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“La mossa di Casini è abile, ma i costi della politica sono altri”, di Stefano Folli

Come spesso accade, Pier Ferdinando Casini è un politico svelto di riflessi. La sua rinuncia ai privilegi spettanti agli ex presidenti della Camera vuole essere una «mossa del cavallo», come dicono gli scacchisti: un gesto imprevisto che coglie impreparati gli avversari e li spiazza. In questo caso non ci sono avversari, bensì una consuetudine felpata che data da tempo immemorabile, in base alla quale le regole che riguardano il funzionamento della Camera, comprese le guarentigie a cui hanno diritto i presidenti emeriti, sono affare interno di Montecitorio e dei suoi organismi. Che decidono senza clamori e di solito senza pubblicità. Un mondo chiuso, almeno fino a ieri.
Stavolta invece, sotto la pressione degli istinti anti-casta serpeggianti nel paese, la Camera ha fatto conoscere i suoi orientamenti per ridurre i privilegi degli «ex» (segreteria, autista con macchina di servizio, scorta eccetera). Ma si è trattato di un deliberato piuttosto complesso e controverso. I due «ex» che perderanno i loro attuali diritti al termine della legislatura sono Irene Pivetti e Pietro Ingrao, del quale ieri ricorreva il 97esimo compleanno. Quanto agli altri (Violante, Bertinotti, Casini, in futuro lo stesso Fini) godranno di un periodo transitorio di dieci anni, sempre a partire dal 2013. Quindi fino al 2023 il regime degli ex presidenti non dovrebbe mutare.

Qui Casini si è inserito con la sua mossa a effetto. In un certo senso, ha rotto un tabù. Di sicuro rende difficile al presidente della Camera e all’ufficio di presidenza fare finta di nulla, cioè ignorare il passo di un autorevole «ex», tuttora molto attivo sulla scena politica. La decisione potrebbe essere rivista. Oppure, ipotesi più pratica, gli altri ex-presidenti potrebbero vedersi costretti dalle circostanze a imitare Casini.
C’è un po’ di «fiera dell’ipocrisia» in tutto questo, come sostiene Violante? Probabilmente, sì. Ma siamo vicini alle amministrative e un po’ di spregiudicatezza conviene, specie su un tema delicato come i costi della politica. Tanto più che il presidente dell’Udc accarezza il disegno ambizioso di dar vita a un grande «rassemblement» centrista e terzopolista, capace di farsi largo fra i due grossi partiti in crisi, il Pdl e il Pd. Casini guarda a un’opinione pubblica allargata: non ha tempo per le sfumature e non si nega nemmeno un filo di demagogia.

Semmai la questione è un’altra. Il problema «costi della politica» non lo si affronta solo con questi strumenti. Tagliare i privilegi degli ex-presidenti delle assemblee legislative può essere moralmente consigliabile; in ogni caso è una concessione allo spirito dei tempi. Ma dal punto di vista economico, le misure della Camera e quelle del Senato portano benefici irrisori. I veri risparmi verrebbero da altri capitoli che però restano nel cassetto.
Non si parla più, ad esempio, di abolizione delle province. E nemmeno di accorpamento dei comuni minori. E ci si domanda che fine hanno fatto le promesse di rendere inespugnabili i bilanci dei partiti, visto che i flussi del finanziamento pubblico (in teoria abolito da un referendum sempre disatteso) sollecitano molti appetiti.

Temi che avrebbero potuto trovar posto nell’agenda del vertice a tre dell’altro giorno. Ma non è stato così. Peccato, perché qui si annidano gli autentici «costi della politica». Viceversa si preferisce guardare altrove. E togliere la segretaria a un signore di 97 anni.

Il Sole 24 Ore 31.03.12

“La mossa di Casini è abile, ma i costi della politica sono altri”, di Stefano Folli

Come spesso accade, Pier Ferdinando Casini è un politico svelto di riflessi. La sua rinuncia ai privilegi spettanti agli ex presidenti della Camera vuole essere una «mossa del cavallo», come dicono gli scacchisti: un gesto imprevisto che coglie impreparati gli avversari e li spiazza. In questo caso non ci sono avversari, bensì una consuetudine felpata che data da tempo immemorabile, in base alla quale le regole che riguardano il funzionamento della Camera, comprese le guarentigie a cui hanno diritto i presidenti emeriti, sono affare interno di Montecitorio e dei suoi organismi. Che decidono senza clamori e di solito senza pubblicità. Un mondo chiuso, almeno fino a ieri.
Stavolta invece, sotto la pressione degli istinti anti-casta serpeggianti nel paese, la Camera ha fatto conoscere i suoi orientamenti per ridurre i privilegi degli «ex» (segreteria, autista con macchina di servizio, scorta eccetera). Ma si è trattato di un deliberato piuttosto complesso e controverso. I due «ex» che perderanno i loro attuali diritti al termine della legislatura sono Irene Pivetti e Pietro Ingrao, del quale ieri ricorreva il 97esimo compleanno. Quanto agli altri (Violante, Bertinotti, Casini, in futuro lo stesso Fini) godranno di un periodo transitorio di dieci anni, sempre a partire dal 2013. Quindi fino al 2023 il regime degli ex presidenti non dovrebbe mutare.

Qui Casini si è inserito con la sua mossa a effetto. In un certo senso, ha rotto un tabù. Di sicuro rende difficile al presidente della Camera e all’ufficio di presidenza fare finta di nulla, cioè ignorare il passo di un autorevole «ex», tuttora molto attivo sulla scena politica. La decisione potrebbe essere rivista. Oppure, ipotesi più pratica, gli altri ex-presidenti potrebbero vedersi costretti dalle circostanze a imitare Casini.
C’è un po’ di «fiera dell’ipocrisia» in tutto questo, come sostiene Violante? Probabilmente, sì. Ma siamo vicini alle amministrative e un po’ di spregiudicatezza conviene, specie su un tema delicato come i costi della politica. Tanto più che il presidente dell’Udc accarezza il disegno ambizioso di dar vita a un grande «rassemblement» centrista e terzopolista, capace di farsi largo fra i due grossi partiti in crisi, il Pdl e il Pd. Casini guarda a un’opinione pubblica allargata: non ha tempo per le sfumature e non si nega nemmeno un filo di demagogia.

Semmai la questione è un’altra. Il problema «costi della politica» non lo si affronta solo con questi strumenti. Tagliare i privilegi degli ex-presidenti delle assemblee legislative può essere moralmente consigliabile; in ogni caso è una concessione allo spirito dei tempi. Ma dal punto di vista economico, le misure della Camera e quelle del Senato portano benefici irrisori. I veri risparmi verrebbero da altri capitoli che però restano nel cassetto.
Non si parla più, ad esempio, di abolizione delle province. E nemmeno di accorpamento dei comuni minori. E ci si domanda che fine hanno fatto le promesse di rendere inespugnabili i bilanci dei partiti, visto che i flussi del finanziamento pubblico (in teoria abolito da un referendum sempre disatteso) sollecitano molti appetiti.

Temi che avrebbero potuto trovar posto nell’agenda del vertice a tre dell’altro giorno. Ma non è stato così. Peccato, perché qui si annidano gli autentici «costi della politica». Viceversa si preferisce guardare altrove. E togliere la segretaria a un signore di 97 anni.

Il Sole 24 Ore 31.03.12

Bersani: «Sul lavoro basta con le ipotesi Adesso giù le carte», di Simone Collini

«Adesso basta discutere di ipotesi, bisogna vedere il testo della riforma del lavoro». Pier Luigi Bersani definisce «positiva» la lettera con cui Mario Monti riconosce l’apporto dato dai partiti in questa fase di emergenza, anche se assicura che non ne sentiva
«particolare bisogno»: «Su questo punto sono sereno, noi siamo stati leali, generosi, se avessimo voluto andare a votare ne avremmo avuto l’occasione. Ora siamo impegnati sulle riforme, e le faremo, dicendo la nostra». Ma soprattutto, il leader del Pd lancia al governo un preciso messaggio sulla riforma del lavoro, perché lo stillicidio di indiscrezioni che va avanti da giorni non fa bene a nessuno. Bersani è a un convegno organizzato dal suo partito sulla giustizia, e a chi lo avvicina spiega che sulle modifiche all’articolo 18 non ci sarà «persuasione» che tenga: «Noi siamo flessibili ma su certi punti, sui diritti dei lavoratori, non ci spezziamo».
NESSUNO SCAMBIO
Il convegno sulla giustizia è l’occasione per mettere in chiaro che non ci sarà uno scambio tra Pd e Pdl sui temi di questo settore – a cominciare dalle norme sulle intercettazioni – e la riforma del lavoro. Ma in questa giornata in cui su alcuni giornali compaiono nuove indiscrezioni circa le modifiche che il governo vorrebbe apportare all’articolo 18 (potrebbero valere solo per i nuovi assunti e non più per tutti) dal Pd arrivano anche un paio di messaggi. Dice Bersani a chi gli chiede un commento sulle correzioni di rotta dell’esecutivo: «Basta parlare di ipotesi, anche perché dobbiamo ancora vedere la norma del governo, e questo è piuttosto curioso. Noi abbiamo espresso la nostra posizione,
ora vediamo i testi». Il secondo messaggio arriva dal responsabile economico del Pd Stefano Fassina, che definisce «una pezza peggiore del buco» l’ipotesi che le modifiche ai licenziamenti senza giusta causa per motivi economici (solo indennizzo e non più possibilità di reintegro) si applichino solo a un nuovi assunti: «Un intervento che nasceva con l’obiettivo di ridurre le disparità normative tra generazioni le amplierebbe». Insomma, el caso in cui il governo pensasse di poter trovare una mediazione per questa via, il Pd fa sapere preventivamenteche la proposta non sarà accettata.
Ma poi c’è un altro motivo di irritazione che, parlando con i dirigenti e parlamentari del Pd presenti al convegno sulla giustizia, emerge. Il fatto è che il Gurdasigilli Paola Severino, applaudita ospite dell’appuntamento di ieri, ha incontrato i capigruppo delle forze che sostengono Monti in Parlamento per discutere di intercettazioni, norme anticorruzione, responsabilità civile dei giudici. E la domanda è: perché questo metodo non è stato applicato anche per le nuove norme sul lavoro?
TECNICI-POLITICI SCHEMA PERICOLOSO
La riforma, assicura Bersani, «andrà avanti e anzi verrà rafforza», nel senso che dovrà portare il nostro sistema «all’altezza delle migliori esperienze europee»: «E nessuno può negare che siano quelle danese e tedesca» (in Germania il giudice decide, sui licenziamenti economici senza giusta causa, per il reintegro o per l’indennizzo). Per questo il Pd chiede al governo di applicare anche al lavoro il metodo del confronto a cui si è deciso di ricorrere per la giustizia. Anche perché solo se si abbandona lo schema tecnici-politici – «stucchevole discussione che rischia di essere pericolosa» – solo se si riconosce che bisogna guardare all’«emergenza» e insieme alla «questione sociale», si può «trovare un equilibrioper portare il Paese fuori dalle secche».
È di questo che Bersani vuole parlare con Monti quando il premier
rientrerà dal suo viaggio in oriente. E anche di «cosa fare per dare un po’ di lavoro», perché per il leader del Pd nuove norme non bastano ad affrontare la recessione in atto e invece servono investimenti e politiche per lo sviluppo. Su questo, come sulle altre questioni sul tappeto («se si può cambiare lo Statuto dei lavoratori, si può cambiare o no la legge Gasparri sulla Rai?», è la domanda che rilancia Bersani), il Pd attende dal governo fatti concreti.

l’Unità 31.03.12

“Basta con le ipotesi pasticciate il nostro modello è quello tedesco”

“Monti farebbe un servizio al Paese se fornisse dati tra licenziamenti e nuovi investimenti”, di GIOVANNA CASADIO

“Il punto è sempre lo stesso: il reintegro nel caso di licenziamento illegittimo”. Fassina, il governo sta studiando correttivi alla riforma dell´articolo 18 che affidano ai giudici il compito di smascherare le discriminazioni. Il Pd cosa ne pensa?
«Le anticipazioni sono piuttosto fumose. Ma il punto è sempre lo stesso, cioè la possibilità di reintegro nel caso di licenziamento illegittimo. Se inoltre si pensa di applicare la revisione dell´articolo 18 solo ai neo assunti, è inaccettabile. Sarebbe profondamente contraddittorio proprio da parte di chi come Fornero e Monti, hanno indicato nella discriminazione dei giovani il problema fondamentale da risolvere. Gli interventi sul mercato devono essere ispirati a principi universalistici».
Dov´è il punto di mediazione, quindi? I Democratici a cosa mirano?
«Alla previsione, ripeto, del reintegro in caso di licenziamento illegittimo per motivi economici. È davvero contraddittorio da parte del governo sostenere da un lato che l´intervento sull´articolo 18 eviterà abusi, e proporre una misura che è di fatto una sollecitazione per l´impresa ad abusare di licenziamenti per motivi economici. Depotenziando la sanzione, si sta dicendo all´impresa che può liberarsi di forza lavoro. Non lo avrei condiviso, ma sarebbe stata molto più coerente la soluzione scelta dal conservatore Rajoy in Spagna, e cioè ampliare le fattispecie in base alle quali l´impresa può ricorrere al licenziamento individuale per motivi economici. Almeno la sanzione rimane la stessa, il reintegro».
Sul “no al reintegro” farete le barricate?
«È una strada non percorribile, perché si apre al licenziamento arbitrario, lo legittima. La via da prendere è quella che va verso Berlino e non verso Madrid».
Il clima tra il Pd e il governo si sta svelenendo?
«Bersani è stato chiaro quando ha indicato la necessità di abbassare i toni. Siamo rimasti sorpresi dalle parole del presidente Monti dal Giappone. Continuiamo a non capire questa insistenza sulle virtù miracolistiche dell´eliminazione del reintegro. Il professor Monti farebbe un servizio utile al paese se fornisse una bibliografia dove trovare dati o correlazioni robuste tra l´eliminazione del reintegro nel posto di lavoro e l´afflusso di investimenti. Sembra piuttosto fantasioso che gli imprenditori cinesi o giapponesi siano in attesa di capire se c´è o no la possibilità di reintegro per riversare fiumi di investimenti in Italia».
Questo è uno degli argomenti.
«È diventato un mantra, infondato. Gli investimenti non si fanno in Italia per i problemi della pubblica amministrazione, per il peso del fisco, per l´assenza di infrastrutture, per il malfunzionamento della giustizia, per la presenza della criminalità. Dobbiamo decidere se le sfide dell´innovazione si affrontano attraverso un patto tra impresa e lavoro oppure ci si illude di poter continuare a svalutare il lavoro come via per la crescita».
Fornero si dice amareggiata.
«Anche noi lo siamo molto. C´era la disponibilità da parte di tutti i sindacati, anche della Cgil, attorno al modello tedesco, ma il governo non ha voluto coglierla».

La Repubblica 31.03.12

"Un tempo si diceva: L'operaio vale come un cavallo", di Michele Prospero

Le parole pronunciate da Marchionne alla Bocconi (dove se no?), contro i diritti e in difesa di una più agevolata libertà di licenziamento, sembrano ridare fiato ad un vecchio manuale di diritto commerciale. Il suo autore, G. Ferri, resisteva alla modernizzazione, che allora però aveva un altro segno: l’autonomia collettiva e la programmazione, e sosteneva che nell’impresa doveva sempre regnare una asimmetria di potere. La locatio hominis o contratto, non si distingueva dalla locatio bovis, ciò che contava era il pieno comando della proprietà sul lavoro. Già Locke del resto aveva identificato l’operaio e il cavallo, entrambi strumenti passivi a disposizione del padrone. L’essere dell’operaio, come persona coinvolta profondamente nel suo operare, è per il diritto una scoperta piuttosto recente. Da un ventennio ormai il diritto del lavoro classico, che riconosce il valore del corpo che lavora, scricchiola, eroso da una pioggia insistente di nuovi contratti, concepiti per lo più nel segno modernista della flessibilità e della precarizzazione. L’impatto economico che le infinite tipologie contrattuali hanno riversato sulla crescita e l’occupazione non è stato positivo. Al contrario. È stato sfigurato, visto come un fattore di rigidità, il diritto del lavoro sensibile alle istanze della costituzione, ma senza che lo scambio tra il razionamento dei diritti e un impiego senza qualità abbia portato dei vantaggi in termini di produttività. Meno tutele e caduta drastica degli indici della crescita (e dell’occupazione) costituiscono una smentita ai profeti del modernismo senza diritti. Dopo le nuove riforme dell’articolo 18 che cosa resterà? Sul piano storico il diritto del lavoro si afferma in Europa quando si scopre nella pratica sociale che il mito dell’autonomia negoziale (per cui ogni singolo contratta con l’altro le condizioni di una prestazione subordinata) si infrange duramente contro le scomode realtà che disvelano in un lato dominio e nell’altro sottomissione. La potenza economica, simbolica, politica che l’imprenditore concentra nelle sue mani è troppo soverchiante rispetto all’angusta capacità di influenza che resta nel raggio d’azione di un singolo prestatore d’opera. Il contratto individuale, massima incarnazione del dogma liberale della volontà soggettiva, si rivela una finzione ingannevole. Nelle vesti della astratta eguaglianza formale, il contratto tra singoli appare come uno strumento pieghevole a disposizione del soggetto più forte economicamente, che ha la maniera di imporre agli altri contraenti i tempi, i modi, i luoghi, le remunerazioni, le condizioni del lavoro. Con il contratto individuale di lavoro, il denaro ha un potere di controllo tale da ridurre il singolo lavoratore a un ingranaggio irrilevante. Solo quando i singoli lavoratori possono mettere insieme di fronte al padrone la loro unica forza (il numero) cambiano in maniera significativa le condizioni giuridiche del lavoro. Questa, lo ha chiarito un classico del giuslavorismo come O. Kahn-Freund, è la genesi del diritto del lavoro, invenzione novecentesca, a confine tra diritto privato e diritto pubblico, che in tanti sulla scia di Marchionne vorrebbero oggi consegnare all’oblio. Il diritto del lavoro nasce riconoscendo esplicitamente l’asimmetria di potere esistente tra il dipendente e l’imprenditore, asimmetria che può essere attenuata, non annullata in una economia di mercato solo immettendo visibili correzioni: contratto collettivo, regole pubbliche. La più rapida libertà di licenziamento individuale per motivi economici, in un Paese che non crea nuovi posti e ha da sempre una scarsa mobilità, rappresenta una inversione radicale rispetto al diritto del lavoro classico. Quest’ultimo era nato a garantire una (relativa) protezione del contraente più debole, le manutenzioni odierne mirano a rendere più completo il comando assoluto dell’impresa sul lavoro attraverso un più snello potere di licenziare e disciplinare. L’impresa rivendica una maggiore discrezionalità nei licenziamenti per esigenze di costo (per sbarazzarsi dei lavoratori che sul bilancio pesano di più: con maggiore anzianità di servizio, con più figli a carico, con ripetute gravidanze, con difficoltà fisiche o comportamentali di diversa natura), per motivi di controllo e sorveglianza (dei ribelli, delle teste calde, o semplicemente dei più combattivi), per ragioni simboliche (per mostrare chi comanda nella società e chi ha la forza reale per toccare l’egemonia nelle culture, nelle politiche). Sta emergendo un nuovo e paradossale diritto del più forte. Di diritti a favore del contraente più debole non si muore, come teme Marchionne, spettrale è invece il trionfo della logica d’impresa, agitata come una clava dalle nuove potenze, nostalgiche dei bei tempi antichi quando del lavoratore si poteva fare come per la locatio bovis.

L’Unità 31.03.12

“Un tempo si diceva: L’operaio vale come un cavallo”, di Michele Prospero

Le parole pronunciate da Marchionne alla Bocconi (dove se no?), contro i diritti e in difesa di una più agevolata libertà di licenziamento, sembrano ridare fiato ad un vecchio manuale di diritto commerciale. Il suo autore, G. Ferri, resisteva alla modernizzazione, che allora però aveva un altro segno: l’autonomia collettiva e la programmazione, e sosteneva che nell’impresa doveva sempre regnare una asimmetria di potere. La locatio hominis o contratto, non si distingueva dalla locatio bovis, ciò che contava era il pieno comando della proprietà sul lavoro. Già Locke del resto aveva identificato l’operaio e il cavallo, entrambi strumenti passivi a disposizione del padrone. L’essere dell’operaio, come persona coinvolta profondamente nel suo operare, è per il diritto una scoperta piuttosto recente. Da un ventennio ormai il diritto del lavoro classico, che riconosce il valore del corpo che lavora, scricchiola, eroso da una pioggia insistente di nuovi contratti, concepiti per lo più nel segno modernista della flessibilità e della precarizzazione. L’impatto economico che le infinite tipologie contrattuali hanno riversato sulla crescita e l’occupazione non è stato positivo. Al contrario. È stato sfigurato, visto come un fattore di rigidità, il diritto del lavoro sensibile alle istanze della costituzione, ma senza che lo scambio tra il razionamento dei diritti e un impiego senza qualità abbia portato dei vantaggi in termini di produttività. Meno tutele e caduta drastica degli indici della crescita (e dell’occupazione) costituiscono una smentita ai profeti del modernismo senza diritti. Dopo le nuove riforme dell’articolo 18 che cosa resterà? Sul piano storico il diritto del lavoro si afferma in Europa quando si scopre nella pratica sociale che il mito dell’autonomia negoziale (per cui ogni singolo contratta con l’altro le condizioni di una prestazione subordinata) si infrange duramente contro le scomode realtà che disvelano in un lato dominio e nell’altro sottomissione. La potenza economica, simbolica, politica che l’imprenditore concentra nelle sue mani è troppo soverchiante rispetto all’angusta capacità di influenza che resta nel raggio d’azione di un singolo prestatore d’opera. Il contratto individuale, massima incarnazione del dogma liberale della volontà soggettiva, si rivela una finzione ingannevole. Nelle vesti della astratta eguaglianza formale, il contratto tra singoli appare come uno strumento pieghevole a disposizione del soggetto più forte economicamente, che ha la maniera di imporre agli altri contraenti i tempi, i modi, i luoghi, le remunerazioni, le condizioni del lavoro. Con il contratto individuale di lavoro, il denaro ha un potere di controllo tale da ridurre il singolo lavoratore a un ingranaggio irrilevante. Solo quando i singoli lavoratori possono mettere insieme di fronte al padrone la loro unica forza (il numero) cambiano in maniera significativa le condizioni giuridiche del lavoro. Questa, lo ha chiarito un classico del giuslavorismo come O. Kahn-Freund, è la genesi del diritto del lavoro, invenzione novecentesca, a confine tra diritto privato e diritto pubblico, che in tanti sulla scia di Marchionne vorrebbero oggi consegnare all’oblio. Il diritto del lavoro nasce riconoscendo esplicitamente l’asimmetria di potere esistente tra il dipendente e l’imprenditore, asimmetria che può essere attenuata, non annullata in una economia di mercato solo immettendo visibili correzioni: contratto collettivo, regole pubbliche. La più rapida libertà di licenziamento individuale per motivi economici, in un Paese che non crea nuovi posti e ha da sempre una scarsa mobilità, rappresenta una inversione radicale rispetto al diritto del lavoro classico. Quest’ultimo era nato a garantire una (relativa) protezione del contraente più debole, le manutenzioni odierne mirano a rendere più completo il comando assoluto dell’impresa sul lavoro attraverso un più snello potere di licenziare e disciplinare. L’impresa rivendica una maggiore discrezionalità nei licenziamenti per esigenze di costo (per sbarazzarsi dei lavoratori che sul bilancio pesano di più: con maggiore anzianità di servizio, con più figli a carico, con ripetute gravidanze, con difficoltà fisiche o comportamentali di diversa natura), per motivi di controllo e sorveglianza (dei ribelli, delle teste calde, o semplicemente dei più combattivi), per ragioni simboliche (per mostrare chi comanda nella società e chi ha la forza reale per toccare l’egemonia nelle culture, nelle politiche). Sta emergendo un nuovo e paradossale diritto del più forte. Di diritti a favore del contraente più debole non si muore, come teme Marchionne, spettrale è invece il trionfo della logica d’impresa, agitata come una clava dalle nuove potenze, nostalgiche dei bei tempi antichi quando del lavoratore si poteva fare come per la locatio bovis.

L’Unità 31.03.12

“Un tempo si diceva: L’operaio vale come un cavallo”, di Michele Prospero

Le parole pronunciate da Marchionne alla Bocconi (dove se no?), contro i diritti e in difesa di una più agevolata libertà di licenziamento, sembrano ridare fiato ad un vecchio manuale di diritto commerciale. Il suo autore, G. Ferri, resisteva alla modernizzazione, che allora però aveva un altro segno: l’autonomia collettiva e la programmazione, e sosteneva che nell’impresa doveva sempre regnare una asimmetria di potere. La locatio hominis o contratto, non si distingueva dalla locatio bovis, ciò che contava era il pieno comando della proprietà sul lavoro. Già Locke del resto aveva identificato l’operaio e il cavallo, entrambi strumenti passivi a disposizione del padrone. L’essere dell’operaio, come persona coinvolta profondamente nel suo operare, è per il diritto una scoperta piuttosto recente. Da un ventennio ormai il diritto del lavoro classico, che riconosce il valore del corpo che lavora, scricchiola, eroso da una pioggia insistente di nuovi contratti, concepiti per lo più nel segno modernista della flessibilità e della precarizzazione. L’impatto economico che le infinite tipologie contrattuali hanno riversato sulla crescita e l’occupazione non è stato positivo. Al contrario. È stato sfigurato, visto come un fattore di rigidità, il diritto del lavoro sensibile alle istanze della costituzione, ma senza che lo scambio tra il razionamento dei diritti e un impiego senza qualità abbia portato dei vantaggi in termini di produttività. Meno tutele e caduta drastica degli indici della crescita (e dell’occupazione) costituiscono una smentita ai profeti del modernismo senza diritti. Dopo le nuove riforme dell’articolo 18 che cosa resterà? Sul piano storico il diritto del lavoro si afferma in Europa quando si scopre nella pratica sociale che il mito dell’autonomia negoziale (per cui ogni singolo contratta con l’altro le condizioni di una prestazione subordinata) si infrange duramente contro le scomode realtà che disvelano in un lato dominio e nell’altro sottomissione. La potenza economica, simbolica, politica che l’imprenditore concentra nelle sue mani è troppo soverchiante rispetto all’angusta capacità di influenza che resta nel raggio d’azione di un singolo prestatore d’opera. Il contratto individuale, massima incarnazione del dogma liberale della volontà soggettiva, si rivela una finzione ingannevole. Nelle vesti della astratta eguaglianza formale, il contratto tra singoli appare come uno strumento pieghevole a disposizione del soggetto più forte economicamente, che ha la maniera di imporre agli altri contraenti i tempi, i modi, i luoghi, le remunerazioni, le condizioni del lavoro. Con il contratto individuale di lavoro, il denaro ha un potere di controllo tale da ridurre il singolo lavoratore a un ingranaggio irrilevante. Solo quando i singoli lavoratori possono mettere insieme di fronte al padrone la loro unica forza (il numero) cambiano in maniera significativa le condizioni giuridiche del lavoro. Questa, lo ha chiarito un classico del giuslavorismo come O. Kahn-Freund, è la genesi del diritto del lavoro, invenzione novecentesca, a confine tra diritto privato e diritto pubblico, che in tanti sulla scia di Marchionne vorrebbero oggi consegnare all’oblio. Il diritto del lavoro nasce riconoscendo esplicitamente l’asimmetria di potere esistente tra il dipendente e l’imprenditore, asimmetria che può essere attenuata, non annullata in una economia di mercato solo immettendo visibili correzioni: contratto collettivo, regole pubbliche. La più rapida libertà di licenziamento individuale per motivi economici, in un Paese che non crea nuovi posti e ha da sempre una scarsa mobilità, rappresenta una inversione radicale rispetto al diritto del lavoro classico. Quest’ultimo era nato a garantire una (relativa) protezione del contraente più debole, le manutenzioni odierne mirano a rendere più completo il comando assoluto dell’impresa sul lavoro attraverso un più snello potere di licenziare e disciplinare. L’impresa rivendica una maggiore discrezionalità nei licenziamenti per esigenze di costo (per sbarazzarsi dei lavoratori che sul bilancio pesano di più: con maggiore anzianità di servizio, con più figli a carico, con ripetute gravidanze, con difficoltà fisiche o comportamentali di diversa natura), per motivi di controllo e sorveglianza (dei ribelli, delle teste calde, o semplicemente dei più combattivi), per ragioni simboliche (per mostrare chi comanda nella società e chi ha la forza reale per toccare l’egemonia nelle culture, nelle politiche). Sta emergendo un nuovo e paradossale diritto del più forte. Di diritti a favore del contraente più debole non si muore, come teme Marchionne, spettrale è invece il trionfo della logica d’impresa, agitata come una clava dalle nuove potenze, nostalgiche dei bei tempi antichi quando del lavoratore si poteva fare come per la locatio bovis.

L’Unità 31.03.12

"Pillola dei 5 giorni dopo. Da lunedì arriva in Italia nonostante le polemiche", di Mariagrazia Gerina

Arriva anche in Italia, da lunedì, la pillola dei cinque giorni dopo. Per acquistarla in farmacia servirà una ricetta non ripetibile. Il medico dovrà certificare che la paziente non è incinta attraverso l’apposito test. Ci sono voluti due anni per il via libera. Da lunedì, però, la pillola dei «cinque giorni dopo» EllaOne sarà in vendita in farmacia, anche in Italia. L’Organizzazione mondiale della Sanità la classifica «anticoncezionale d’emergenza». Come la pillola del «giorno dopo». Ma, diversamente da quella, può essere assunta fino a 120 ore dopo il rapporto a rischio. E, in generale, rispetto alla contraccezione d’emergenza utilizzata finora, a base di Levonorgestrel, è molto più efficace anche se utilizzata nelle prime ore: il doppio nelle prime 72 ore, fino a tre volte di più nelle prime 24 ore. Da noi, però, ci vorrà la ricetta per acquistarla. E il test di gravidanza per accertare che la donna a cui viene prescritta non sia incinta. Costerà 34,89 euro e, inserita tra i farmaci di categoria C, non rimborsabili, la spesa sarà tutta a carico di chi vorrà farne uso.
I PALETTI DELL’AIFA
È la via italiana a questa «nuova» forma di contraccezione d’emergenza, in realtà già commercializzata in 28 paesi e autorizzata in 39 paesi (europei ma anche africani, come il Gabon e il Djibouti, negli Stati Uniti come in Israele, Singapore, Corea del Sud). L’ok, a livello europeo, siglato dalla European Medicines Agency, risale al maggio del 2009. In Italia, ci sono voluti altri due anni perché l’Agenzia per il farmaco (Aifa) ne autorizzasse la vendita. Via libera accordato lo scorso novembre. Non senza polemiche (c’è anche un ricorso al Tar, ancora pendente, presentato dal Movimento per la Vita, ad approvazione già avvenuta). E paletti, imposti dalla stessa Agenzia: ricetta medica non ripetibile e test per accertare che non ci sia una gravidanza già in corso.
«Basta anche un test delle urine», assicurano dall’azienda produttrice, la Hra Pharma, citando la delibera dell’Aifa che parla di «test di gravidanza a esito negativo basato sul dosaggio delle beta Hcg» come esame propedeutico alla prescrizione della EllaOne. In risposta a chi, specie tra i ginecologi, aveva obiettato che un esame del sangue allungherebbe notevolmente i tempi.
L’Aifa ha operato con molta «attenzione», rivendica il ministro Balduzzi, preoccupato di rassicurare chi invece avrebbe voluto scongiurare la commercializzazione dell’EllaOne: «Se le indicazioni dell’Aifa saranno rispettate» spiega il ministro «credo si possa evitare che questi strumenti diventino un’occasione di pericolo e di rischio per la salute».
In ogni caso, test o meno, polemicche o no, dal 2 aprile la «pillola dei cinque giorni dopo» sarà in farmacia. «Avremo uno strumento in più per evitare l’aborto», osserva da ginecologa Anna Pompili. Prezioso, a suo avviso, soprattutto in Italia. Vi-
sto che il fattore tempo è fondamentale per la contraccezione d’emergenza. E invece: «Purtroppo per molte donne italiane, per via della diffusione dell’obiezione di coscienza anche tra i farmacisti, accedere alla contraccezione d’emergenza diventa un calvario». In questo contesto, «avere un farmaco che permette di agire con tempi un po’ più lunghi può essere d’aiuto, proprio per evitare l’aborto», suggerisce la dottoressa Pompili, autrice per altro, insieme a Carlo Flamigni, di un libro divulgativo sulla contraccezione.
Quanto al meccanismo di funzionamento di EllaOne, spiega: «A base di Ulipistral, la pillola agisce fondamentalmente sull’equilibrio ormonale, ovvero sposta in avanti il momento dell’ovulazione o, in qualche caso la inibisce, rendendo impossibile la fecondazione». C’è però il dubbio «non completamente chiarito aggiunge , che essendo un modulatore selettivo dell’inibitore del progesterone, potrebbe anche produrre una azione di inibizione dell’impianto qualora l’ovulo fosse già fecondato». Come avviene per esempio, quando dopo un rapporto a rischio viene impiantata la spirale. «Un tipo di contraccezione d’emergenza che esiste già osserva e che già oggi permette di intervenire entro 5 giorni».

l’Unità 31.03.12

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“Uno strumento clinico. La morale non c’entra
Su questo farmaco c’è stato un dibattito aspro: serve un passo indietro per la salute delle donne”, di Ignazio Marino

In un mondo ideale la contraccezione di emergenza, così come l’aborto, non dovrebbero esistere. Ma sappiamo tutti che la realtà in cui viviamo è fatta per lo più di scelte difficili e dolorose, di dubbi e di fragilità. Viviamo in un Paese in cui manca purtroppo un progetto nazionale organico e strutturato di educazione alla sessualità responsabile, alla salute riproduttiva e alla contraccezione nelle scuole.
A ciò si aggiunga la debolezza della medicina del territorio, sulla quale non si investe abbastanza: manca, nei fatti, da troppi anni una politica di potenziamento dei consultori che sono ormai poco più di 2000, circa 0,7 ogni 20.000 abitanti, mentre dovrebbero essere almeno 1 ogni 20.000. Elementi che rendono più incerta l’assistenza alle donne; elementi essenziali da considerare quando si tratta della contraccezione di emergenza e della pillola dei cinque giorni dopo.
Prima di tutto, è bene sottolineare che la diffusione di questo nuovo strumento è stata autorizzata dopo una valutazione scientifica responsabile e rigorosa da parte dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa). Il farmaco richiede una ricetta medica non ripetibile. Prima della prescrizione, inoltre, il medico è tenuto a verificare l’assenza di una gravidanza.
Si tratta di due regole ispirate dalla cautela e dalla necessità di porre al centro della decisione clinica il rapporto tra il medico e la sua paziente. Eppure il dibattito su questa pillola è stato rovente e ancora c’è chi dichiara di voler ostacolare la sua diffusione. Sui nuovi farmaci, tuttavia, le decisioni debbono essere di natura clinica e non orientate dalla morale. La pillola dei cinque giorni dopo non è un farmaco per donne «poco attente», ma una soluzione per chi ha vissuto un evento ad alto rischio e chiede quindi aiuto al medico.
Proprio il rapporto tra la donna e il proprio medico è una ulteriore garanzia che, con un confronto sincero e intimo, saranno vagliate tutte le possibilità e sarà assunta la decisione migliore dal punto di vista clinico e psicologico. Il medico dovrà parlare con franchezza ed esporre i percorsi che esistono. Ecco perché, a mio avviso, su questo farmaco non è accettabile alcun appello all’obiezione di coscienza e sarebbe un gravissimo errore cercare di manomettere il dibattito, tentando di insinuare che questa pillola sia abortiva e non anticoncezionale. Io credo davvero che dovremmo fare tutti un passo indietro, per il rispetto dovuto alla salute delle donne che non possono e non devono subire discriminazioni su temi così delicati. Sarebbe invece importante concentrare gli sforzi di tutti, a partire dalla politica, per potenziare una assistenza territoriale che possa essere davvero degna di questo nome. I ginecologi territoriali hanno un ruolo centrale, si deve smettere di parlare di medicina del territorio senza investirci e crederci.
Il ministro della Salute Renato Balduzzi è un esperto della materia e sa assai bene quanto sia necessario avere a cuore la sanità pubblica. Bisogna affrontare un problema chiaro nei numeri: se a 36 anni dalla istituzione dei consultori, l’ottanta per cento delle donne in gravidanza si rivolge alla sanità privata un problema esiste e deve assolutamente essere risolto.

l’Unità 31.03.12