attualità, lavoro

"Il problema vero: il lavoro che manca", di Giuseppe Provenzano

Si fa una gran fatica a commentare ogni bollettino che dal fronte del mercato del lavoro rimbalza mensilmente su giornali e tv sempre con lo stesso stanco titolo. «Un giovane su tre è disoccupato» è la “mezza verità” di una notizia che corre dietro a decimi di percentuali. Mentre il tasso di occupazione di giovani e donne (rimosso con un misto di pervicacia e ignoranza dall’opinione pubblica che conta) ristagna o declina in mezzo Paese sotto i livelli della Grecia. Eppure, queste stesse statistiche, se lette con un minimo di attenzione, potrebbero evitare il rischio più grave che si corre in questa fase delicata, nella discussione lacerante intorno alla riforma del mercato del lavoro, peraltro da correggere e migliorare: far perdere di vista che la vera priorità del nostro Paese – e del Mezzogiorno, specialmente – è la strutturale carenza di occasioni di «buona occupazione».
Sul fronte meridionale, lavora meno di un giovane (under 35) e di una donna su tre. E sono numeri come pietre, poiché tutti i «calmieri» sociali vengono meno: i risparmi privati delle famiglie sono erosi; la «valvola di sfogo» della fuoriuscita migratoria si restringe, per una dinamica occupazionale che peggiora quasi ovunque in un’Europa in cui scarseggiano domanda e investimenti. È il lavoro che manca, la prima ragione del ricatto e dell’offesa alla dignità delle nuove generazioni, che rende tragica l’alternativa tra malaoccupazione e inoccupazione (e l’una e l’altra senza paracadute sociale), tra precarietà e «spreco». È il lavoro che non c’è che trasforma anche il lavoro che c’è, su cui nel nostro Paese si scaricano gli ulteriori effetti di un sistema fiscale iniquo e di un welfare squilibrato e incompleto. Una penalizzazione che va dalle forme più o meno occulte di subordinato al lavoro autonomo del piccolo imprenditore (stretto dalla morsa creditizia). Un vasto mondo dove non a caso rilevano ora anche altre statistiche, quelle dei suicidi: il punto di caduta, letteralmente. A vederla da Sud un altro aspetto rende surreale la discussione sul mercato del lavoro: se per mercato intendessimo un luogo libero e trasparente di incontro tra domanda e offerta, allora dovremmo convenire che il «mercato del lavoro» non esiste, almeno in vaste aree del Paese dominate da scarsa partecipazione, disoccupazione implicita, scoraggiamento e un’intermediazione impropria finalizzata alla manipolazione dell’accesso all’occupazione. Una politica riformista dovrebbe avere come primo obiettivo quello di intervenire con decisione sul difficile nesso tra formazione e lavoro, fonte di storture e inefficienze. Per quel che è dato saperne ad oggi, la riforma Fornero non incide su un tema che la maggior parte delle Regioni gestisce in maniera gravemente inadeguata. Infine, in un’economia nazionale che sembra essersi accorta del mondo solo quando ci è entrato in casa sbattendo i cancelli delle fabbriche, con un apparato produttivo debole e incapace di collocarsi nei segmenti competitivi della divisione internazionale del lavoro, che ha trasformato il nostro mercato del lavoro in una triste trincea di ultimi e penultimi,pensare di affrontare la questione della domanda di lavoro con la riforma delle regole appare una prospettiva insufficiente, un’illusione «giuslavoristica». Del resto, lo abbiamo visto nella di crisi: il crollo occupazionale non ha certo trovato ostacoli nelle regole, compreso il «temibile» art. 18. Se il lavoro in questi anni è stato perdente, e con esso l’intera economia ha perduto, bisogna trovare le forme per rafforzarlo: puntando sul capitale umano e sulla produttività, con politiche che migliorino i servizi pubblici e privati, riattivando la spesa pubblica in conto capitale, utilizzando la leva di politiche industriali innovative, e persino favorendo l’emergere di domanda e offerta di nuovi beni e produzioni sostenibili. Su questi punti dovrà qualificarsi la proposta più volte evocata di un nuovo piano per l’occupazione. Ma allora, forse, la nostra partita riformista, assai più che in una riforma delle regole che in fase recessiva rischia soltanto di «redistribuire la miseria del lavoro di oggi» (per dirla con Fassina), si gioca altrove, provando a sciogliere in senso progressivo la tensione tra stabilità finanziaria e sviluppo che tra Berlino e Parigi rischia di far naufragare l’Europa, spingendo alla deriva la sua frontiera meridionale.

L’Unità 03.04.12