Latest Posts

"Il velo caduto in via Bellerio", di Roberto Saviano

Può accadere che si chiuda l´inchiesta Infinito, e che dimostri come la ´ndrangheta abbia alleati nell´imprenditoria lombarda. Può accadere che emerga che la Asl di Pavia, non quella di una desolata provincia del sud Italia, fosse infiltrata dai clan. Può accadere che si chiuda l´inchiesta Aspide che traccia la presenza della camorra casalese in Veneto e dimostri come le imprese in difficoltà venissero risollevate da capitali criminali. Può accadere che la maggior azienda di pasticceria industriale al nord sia salvata dalla crisi con i capitali del clan Fabbrocino. Capita che i politici del Pirellone sotto inchiesta quasi non si contano più . Capita che il sistema Lega-Pdl – sistema, così viene definito, magari non è un caso – secondo la Procura di Milano, si spartisca pro quota le tangenti della provincia di Milano, creando anche fondi neri con trasferimento di denaro all´estero. Capita che tutto questo avvenga sotto gli occhi imperturbabili di Roberto Formigoni, rieletto governatore per la quarta volta (oggi per legge sarebbe tre il numero massimo) con una lista con 618 firme falsificate. Insomma, tutto questo capita al Nord e nessuna denuncia mai è arrivata dalla Lega. Nessun esponente della Lega mai ha sentito il bisogno, la necessità morale di informare i propri elettori che al Nord tutto questo stava capitando.
Le mafie interloquiscono con tutti i poteri, anche al Nord, e quindi anche con la Lega. Un anno fa questa frase pronunciata in tv generò un putiferio. L´allora ministro Maroni chiese, anzi pretese, come raramente accade in Occidente, di partecipare a Vieniviaconme, pur avendo ormai smentito le mie parole quasi in ogni altra trasmissione disponibile al momento. Un anno dopo la Dda conferma le parole che pronunciai durante la trasmissione e le conferma sottoforma di accusa al tesoriere della Lega. Francesco Belsito: non una mela marcia in un partito sano, ma un uomo che garantiva che i soldi pubblici finissero nelle tasche dei familiari e amici di Bossi.
Erano al potere al governo, nelle regioni e nei comuni eppure si proponevano come una forza in perenne opposizione. Nonostante il dilagare degli appalti ´ndranghetisti in Lombardia, camorristi in Veneto, ´ndranghetisti in Piemonte e Liguria, camorristi e ´ndranghetisti in Emilia Romagna la Lega non si sentiva chiamata in causa, non ha mai risposto di nulla, come se quelli non fossero territori con suoi rappresentanti, con suo elettorato. Bastava che non fossero coinvolti suoi esponenti in inchieste giudiziarie, (e in alcuni casi lo erano ma usavano la logica della mela marcia o della cospirazione dei magistrati), per tenersi fuori. Mai alla Lega è stato chiesto conto di quali politiche avesse adottato o quali allarmi avesse lanciato. La Lega in questi anni è riuscita a far credere alla propria differenza rispetto alle altre forze politiche. Si è giustificato il razzismo, l´omofobia di un movimento imbarazzante in molte sue manifestazioni pubbliche in nome di una presunta purezza ruspante che inorridiva alcuni e in altri generava persino simpatia: in quasi tutti c´era la sensazione che fosse qualcosa di veramente diverso. Oggi si vede di cosa fosse fatta la sua diversità.
Persino i più critici non avrebbero potuto ipotizzare quello che questa inchiesta ipotizza: il legame in affari con gli “arcoti”. Gli arcoti sono chiamati i De Stefano ´ndrina storica di Reggio Calabra. E chi legherebbe la Lega alle ndrine è il genovese Romolo Girardelli indagato nel 2002 dalla Dda di Reggio Calabria perché ritenuto associato alla costola dei De Stefano che operava in Francia e Liguria. Non è quindi una vicenda di voto di scambio (per ora) ma business, investimenti, danaro. I broker di ´ndrangheta usati per avere più profitti dagli investimenti di danaro pubblico. Ed è qui una delle altre responsabilità politiche della Lega nord. Raccontare il fenomeno mafioso come una sorta di invasione di cattivi e crudeli terroni nella presunta Padania operosa. Le inchieste degli ultimi cinque anni dimostrano il contrario esatto. Sono i capitali delle mafie che sono stati usati dall´economia settentrionale e in maniera copiosa dal 2006 quando la recessione iniziò a farsi sentire. Le imprese in difficoltà entravano in simbiosi con i clan lasciando che in alcuni settori come il movimento terre, il calcestruzzo, i subappalti, i noli, fossero praticamente monopolio dei clan. Le battaglie antimafia della Lega, in questi anni, hanno avuto un´unica declinazione legata alla cacciata dei mafiosi in “soggiorno obbligato”. La Lega si oppose strenuamente quando nel 1991, Leonardo Greco, boss mafioso decise di sistemarsi a Venezia, fece fiaccolate e scioperi della fame quando nel 1993 Anna Mazza meglio conosciuta come la «vedova nera della Camorra» venne mandata in soggiorno obbligato a Codognè, nel Trevigiano. Ma sul danaro mafioso invece un lungo silenzio.
La Lega ora risponderà alla giustizia attraverso il suo tesoriere, ma non è sufficiente. È bene, anzi fondamentale che ci sia una riflessione più ampia su questi anni. Sul doppio volto che questo movimento ha mostrato agli italiani e ai suoi stessi elettori. Il più grande tradimento della Lega è verso quella piccola industria operosa che ha creduto nella Lega come partito in grado di evitare sprechi, con l´obiettivo di scongiurare una morsa fiscale persecutoria.
Ora la Lega non potrà più sbandierare la sua diversità sul tema mafia. Al di la di ciò che risulterà dal processo, è evidente che siamo al cospetto di un quadro inquietante fatto di silenzi, di coperture, di connivenze. Un tradimento, questo della Lega, che solo i suoi militanti e le sue parti oneste, che ci sono, potranno davvero affrontare ed elaborare. Da oggi, ne siamo certi la storia di questo partito-movimento non sarà più la stessa.

La Repubblica 04.04.12

"Da Roma ladrona a Padania ladrona", di Giovanni Cerruti

Il 16 marzo una mano e un pennello ignoti, forse ben informati, di sicuro preveggenti, avevano sfregiato l’enorme scritta che sta sullo sfondo del pratone di Pontida. Era bastata una lettera: da «Padroni in casa nostra» a «Ladroni in casa nostra». Dei maneggi del tesoriere Francesco Belsito già si sapeva, già si temeva. Ma nessuno poteva immaginare che si arrivasse a tanto, a quest’inchiesta su otto anni di bilanci allegri, a questi sospetti, e pesanti, sui quattrini dirottati dalle casse del partito «alle esigenze personali di familiari del leader della Lega Nord». C’era una volta Roma Ladrona, ora tocca a Gemonio.

Basta leggere le pagine della Procura e si può capire l’impaccio della Lega. Otto anni di baldoria con la cassa, proprio da quel 2004 del coccolone, da quando Umberto Bossi non è più quell’Umberto Bossi. E, attorno, quella famiglia allargata che già un anno dopo era definita «Cerchio Magico». La moglie Manuela, i figli allora ragazzini, l’immancabile Rosi Mauro più un paio di favoriti di turno con relativi clienti. Bossi, in questo come Bettino Craxi, ha sempre avuto pochi spiccioli in tasca, ma qui torna buona una vecchia battuta del socialista Rino Formica: «Il convento è povero, ma i frati sono ricchi…».

Raccontano che il vecchio Bossi abbia passato il pomeriggio di ieri a domandarsi cosa sia successo, o cosa gli sia successo. E’ dall’inizio dell’anno che Francesco Belsito è accompagnato da pessima fama. Il 22 gennaio, Milano, Piazza Duomo, al comizio di Bossi sventolavano bandiere della Tanzania, giusto per segnalare la rabbia dei leghisti dopo le notizie sugli investimenti dell’esperto e affidabile Belsito. Quel pomeriggio, in Consiglio Federale, Bobo Maroni aveva portato la voce della «Lega degli onesti». A Belsito, tempo una settimana, erano stati chiesti i conti. Niente. Son passati due mesi e sono arrivati i carabinieri.

Il martedì di imbarazzo tra Gemonio e via Bellerio, casa e bottega che per la famiglia Bossi (e le Procure) sono ormai la stessa cosa, segnala incubi per il futuro. Non era solo Maroni a chiedere pulizia e verità, era buona parte dei parlamentari, tanto che il nuovo capogruppo Gianpaolo Dozzo, come primo atto, aveva deciso lo sfratto dell’ufficio di Belsito a Montecitorio. Ma la Lega di Famiglia e di Gemonio aveva resistito. Di più, a difendere Belsito e i suoi investimenti tanzaniani avevano mandato allo scoperto proprio Bossi, uno che con i soldi ha sempre pasticciato, anche prima del coccolone. Bossi che salva Belsito. Ma perché?

Non c’è leghista che si permetta di prendersela con Bossi, nemmeno Maroni e i suoi «Barbari Sognanti». Però è l’ex ministro, in mattinata e per primo, a commentare le notizie di cronaca giudiziaria: «Una brutta vicenda iniziata tempo fa, con indiscrezioni su operazioni diciamo strane, ed è una conseguenza molto negativa su cui non si è fatta sufficiente chiarezza». Ora, mentre la Lega di Famiglia più che con Belsito vorrebbe prendersela con Maroni, si capisce qualcosa in più. Si aspettavano le dimissioni di Belsito, e sono arrivate. Ora si attendono conti e nomi. Chi si è arricchito con i soldi dei leghisti?

E rieccole, «le esigenze personali di familiari del leader della Lega Nord». E non solo, visto che le perquisizioni riguardano anche la sede del «Sin.Pa.», che dovrebbe essere un sindacato padano guidato da Rosi Mauro. Con i soldi della Lega, sostiene la Procura di Milano, non solo viaggi e cene e alberghi. Anche altro, ad esempio macchine. Come sanno i militanti, l’amministratore Belsito con loro ha il braccino corto, mancano i soldi per l’affitto di sedi, per i manifesti, perfino la mazzetta dei giornali a «Radio Padania», che ha dovuto saltare le rassegne stampa. Per i famigli, pronta la cassa della ditta «Bossi».

La Bmw di Renzo Bossi, chissà a chi è intestata. E un appartamento appena comprato a Milano, si dice in piazza Cinque Giornate, pieno centro, sempre per Renzo. Una cascina per Roberto Libertà, l’altro figlio che la Lega di Famiglia vorrebbe candidare alle prossime elezioni politiche. E una casa in Sardegna per Rosi Mauro, o almeno così sospettano in Procura. Insomma, otto anni di spese in conto Lega. Che potrebbero costare carissime, al futuro della Lega. O Bossi non ha capito, e sarebbe già grave; o Bossi sapeva, e sarebbe ancora peggio. E prima o poi rischia davvero di trovarsi quella scritta sul muro di casa: «Gemonio Ladrona».

La Stampa 04.04.12

******

“Umberto nel mirino dentro e fuori il partito”, di MARCELLO SORGI
Lo scandalo dell’uso illecito dei finanziamenti pubblici da parte della Lega ha investito in pieno Bossi e la sua famiglia, destinatari secondo le accuse, dei fondi distratti dal tesoriere Francesco Belsito, e rischia di avere conseguenze anche più gravi del prevedibile proprio perché non è giunto inatteso. Anzi, il 22 gennaio, oltre tre mesi fa, di fronte alle prime rivelazioni sul comportamento del tesoriere, era stato lo stesso Bossi che solo ieri sera si è rassegnato a farlo dimettere – a insistere per difenderlo e ad attendere che fosse lui stesso a chiarire in che modo erano stati amministrati i fondi del partito. Ma naturalmente, nei mesi seguenti, Belsito si era ben guardato dal dare spiegazioni. Probabilmente anche perché sapeva che rischiavano di danneggiare il leader del Carroccio.

Ora tutti si chiedono se Bossi, colpito sia nella sua famiglia che nella rete di protezioni che il gruppo di dirigenti a lui più vicini, il cosiddetto «cerchio magico», gli assicurava, sarà in condizione di approntare una risposta credibile alle contestazioni dei giudici. E soprattutto fino a che punto si spingerà la pressione di Maroni nei suoi confronti, mirata ad un’operazione trasparenza rispetto agli elettori. L’ex ministro dell’Interno, in vantaggio finora in tutti i precongressi locali della Lega in cui s’è votato, ha rilasciato ieri una dichiarazione molto dura e ha disertato il vertice con Bossi nella sede di via Bellerio. Ma nella Lega non esistono le condizioni per far si che il Senatur si rassegni a un passo indietro, né forse per immaginare una Lega senza Bossi. Bisognerà vedere quanto pagherà il Carroccio nelle prossime elezioni amministrative per uno scandalo che in gran parte, grazie alle rivelazioni dei giornali, era diventato noto alla base leghista, provocando reazioni molto dure nelle manifestazioni del partito, dove a un certo punto erano comparsi anche striscioni con su scritto «Tanzania», con un’evidente allusione agli investimenti sospetti del tesoriere del partito.

L’altra conseguenza riguarda i già sofferenti rapporti tra il Carroccio e il Pdl, schierati in maniera opposta di fronte al governo, e alla ricerca di una faticosa ricomposizione almeno per affrontare le amministrative al Nord. Anche se Berlusconi ieri si è affrettato a dichiarare pubblicamente la sua solidarietà a Bossi, sarà inevitabile, nei prossimi giorni, che il Pdl prenda le distanze dagli ex alleati e in alcuni casi cerchi di intercettare gli eventuali voti in libera uscita dalla base elettorale nordista disgustata dallo scandalo.

La Stampa 04.04.12

******

“Bilanci taroccati e soldi pubblici per i figli del Senatùr”, di Gianni Del Vecchio

Altro che Roma ladrona. A sperperare i soldi pubblici, provenienti dai rimborsi elettorali, e utilizzarli per esigenze personali del suo capo e dei familiari, stavolta sarebbe proprio la Lega, tramite il tesoriere Francesco Belsito. A ipotizzarlo è la procura di Milano che, assieme ai colleghi di Napoli e Reggio Calabria, ha messo nel mirino gli strani traffici fatti da Belsito negli ultimi anni. Traffici che portano ad accuse pesanti per il tesoriere: dall’appropriazione indebita alla truffa ai danni dello stato, passando per il riciclaggio con ambienti vicini alla ’ndrangheta.
Secondo gli inquirenti milanesi, Belsito avrebbe presentato dei bilanci irregolari ai presidenti di camera e senato, che sarebbero così stati tratti in inganno e che quindi non avrebbero potuto sospendere i rimborsi elettorali. Più in dettaglio, il responsabile delle finanze leghiste avrebbe falsificato il rendiconto, nascondendo la reale natura delle entrate e delle uscite. Anche perché soprattutto queste ultime celerebbero una vera e propria bomba capace di far crollare dalle fondamenta il palazzo leghista: parte dei rimborsi elettorali (ovvero dei soldi che i contribuenti “regalano” ai partiti) sarebbero andati dritti dritti nelle tasche della famiglia Bossi. Secondo i pm lombardi, infatti, dalle intercettazioni telefoniche verrebbe fuori che Belsito avrebbe sostenuto «i costi della famiglia» del Senatùr, tramite «esborsi in contante, assegni circolari e contratti simulati».
Tutte operazioni finanziarie «non riconducibili agli interessi del partito e contrari ai suoi vincoli statutari», che avrebbero finanziato alberghi, cene e viaggi dei figli di Bossi e del braccio destro Rosi Mauro. Non a caso ieri mattina Guardia di finanza e carabinieri hanno perquisito a lungo la sede leghista di via Bellerio a Milano, nonché quella del Sindacato padano e la casa della segretaria personale di Bossi. Lo stesso leader e fondatore del Carroccio ha passato tutta la giornata in sede, assieme ai colonnelli Calderoli e Castelli, e in serata è arrivato anche l’ex ministro Tremonti.
Non c’era invece Roberto Maroni, che però ha tenuto a precisare che in questa vicenda «la Lega è parte lesa». Sul capo di Belsito però non pendono solo le accuse di appropriazione indebita e truffa. A preoccupare il tesoriere è anche quella di riciclaggio, contestatagli dalle procure di Napoli e Reggio Calabria. In particolare, per i magistrati calabresi sarebbe legato a un intermediario ligure che a sua volta è in contatto con esponenti

da Europa Quotidiano 04.04.12

******

“La fine di Bossi e del cerchio tragico, Lega travolta in campagna elettorale”, di Francesco Lo SARDO

Si dimette dall’incarico di partito il cassiere del Carroccio, una figura chiave del potere bossiano. Se l’affaire Belsito, il cassiere leghista indagato per appropriazione indebita e truffa ai danni dello stato, non è il colpo mortale è solo perché Bossi, ma soprattutto il cerchio magico dei suoi “badanti” in cui il tesoriere fiduciario del Senatùr – ex forzista genovese e autista di Alfredo Biondi, entrato in Lega appena dieci anni fa – occupava un ruolo chiave, sono già tutti politicamente morti.
Prendete Treviso, cuore del Veneto leghista, due sere fa, a poche ore dall’apertura della campagna elettorale. Travolgendo la disperata resistenza e le contromisure dei “cerchisti” locali guidati dal proconsole bossiano Gobbo, al congresso provinciale stravince Giorgio Granello, sindaco di Ponzano Veneto, “tosiano” e per la proprietà transitiva “maroniano”.
Uno che dice: «Sono un alpino e li difendo, indosso il tricolore. Non credo alla secessione. Nella Lega la musica è cambiata, se ne facciano tutti una ragione…». Se ne facciano una ragione quelli di via Bellerio, il quartier generale dei “lombardocentrici” perquisito ieri dalle Fiamme gialle e dai carabinieri insieme alla sede del fantomatico Sindacato padano dell’Erinni del Capo, Rosy Mauro. In prospettiva, se ne faccia una ragione persino Roberto Maroni, che ieri cantava vittoria. Perché sì, è vero che “Bobo” è sempre rimasto fuori dagli impicci in cui sono rimasti impigliati in tanti, incluso il fratello-coltello Calderoli: dallo scandalo della banca Credieuronord, ai villaggi turistici in Croazia, fino ai soldi in Tanzania di Belsito.
Com’è vero che Maroni aveva chiesto che fosse «fatta chiarezza sui conti della Lega» e che il tesoriere facesse «un passo indietro». Ma sarà bene, adesso che l’inchiesta di tre procure colpisce al cuore il vertice della Lega bossiana celebrando pubbliche esequie di una leadership ormai seppellita da tempo, che il “nuovista” Maroni – equilibrista aspirante successore del Senatùr – cambi musica anche lui, prima di essere spazzato via dal vento dell’unica, vera nuova Lega, che già c’è: quella veneta, che ha cambiato pelle, toni e obiettivi.
Quella che è diventata primo partito in Veneto, quella che soffre la linea dell’opposizione dura e pura a Monti, quella di Flavio Tosi che ha preso di petto Bossi e ha chiesto le dimissioni dell’indagato leghista al Pirellone Boni (ciò che invece Maroni s’è ben guardato di fare), quella del governatore Zaia che avverte: «Nella Lega ci sono diverse anime. L’unità è un punto di forza, semplicemente perché se si va avanti compatti si porta meglio a casa qualcosa…».
In altre parole: state attenti, lì in via Bellerio, l’unione tra leghisti lombardi e veneti non è un atto d’amore, ma un matrimonio d’interesse, e un interesse non è per sempre. Lo spettro della secessione nella Lega, dopo i congressi regionali di giugno, è la prossima vera criticità per il Carroccio allo sbando, da tenere presente già oggi, nell’ora cupa della fine di Bossi e di quel clan dei badanti pilotato da otto anni, dall’ictus dell’Umberto, dalla moglie Manuela Marrone.
Un anno fa il clan aveva architettato un golpe per cacciare Maroni e Tosi e commissariare la Lega lombarda e veneta. Calderoli fece una spiata, il blitz fallì ma fece impennare il livello della guerra interna. Col risultato che ai congressi locali, da mesi, il cerchio magico viene macellato pressoché ovunque. Lotta politica feroce, anche a colpi di carta bollata. Fino all’esposto di un vecchio leghista alla procura di Milano, il 23 gennaio, all’origine della perquisizione in via Bellerio.
La resa dei conti, ora, si fa più serrata: la linea di Maroni la esplicita Attilio Fontana, sindaco di Varese: «Bossi potrebbe essere all’oscuro di tutto». Traduzione: onore alla mummia del faraone Bossi, ma il Tutankhamon di Gemonio si faccia da parte. Prima di arrivare a strappargli le insegne, però, c’è l’oggi che spaventa. La paura delle amministrative per una Lega, in Lombardia, travolta da scandali e indagini. Non in Veneto, dove Tosi ha il vento in poppa: se conquisterà Verona al primo turno nessuno potrà più fermarlo nella corsa alla leadership della Lega del Veneto, al congresso di giugno. Mentre il lumbard Maroni mette le mani avanti: «L’inchiesta avrà ripercussioni sulle amministrative». E piove sul bagnato. Perché da tempo i sondaggi danno la Lega in picchiata. Altro che avvantaggiarsi dell’opposizione al governo Monti. Da settembre a marzo la Lega è scesa dal 10,1 all’8,9 per cento, (media Emg, Swg, Ipsos). Per Emg, dati del 2 aprile, è all’8,2 a livello nazionale. Ma a tenere a galla la barca che affonda è solo il rimorchiatore Veneto.

da Europa Quotidiano 04.04.12

"Imu, l'acconto di giugno si pagherà con l'aliquota base", di Cristiano Dell'Oste

Le aliquote dell’Imu cambieranno ancora. E non solo in virtù delle decisioni prese dai singoli municipi, ma anche in base ai conteggi perfezionati a Roma, tra via XX Settembre e Palazzo Chigi. Secondo l’ultimo pacchetto di correzioni al decreto fiscale, entro il prossimo 31 luglio – su proposta del ministero dell’Economia – sarà emanato un decreto della presidenza del Consiglio che conterrà la «modifica delle aliquote, delle relative variazioni e della detrazione». In pratica, una volta verificato il gettito dell’acconto – che dovrà essere pagato entro il 18 giugno sulla base delle attuali aliquote nazionali – il Governo potrà ritoccare i parametri generali dell’imposta, così da garantire comunque alle casse pubbliche i 21,4 miliardi di euro di introiti attesi per il 2012. Il saldo dell’Imu, infatti, dovrà essere pagato a dicembre secondo le nuove aliquote. Che saranno sì decise dai Comuni, ma nell’ambito della nuova cornice delineata a livello nazionale, che rispetto alla vecchia Ici presenterà quindi parecchie novità (si veda il nuovo scenario dell’Imu ).

Il subemendamento firmato ieri sera a nome del Governo dai senatori Mario Baldassarri (Fli) e Antonio Azzollini (Pdl) – relatori per la conversione del Dl 16/2012 – prende atto del fatto che il gettito dell’Imu in questo momento è molto difficile da stimare. Vuoi per l’impossibilità di conoscere gli introiti derivanti dagli immobili rurali, che non sono mai stati tassati e in molti casi sono ancora accatastati come terreni. Vuoi per la difficoltà di calcolare quante saranno le abitazioni principali, che ai tempi dell’Ici erano 19,7 milioni e che con l’Imu sono sicuramente destinate a scendere di numero (la nuova definizione di legge esclude, ad esempio, tutte le case concesse in uso gratuito ai parenti).
Per uscire da questa situazione di incertezza, viene delineato un meccanismo scaglionato nel tempo. Entro il 18 giugno i contribuenti verseranno l’acconto dell’Imu, che sarà pari al 50% dell’imposta dovuta e andrà calcolato con le aliquote e gli sconti definiti dal decreto salva-Italia: 4 per mille sulla prima casa e 7,6 per mille sugli altri immobili (si veda anche l’articolo alla pagina seguente). Poi, entro il mese di luglio, il ministero dell’Economia verificherà il gettito e detterà le correzioni del caso. Correzioni che potranno riguardare il livello delle aliquote nazionali, ma anche – pare di capire – i margini di manovra comunali (oggi i sindaci possono far salire o scendere del 3 per mille l’aliquota ordinaria e del 2 per mille quella sulla prima casa). Inoltre, potrebbe cambiare anche la detrazione di 200 euro riconosciuta sull’abitazione principale, così come quella aggiuntiva di 50 euro oggi prevista per ogni figlio di età non superiore a 26 anni che abiti nella stessa casa.

Nel frattempo, entro il 30 giugno i Comuni approveranno il preventivo, iscrivendo in bilancio il gettito Imu così come stimato dal dipartimento delle Finanze. Dopodiché, entro il 30 settembre, sulla base dei dati aggiornati, potranno «approvare o modificare il regolamento e la deliberazione relativa alle aliquote e alla detrazione del tributo». I sindaci, quindi, potranno aspettare il provvedimento del Governo prima di mettere nero su bianco le aliquote locali, che comunque saranno “usate” dai contribuenti solo per il versamento del saldo (in scadenza il 17 dicembre). Il testo precisa anche che i Comuni non potranno pretendere dallo Stato la differenza tra il gettito Imu stimato dalle Finanze e quello effettivo. Piuttosto, questo gettito “convenzionale” sarà rivisto insieme agli accertamenti relativi al fondo di riequilibrio e ai trasferimenti erariali, così come previsto dall’accordo Conferenza Stato-città e autonomie locali del 1° marzo 2012.

Il Sole 24 Ore 03.04.12

Pompei, l’Europa manda il denaro. Non sprechiamolo", di Luca Dal Fra

Cosa si muove sotto a Pompei? Dopo i commissariamenti scandalo, i crolli delle domus, le pletoriche dichiarazioni, sul sito flegreo è calato il silenzio, appena increspato da qualche presunto o reale piccolo cedimento. Negli ultimi giorni invece, come si trattasse del Vesuvio, si assiste a una ripresa delle attività. Giovedì scorso la Commissione europea ha dato il via libera alla seconda fase del finanziamento, già deliberato, di 105 milioni di euro per il piano di restauri dell’area archeologica, aprendo la strada ai bandi per gli appalti. Una buona notizia, subito seguita dalla decisione del Governo italiano di nominare Fernando Guida quale prefetto anticamorra per vigilare sulla legalità dei lavori e degli appalti di Pompei. In un’intervista al Corriere del Mezzogiorno del primo aprile, Guida promette certificati antimafia e bonifici on line per tutti come arma per sconfiggere le infiltrazioni della criminalità organizzata, cose in gran parte già usate dalla pubblica amministrazione. Visto che Pompei già godeva del supporto amministrativo di Invitalia, molti si chiedono se questa ultima iniziativa non sia un commissariamento mascherato: l’interessato nega, promette suprema collaborazione con la soprintendenza archeologica di Napoli e Pompei, e spiega che «quando la torta è ricca» -105 ml di euro fa gola a chiunque.
PIANO DELLA CONOSCENZA
Guida sarà alla testa di un gruppo di lavoro, composto da lui e dal prefetto di Napoli per il ministero degli Interni, poi da altri quattro rappresentati, rispettivamente dell’Autority sui contratti pubblici, dei dicasteri di Istruzione, Coesione territoriale e Beni Culturali sarà Fabio Carapezza Guttuso non un tecnico ma un altro prefetto. Dunque un organismo dal profilo barocco più che tecnico investigativo, segnato dalle molte nomine politiche: toccherà al tempo fugare il dubbio se si tratti di vigilanza o di un tavolo di mediazione per i famosi 105 milioni di euro. Nell’ottimismo generale la squadra sarà presentata giovedì a Napoli in una conferenza con il presidente del Consiglio Mario Monti e i ministri Ornaghi, Barca, Cancellieri, a dimostrare quanto il governo tenga a Pompei, fiore all’occhiello dell’archeologia.
Purtroppo da tempo a Pompei non si parla più di archeologia: l’attuale piano dei restauri della soprintendenza del 2011, quello appunto finanziato dalla Commissione europea, è esemplato per non dir copiato da un analogo piano della Segreteria generale del ministero, a sua volta ispirato dalla relazione redatta dall’Unesco dopo l’ispezione del 2010. L’allora segretario generale Roberto Cecchi sulla rivista «Ananke», stabiliva che i restauri su Pompei degli ultimi 50 anni: «sono un accrocco che poco ha a che vedere con le buone regole dell’arte», lanciando un «piano della conoscenza» sul reale stato dell’area e curando il libro Pompei archeologia, finanziato dal ministero per Electa. L’indagine conoscitiva, o meglio i risultati dell’indagine vennero bloccati dalla nomina di Villari come sottosegretario, del libro si sono perse le tracce. Ora che è sottosegretario Cecchi potrebbe almeno far pubblicare il volume, visto che è stato completamente esautorato da Pompei. Nel frattempo sono stati assunti 22 tecnici -13 archeologi e 9 architetti più un amministrativodestinati al sito: un segno di ritorno alla normalità cui l’attuale soprintendenza sembra puntare. Così gli unici ad apparire preoccupati che i fondi servano per reali lavori di restauro e tutela sono i Commissari dell’Ue, che anche nella delibera di giovedì scorso hanno ribadito precise clausole all’utilizzo dei finanziamenti. E la danza sul vulcano continua.

L’Unità 03.04.12

"Una legge anticorruzione e una per il territorio", di Andrea Scarchilli

Il ministro della giustizia Paola Severino è in questi giorni impegnata nella stesura degli emendamenti governativi al disegno di legge che ha l’obiettivo di costituire un argine contro la corruzione. Negli ultimi mesi, la questione è balzata all’attenzione dell’opinione pubblica per una serie di inchieste giudiziarie che sembrano aver aperto uno squarcio su modalità di amministrazione della cosa pubblica per molti versi affini a quelle scoperchiate da Tangentopoli. L’iniziativa del governo, necessaria, va tuttavia rafforzata sin dalle premesse.
Infatti una caratteristica ulteriore delle ultime inchieste, da Bari a Milano, è l’evidenziata disinvoltura con la quale viene gestito il territorio delle nostre città dalla politica. I piani urbanistici, che dovrebbero essere garanzia di una corretta ed equa organizzazione del territorio, nonché ispirati innanzitutto dalle esigenze di fruizione degli spazi pubblici (come i parchi e le piazze serviti da una sistema di mobilità efficiente) da parte dei cittadini, diventano strumenti opachi e continuamente rivisti in peggio (le famigerate varianti) per permettere all’ente di far cassa attraverso i permessi di costruire o, in alcuni casi, per alimentare il malaffare.
È una questione la cui urgenza e la necessità di porvi degli antidoti non sono forse ancora abbastanza presenti alla classe politica e all’opinione pubblica. Se infatti la corruzione in generale è un cancro perché calpesta la legalità e distorce il principio economico della concorrenza, quando essa a che fare con il territorio si aggrava del danno inferto a un bene pubblico, e quindi a tutti noi.
Una possibile strada per cominciare a prendere di petto il problema potrebbe essere la promessa del ministro dei beni culturali, Lorenzo Ornaghi, di farsi promotore di una legge urbanistica nazionale. Ornaghi ha definito la legge in vigore (risale al 1942) obsoleta. Una legge non risolverebbe i problemi in un colpo solo, però potrebbe costituire il quadro in cui cominciare a lavorare per la tutela e la valorizzazione di un bene così importante come il territorio, troppo spesso maltrattato in un paese come l’Italia le cui bellezze territoriali e paesaggistiche dovrebbero invece essere preservate al massimo grado.
Una legge nazionale innovativa dovrà finalmente stabilire trasparenza e procedure di controllo dei cittadini sulle decisioni che riguardano il loro territorio, in primo luogo la stesura dei piani urbanistici. Dovrà inoltre mettere in primo piano l’interesse pubblico nei rapporti tra enti e privati che stanno alla base della costruzione di nuove opere e insediamenti nelle nostre città e nelle nostre campagne: quasi sempre le tasse dovute dai costruttori vengono utilizzate dai comuni per fare cassa, invece di essere impiegate per i necessari servizi di sviluppo della città pubblica.
Infine, una legge innovativa dovrebbe porre un argine concreto al consumo di suolo, vera piaga del nostro paese. È stato calcolato che ogni anno, il territorio di quattro regioni (nel caso la Lombardia, l’Emilia-Romagna, il Friuli Venezia-Giulia e la Sardegna) viene cementificato per una superficie grande due volte la città di Brescia. A tutto discapito dell’agricoltura (altra eccellenza nazionale) e della sicurezza dei cittadini, visto che più cemento equivale a più rischi.
Le continue frane e alluvioni ce lo dimostrano anno dopo anno. Riqualificare le città, rivitalizzare gli spazi industriali dismessi a beneficio delle collettività, piuttosto che costruire il nuovo: questa dovrebbe essere la linea, che presuppone innanzitutto un cambio di cultura.

da Europa Quotidiano 03.04.12

"Il problema vero: il lavoro che manca", di Giuseppe Provenzano

Si fa una gran fatica a commentare ogni bollettino che dal fronte del mercato del lavoro rimbalza mensilmente su giornali e tv sempre con lo stesso stanco titolo. «Un giovane su tre è disoccupato» è la “mezza verità” di una notizia che corre dietro a decimi di percentuali. Mentre il tasso di occupazione di giovani e donne (rimosso con un misto di pervicacia e ignoranza dall’opinione pubblica che conta) ristagna o declina in mezzo Paese sotto i livelli della Grecia. Eppure, queste stesse statistiche, se lette con un minimo di attenzione, potrebbero evitare il rischio più grave che si corre in questa fase delicata, nella discussione lacerante intorno alla riforma del mercato del lavoro, peraltro da correggere e migliorare: far perdere di vista che la vera priorità del nostro Paese – e del Mezzogiorno, specialmente – è la strutturale carenza di occasioni di «buona occupazione».
Sul fronte meridionale, lavora meno di un giovane (under 35) e di una donna su tre. E sono numeri come pietre, poiché tutti i «calmieri» sociali vengono meno: i risparmi privati delle famiglie sono erosi; la «valvola di sfogo» della fuoriuscita migratoria si restringe, per una dinamica occupazionale che peggiora quasi ovunque in un’Europa in cui scarseggiano domanda e investimenti. È il lavoro che manca, la prima ragione del ricatto e dell’offesa alla dignità delle nuove generazioni, che rende tragica l’alternativa tra malaoccupazione e inoccupazione (e l’una e l’altra senza paracadute sociale), tra precarietà e «spreco». È il lavoro che non c’è che trasforma anche il lavoro che c’è, su cui nel nostro Paese si scaricano gli ulteriori effetti di un sistema fiscale iniquo e di un welfare squilibrato e incompleto. Una penalizzazione che va dalle forme più o meno occulte di subordinato al lavoro autonomo del piccolo imprenditore (stretto dalla morsa creditizia). Un vasto mondo dove non a caso rilevano ora anche altre statistiche, quelle dei suicidi: il punto di caduta, letteralmente. A vederla da Sud un altro aspetto rende surreale la discussione sul mercato del lavoro: se per mercato intendessimo un luogo libero e trasparente di incontro tra domanda e offerta, allora dovremmo convenire che il «mercato del lavoro» non esiste, almeno in vaste aree del Paese dominate da scarsa partecipazione, disoccupazione implicita, scoraggiamento e un’intermediazione impropria finalizzata alla manipolazione dell’accesso all’occupazione. Una politica riformista dovrebbe avere come primo obiettivo quello di intervenire con decisione sul difficile nesso tra formazione e lavoro, fonte di storture e inefficienze. Per quel che è dato saperne ad oggi, la riforma Fornero non incide su un tema che la maggior parte delle Regioni gestisce in maniera gravemente inadeguata. Infine, in un’economia nazionale che sembra essersi accorta del mondo solo quando ci è entrato in casa sbattendo i cancelli delle fabbriche, con un apparato produttivo debole e incapace di collocarsi nei segmenti competitivi della divisione internazionale del lavoro, che ha trasformato il nostro mercato del lavoro in una triste trincea di ultimi e penultimi,pensare di affrontare la questione della domanda di lavoro con la riforma delle regole appare una prospettiva insufficiente, un’illusione «giuslavoristica». Del resto, lo abbiamo visto nella di crisi: il crollo occupazionale non ha certo trovato ostacoli nelle regole, compreso il «temibile» art. 18. Se il lavoro in questi anni è stato perdente, e con esso l’intera economia ha perduto, bisogna trovare le forme per rafforzarlo: puntando sul capitale umano e sulla produttività, con politiche che migliorino i servizi pubblici e privati, riattivando la spesa pubblica in conto capitale, utilizzando la leva di politiche industriali innovative, e persino favorendo l’emergere di domanda e offerta di nuovi beni e produzioni sostenibili. Su questi punti dovrà qualificarsi la proposta più volte evocata di un nuovo piano per l’occupazione. Ma allora, forse, la nostra partita riformista, assai più che in una riforma delle regole che in fase recessiva rischia soltanto di «redistribuire la miseria del lavoro di oggi» (per dirla con Fassina), si gioca altrove, provando a sciogliere in senso progressivo la tensione tra stabilità finanziaria e sviluppo che tra Berlino e Parigi rischia di far naufragare l’Europa, spingendo alla deriva la sua frontiera meridionale.

L’Unità 03.04.12

"Via Rasella, la scelta di Sasà", di Bruno Gravagnuolo

Fu l’autore dell’attentato contro le SS che scatenò poi la rappresaglia delle Fosse Ardeatine. Aveva 90 anni. Come partigiano difese sempre l’azione che la Cassazione definì «legittimo atto di guerra». Comandava il nucleo di Centocelle e in quel frangente venne interpellato da Salinari a nome
dei gap comunisti: «Te la senti?…» E il suo destino cambiò. Per noi giovani Fgci del liceo Tasso della sezione Ludovisi era semplicemente «Sasà». Sapevo, sapevamo, che era stato uno dei protagonisti dell’attentato a Via Rasella. E anche per le polemiche perenni su quella azione, avevamo timore di «chiedere», e di conoscerlo. In realtà era un uomo semplice e affabile. Che ci raccontò più volte quella giornata, nella quale lui, travestito da netturbino, accese la miccia del tritolo dentro il carretto per farlo esplodere, giusto nel mezzo del corteo armato dei 33 Ss Bozen che transitavano nella celebre via, risalendola appena svoltato l’incrocio di Via del Tritone. Sasà era così: ex combattente non pentito, moderato e saggio, piuttosto di «destra» ai nostri occhi, molto togliattiano Pci.
In realtà il personaggio era anche molto di più di quella circostanza che lo vide protagonista e di cui fu attore di primo piano, quasi per caso. Era un intellettuale aspirante medico, un ex giovane dei Guf, fascista disilluso e dissidente. Prima tentato dai trotzkisti, poi conquistato da Giorgio Amendola e Salinari. Come tanti del gruppo capitolino del Pci, fatto di giovani e men giovani Ingrao tra gli altri che ebbe un ruolo chiave nel traghettare al comunismo italiano la generazione del «lungo viaggio attraverso il fascismo». In seguito Bentivegna fu infatti saggista, polemista e storico. Tutte caratteristiche che marcheranno la sua figura di comunista romano, fino a poco prima dell’era Petroselli. E però veniva da Centocelle in quella primavera del 1943, dove comandava un nucleo partigiano. E in quel frangente fu interpellato da Carlo Salinari a nome dei gap comunisti: «te la senti?». Da allora la svolta vera, almeno nell’immagine pubblica: l’uomo dell’attentato di Via Rasella. Vale a dire: un destino inseparabilmente legato sia a quella del nemico attaccato, sia alla rappresaglia delle Ardeatine. Che la destra reazionaria, quella moderata e anche un certo revisionismo gli misero sul conto. Malgrado la medaglia al valore che gli fu elargita, malgrado i tanti processi che riconobbero che l’attentato era stata un’azione bellica e in un contesto in cui i tedeschi torturavano, deportavano, razziavano ebrei, mentre gli americani erano inchiodati ad Anzio. Già, perché come disse il Dc Taviani partigiano bianco, proprio gli anglo-americani esortavano la Resistenza romana a «rendere impossibile la vita ai tedeschi». In una città che già aveva visto numerose azioni di guerra, con i gap in prima fila contro fascisti e occupanti (e i 33 uccisi in Via Rasella non erano pacifici montanari altoatesini, bensì germanofoni volontari chiamati appositamente per schiacciare e rastrellare).
Dunque rappresaglia consumata in silenzio, con 335 vittime innocenti a fronte dei 33 Ss, e nessun invito a consegnarsi rivolto agli attentatori: la notizia infatti fu data dal Messaggero il giorno dopo. «Se lo avessimo saputo dirà Sasà li avremmo attaccati e dato il segnale della rivolta in città». E però lo abbiamo detto: nonostante l’ombra immane di quei fatti, le accuse ignobili e reiterate lungo tutto il dopoguerra, (dalla destra fino a Pannella), Sasà era sereno. Quasi scettico, disincantato, fermo nei suoi convincimementi e niente affatto risentito. Benché la sua biografia lo avesse reso bersaglio di discriminazioni anche sul piano professionale, ostacolando la sua carriera di medico.
Tutte cose queste che Bentivegna ha raccontato per filo e per segno in numerosi suoi libri, l’ultimo dei quali era stato l’autobiografia Einaudi che va dall’anno della sua nascita, 1922 a Roma, fino alle ultime polemiche mediatiche con Bruno Vespa, che aveva (in video e in uno dei suoi libri) riciclato le vecchie polemiche contro di lui per l’attentato. Per nulla settario, trovò anche il tempo per dialogare con l’ex Rsi Mazzantini, con un libro e il contributo a una fiction Tv sui «ragazzi di Salò». E rimase nel Pci fino a metà degli anni 80, uscendone contro la linea radicale dell’ultimo Berlinguer. Amendoliano, non pentito, disse sempre di non avere particolari virtù e di aver vissutio «senza fare di necessità virtù». Come nel titolo del suo ultimo e bellissimo libro.

l’Unità 03.04.12