocse è un segno d’inconsapevolezza circa gli intenti perseguiti da tale Organizzazione. Vale la pena di ricordare che l’Ocse persegue soprattutto finalità di sviluppo economico, secondo la logica, esplicitamente dichiarata, della globalizzazione. È del tutto improbabile, quindi, ricavare dai rapporti dell’Ocse gli elementi necessari a comporre un quadro di lungo periodo. Così si spiega l’esasperazione di modelli culturali vuoti, che enfatizzano il possesso di capacità alle quali non corrisponde una cultura. Ciò malgrado gli stessi dati forniti da studi promossi dall’Ocse (come quelli relativi alla perdita di competenze alfabetiche nella popolazione adulta) segnalino che a modelli culturali vuoti si associano fenomeni regressivi che non possono non preoccupare. Se si compiono scelte funzionali alla rilevazione contingente di ciò che è necessario allo sviluppo, è dubbio che i risultati dell’attività educativa permangano quando si saranno manifestate altre esigenze. È quanto si sta verificando con la capacità di comprensione dei testi scritti: se l’educazione promuove prioritariamente il soddisfacimento di esigenze immateriali (per esempio, leggere testi narrativi o poetici), il repertorio di capacità simboliche acquisito sarà abbastanza stabile, ma se l’intento dell’istruzione è utilitario la capacità incomincia a disperdersi quando non sia più utilizzata. È quel che sta accadendo con la scrittura: è paradossale, ma si osserva sempre più di frequente la disassuefazione, già durante il percorso scolastico, nei confronti di una capacità di scrittura non mediata da strumentazioni che limitano l’autonomia individuale.