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"I Master e i processi di autovalutazione delle Università" di Giunio Luzzato – ROARS.it 22.11.14

Il funzionamento dei Master universitari è stato esaminato, nelle settimane passate, in una interrogazione dell’on. Manuela Ghizzoni e nella risposta che le ha dato il Governo. Dal testo di tale risposta emerge che il MIUR mira sistematicamente, in un’ottica quasi monomaniacale, all’accreditamento di ogni singolo percorso formativo. Ciò mentre un importante studio  evidenzia il fatto che la maggior parte dei Paesi europei, nell’attuare le indicazioni ENQA sugli European Standards and Guidelines (ESG) per l’Assicurazione della qualità didattica, puntano a valutare non i singoli percorsi, bensì l’efficacia degli strumenti di cui un Ateneo si è dotato per garantire la qualità stessa.

Il funzionamento dei Master universitari è stato esaminato, nelle settimane passate, in una interrogazione dell’on. Manuela Ghizzoni (vedi sotto) e nella risposta che le ha dato il Governo (vedi sotto).

Mi sembra perciò opportuno ritornare sul tema, che avevo qui affrontato il 6/9 scorso, in quanto l’esame della risposta ministeriale consente di discutere aspetti decisivi dell’intero sistema di valutazione delle Università.
Fin dall’inizio del testo di tale risposta emerge infatti che il MIUR mira sistematicamente, in un’ottica quasi monomaniacale, all’ accreditamento di ogni singolo percorso formativo: l’accreditamento dei Master viene definito come “Oggetto” dell’interrogazione, quando questa non ne fa cenno. Anziché precisare quale politica generale il MIUR stia adottando rispetto ai Master, si dice addirittura -verso il termine del testo- che sono allo studio gli “aspetti di dettaglio concernenti l’accreditamento iniziale e periodico” dei Master stessi. Ciò mentre un importante studio  evidenzia il fatto che la maggior parte dei Paesi europei, nell’attuare le indicazioni ENQA sugli European Standards and Guidelines (ESG) per l’Assicurazione della qualità didattica, puntano a valutare non i singoli percorsi, bensì l’efficacia degli strumenti di cui un Ateneo si è dotato per garantire la qualità stessa.

Al centro delle procedure valutative, perciò, vi è la valutazione interna che esso si è messo in condizioni di compiere.
Già per i Corsi di Studio (CdS, Laurea e Laurea Magistrale) conferenti i titoli a valore legale vi sarebbero perciò ottimi motivi per spostare l’accento dall’accreditamento del singolo CdS a quello complessivo della sede.

A maggior ragione ciò deve valere per i Master, non essendovi per questi nessuno schema nazionale di riferimento.
Focalizzare l’attenzione sull’istituzione universitaria come tale, anziché sulle singole sue attività formative, porrebbe l’Università stessa di fronte a precise responsabilità sulla sua conduzione globale. E’ ben noto, infatti, che nella maggior parte degli Atenei vi sono forti differenze tra CdS ottimamente gestiti e altri nei quali domina tuttora non la logica degli apprendimenti degli allievi bensì quella degli insegnamenti attribuiti ai professori (e da questi svolti, spesso, senza adeguato coordinamento); ciò dimostra che la “qualità” dei CdS dipende dalla volontà del singolo gruppo di docenti, non da una strategia adottata dall’Ateneo per la caratterizzazione della sua offerta didattica.

Se l’Università sapesse che oggetto della valutazione esterna sarà proprio la sua capacità di definire tale strategia e di monitorarne l’effettiva attuazione da parte delle strutture responsabili (Dipartimenti, Consigli di CdS), verrebbe fortemente stimolato l’impegno dell’Università stessa nell’organizzazione dei suoi processi didattici, e in particolare nell’attività di valutazione interna sull’andamento di tali processi.
Nel testo ministeriale qui al nostro esame non solo non compare mai il termine di valutazione interna, ma non vi è neppure traccia di elementi che mostrino una consapevolezza, da parte del MIUR, dell’impossibilità di discutere utilmente di accreditamenti, o simili, se non si esamina, a monte, la presenza di una policy dell’Ateneo relativa alla didattica.
Quanto sopra è vero per l’intera offerta formativa, ma è ancora più cruciale quando si considerano i Master. Per questi, l’assenza di una responsabilizzazione collegiale da parte dell’Ateneo è quasi la regola: i Regolamenti didattici degli Atenei disciplinano le modalità con le quali essi vengono istituiti, non quelle con le quali vengono gestiti, né tanto meno prevedono procedure di monitoraggio e di verifica. Proprio su tali Regolamenti (la cui approvazione compete al MIUR) l’interrogazione poneva domande, rimaste senza risposta.

Non stupisce, in questo quadro, che il Rettore Frati -quando l’intera stampa nazionale si è indignata per l’episodio dell’ex Comandante Schettino docente in un Master dell’Università La Sapienza- abbia dichiarato pubblicamente che l’Ateneo non c’entrava nulla, trattandosi di un Master “del professor XXX”.
Per salvaguardare l’immagine complessiva dell’Università italiana vorremmo che questi fatti non potessero più accadere, e che il MIUR si mettesse in condizione di evitarli non con un occhiuto atteggiamento centralistico-burocratico, ma potenziando nei fatti, e non solo auspicando in belle dichiarazioni, la “autonomia responsabile” degli Atenei: che è cosa ben diversa dall’arbitrio dei singoli docenti.


Interrogazione dell’On. Ghizzoni.

Atto Camera

Interrogazione a risposta in commissione 5-03533

presentato da

GHIZZONI Manuela

testo di

Giovedì 11 settembre 2014, seduta n. 288

GHIZZONI. — Al Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca. — Per sapere

premesso che:
l’istituzione dei «master universitari» è stata disposta dall’articolo 3, comma 8, del decreto ministeriale 3 novembre 1999, n. 509, poi confermato identico dall’articolo 3, comma 9, del decreto ministeriale 22 ottobre 2004, n. 270;
sulla base della norma citata, che reca la rubrica «Titoli e corsi di studio», i master universitari di I e di II livello sono definiti come «corsi di perfezionamento scientifico e di alta formazione permanente e ricorrente successivi al conseguimento della laurea o della laurea magistrale» e devono essere disciplinati autonomamente da ciascuna università all’interno del proprio «Regolamento didattico di ateneo»;
il Regolamento didattico di ateneo è approvato dagli organi di Governo dell’ateneo e, ai sensi dei commi 1 e 2 dell’articolo n. 11 dello stesso decreto ministeriale n. 270 del 2004, è emanato con decreto rettorale dopo l’approvazione da parte del Ministero ai sensi dell’articolo 11, comma 1, della legge 19 novembre 1990, n. 341;
l’articolo 11, comma 7, lettera b), del decreto ministeriale n. 270/2004, come modificato dall’articolo 17, comma 3, lettera b), del decreto legislativo 27 gennaio 2012, n. 19, stabilisce che il regolamento didattico di ateneo disciplina gli aspetti di organizzazione dell’attività didattica comuni ai corsi di studio con particolare riferimento «agli obiettivi, ai tempi e ai modi con cui le competenti strutture didattiche provvedono collegialmente alla programmazione, al coordinamento e alla verifica dei risultati delle attività formative in coerenza con le misurazioni dei risultati ottenuti nell’apprendimento effettuate dalle commissioni paritetiche docenti-studenti»;
appare senz’altro plausibile che si applichi anche ai master universitari la norma che prevede il ruolo delle «competenti strutture didattiche» per provvedere «alla programmazione, al coordinamento e alla verifica dei risultati» delle relative attività formative;
i master universitari, pur non rilasciando titoli aventi valore legale per l’accesso ai pubblici concorsi, possono comunque costituire, e costituiscono spesso, titoli formativi significativi e validamente riconoscibili all’interno delle procedure concorsuali pubbliche o di assunzione da parte di soggetti privati;
per questa ragione si è creata una forte domanda, soprattutto da parte di neolaureati, di poter frequentare master universitari, quasi sempre a numero chiuso e spesso assai costosi perché la normativa non fornisce alcuna indicazione o limite al riguardo;
i docenti universitari che organizzano o tengono corsi nei master universitari, molto frequentemente in collaborazione con imprese o pubbliche amministrazioni, possono essere retribuiti in forma aggiuntiva, a valere sui fondi ricavati dalla contribuzione studentesca degli iscritti ai medesimi corsi, il che rappresenta talora una forma di incentivazione all’attivazione di master universitari sempre nuovi e diversi;
una recente sgradevole vicenda – relativa all’intervento nell’ambito di un master universitario dell’università di Roma La Sapienza, ma tenuto in locali esterni ad essa, del comandante della Costa Concordia, nave naufragata con tragiche conseguenze per le quali è in corso un processo penale – ha avuto vasta eco sui mezzi di comunicazione attirando notevole discredito sull’intero sistema universitario anche perché è apparso che nessuno, o forse solo un singolo professore, fosse davvero responsabile dell’invito e, più in generale, della programmazione e organizzazione didattica del master universitario;
i «master universitari» italiani appaiono essere leggermente disallineati, almeno in termini lessicali, con le indicazioni del «Processo di Bologna», cioè con il percorso di armonizzazione degli studi universitari in tutti i Paesi dell’Unione europea, in quanto il termine «Master» fa di norma riferimento al generico titolo formale di studio di II livello, cioè in Italia la laurea specialistica o magistrale, e non a titoli aggiuntivi ai tre livelli standard, indicati convenzionalmente come «Bachelor/Master/PhD» o anche «Licence/Master/Doctorat», che in Italia sono «laurea/laurea magistrale/dottorato di ricerca»;
sull’argomento dei master universitari sono recentemente e autorevolmente intervenuti sul sito www.roars.it i professori Francesco Coniglione (22 marzo 2014) e Giunio Luzzatto (6 settembre 2014) esprimendo alcune critiche al sistema vigente –:
quali università abbiano inserito all’interno dei loro regolamenti didattici le norme relative all’istituzione, attivazione, programmazione, coordinamento e valutazione dei master universitari, nonché quelle relative all’individuazione delle strutture didattiche e degli organi collegiali competenti;

quali siano le soluzioni più comunemente adottate al riguardo;

se il Ministero sia intervenuto o intenda intervenire per rendere più precise e cogenti, anche alla luce del processo di armonizzazione europea, le norme e le indicazioni riguardanti i master universitari pur lasciando la massima autonomia alle università e l’attuale status di titoli universitari senza valore legale ai master universitari, anche allo scopo di dare un indirizzo unitario alla materia che eviti le ricorrenti critiche che finiscono col gettare discredito sull’intero sistema universitario nazionale. (5-03533)

 Risposta all’interrogazione dell’On. Ghizzoni

Dal Resoconto Giunte e Commissioni Parlamentari ,   23/10/2014

 

ALLEGATO 4

5-03533 Ghizzoni: Sui master universitari.

TESTO DELLA RISPOSTA DEL GOVERNO

L’Onorevole interrogante, con riferimento ai «master universitari» istituiti con decreto ministeriale del 3 novembre 1999 n. 509, chiede di conoscere lo stato dell’arte in merito alla applicazione da parte delle università delle norme relative all’istituzione, attivazione, programmazione, coordinamento e valutazione di tali corsi, e chiede, inoltre, se il Ministero sia intervenuto o intenda intervenire per rendere più precise e cogenti siffatte norme.
Oggetto specifico dell’interrogazione è l’accreditamento dei corsi di studio finalizzati al conseguimento dei «master universitari».
Con riguardo all’accreditamento dei corsi di studio universitari, la fonte normativa primaria di riferimento è da ricondursi all’articolo 5, comma 1, lettera a), della legge 30 dicembre 2010, n. 240, il quale attribuisce la delega a favore del Governo per la riforma, attraverso l’adozione di uno o più decreti legislativi, del sistema universitario al fine di raggiungere l’obiettivo, tra gli altri, della «valorizzazione della qualità e dell’efficienza delle università e conseguente introduzione di meccanismi premiali nella distribuzione delle risorse pubbliche sulla base di criteri definiti ex ante, anche mediante previsione di un sistema di accreditamento periodico delle università».
La suddetta delega è stata, poi, esercitata dal Governo attraverso l’emanazione del decreto legislativo del 27 gennaio 2012, n. 19.
I corsi di studio a cui fa riferimento il decreto legislativo n. 19 del 2012 sono quelli individuati all’articolo 3 del decreto ministeriale del 2 ottobre 2004, n. 270 (recante modifiche al regolamento sull’autonomia didattica degli atenei) e sono rappresentati dai corsi di laurea, di laurea magistrale, di specializzazione e di dottorato di ricerca nonché dai corsi di perfezionamento scientifico e di alta formazione permanente e ricorrente.
Nello specifico, l’articolo 3 in commento stabilisce al comma 3 che «la laurea, la laurea magistrale, il diploma di specializzazione e il dottorato di ricerca sono conseguiti al termine, rispettivamente, dei corsi di laurea, di laurea magistrale, di specializzazione e di dottorato di ricerca istituiti dalle università» ed al comma 9 che «in attuazione dell’articolo 1, comma 15, della legge 14 gennaio 1999, n. 4, le università possono attivare, disciplinandoli nei regolamenti didattici di ateneo, corsi di perfezionamento scientifico e di alta formazione permanente e ricorrente, successivi al conseguimento della laurea o della laurea magistrale, alla conclusione dei quali sono rilasciati imaster universitari di primo e di secondo livello».
Inoltre, l’articolo 7, comma 4, del medesimo decreto ministeriale prevede che «per conseguire il masteruniversitario lo studente deve aver acquisito almeno sessanta crediti oltre a quelli acquisiti per conseguire la laurea o la laurea magistrale».
Si evidenzia che il decreto legislativo n. 19 del 2012 prescrive che l’attivazione dei corsi di studio universitari (e delle sedi universitarie) sia subordinata al rilascio dal parte del MIUR di specifico atto di autorizzazione.
In particolare, tale atto autorizzativo è rilasciato previa verifica della rispondenza dei corsi di studio (e delle sedi) agli indicatori ex ante definiti dall’Agenzia per la valutazione del sistema universitario e Pag. 27della ricerca (ANVUR) in conformità alle finalità indicate dal summenzionato decreto legislativo.
Tali indicatori sono rivolti, in generale, ad assicurare la qualità dei corsi universitari ed in particolare sono «volti a misurare e verificare i requisiti didattici, strutturali, organizzativi, di qualificazione dei docenti e di qualificazione della ricerca idonei a garantire qualità, efficienza ed efficacia nonché a verificare la sostenibilità economico-finanziaria delle attività» (articolo 6 del decreto legislativo n. 19 del 2012).
L’attuazione della procedura di accreditamento in parola è effettuata attraverso l’emanazione di specifici decreti del Ministro, su conforme parere dell’ANVUR.
L’ANVUR, in particolare, ha avviato le procedure per l’accreditamento iniziale e periodico delle sedi universitarie e dei corsi di laurea, di laurea magistrale e di dottorato di ricerca, ovvero quei corsi che sono, come riportato nel testo dell’interrogazione parlamentare, allineati con le indicazioni del «processo di Bologna» e indicati convenzionalmente come «Bachelor/Master/PhD» o «License/Master/Doctorat».
Si evidenzia, dunque, che i decreti attuativi emanati dal MIUR in tema di accreditamento hanno sinora riguardato i corsi di laurea e di laurea magistrale di cui al decreto ministeriale n. 47 del 30 gennaio 2013 (modificato dal decreto ministeriale n. 1059 del 23 dicembre 2013) e i corsi di dottorato di ricerca di cui al decreto ministeriale n. 45 dell’8 febbraio 2013.
Attualmente sono in fase di studio gli aspetti di dettaglio concernenti l’accreditamento iniziale e periodico dei corsi di studio finalizzati al conseguimento dei master universitari.
Occorre osservare che, la particolare attenzione allo studio di tale procedura di accreditamento si associa all’esigenza, da un lato, di garantire alle università la piena autonomia didattica e dall’altro di assicurare il massimo collegamento tra il mondo universitario e quello del lavoro.
Infatti, diversamente dai restanti corsi universitari, i corsi di perfezionamento scientifico e di alta formazione permanente sono disciplinati dalle università in totale autonomia in quanto concepiti con la finalità di perfezionare la formazione universitaria acquisita nei corsi di laurea e di laurea magistrale e per rispondere alle specifiche e mutevoli esigenze di un mercato del lavoro sempre più complesso e dinamico.

 

"Quando le violenze erano “il lato cattivo dell’amore", di Natalia Aspesi – La Repubblica 21.11.14

Chissà se i picchiatori o assassini della loro donna placheranno la loro rabbia nella giornata dedicata alla violenza contro le donne: tanto per onorare la festa o per prendersi un giorno di riposo. Ma anche se fosse, cosa serve questo tipo di cerimonia, certo non a far rinsavire gli uomini che manifestano la loro debolezza maschile usando ciò che hanno in più delle signore, a meno che queste non siano campionesse di sollevamento pesi, cioè la forza o meglio la forza bruta. Già donne e ragazze ammazzate non sono più una gran notizia, a meno che le circostanze siano profondamente efferate o eccitanti, e infatti gli articoli sono raramente in prima pagina, talvolta anche solo poche righe, tanto la storia è sempre quella e quindi sempre meno interessante, ben lontana da uno scoop: a meno che trattasi di una celebrità, lei o lui. Su questa violenza maschile si è già detto tutto, l’han fatto medici, criminologi, vescovi, associazioni femminili, sociologi, psichiatri ecc. e tanti violenti sono finiti in galera, ma la certezza di certi uomini che la loro donna è cosa loro resiste ancora. In certi casi si è resa ancor più amara di prima: perché prima, mettiamo sino a una cinquantina di anni fa, le mogli erano mogli quasi sempre casalinghe, dipendevano economicamente dal marito e in più non esisteva il divorzio: e sposandosi avevano promesso ubbidienza. Le botte facevano parte del lato negativo dell’amore, anche per la pasta scotta, ma essendo abbastanza diffuse, certo ci si lamentava, ma si faceva di tutto per non “meritarle”, vendicandosi poi con corna che il picchiatore non riusciva a scoprire.
Non so se la giornata contro la violenza alle donne comprenda anche i casi di stupro, ma penso che siano l’espressione più crudele e stupida della rabbia maschile. Talvolta anche coniugali, più diffusi da parte di sconosciuti o di finti amici. Come cronista ho assistito forse ai primi processi per stupro negli anni ‘70: le donne avevano osato denunciare il violentatore, e sempre le madri difendevano il loro buon figliolo, che o non aveva fatto quella brutta cosa lì oppure erano stati costretti dalla ragazza: ma spesso anche avvocati e giudici erano dalla parte del maschio. Perché la stuprata portava gonne troppo corte, o non teneva gli occhi bassi, o era troppo carina, o addirittura aveva già avuto un fidanzato quindi non essendo più vergine, unico tesoro delle giovani donne, lo stupro non esisteva. Il primo processo a cui assistetti in cui l’uomo fu condannato, fu quello, celebre, tra una bellissima studentessa che secondo i difensori aveva osato seguire il professore in casa sua, e per forza quindi lui aveva dovuto approfittarne, anche perché le sue difese non gli erano apparse così strenue. Erano i tempi dell’esplosione del femminismo, gli uomini cominciavano a temere le donne, e il professore fu condannato.
Ciò che ancora non è chiaro, è cosa avviene nel cervello di un uomo che “per amore”, picchia, stupra, uccide. Pareva ovvio che non dovesse più succedere, con l’avvento della parità, della diffusione del lavoro e delle professioni femminili, dei mutamenti sociali e legislativi, della diffusione della cultura e persino di una religione sempre meno spaventata dalle donne. In questo senso gli uomini sono cambiati poco, per lo meno non quanto le donne che hanno persino capito che essere sole può in certi casi essere meno pericoloso o noioso che essere in due. Certo il loro cambiamento può averle rese antipatiche, disubbidienti, sprezzanti, litigiose, pretenziose: e libere, e molte volte, orrore, superiori. Irritando anche ossessivamente gli uomini che pensano che le donne abbiano il dovere di amarlo incondizionatamente come la loro mamma. Bisognerebbe forse far capire ai maschi sin da bambini, a scuola, il meglio, non il peggio, della differenza.

"Quello che le ci dicono donne", di Concita De Gregorio – La Repubblica 21.11.14

Scrivere o leggere di abusi non è un compito facile né un passatempo gradevole. Sia chi scrive che chi legge preferirebbe occuparsi d’altro: nei dieci minuti di tempo che la lettura di questo articolo occupa si potrebbero fare molte altre cose più piacevoli, è sicuro, anche riposare e non fare nulla. Ma il silenzio produce effetti persino più “sgradevoli” del fastidio di occuparsi ancora, di nuovo e in una ricorrenza, per giunta, di violenza sulle donne. Il silenzio uccide quanto un coltello o una pistola. È più nocivo del fastidio di parlare.
Comincia così, più o meno con queste parole, l’ultimo libro della scrittrice e giornalista messicana Lydia Cacho: una bellissima donna di 50 anni, bella della forza che sprigiona, molte volte minacciata di morte, almeno due volte scampata ad attentati, rapita e sequestrata per aver raccontato e scritto con ostinazione per decenni di come le donne e i bambini, nel suo paese, siano vittime di abusi sessuali, violenza di ogni tipo, umiliazioni segregazioni torture infine morte, la morte spesso un sollievo. Con la complicità delle istituzioni politiche ed economiche, perché i “potenti” sono coinvolti nei traffici di prostituzione e pedofilia, nel silenzio delle tv e dei giornali che a quei potenti appartengono. Qualche settimana fa Lydia Cacho è stata in Italia, abbiamo parlato a lungo di che cosa si possa fare di davvero utile, ciascuno con le sue modeste forze, per fare in modo che le donne non abbiano paura. Qualcosa di utile oltre alla parola, alla scrittura. Perché i centri antiviolenza sono fondamentali, certo, ma moltissime donne non ne conoscono neppure l’esistenza. Dentro certe povertà Internet — l’informazione in rete — non arriva. Denunciare è sempre possibile, è vero, ma spesso inutile. Hai paura che dopo la denuncia sia anche peggio, spesso lo è. Le leggi servono ma non bastano. Gli uomini picchiano e uccidono le donne perché non fanno quello che vogliono loro: perché li lasciano, perché non assecondano i loro desideri, perché si scambiano un messaggio con altri, perché escono di casa quando gli è stato detto di non farlo. Non è un raptus, non è mai un raptus. La follia non c’entra. È piuttosto una convinzione profonda, arcaica, un’idea primitiva del possesso della donna, della “tua” donna, che in una zona remota della coscienza dice che questo è lo stato di natura delle cose: sei mia e fai come dico io. Non esci, non mi lasci. Non puoi. Una convinzione arcaica che attraversa i generi: è degli uomini carnefici come, in moltissimi casi, delle donne vittime. Da qualche parte in fondo al corpo e all’anima anche le donne, tante di loro, pensano che tutto è inutile perché tanto le cose stanno così, nessuno potrà davvero aiutarle. Alle bambine da piccole si insegna, ad ogni latitudine del globo, che devono — dovranno, per piacere a qualcuno — essere non solo belle e brave ma discrete, miti, umili. Disporsi in modalità passiva, avere pazienza, assecondare i desideri per eventualmente far valere i propri. Fare come vogliono senza tuttavia dare nell’occhio, farlo di risacca. Nell’onda di ritorno. In casa, al lavoro, per strada. Non spaventare gli uomini ma sedurli. Anche l’esibizione dei troppi meriti è un demerito: loro amano le bionde ma sposano le brune. Se vuoi farti sposare sii metaforicamente bruna, dunque, cioè sobria, timida, silenziosa. Meglio fragile che forte. Meglio dipendente che indipendente. Meglio coperta che scoperta. Si diceva dunque, con Lydia, che quello che servirebbe davvero è una specie di rieducazione sentimentale. Una pedagogia rivoluzionaria fin dai primi mesi di vita, all’asilo poi a scuola ma prima ancora in famiglia: una nuova educazione che sia capace di modificare l’assegnazione arcaica dei ruoli nelle coscienze. Un compito ciclopico, ma da qualche parte bisogna pur cominciare. Perché le leggi non servono, se non cambiano le teste. Aiutano, ma non bastano. Abbiamo anche riso: quando gli uomini sparecchiano la tavola capita che lo scrivano su un blog: sono bravissimo, sono per la parità, sparecchio. Poi abbiamo aperto Google, abbiamo digitato “uccisa dal fidanzato motivo”, “uccisa dal marito motivo”. Ho davanti il foglio su cui abbiamo segnato i primi sette risultati su due milioni e ottocentomila. Daniela Puddu, 37 anni, Iglesias, buttata dalla finestra perché sentiva il suo ex su Facebook. Veronica Valenti, 30 anni, Catania, lo aveva lasciato e non voleva tornare con lui. Fabiana Luzzi, 16 anni, Corigliano, lui voleva fare l’amore lei no. Ofelia Bontaiu, 28, Gualdo Tadino, non voleva partire per Londra con lui. Tiziana Falbo, 37, strangolata, voleva interrompere la relazione. Assunta Sicignano, 43, Vigevano, non voleva tornare con lui. Sonia Trimboli, 42, Milano, non voleva più vederlo. Non facevano quel che volevano loro, insomma: se ne andavano, non tornavano, parlavano con altri. Sonia aveva denunciato alla polizia il suo convivente il 28 agosto. Lui l’ha uccisa a ottobre, strangolata con l’elastico che usavano per tenere uniti i letti. Un gesto simbolico, diciamo. Nel mondo, solo negli ultimi giorni. Reyaneh Jebbari è stata impiccata in Iran per aver accoltellato l’uomo che la violentava. Maria Josè Alvaredo, 19 anni, eletta Miss Honduras e in procinto di volare a Londra per Miss Mondo è stata uccisa con sua sorella Sofia dal fidanzato di lei: Plutarco. Motivo: Sofia aveva ballato con un altro alla festa, Maria Josè aveva visto. Non stavano composte: reagivano alla violenza, decidevano con chi ballare.
Nelle foto di Guia Besana, italiana che vive a Parigi, ci sono immagini magnifiche di donne “Under Pressure”, così si chiama il suo progetto. Rotte, come bambole, sotto la pressione di quello che ci si aspetta da loro. Sotto il peso del non corrispondere all’attesa altrui che diventa infine anche propria. “Bella, brava, fedele”, dice lo spot che Eva Riccobono ha appena girato per la Onlus “Fare x bene” sotto lo slogan: Educhiamo i giovani al vero amore. Il video illustra in modo provocatorio cosa serve per non essere picchiate, per non essere uccise: essere come vogliono che tu sia. Allora alla fine è questo il meccanismo da scardinare, così difficile da trovare, così in fondo nella mente e nell’anima di ciascuno. Non è vero, bambina, che devi essere come vogliono che tu sia. Non è vero, ragazzo, che puoi pretendere che le donne siano come tu le vuoi. Si può anche cominciare dall’estetica. È appena uscita una bambola normale, sul mercato dei giocattoli. Un’anti-Barbie. Non è una bambola “coi difetti”, come scrivono i giornali. L’idea di difetto suppone un’attesa di bellezza ideale. È normale, simile alle donne come sono davvero. Anche un giocattolo serve, in questa battaglia contro la paura di non essere “giuste”, di non somigliare a quello che dovresti essere. Per arrivare a dirsi, da grandi, che c’è un solo modo per cambiare un fidanzato violento: cambiare fidanzato. Anche una bambola, molte bambole servono ad accettarsi per come si è, imparare a non dipendere dall’approvazione dell’altro. Piacersi e dunque proteggersi. Solo dai bambini, diceva Lydia, si può davvero ripartire. Conservarli liberi, non guastarli, farli forti. Ad esserne capaci: fare della scuola il più bel centro antiviolenza del mondo.

"Dalla stabilità una buona notizia per la ricerca di base: ai Prin il 50% del First", di Eugenio Bruno – Scuola 24 21.11.14

Dalla legge di stabilità arriva una buona notizia per la ricerca di base. La commissione Bilancio della Camera ha approvato un emendamento alla manovra 2015 che destina ai Prin il 50% delle risorse a disposizione del Fondo per gli investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica, il cosiddetto First. Una misura che tradotta in cifre vorrebbe dire uno stanziamento di 25-30 milioni per i progetti di interesse nazionale presentati nel 2015.

La modifica approvata
Partiamo dalla norma. L’emendamento 17.227 a prima firma Manuela Ghizzoni (Pd) che ha incassato l’ok della commissione Bilancio di Montecitorio aggiunge un ultimo periodo all’articolo 17, comma 10, del disegno di legge di stabilità che rimpingua di 150 milioni la quota del Fondo per il finanziamento ordinario (Ffo) delle università. L’oggetto stavolta non sono gli atenei ma la ricerca di base. In base alla modifica introdotta ieri infatti «una quota di almeno il cinquanta per cento del Fondo per gli investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica (FIRST)» sarà «destinata al finanziamento di progetti di ricerca di interesse nazionale (PRIN) presentati dalle università».

Lo scopo della misura 
A riassumerlo a Scuola 24 è la stessa proponente, la democratica Manuela Ghizzoni: «Garantire la ricerca di base significa garantire ricerca applicata di qualità, soprattutto nei periodi di crisi» ma anche dare «una boccata di ossigeno per le università italiane». Ragionando in termini di risorse vorrebbe dire liberare già nel 2015 la metà di quei 50-60 milioni che sono rimasti sul First. Ai nuovi Prin andrebbe così una dote di circa 25-30 milioni. Leggermente inferiore dunque all’ultimo bando che risale al gennaio 2013 (seppur riferito al 2012) e che poteva contare su 36 milioni. Ma comunque importante perché vorrebbe dire rimettere in moto il finanziamento dei progetti di ricerca a diversi mesi di distanza dall’ultimo bando, i cosiddetti «Sir» per i giovani ricercatori .

L’Iva sugli e-book 
Tra le altre modifica degne di nota va segnalata l’approvazione dell’emendamento sugli e book “caldeggiato” dal ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini. L’Iva sui libri e periodici in formato elettronico sarà equiparata a quelli a cartacei e scenderà dunque dal 22% al 4 per cento. Una riduzione d’imposta che comporterà un mancato gettito per l’erario stimato in 7,2 milioni di euro l’anno e che sarà coperto con un prelievo sul Fondo per interventi strutturali di politica economica. A beneficiarne potranno essere le famiglie che l’anno prossimo dovranno acquistare testi scolastici. Già dal settembre scorso infatti le scuole possono adottare e-book al posto dei classi tomi cartacei.

L.stabilità, Ghizzoni “Fondi a ricerca di base, ossigeno per atenei” – comunicato stampa 20.11.14

 La ricerca di base, è un prerequisito per lo sviluppo e per il rilancio economico, soprattutto nei periodi di crisi”: con queste parole la parlamentare modenese del Pd Manuela Ghizzoni, componente della Commissione Istruzione della Camera, commenta con soddisfazione l’accoglimento da parte della Commissione Bilancio della Camera dell’emendamento alla Legge di stabilità, di cui è prima firmataria, che stabilisce che almeno metà del Fondo nazionale per gli investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica sia destinata alla ricerca di base.

 

“I fondi alla ricerca di base sono una boccata di ossigeno per le università italiane”: così la deputata modenese del Pd Manuela Ghizzoni commenta l’approvazione da parte della Commissione Bilancio della Camera dell’emendamento alla Legge di stabilità, di cui è prima firmataria, che stabilisce che, d’ora in poi, almeno metà del Fondo nazionale per gli investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica sia destinata alla ricerca di base. “Sostenere i migliori progetti di ricerca in ogni disciplina, proposti liberamente dai ricercatori sulla base della propria curiosità ed esperienza, – spiega Ghizzoni –  significa consentire alle università di perseguire la loro vera missione culturale: nutrire di libera ricerca l’innovazione di lungo periodo e offrire una solida formazione degli studenti. Chi ritiene che si debba preferire la ricerca applicata sbaglia, poiché la maggioranza delle scoperte e invenzioni, e quindi delle conoscenze e delle tecnologie poi sviluppate dalle imprese, ha origine proprio dalla ricerca di base. La ricerca di base, è ormai noto, – conclude Ghizzoni – è un prerequisito per lo sviluppo e per il rilancio economico, soprattutto nei periodi di crisi”.

Quota 96, on. Ghizzoni “Negata risposta politica e giusto processo” – comunicato stampa 20.11.14

 

Dopo che i giudici di Salerno, Roma e altre città si sono espressi con sentenze opposte fra loro sui ricorsi dei lavoratori della scuola esclusi dal diritto alla pensione, Manuela Ghizzoni interroga il Governo sulla questione dei “Quota96Scuola”, chiedendo una risposta politica ad una vicenda rimasta senza soluzione dal gennaio 2012. Se su questa vertenza si lascia la parola ai vari Tribunali, il rischio è che lo Stato perda credibilità e 4mila lavoratori la parità di diritto e trattamento.          

 

La parlamentare modenese del Pd Manuela Ghizzoni, componente della Commissione Istruzione della Camera, chiede chiarimenti al Governo con un’interrogazione sulla questione “Quota96scuola” riguardante i circa 4mila lavoratori del comparto scuola, tra docenti e personale ATA,  che pur avendo maturato i requisiti per il pensionamento nel corso dell’anno scolastico 2011/2012, sono rimasti in servizio per un riconosciuto errore della legge Fornero sulla riforma previdenziale. Lo fa alla luce della recente e positiva sentenza del Tribunale del Lavoro di Salerno, che segue quelle del Tribunale di Roma del 2012, e che hanno accolto i ricorsi di questi lavoratori riconoscendone la legittimità. “Dal gennaio 2012 sul pensionamento del personale “Quota96” sono intervenuti diversi gruppi parlamentari con atti, proposte di legge ed emendamenti – dichiara Manuela Ghizzoni – che non hanno conseguito esito positivo, poiché i diversi Governi che si sono succeduti non hanno voluto trovare una soluzione, a partire dalle coperture  finanziarie. Ora la vicenda è passata nelle mani dei Tribunali e ancora una volta gli organi giudiziari decidono al posto di quelli legislativi. La giustizia però, nell’incertezza della materia e in mancanza di un dettato governativo, sta rispondendo con sentenze diverse e spesso opposte, creando una disparità di trattamento tra lavoratori con gli stessi diritti al pensionamento, ai quali viene così negata sia una risposta politica che un giusto processo”.

 

"L’alternanza scuola-lavoro conquista un istituto superiore su due", di Claudio Tucci – Scuola 24 20.11.14

Cresce l’appeal per l’alternanza scuola-lavoro: lo scorso anno scolastico (il 2013-2014) quasi un istituto superiore su due (2.361 su 5.403, il 43,5%) ha attivato questa metodologia didattica che lega scuole e imprese, rivolta a studenti che hanno compiuto 15 anni. I ragazzi in “stage” sono stati 210.506, il 10,7% del totale degli alunni delle superiori (l’anno precedente, il 2012-2013, erano l’8,7%).

Calano i finanziamenti, diminuiscono i corsi

Certo, i corsi realizzati si sono un pò ridotti (da 11.600 a 10.279 del 2013-2014), anche a causa del calo dei finanziamenti (scesi, in un anno, da 20 milioni a 11 milioni). Ma, ed è una notizia, è aumentato l’interesse dei licei: hanno attivato 1.223 percorsi, con un incremento rispetto all’anno scolastico precedente, addirittura del 35,4%. A testimonianza che «si va diffondendo la cultura dell’alternanza – ha sottolineato il sottosegretario Gabriele Toccafondi -. E il muro ideologico che ha sempre frenato l’apertura delle scuole al mondo del lavoro si sta piano piano sgretolando».
Il monitoraggio dei percorsi, introdotti nel 2005 dal decreto 77, realizzato dall’Indire, sarà presentato oggi a Verona, all’apertura del «Job&Orienta», il salone nazionale dell’orientamento, la formazione e il lavoro, promosso da VeronaFiere e regione Veneto, in collaborazione con Miur e ministero del Lavoro, in programma fino a sabato.

Tecnici e professionali in testa
I corsi in alternanza continuano a essere più frequenti per gli studenti dei tecnici e professionali (rispettivamente 3.056 percorsi, il 30% circa, e 5.956, il 57,9%). Il numero di ore di attività si attesta su una durata media di 97,9 (nei percorsi annuali – di cui 72,1 ore di formazione fuori dall’aula), «ma l’impegno del Governo è raddoppiare a 200 ore e rendere l’alternanza obbligatoria negli ultimi tre anni dei tecnici. E i fondi arriveranno con la legge di stabilità», ha ricordato Toccafondi.

Aziende pronte
Del resto, le aziende sono pronte: Federmeccanica sta partendo con un progetto sperimentale di 600 ore obbligatorie negli ultimi tre anni dei tecnici: «Il prossimo anno interesserà 50 istituti e 10mila studenti – ha spiegato il vice presidente Federico Visentin -. Stiamo facendo le selezioni. Guardiamo anche a scuole che non stanno facendo alternanza per capire le difficoltà e trovare le soluzioni. L’obiettivo è arrivare a 780 istituti e 250mila alunni. Le nostre aziende, specie nel settore manifatturiero, per innovare e crescere hanno necessità di personale sempre più qualificato».

Le cifre
Dai dati Indire emerge anche che i 201.506 studenti impegnati in alternanza sono stati accolti in 126.003 strutture di cui il 43,8% (55.154) sono imprese (+21,6% rispetto al 2012-2013). I settori più interessati sono stati: attività manifatturiere (41,9%), attività di servizi di alloggio e ristorazione (20,9%) e altre attività di servizi (6,7%). Il numero medio di ragazzi per azienda è di 14,6 (la maggior parte degli studenti si concentra nelle classi terze e quarte). Di solito i percorsi hanno una durata annuale (6.151, il 59,8% del totale); e la media degli ultimi 5 anni dei percorsi annuali si attesta intorno alle 118 ore. A livello territoriale, poi, la partecipazione è più alta in Lombardia, Toscana, Veneto, Lazio, Marche, Emilia Romagna e Sicilia.
«L’alternanza è un pilastro fondamentale per innovare la didattica e favorire l’orientamento – ha detto il dg per gli Ordinamenti scolastici e la valutazione del Miur, Carmela Palumbo -. Partendo dalla Buona Scuola puntiamo a ottenere risorse certe e tempestive. Il progetto sperimentale di Federmeccanica ci aiuterà a tarare al meglio l’utilizzo dei fondi».