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"I professori dell'autoriforma", di Sergio Luzzatto

Ci sono le cose ridicole, e ci sono le cose serie. Nella top list delle cose ridicole che abbiamo potuto leggere di recente a proposito della scuola italiana, sta la notizia secondo cui la Divina Commedia di Dante andrebbe espurgata perché contiene «stereotipi, luoghi comuni, frasi razziste, islamofobiche e antisemite». Ma allora – è stato sarcasticamente notato su queste colonne – perché non espurgare anche Boccaccio, o Shakespeare? Come a dire: i rischi del politically correct quando vuole farsi Nuova Inquisizione.

Poi ci sono le cose serie. E fra queste c’è il problema – grande come una casa – non di quello che andrebbe tolto dall’insegnamento della nostra scuola, ma di quello che andrebbe aggiunto. In altre parole, c’è il problema dei “buchi” di una didattica che fatica ad aggiornarsi sia nelle forme, sia nei contenuti. E c’è il problema – grande come una città – degli insegnanti che vanno sempre più perdendo il contatto con gli studenti. Docenti giovani o meno giovani, simpatici o antipatici, volenterosi o sfaticati, colti o ignoranti, che ai ragazzi di oggi (cioè ai nativi digitali) danno comunque l’impressione di parlare una lingua totalmente diversa dalla loro. Una lingua comprensibile, ma astrusa. Logica, ma arcaica.

Alla radice di questi problemi sta indubbiamente un deficit nella formazione degli insegnanti italiani: deficit alimentato, negli ultimi anni, da interventi legislativi che hanno penalizzato la scuola pubblica molto più di quanto l’abbiano riformata. Ma alla radice di questi problemi sta anche un’inerzia culturale degli insegnanti stessi. Le nostre scuole sono piene di professori che, quando pure non si trincerino nell’implicita routine del minimo sindacale, si arroccano dietro l’esplicito rispetto del «programma ministeriale», delle «discipline curricolari», e di quant’altro serve loro per blindare l’esistente senza compiere un singolo passo verso le frontiere del cambiamento. Eppure, nelle scuole italiane ci sono anche professori – una minoranza, ma una minoranza significativa – che hanno imboccato o stanno imboccando un cammino differente: a prescindere dalla riforma Gelmini, dalla riforma Berlinguer, da chissà quali altre riforme passate o future. Potremmo chiamarli, per semplicità, i professori dell’autoriforma: altrimenti la riforma dovrebbe avere tanti cognomi quanti sono questi insegnanti che non coltivano né la religione dell’imboscamento né quella del piagnisteo. Che non si limitano a lavoricchiare sospirando il 27 del mese, né minacciano di «togliere il disturbo» perché la scuola italiana non è più quella di una volta.

Sì: per esperienza diretta o per sentito dire, quali docenti dei figli nostri o dei figli di amici, a livello di scuola secondaria inferiore o di scuola superiore, in un liceo classico o in un istituto professionale, tutti noi sappiamo come nelle scuole italiane esistano professori di una specie particolare. Sono gli insegnanti che non fanno finta di niente. Che riconoscono eccome l’impatto epocale delle nuove tecnologie sulle modalità di trasmissione della conoscenza. Che si interrogano eccome sulla concorrenza di «agenzie educative» estranee agli ambienti della scuola tradizionale. Che si misurano quotidianamente (per fare un unico esempio) con l’evoluzione materiale e immateriale del concetto di “classico”. Che si pongono eccome, insomma, il problema di un digital divide culturale e antropologico oltreché generazionale. E che cercano di rimediare a questa separazione – di colmare il vuoto fra professori e studenti – attraverso una didattica innovativa nelle forme come nei contenuti.

Il Sole 24 Ore 02.04.12

"Così una donna minuta e gentile si è fatta mito per salvare un popolo", di Paolo Giordano

C’è questo ragazzino che conosco, ha tredici anni e tutti i vizi e le virtù della sua età. I vizi riguardano, in particolare, una scorza che lo rende impassibile, quasi abulico nei confronti del mondo esterno; la sua virtù più spiccata è la schiettezza fulminante, sfrontata con cui è in grado di farti sentire di un altro pianeta già defunto. La settimana scorsa l’ho invitato al cinema, volevo che vedesse il nuovo film di Luc Besson, «The Lady», dedicato alla leader della resistenza birmana Aung San Suu Kyi. Io l’avevo visto appena qualche giorno prima e n’ero uscito sottosopra, fortemente ispirato da una forma astratta di eroismo, che in altre circostanze e in fasi precedenti della mia vita avrei liquidato come troppo zuccherosa. Mi sembrava che l’attualità della storia, la mancanza quasi totale di ombre dell’Orchidea d’Acciaio e l’impostazione un po’ didascalica del film potessero essere di altrettanta ispirazione per un adolescente. Lui era scettico, non vedeva ragione d’impiegare tante forze, se ci tenevo tanto che ne sapesse qualcosa gli bastava consultare Wikipedia. «Non è lo stesso» ho insistito. Ci sono vicende alle quali bisogna partecipare con il corpo e con i sensi, bisogna sentirsele addosso per comprenderne la portata. Ho dovuto blandirlo con la promessa di un hamburger, ma alla fine mi ha seguito.
Fuori dal cinema, dove io avevo trattenuto a stento la commozione che m’invadeva per la seconda volta (accanto a lui mi sembrava patetica), era pensoso, contrariato. Ho creduto di aver raggiunto il mio scopo, renderlo più vulnerabile alle tragedie dell’umanità. Arrivati alla macchina, in quel suo modo lapidario, ha detto: «Comunque, di questa Birmania non ne parla nessuno».
Ho incassato, sapevo che aveva ragione. Ma poteva andare molto peggio. Senza Aung San Suu Kyi, senza il Nobel per la pace assegnatole nel 1991 e le fotografie del suo viso compassato sui giornali, della Birmania si parlerebbe ancora meno. Anzi, non se ne parlerebbe affatto. Gli U2 non avrebbero scritto quella canzone, Walk On, che la fece conoscere ai rockettari spensierati come me, Time non avrebbe dedicato una copertina a un Paese agli antipodi degli Stati Uniti e Luc Besson avrebbe continuato a dedicarsi alla tribù dei Minimei, ingrassando. Senza un uomo o una donna, a chi si può dedicare una canzone? A chi si conferisce il premio Nobel? A un popolo intero? La Birmania sarebbe diventata uno dei molti spazi neri sul mappamondo bucherellato dell’inconscio occidentale, l’avremmo semplicemente rubricato fra le aree ostili, dominate ancora dall’ingiustizia più bieca e dalla barbarie, uno dei tanti Paesi per i quali non è possibile fare nulla.
La nostra mente non è strutturata per accogliere i drammi collettivi. Quando le si para davanti l’onda gigantesca della sofferenza di un popolo, innalza subito una barriera protettiva. Il solo modo in cui quel dolore può intrufolarsi è attraverso la storia di un singolo individuo, meglio ancora se veicolata da un’opera d’arte — una canzone, un romanzo, un film —, che abbia anche una narrazione leggera. Aung San Suu Kyi, questo, lo ha sempre saputo e ha offerto se stessa come materiale vivente per quei racconti. Ha accettato di marcire dentro la stessa casa per quindici anni, lontana dal marito e i figli, inchiodata alla punizione peggiore per un’attivista, l’inazione, solamente per continuare a esserci. È il lumicino tenace che rischiara da oltre vent’anni la Birmania, per noi. Attraverso il suo sguardo fiero e amorevole siamo in grado di vedere un’intera nazione che altrimenti sprofonderebbe nel buio.
Mi accorgo, mentre scrivo di lei, che il tono delle frasi vira verso il celebrativo. Non ci sono abituato. Di solito, mi affretto a corrompere tutto ciò che ha il profumo dell’ideale con un po’ di crudo realismo puzzolente. Ma con Aung San Suu Kyi non ci riesco. Desidero con tutte le forze mantenere intatto il mito che rappresenta, come un punto all’infinito a cui tendere, una perfezione asintotica fatta di coraggio e lealtà e purezza. Voglio mantenere la fede un po’ idiota che il suo successo in queste elezioni, dopo che nel 1990 ne vinse delle altre immediatamente cancellate, sia la panacea per la Birmania, e dimenticarmi che la realtà di un Paese è molto più complessa di così, che ci saranno tensioni, lentezze, recrudescenze e altro sangue, forse. Non oso neppure rovinare la sua immagine iconografica, i fiori freschi tra i capelli e la mano alzata in segno di saluto. Credo sia il motivo per cui ho convinto quel ragazzino a venire al cinema con me: volevo che esistesse anche per lui un riferimento assoluto d’integrità. Ieri è stato lui a scrivermi un messaggio: «Aung ha vinto».
The Lady si conclude con una frase celebre del Premio Nobel: «Usate la vostra libertà per favorire la nostra». Più che un monito una preghiera, forte e difficilissima anche solo da concepire. La libertà, per noi, è quasi sempre un traguardo, si esaurisce nel suo conseguimento. Una donna minuta, dalla sua casa piantonata nell’entroterra birmano, ci fa sapere che è qualcosa di più e di meglio, è materia da plasmare, un mezzo. Ci sono molte altre nazioni sul mappamondo, disastrate almeno quanto il Myanmar, che attendono ancora la loro Orchidea d’Acciaio. Quello che dovremmo fare è molto chiaro, ce l’ha suggerito lei: usare la nostra libertà per favorire la loro. Ma, come al solito, saperlo non basta.

Il Corriere della Sera 02.04.12

Mediazione di Bersani sull'articolo 18. "Cambiamolo insieme prima di maggio", di Claudio Tito

“Io vedo la possibilità di un punto di caduta condiviso in Parlamento e lo scenario di un incaponimento del governo non lo prendo nemmeno in considerazione”. Sa che il dossier lavoro sta diventando il segno distintivo di questa legislatura. Ma soprattutto, per Pierluigi Bersani, è l’occasione affinché il governo Monti e questa “strana maggioranza” “non mandino all’aria una riforma rilevante”. “Una buona riforma – aggiunge Bersani – se si corregge qualche aspetto”. Il segretario dei Democratici vuole aprire tutti possibili spiragli per evitare che il disegno di legge vada a impantanarsi nei corridoi di Montecitorio e Palazzo Madama. È sicuro che “un’intesa sia vicina”, basta ricorrere a un “pò di senso di equilibrio”. Ed è pronto a mettere sul tavolo della trattativa alcune delle richieste del Pdl sulla “flessibilità in entrata”: “soprattutto se si tratta di alleggerire un certo carico burocratico”. Seduto sul divano della sua casa a Piacenza, più che dettare le condizioni segnala la mediazione possibile per un accordo. “E per approvare il testo in tempi rapidi. Almeno in un ramo del Parlamento vorrei chiudere la sostanza del problema anche prima del 6 maggio, prima delle amministrative. Non si può lasciare per aria questo tema per troppo tempo, nessuno ci guadagna a perdere giorni”.

Il testo studiato dal ministro Fornero, però, non è stato ancora definito. Il via libera del consiglio dei ministro è stato solo “salvo intese”. Un modo istituzionale per dire che va ancora approfondito e soprattutto elaborato. E infatti verrà depositato in settimana al Senato e alla Camera dopo l’ultimo vaglio da parte del premier. Che domattina discuterà proprio le ultime limature con la titolare del welfare e con il ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera.
Dopo il lungo tour in Asia, Mario Monti torna stasera in Italia. E sulla sua scrivania a Palazzo Chigi troverà un solo capitolo da affrontare con la massima urgenza: quello della riforma del lavoro. Un’impellenza che non si basa solo sulla necessità di mettere mano a un provvedimento atteso dalla comunità finanziaria internazionale, ma anche su quella di tenere unita la sua maggioranza.

Il nodo che al momento sembra inestricabile si stringe sempre più intorno all’articolo 18. Le parole magiche che i democratici ripetono sono vieppiù le stesse: “reintegro” e “sistema tedesco”. “Ma non per lasciare le cose come stanno – spiega il leader Pd – . Anche io lo voglio cambiare, ma ci sono delle strade che renderebbero tutto più facile e soprattutto più comprensibile per il Paese”. Il capo dei democratici sembra in primo luogo preoccupato che la sua posizione non venga interpretata come una battaglia “partitica”: “Non voglio piantare bandierine, cerco una soluzione equilibrata. Avete visto le cose che ha detto il Cardinal Bagnasco? Mica anche lui sarà al seguito della Cgil… “.

Quindi, qualcosa che “si avvicina al modello vigente in Germania”, e non esattamente la sua riproposizione, metterebbe in discesa la discussione. “Vedo – avverte Bersani – che alcuni meccanismi di instabilità finanziaria stanno tornando, l’Europa soffre perché i famosi mercati vedono l’avvitarsi della situazione nei meccanismi dell’austerità e non della crescita. Il nostro dovere, allora, è lanciare un segnale di solidità: dire che remiamo tutti dalla stessa parte”. Nei mesi scorsi è stata compiuta già un’operazione – “quella sì epocale” – sulle pensioni. Adesso “abbiamo l’opportunità – se non vogliamo farci del male – di effettuare le stesse scelte sul lavoro con soluzioni che assomiglino ai modelli migliori, il tedesco e il danese”. E a suo giudizio, “il messaggio al mondo sarebbe comunque positivo”. In Europa, il paese in grado di investire il suo surplus nei nostri confini è la Germania. I tedeschi – è il ragionamento che si fa a Largo del Nazzareno – non potrebbero certo rifiutare il loro stesso metodo. Anzi, l’argomento più usato da Berlino è un altro: “Ci chiedono semmai di distruggere lo scoglio della corruzione”.

Per Bersani dunque, la traccia di un’intesa è disegnabile rapidamente. Un patto “spendibile” anche all’estero come ha fatto in questi giorni il presidente del consiglio in Corea, Giappone e Cina. “Perché non è nemmeno accettabile il discorso secondo cui se c’è conflitto e scioperi, allora la riforma va bene. Noi dobbiamo chiarire ai nostri interlocutori internazionali che stiamo cambiando davvero e che lo facciamo tutti insieme. Che questa è l’Italia che si rinnova”. E se Palazzo Chigi si rifiutasse di modificare il testo in questa direzione? “È uno scenario che nemmeno considero”.

A suo giudizio, invece, Monti dovrebbe subito immaginare un percorso che reintroduca in modo diretto o indiretto il reintegro in caso di licenziamento non giustificato dalle motivazioni economiche. “Diamo al giudice – spiega – la possibilità di scegliere soltanto per quei casi tra due opzioni: il reintegro o l’indennizzo. Se ci fosse solo il reintegro, capirei, ma io immagino altro”. Alfano, però, le fa notare che con i magistrati italiani l’opzione sarebbe unica: il reintegro. “Ma non è vero, perché spesso è il lavoratore a non volere tornare. Basta guardare le statistiche. E comunque ho la sensazione che anche nel Pdl ci stanno riflettendo. Perché il problema esiste e non tocca solo le tute blu”. Ad esempio, “si accorgono che la questione tocca anche il pubblico impiego”. Non solo. Questa riforma rischia di creare uno “stato di ansia e di instabilità in tutti i cittadini. C’è qualcuno che può far finta di niente? Se una persona equilibrata e moderata come il presidente della Confagricoltura Mario Guidi ha detto sabato scorso che è doveroso tenere conto dell’ansia che c’è in giro, noi cosa facciamo? Ignoriamo?”.

Certo, il testo del governo non è ancora pronto. Il premier intende trasmetterlo ai segretari della maggioranza nella giornata di domani. Solo da allora il confronto potrà essere più concreto. Bersani punta dunque ad un percorso velocizzato da qualche modifica: sull’articolo 18, ma anche sui cosiddetti “esodati”. Un’intesa va trovata in Parlamento o il premier deve modificare prima il disegno di legge? “Una rapida ricognizione delle forze sociali, poi il governo e il Parlamento possono trovare la strada di un emendamento”. Come è accaduto con tutti i decreti dell’esecutivo, anche i più urgenti come il Salva-Italia o le liberalizzazioni. Qualche correzione è intervenuta. “Se anche in questo caso si arriverà a qualcosa che assomiglia al modello tedesco, noi lo voteremo”. E se ci fosse il niet della Cgil? “Noi abbiamo le nostre idee e non accetto da nessuno che si dica che siamo agli ordini del sindacato. Noi quel testo lo voteremo”.

La Repubblica 02.04.12

"I rincari del federalismo mancato", di Paolo Baroni

Rispetto alla vecchia Ici, che dall’ultimo governo Prodi in poi sulla prima casa non si pagava più, la nuova Imu sarà molto più pesante. Perché, aliquote a parte, è la base di calcolo della nuova «Imposta municipale unica» ad essere molto più alta visto che oltre all’Ici incorpora tassa rifiuti ed imposte sui servizi erogati dal Comune. In media il 60% in più per quasi tutte le tipologie di fabbricati, abitazioni o immobili commerciali che siano.

Poi le singole amministrazioni, che possono calibrare a loro piacere le aliquote (partendo dai minimi previsti dal governo, il 4 per mille sulla prima casa ed il 7,6 per mille per le seconde case) ci mettono del loro e la stangata, fatte salve alcune eccezioni, può essere anche molto più pesante.

In base alle elaborazioni fatte per La Stampa dal Sunia, il sindacato inquilini della Cgil, si può arrivare anche ad un raddoppio rispetto alla vecchia imposta, come nel caso di Torino, sino ad un +239% (casa sfitta a Milano) e addirittura un +7-800% per gli alloggi affittati con canoni concordati a Genova.

Tra le grandi città, anche per effetto della detrazione base di 200 euro (che sale poi a 400 per le famiglie più numerose), solo Bologna e Firenze ed in parte Palermo riescono a far pagare meno dell’imposta precedente. Per tutti gli altri son dolori.

Anche questi sono aumenti un poco «rozzi», per usare la definizione dell’altro giorno del presidente del Consiglio. Che però ancora una volta segnalano lo stato, o meglio il cattivo stato, delle nostre finanze. Sia quelle nazionali, visto che lo Stato centrale incamererà più o meno la metà del gettito, sia quelle locali, visto che tanto più i Comuni sono in difficoltà a far quadrare i loro bilanci tanto più sono indotti a tassare le case.

Certo questo è un modo sbagliato di far partire sul serio il federalismo fiscale. Perché è chiaro che se i sindaci ci devono mettere la faccia fissando loro le aliquote e poi il grosso degli incassi finisce a Roma cade il primo presupposto del principio di un sistema federale, quello del legame tra tassazione, qualità e quantità dei servizi erogati e responsabilità delle scelte. Sostengono non a torto i sindaci che siccome una buona parte dell’imposta la incasserà lo Stato e non i Comuni, le amministrazioni locali per ottenere lo stesso gettito fiscale che avevano in precedenza non potranno che aumentare le aliquote. E questo al solo scopo di assicurarsi le stesse risorse impiegate fino ad oggi per erogare i servizi fondamentali. Col paradosso che qualora decidessero di spingere ancor di più il pedale sull’acceleratore, comunque una fetta dei maggior introiti finirebbe sempre allo Stato.

E’ evidente che in tutto questo c’è qualcosa che non funziona. E che forse anche prima della fine dell’emergenza finanziaria, occorrerà in qualche modo riequilibrare.

Altri problemi in vista sono quelli pratici, operativi. Come pagare? E soprattutto quando? Qui per i cittadini-contribuenti si profilano altri guai, visto che i tempi tendono a slittare (i Comuni hanno tempo sino al 30 giugno per approvare i loro bilanci e quindi fissare le aliquote, ma c’è il rischio che passi anche uno slittamento al 30 settembre), mentre la scadenza della prima rata resta ferma al 16 giugno (il 16 dicembre si pagherà il saldo). E’ evidente non solo che la definizione delle pratiche e soprattutto i conteggi non potranno essere fatti contestualmente all’ elaborazione dei 730 come avveniva in passato, ma che si rischia il caos. Proprio ieri la Consulta dei Caf, i centri di assistenza fiscale, hanno sollevato la questione segnalando che inevitabilmente i contribuenti dovranno duplicare file e pratiche, e chiedendo al governo che almeno la prima rata venga calcolata sulle aliquote minime. Se c’è da pagare, e tanto si dovrà pagare, almeno che al cittadino venga eliminato questa ulteriore ragione di stress e di perdita di tempo.

La Stampa 02.04.12

"Polillo scarica gli esodati, Fornero lo smentisce", di Laura Matteucci

L’ultima (?) beffa per gli «esodati», quell’esercito di 350mila persone che non ha più un lavoro e non ha ancora la pensione in seguito alla riforma Fornero, arriva dal sottosegretario all’Economia Gianfranco Polillo. Ospite nella trasmissione In Onda di La7, se ne esce così: «Gli esodati hanno firmato un accordo con le aziende; se cambiano le condizioni che hanno legittimato quell’accordo, secondo i principi generali dell’ordinamento giuri- dico, possono chiedere che quell’accordo sia nullo». Insomma, per decine di migliaia di perso- ne si profila l’incredibile scenario di dover ricorrere al giudice per riottenere il lavoro. Polillo appare infatti convinto che questo sia possibile e assicura che «il ministro dell’Economia non si opporrà a una norma di questo genere (cioè al ritorno al lavoro, ndr)», aggiungendo che «in Parlamento ci sono orecchie sensibilissime su questo». Perché, sia chiaro, prosegue il sottosegretario, il problema «non potrà essere ignorato». Frasi che potrebbero venire archiviate tra boutade e gaffe, se non fosse che da un lato ci sono migliaia di persone «sospese» tra non-lavoro e non-pensione per responsabilità del governo, e dall’altro un esponente del governo stesso. In serata viene una smentita da fonti del ministero del Lavoro: se il sottosegretario ha una buona ricetta per risolvere il problema se ne faccia carico personalmente. La replica Cgil. Vera Lamonica, che ha seguito la partita, parla di «troppa propaganda, improvvisazione e irresponsabilità». «In questo modo- incalza Carla Cantone, segretaria Spi – il governo se ne lava bellamente le mani. Come del resto ha fatto fin dall’inizio. Ma come si fa a pensare che le aziende che hanno espulso dei lavoratori siano disponibili a reinserirli? A parte i gruppi Poste e Enel, si tratta perlopiù di aziende piccole o piccolissime, molte delle quali nel frattempo hanno chiuso, o sono sulla via di farlo. Gli accordi vanno rispettati, è la cosa più seria e corretta da fare. La migliore sia per i lavoratori sia per le aziende». Stesso tono da parte di Cesare Damiano, capogruppo Pd in commissione Lavo- ro alla Camera: «È il governo in prima persona a doversi occupare del problema, non può scaricare su altri la responsabilità di una riforma sbagliata. Sottolineo tra l’altro che si tratta dello stesso governo che vorrebbe rendere più facili i licenzia- menti». Ancora: «Nessuno nega ci possa essere anche il concorso delle imprese alla risoluzione del problema,ma immaginare di poter tornare tout-court alla situazione precedente è molto complicato, e non fa i conti con i piani di riorganizzazione delle imprese stesse. Questo è uno scarica-barile bell’e buono

l’Unità 02.04.12

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Da Polillo un’apertura agli esodati:possono chiedere di annullare l’intesa

L’area di coloro che hanno lasciato il lavoro prima del 4 dicembre 2011 ipotizzando di andare in pensione con le vecchie regole e che rischiano, a causa dell’aumento dell’età per l’accesso alla pensione e della stretta sulle anzianità, di restare senza lavoro e senza assegnoè molto ampia. Secondo alcune stime sfiora quota 350.000
Si apre uno spiraglio sugli esodati, quell’esercito, dal numero ancora incerto, di persone che non ha più un lavoro e non ha ancora la pensione in seguito all’aumento dell’età di ritiro deciso dalla riforma Fornero. A suggerire la possibile soluzione è il sottosegretario all’Economia, Gianfranco Polillo, nel corso della registrazione della trasmissione In Onda, anticipata da La7. «Gli esodati – osserva il sottosegretario – hanno firmato un accordo con le aziende; se cambiano le condizioni che hanno legittimato quell’accordo, secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico, possono chiedere che quell’accordo sia nullo». Si profila insomma la possibilità, per decine di migliaia di persone, di ricorrere al giudice per riottenere il posto di lavoro. Polillo appare infatti convinto che questo sia possibile e assicura che «il ministro dell’Economia non si opporrà a una norma di questo genere (al ritorno al lavoro, ndr)», aggiungendo che «in Parlamento ci sono orecchie sensibilissime su questo». Insomma, come ha già sottolineato il ministro del Lavoro Elsa Fornero, che nei giorni scorsi ha promesso «una soluzione equa», il problema «non potrà essere ignorato», anche se, aggiunge Polillo, «l’erba voglio non cresce neanche nel giardino del re».

A stretto giro arriva però la reazione dal Ministero di Via Molise, che prende le distanze dalle posizioni di Polillo, facendo sapere che, se il sottosegretario ha la ricetta giusta per risolvere il problema degli esodati, se ne deve far carico personalmente. Più dura la reazione della Cgil, che parla di «improvvisazioni irresponsabili» e si chiede se Polillo parli o meno a titolo personale e se sia stata avvisata Confindustria. «C’è troppa propaganda e troppa improvvisazione da parte del Governo», aggiunge Vera Lamonica, segretario nazionale del sindacato, secondo la quale «in un tempo in cui il tema è diventato la libertà di licenziare, si scopre che qualcuno nel Governo pensa che si possano annullare accordi tra le parti, magari sottoscritti dallo stesso Governo».

In ogni caso, sottolinea comunque Polillo, «questo Governo ha fatto dell’equità uno dei cardini della sua azione politica e non lasceremo per strada delle persone che non hanno nessuna colpa rispetto agli accordi che hanno sottoscritto con le aziende. Questo Governo nè quelli futuri potranno ignorare la loro situazione». Il governo, insomma, conferma di avere ben presente il problema, mentre si attende ancora di sapere quante siano le persone coinvolte: l’Inps, incalzato dal segretario della Cgil Susanna Camusso, ha detto di non essere in grado di stabilire il numero. Ma martedì prossimo il presidente dell’Istituto, Antonio Mastrapasqua, sarà di nuovo ascoltato in audizione dalla Commissione Lavoro del Senato e lì l’argomento potrebbe essere di nuovo affrontato

La Stampa 02.04.12

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Giallo sul reinserimento degli esodati “Quegli accordi si possono annullare”, di Carmelo Lopapa

Da domani Monti studia il ddl sui licenziamenti Casini: serve un patto in tempi brevi. E adesso c´è da mettere nero su bianco un´intera riforma. Dopo la semi-intesa raggiunta dieci giorni fa con le parti sociali a Palazzo Chigi, dopo le polemiche che hanno quasi mandato per aria la maggioranza. La missione in Oriente è conclusa, il premier Monti rientrerà dalla Cina nella tarda serata, ma il governo è già proiettato sulla riapertura del dossier lavoro. Primo briefing del Professore con i componenti dell´esecutivo che hanno curato il ddl e poi già domani, con molta probabilità, un Consiglio dei ministri. Anche se – spiegano dalla Presidenza e dal ministero della Fornero – non è previsto un nuovo passaggio del documento dal tavolo del cdm.
Il capitolo “Art. 18” è tutt´altro che risolto, Pd e Pdl sono ancora sulle barricate, e ieri si è riaperta la grana «esodati». Sono i lavoratori che hanno lasciato il loro posto dietro incentivi aziendali, ma prima che la riforma pensionistica innalzasse l´età pensionabile. Secondo il sottosegretario all´Economia Gianfranco Polillo l´«esodo» potrebbe tornare in discussione e i lavoratori potrebbero opporre la nullità dell´accordo sottoscritto «secondo i principi generali dell´ordinamento», in quanto con la riforma sarebbero «cambiate le condizioni che hanno legittimato l´intesa». Il governo non «lascerà per strada» questi lavoratori, promette. Ma poi in serata precisa di essersi limitato a sollevare il caso, per far capire come il problema sia sotto esame, ma non c´è una presa di posizione ufficiale e già adottata dal governo. Un rischio caos che Casini gli ha rimproverato, in una fase così delicata.
Il testo della riforma approderà al Senato – dopo le ultime messe a punto informali – per iniziare l´iter parlamentare. Che potrebbe concludersi, stando alla previsione fatta ieri dal presidente Renato Schifani a Sky, entro 30-40 giorni. «Siamo pronti a lavorare giorno e notte – assicura – non sono i tempi ordinari del Parlamento a frenare la riforma, l´importante è che la maggioranza trovi una sintesi». Della necessità di una «soluzione condivisa il prima possibile» tra le parti coinvolte parla anche Pier Ferdinando Casini, perché sul lavoro si rischia di «insabbiare» il governo. Già, ma una sintesi al momento appare ancora lontana. E la partita lavoro nel suo complesso è ancora aperta. Tant´è vero che a margine delle celebrazioni della Domenica delle Palme, anche il presidente della Cei Angelo Bagnasco ha espresso l´auspicio che sulla riforma e sulle norme sui licenziamenti ci sia «un ulteriore approfondimento per arrivare a soluzioni migliori e il più possibile condivise». L´ultima parola spetterà com´è ovvio al presidente del Consiglio che intanto nella penultima giornata del suo road show in Cina ha avuto colloqui con il vicepremier Li Keqiang – considerato dai più il prossimo leader – e con il governatore della Banca centrale cinese Zhou Xiaochuan. Economista, anche quest´ultimo, che il premier italiano aveva in passato già conosciuto a Cernobbio. Con entrambi, Monti ha sottolineato come ritenga un indicatore decisivo per valutare la ripresa e il successo delle riforme non solo l´andamento dello spread, ma anche la percentuale degli investimenti cinesi in Italia. «Perché se la seconda economia del mondo investe su di noi, vuol dire che le cose stanno andando bene» è la tesi. Il Professore ha rivolto all´establishment cinese l´invito a diventare “stakeholders” dell´Italia, sorta di azionista del nostro Paese, tramite appunto acquisto di titoli e investimenti. Magari dopo aver verificato la bontà e l´efficacia delle riforme – lavoro in testa – che il suo governo sta realizzando. «Perché se la Cina aiuta l´Europa – è la dottrina esposta dall´economista Monti ai suoi interlocutori orientali – in realtà aiuta anche se stessa». E dire che in mattinata, a Milano, il capogruppo Pdl al Senato Gasparri, partecipando alla festa del Secolo d´Italia, sosteneva al contrario che «la Cina per noi è una rovina, altroché speranza: fa concorrenza sleale e ammazza le nostre aziende». Ma il premier è lontano dalle polemiche italiane, dopo l´intervento ad apertura del Forum di Boao, la Davos asiatica, rientrerà in Italia.

La Repubblica 02.04.12

"Trasporti costosi & Internet lento. Perché l'estero non investe in Italia", di Sergio Rizzo

Racconta Rodrigo Bianchi che da due anni non riesce a mettere un mattone dell’asilo nido per le mamme impiegate nella fabbrica di Pomezia della Jonhson&Johnson medical, azienda di cui è presidente e che ne sopporterebbe interamente la spesa. Il motivo? «Esplorazioni archeologiche, problematiche amministrative… Vai a sapere…». Fa presente Nando Volpicelli, amministratore delegato di Schneider electric industrie Italia come le nostre infrastrutture siano in una condizione tale che il costo di trasporto per unità di prodotto dallo stabilimento di Rieti della multinazionale transalpina è «di due euro più caro rispetto al Sud della Francia». Aggiunge il suo collega della Procter & Gamble Italia, Sami Kahale, che da noi costa di più anche la pubblicità per il lancio di una novità: mediamente del 30% rispetto alla Gran Bretagna. E il presidente della Ericsson telecomunicazioni Italia, Cesare Avenia, conclude che «il problema dell’Italia non è tanto l’articolo 18 quanto la certezza del diritto, se si considera che ci sono imprese obbligate a reintegrare dopo cause durate anche sette anni dei dipendenti in posti di lavoro che non esistono più».
Tutto questo e altro ancora c’è in quel numero, 20 miliardi nel 2010 secondo l’Ice, che ci relega nelle posizioni di rincalzo della classifica dei Paesi destinatari degli investimenti esteri. Venti miliardi sono un terzo dei soldi che lo stesso anno sono andati in Francia o a Hong Kong. Un quinto rispetto alla Cina, meno della metà nei confronti della Gran Bretagna. E una cifra due volte e mezzo inferiore perfino a quella incassata dal Belgio. Ma i 20 miliardi del 2010, anno nel quale l’economia europea e mondiale sembrava aver dato segni di ripresa, sono al di sotto anche della media degli investimenti esteri arrivati in Italia fra il 2000 e il 2007. Il che la dice lunga su quanto la situazione si sia ormai incancrenita.
Certo, abbiamo la palla al piede del Sud, dove in vaste zone i capitali stranieri sono frenati anche dal più potente dei dissuasori: la criminalità organizzata. Nel 2006, secondo la Svimez, tutte le Regioni meridionali non assorbivano che lo 0,66% degli investimenti esteri, contro il 68,21% della sola Lombardia. Regione nella quale, dice Invitalia, ci sono 4.433 imprese a partecipazione straniera, contro le 719 dell’intero Mezzogiorno. E se il numero delle aziende italiane nelle quali sono presenti azionisti esteri è aumentato rispetto al 2006 da 7.059 a 8.916, ciò è dovuto principalmente ad acquisizioni di società già esistenti, piuttosto che a nuove iniziative. Pesa il ritardo infrastrutturale. Se nel 1970 eravamo al terzo posto in Europa per dotazione autostradale in rapporto agli abitanti, ora siamo al quattordicesimo. Questo nonostante gli italiani vivano praticamente in automobile. Nel 1991 ce n’erano 501 ogni mille abitanti, nel 2010 eravamo arrivati a 606. Il top, a Roma: più di 700 auto ogni mille abitanti, oltre il doppio di Berlino, e in una città che ha 36 chilometri di metropolitana e 195 di ferrovie suburbane contro, rispettivamente, 145 e 2.811 chilometri della capitale tedesca.
L’Italia è stato il primo Paese europeo a sperimentare l’Alta velocità ferroviaria: la costruzione della direttissima Roma-Firenze è iniziata nel 1970, quando il Tgv francese era ancora nei sogni. Oggi stiamo faticosamente recuperando un gap mostruoso con il resto del Continente, considerando che la Spagna, dove nel 1970 c’era ancora la dittatura franchista, ha 3.230 chilometri di linee veloci, contro gli 876 dell’Italia. E a che prezzo, sta avvenendo quel recupero: 48,9 milioni di euro al chilometro, a fronte dei 10,2 milioni della Francia e dei 9,8 della Spagna. Ma il resto della rete ferroviaria? Conosciamo il calvario al quale sono sottoposti, purtroppo, molti pendolari. Secondo un’indagine dell’Istat il grado di soddisfazione del servizio è sceso fra il 1995 e il 2009 dal 58,6 al 47,2%, toccando il fondo in Calabria: 28,8%.
Mentre attraverso tutti i principali porti italiani, per i loro problemi strutturali, sono transitati nel 2009 meno container (9 milioni 321 mila teu, l’unità di misura del settore) che nel solo scalo olandese di Rotterdam (9 milioni 743 mila teu).
Per non dire dell’infrastruttura oggi più importante: la rete informatica. La classifica 2010 di netindex.com sulla velocità media delle connessioni internet collocava l’Italia al settantesimo posto nel mondo, dietro Georgia, Mongolia, Kazakistan, Thailandia, Turchia e Giamaica.
Ma sulla scarsa attrattività dell’Italia per gli investitori esteri pesa forse ancora di più la burocrazia. Per la Confartigianato rappresenta per le imprese un costo supplementare di 23 miliardi l’anno. Dati Cna e Confindustria ci dicono che per avviare un’attività in Italia sono necessari in media 68 adempimenti, con 19 uffici da contattare. Procedure, secondo il rapporto Doing business della Banca mondiale, che richiedono 62 giorni, contro i 36 della Grecia, i 53 della Francia, i 45 della Germania, i 16 dell’Irlanda, i quattro degli Stati Uniti e i due del Canada. Il che contribuisce a spiegare, almeno in parte, la cattiva reputazione dell’Italia in tema di libertà economica, ben rappresentata dal cinquantottesimo posto nella graduatoria stilata dalla Confindustria elaborando dati della Heritage foundation.
E questo è niente, rispetto al dramma della giustizia civile. Per risolvere un’inadempienza contrattuale davanti al giudice ci vogliono 1.210 giorni: più di tre anni. Il quadruplo del tempo necessario in Francia e il triplo rispetto alla Germania. Addirittura avvilente è il confronto con Paesi come Gran Bretagna, dove sono sufficienti 229 giorni, Svezia (208) o Danimarca (190).
Ancora più avvilente, e drammatica, è la faccenda dei pagamenti della Pubblica Amministrazione. Stato italiano ed enti locali onorano mediamente i propri impegni con i fornitori in 186 giorni, contro i 36 della Germania e i 30 stabiliti come termine tassativo da una direttiva dell’Unione europea. Chi viene pagato in sei mesi, però, può ancora ritenersi fortunato rispetto agli sventurati imprenditori che lavorano con la sanità pubblica: nelle Asl calabresi si arriva a tempi di attesa che sfiorano gli 800 giorni. E non esistono strumenti di autodifesa. Le norme in vigore impediscono di dare il via ad atti esecutivi nei confronti delle Regioni che hanno piani di rientro dal deficit sanitario.
Ci sarà dunque un motivo se nella classifica della competitività internazionale del World economic forum non andiamo oltre la quarantaseiesima posizione. In una situazione del genere non può neppure meravigliare che la corruzione dilaghi, come ha ricordato giusto qualche settimana fa il presidente della Corte dei Conti Luigi Giampaolino. Secondo i magistrati contabili è un macigno che pesa sui conti pubblici per 60 miliardi di euro l’anno. Ma quello che davvero brucia è il paragone con gli altri. Nel 2001 l’Italia era al ventinovesimo posto nella graduatoria di Transparency International della corruzione percepita. Ed era, già allora, messa peggio degli altri Paesi europei. La Germania, per esempio, era al ventesimo posto. Nel 2010 l’Italia è scesa al sessantasettesimo posto, mentre la Germania è risalita al quindicesimo. E anche gli altri partner continentali, pur avendo un pochino peggiorato il proprio ranking, sono ben distanti. Nel 2011, poi, un’altra piccola scivolata, al posto numero 69: quaranta posizioni più giù, e in soli dieci anni…

da Il Corriere della Sera

"Le scuole migliori? Quelle normali", di Flavia Amabile

Quali sono le scuole migliori in Italia dal punto di vista di chi vuole proseguire gli studi? La Fondazione Agnelli è arrivata al terzo anno della sua indagine per il Piemonte, al secondo anno per l’Emilia Romagna ma per la prima volta allarga l’analisi anche alle scuole lombarde e calabresi su richiesta dell’Ufficio scolastico della Lombardia e della Regione Calabria. Il risultato è una fotografia piuttosto nitida. Le migliori sono in provincia. Sono istituti pubblici, possono essere licei dove è più probabile che si creino effetti positivi per le capacità individuali, ma anche tecnici, sfatando la pessima fama di questi istituti secondari. Nessun particolare blasone, sono scuole frequentate in genere da persone non particolarmente benestanti o legate alla cultura. Da questo tipo di scuole che potrebbero trovarsi ovunque in Italia arrivano i ragazzi che hanno ottenuto i migliori risultati durante il primo anno di università.

E quindi la Fondazione le ha scovate e messe in classifica per dare alle famiglie un’informazione in più al momento della difficile scelta delle superiori e alle scuole per poter capire qualcosa di più sul loro lavoro ma anche ai responsabili della politica scolastica, che in questa fascia di istituti non hanno alcuna rilevazione Invalsi a guidarli in eventuali valutazioni. In totale, la ricerca valuta i risultati di oltre 145 mila studenti (64.944 in Lombardia, 29.116 in Emilia Romagna, 23.497 in Calabria, 28.458 in Piemonte), tutti provenienti da scuole secondarie superiori (esclusi gli istituti professionali e gli indirizzi professionali negli istituti superiori). Non è possibile avere dati aggiornati all’ultimo anno scolastico «a causa del lento aggiornamento» dell’Anagrafe nazionale degli studenti universitari, come spiega la Fondazione nello studio. I dati sono quindi relativi agli anni 2007/2008 e 2008/2009. Il risultato finale sono due classifiche. La prima fotografa soltanto l’effetto scuola, la seconda invece tiene conto anche di altri elementi che possono avere conseguenze sul risultato finale, dal territorio al talento degli studenti al tipo di scuola. In Lombardia fra i primi 10 istituti, otto sono tecnici industriali e istituti superiori della provincia. Al quinto posto c’è uno scientifico, il Volta di Milano, e al sesto posto il liceo Linguistico Civico, sempre di Milano. Risultato identico in Piemonte: otto istituti tecnici e superiori della provincia su dieci in classifica.

Al sesto posto il liceo classico Cavour di Torino e al nono il liceo classico e scientifico Valsalice, sempre di Torino. Dati simili in Emilia Romagna dove solo due licei entrano in classifica: il classico Muratori di Modena al terzo posto e il classico Galvani di Bologna al quarto. Scomparsi i licei dalle posizioni alte della classifica in Calabria, l’unico entrato è il San Nilo di Rossano, arrivato al quarto posto ma ora trasformato in istituto superiore. Un’eccellenza scomparsa anche in Lombardia, dove il primo in classifica è l’istituto tecnico commerciale Di Rosa di Desio. Il migliore in Lombardia: peccato che l’indirizzo tecnico commerciale ora non esistapiù: gli iscritti erano pochi e si è preferito chiuderlo.

La Stampa 01.04.12

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“La scuola migliore? Quella in provincia”, di Mariolina Iossa

Chi prepara meglio all’università: la sorpresa degli Istituti tecnici
Come formano agli studi universitari le scuole superiori italiane? Quali sono, una ad una, e in che posizione si trovano in una classifica di qualità, quelle dalle quali provengono i migliori studenti universitari? Cercando di rispondere a queste domande la Fondazione Giovanni Agnelli ha condotto uno studio su quattro regioni italiane, Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna e Calabria. E ha ottenuto una graduatoria di 453 scuole lombarde, 213 piemontesi, 179 emiliane e romagnole e 166 calabresi, per un totale di 145 mila studenti. Gli istituti professionali sono stati esclusi perché la loro missione formativa è fortemente centrata sull’ingresso diretto nel mondo del lavoro.
I risultati? Tre gli esiti più significativi. Primo: gli istituti tecnici hanno fatto un ottimo lavoro, non solo come preparazione da sfruttare subito sul mercato ma anche per l’ingresso in facoltà. In sostanza non è vero che arrivano all’università quasi esclusivamente gli studenti dei licei. Secondo: esiste un «effetto provincia», per il quale gli studenti dei piccoli centri hanno in media risultati universitari migliori rispetto a quelli delle grandi città. Questo probabilmente perché l’investimento in istruzione universitaria è più gravoso per le famiglie dei fuori sede e quindi gli studenti sono più motivati. Terzo: la maggior parte delle scuole non statali confermano performance più deludenti rispetto a quelle statali. Quindi il lavoro svolto dalla scuola «pubblica» resta di qualità superiore.
Elementi confermati dalle classifiche. In Lombardia la scuola migliore è l’istituto tecnico commerciale Di Rosa, di Desio, seguita dal tecnico industriale Magistri Cumacini di Como. In questo caso la scuola di Como è in pratica al primo posto perché il Di Rosa da alcuni anni ha chiuso l’indirizzo tecnico. In Piemonte la migliore è l’istituto superiore Carlo Denina di Saluzzo (Cuneo). Un altro superiore, il Polo di Cutro (provincia di Crotone) è al primo posto in Calabria. In Emilia Romagna, invece, il ranking è aperto dal tecnico-industriale Enrico Fermi di Modena.
Lo scopo di questa indagine, spiega il direttore della Fondazione Andrea Gavosto, è naturalmente «valutare le scuole in funzione della preparazione all’università. È chiaro che nessun sistema di valutazione è perfetto e che anche altri parametri sono importanti per giudicare una scuola, per esempio il benessere degli studenti, il livello culturale, la capacità di educazione e di inclusione. Ma manca in Italia un riscontro di questo tipo, così come manca una vera e propria cultura della valutazione e del rendere conto alla collettività come invece è giusto che sia».
Il punteggio ottenuto è costruito a partire dal contributo specifico della singola scuola al successo universitario dei propri diplomati, mettendo quindi volutamente «da parte» il contesto socio-culturale, quello territoriale e le caratteristiche individuali degli studenti. Sulla base di dati del 2007-2008 messi a disposizione dal ministero e dagli atenei, la Fondazione ha esaminato i libretti universitari di 145 mila ragazzi che si sono iscritti all’università entro due anni dal diploma. Ha guardato voti e crediti, ha considerato cioè al 50 per cento il profitto elevato e la velocità nel sostenere gli esami.
«Siamo l’unica regione del Sud ad essere presente nella ricerca e questa è la sfida che abbiamo voluto raccogliere», ha detto l’assessore regionale alla Cultura della Calabria Mario Caligiuri.
«Questi tipi di ricerca sono il segnale di un grande interesse per la valutazione delle scuole — ha commentato invece il direttore generale dell’Ufficio scolastico della Lombardia Giuseppe Colosio —. Mi lascia però perplesso che si voglia dedurre la qualità di una scuola dal risultato di uno studente alla fine del primo anno di università. La scuola conta nel percorso universitario ma vi concorrono anche molti altri fattori. Dunque le ultime in classifica non si deprimano e le prime non si esaltino troppo».

Il Corriere della Sera 01.04.12

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“La pari dignità dei licei e degli istituti”, di GIUSEPPE BERTAGNA

P rima del fascismo, l’istruzione tecnica e, a maggior ragione, quella professionale erano molto collegate alle imprese, alle parti sociali, alle camere di commercio. Avevano insegnanti reclutati dagli istituti scolastici e, soprattutto, provenienti dal mondo del lavoro. Avevano programmi mobili, molta autonomia e anche prestigiose prosecuzioni post-secondarie, parallele all’università. Gli Istituti superiori di agraria, veterinaria, scienze economiche e commerciali ne erano la prova.
Giovanni Gentile aveva poca stima di questo tipo di istruzione. La riteneva inferiore. Della stessa opinione quasi tutto il mainstream del tempo. Compreso il «comunista» Antonio Gramsci. Solo il liceo classico era la scuola della classe dirigente. Non a caso gentiliani di destra e gentiliani di sinistra, da allora, sono sempre stati uniti nell’improntare l’istruzione davvero formativa al modello classico.
Nel 1923, Gentile accolse nella sua riforma, sotto le ali dello Stato, soltanto due istituti tecnici: ragioneria e geometri. Il grosso dell’istruzione tecnica e tutta l’istruzione professionale rimanevano alle dipendenze del ministero dell’Economia nazionale. Per nobilitare i due istituti tecnici ammessi alla sua riforma, Gentile introdusse, negli allora quattro anni del loro corso inferiore, l’insegnamento del latino.
Nel 1927, il ministro dell’Economia nazionale, Belluzzo, andò dal capo del governo ad esprimere il profondo disagio del mondo imprenditoriale nei confronti dei diplomati dei due istituti tecnici gentiliani. Le imprese diffidavano della loro reale preparazione. La soluzione di Mussolini fu di statalizzare tutta l’istruzione tecnica e di trasformare tutta l’istruzione tecnico-professionale superiore in facoltà universitarie.
Da allora una silenziosa, ma non per questo meno costante linea di tendenza: «licealizzare» l’istruzione tecnica e professionale, al posto di innalzarla, con le sue specificità, alla qualità liceale; «universitarizzare» l’istruzione tecnico-professionale superiore al posto di aumentarne il prestigio per renderla concorrenziale con l’università.
Queste tendenze sono continuate, grosso modo, fino alla fine del secolo scorso, quando appare una benvenuta riscoperta, contrastata, ma progressiva e continua: la dignità formativa dell’istruzione tecnica e professionale si accresce non diluendone le specificità, ma semmai rendendole più aperte e colte.
Siamo giunti così ai nostri tempi che, per la prima volta dopo decenni di segno contrario, vedono due inversioni di linea. La prima è la diminuzione degli iscritti ai licei e l’aumento degli iscritti all’istruzione tecnica e professionale. In Europa, i licei non vanno oltre il 25-30%. Da noi erano arrivati due anni fa quasi al 50%. La seconda è la riscoperta dell’importanza dell’istruzione tecnico-professionale superiore (con gli Its e Ifts).
A queste due dinamiche, l’indagine della Fondazione Agnelli porta ulteriori valori aggiunti. Dimostra, infatti, da un lato che gli universitari provenienti dagli istituti tecnici si collocano nella parte alta della graduatoria, perfino meglio di chi proviene dai licei; dall’altro lato, che gli istituti tecnici di provincia sono molto affidabili in termini formativi; infine, che gli studenti frequentanti università non sotto casa, quali sono in genere quelli che provengono dagli istituti tecnici di provincia, riescono meglio di chi si diploma in città. E pensare che l’indagine ha escluso programmaticamente gli studenti che provengono dagli istituti professionali. Forse anche lì avremmo sorprese. Almeno speriamo. Il futuro, infatti, è quello della pari dignità dei percorsi formativi, non la storica gerarchizzazione tra licei, istituti tecnici e professionali.

Docente di Pedagogia Università di Bergamo

Il Corriere della Sera 01.04.12