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“I calcoli sbagliati (per difetto) su chi perde pensione e stipendio”, di Enrico Marro

Un pasticcio. Difficile trovare un’altra definizione per la vicenda degli «esodati», brutta parola che sta a indicare quelle persone che, dopo la riforma della previdenza, rischiano di restare senza stipendio e senza pensione. È un fenomeno che si verifica ogni volta che una riforma innalza i requisiti pensionistici. Succede che i lavoratori che nel periodo immediatamente precedente hanno lasciato il lavoro, spesso con incentivi aziendali in attesa della pensione che sarebbe arrivata da lì a poco, si ritrovano improvvisamente con le regole del gioco cambiate e con il traguardo previdenziale spostato in avanti di alcuni anni. Per questo, di solito, la legge prevede delle clausole di salvaguardia che consentono, a precise condizioni, a questi lavoratori di andare in pensione con le vecchie regole. Anche questa volta è stato così, solo che a differenza del passato, la riforma Fornero prevede un aumento dei requisiti per la pensione senza precedenti e quindi la salvaguardia inizialmente tarata su 65 mila persone si è rivelata insufficiente.
La norma stabilisce, tra l’altro, che potranno andare in pensione i lavoratori in esubero secondo accordi di ristrutturazione firmati da aziende e sindacati entro il 4 dicembre scorso e quelli che in seguito a dimissioni volontarie (gli esodati, appunto) hanno lasciato il lavoro entro il 31 dicembre 2011 e matureranno il primo assegno di pensione entro il dicembre 2013. Secondo i calcoli che furono fatti al momento della riforma, a dicembre, i lavoratori da salvaguardare sarebbero stati 65 mila. E su questa platea furono stanziate le risorse per coprire l’erogazione delle pensioni secondo le vecchie regole. Ma sono bastate poche settimane per rendersi conto che in realtà gli interessati sarebbero stati molti di più. Solo considerando i lavoratori in mobilità e mobilità lunga secondo gli accordi chiusi entro il 4 dicembre e quelli a carico dei fondi di solidarietà di settore, tipo i bancari, il numero dei 65 mila è già esaurito. Ma il punto è che gli accordi, anche se stipulati lo scorso dicembre, prevedono spesso la messa in mobilità pure negli anni successivi e anche questi lavoratori vanno tutelati. Senza considerare che la norma tutela genericamente anche i lavoratori ammessi alla prosecuzione volontaria della contribuzione entro il 4 dicembre scorso, che sono un numero sterminato se non interverranno interpretazioni limitative. Sono quindi cominciate a circolare le stime più diverse da 100 mila a più di 300 mila.
Fatto sta che il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, ha chiesto all’Inps di svolgere un monitoraggio per stabilire quanti sono gli esodati, in vista del decreto annunciato per giugno che, a questo punto, dovrà prevedere anche nuove risorse, se non altro per fornire almeno un mini sussidio (è questa una delle ipotesi che circola) ai lavoratori che dovessero rimanere fuori dalla possibilità di andare in pensione con le vecchie regole e che altrimenti resterebbero per qualche anno senza stipendio e senza pensione. «Trovo scandaloso che Inps e governo non siano in grado di quantificare il problema», ha detto ieri la leader della Cgil, Susanna Camusso. Sempre ieri il Pd ha lanciato un’offensiva parlamentare denunciando che gli esodati sarebbero 357 mila, come ha detto l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano, e presentando ben 18 interrogazioni al governo su altrettanti casi di lavoratori esodati oppure vittima della norma sulle ricongiunzioni onerose, altra questione che riguarda decine di migliaia di persone.
Le ricongiunzioni onerose si verificano a carico di coloro che, avendo lavorato sia nel pubblico sia nel privato, chiedono all’Inps di unire presso questo stesso istituto i contributi prima versati all’Inpdap ai fini di avere una sola pensione. La cosa si può fare, ma solo se il lavoratore paga all’Inps gli oneri di ricongiunzione che possono arrivare, nei casi più clamorosi, a centinaia di migliaia di euro.
Almeno due le richieste del Pd, delle opposizioni e dei sindacati, che scenderanno in piazza a Roma il 13 aprile. Uno: spostare il termine degli accordi salvaguardati dal 4 al 31 dicembre. Due: considerare nella deroga anche gli esodati che matureranno i nuovi requisiti pensionistici nei prossimi due anni (al netto quindi della finestra di un anno). Quanto alle ricongiunzioni, dice Damiano, «noi siamo anche disposti al fatto che la pensione si calcoli pro quota in base ai contributi versati nelle diverse gestioni, ma non è possibile che si chieda, come ora, di ripagare i contributi già versati».

Il Corriere della Sera 30.03.12

“I calcoli sbagliati (per difetto) su chi perde pensione e stipendio”, di Enrico Marro

Un pasticcio. Difficile trovare un’altra definizione per la vicenda degli «esodati», brutta parola che sta a indicare quelle persone che, dopo la riforma della previdenza, rischiano di restare senza stipendio e senza pensione. È un fenomeno che si verifica ogni volta che una riforma innalza i requisiti pensionistici. Succede che i lavoratori che nel periodo immediatamente precedente hanno lasciato il lavoro, spesso con incentivi aziendali in attesa della pensione che sarebbe arrivata da lì a poco, si ritrovano improvvisamente con le regole del gioco cambiate e con il traguardo previdenziale spostato in avanti di alcuni anni. Per questo, di solito, la legge prevede delle clausole di salvaguardia che consentono, a precise condizioni, a questi lavoratori di andare in pensione con le vecchie regole. Anche questa volta è stato così, solo che a differenza del passato, la riforma Fornero prevede un aumento dei requisiti per la pensione senza precedenti e quindi la salvaguardia inizialmente tarata su 65 mila persone si è rivelata insufficiente.
La norma stabilisce, tra l’altro, che potranno andare in pensione i lavoratori in esubero secondo accordi di ristrutturazione firmati da aziende e sindacati entro il 4 dicembre scorso e quelli che in seguito a dimissioni volontarie (gli esodati, appunto) hanno lasciato il lavoro entro il 31 dicembre 2011 e matureranno il primo assegno di pensione entro il dicembre 2013. Secondo i calcoli che furono fatti al momento della riforma, a dicembre, i lavoratori da salvaguardare sarebbero stati 65 mila. E su questa platea furono stanziate le risorse per coprire l’erogazione delle pensioni secondo le vecchie regole. Ma sono bastate poche settimane per rendersi conto che in realtà gli interessati sarebbero stati molti di più. Solo considerando i lavoratori in mobilità e mobilità lunga secondo gli accordi chiusi entro il 4 dicembre e quelli a carico dei fondi di solidarietà di settore, tipo i bancari, il numero dei 65 mila è già esaurito. Ma il punto è che gli accordi, anche se stipulati lo scorso dicembre, prevedono spesso la messa in mobilità pure negli anni successivi e anche questi lavoratori vanno tutelati. Senza considerare che la norma tutela genericamente anche i lavoratori ammessi alla prosecuzione volontaria della contribuzione entro il 4 dicembre scorso, che sono un numero sterminato se non interverranno interpretazioni limitative. Sono quindi cominciate a circolare le stime più diverse da 100 mila a più di 300 mila.
Fatto sta che il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, ha chiesto all’Inps di svolgere un monitoraggio per stabilire quanti sono gli esodati, in vista del decreto annunciato per giugno che, a questo punto, dovrà prevedere anche nuove risorse, se non altro per fornire almeno un mini sussidio (è questa una delle ipotesi che circola) ai lavoratori che dovessero rimanere fuori dalla possibilità di andare in pensione con le vecchie regole e che altrimenti resterebbero per qualche anno senza stipendio e senza pensione. «Trovo scandaloso che Inps e governo non siano in grado di quantificare il problema», ha detto ieri la leader della Cgil, Susanna Camusso. Sempre ieri il Pd ha lanciato un’offensiva parlamentare denunciando che gli esodati sarebbero 357 mila, come ha detto l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano, e presentando ben 18 interrogazioni al governo su altrettanti casi di lavoratori esodati oppure vittima della norma sulle ricongiunzioni onerose, altra questione che riguarda decine di migliaia di persone.
Le ricongiunzioni onerose si verificano a carico di coloro che, avendo lavorato sia nel pubblico sia nel privato, chiedono all’Inps di unire presso questo stesso istituto i contributi prima versati all’Inpdap ai fini di avere una sola pensione. La cosa si può fare, ma solo se il lavoratore paga all’Inps gli oneri di ricongiunzione che possono arrivare, nei casi più clamorosi, a centinaia di migliaia di euro.
Almeno due le richieste del Pd, delle opposizioni e dei sindacati, che scenderanno in piazza a Roma il 13 aprile. Uno: spostare il termine degli accordi salvaguardati dal 4 al 31 dicembre. Due: considerare nella deroga anche gli esodati che matureranno i nuovi requisiti pensionistici nei prossimi due anni (al netto quindi della finestra di un anno). Quanto alle ricongiunzioni, dice Damiano, «noi siamo anche disposti al fatto che la pensione si calcoli pro quota in base ai contributi versati nelle diverse gestioni, ma non è possibile che si chieda, come ora, di ripagare i contributi già versati».

Il Corriere della Sera 30.03.12

"Fede e il sipario che cala sul Tg in versione varietà", di Massimiliano Panarari

Ci potranno mai più essere un TG4 alla Emilio Fede e un TG1 stipato di editoriali alla Augusto Minzolini nell’Italia del governo tecnico? Con una naturalezza e una non- davvero impressionanti (e alquanto imprevedibili), il governo di Mario Monti ha avuto l’effetto di un terremoto in parecchi settori della vita pubblica italiana. Sta platealmente riscrivendo l’agenda economica e sociale, ma tutto fa pensare anche, in questo nostro Paese dall’aria (apparentemente) immutabile, che abbia dato inizio, quatto quatto, a una specie di nuovo spirito dei tempi, destinato, ovviamente, a non risparmiare quei termometri ipersensibili rispetto al clima politico che sono i telegiornali.

Il mix di competenza e sobrietà dei professori sta così producendo delle rivoluzioni anche nel sancta sanctorum del piccolo schermo. Uno sciame sismico: crisi d’ascolti dei talk show, aggiustamenti e ritocchi negli spazi giornalistici del servizio pubblico (a proposito del quale la maggioranza degli italiani invoca, giustamente, il recupero di uno spirito da troppo negletto), Minzolini che ha fatto i bagagli, il varo di TGCom 24 (il canale all news di Mediaset).

E, soprattutto, in termini simbolici, la fine di un’era, quella pluridecennale di Emilio Fede alla direzione del TG4, il quale, avendo intensamente (e piuttosto smodatamente) vissuto la stagione precedente, ne rappresenta un po’ il «capro espiatorio» ideale. Cosa sia successo nelle segrete stanze del primo gruppo televisivo privato italiano non è dato sapere, ma di sicuro Fede, che si proclamava l’ultimo dei «mohicani berlusconiani», produceva da tempo una sensazione di reducismo (e di «giapponese nella foresta») non più in sintonia con la fase mutata.

Era la sua la massima manifestazione di berlusconismo militante (e militare), con il TG4 caserma della Weltanschauung del Capo, di cui non si discuteva nulla, e men che meno la signorilità delle «cene eleganti» di Arcore.

Fedele agit prop di «Silvio», ma, anche e soprattutto, di se stesso, ovvero di un modello televisivo, di cui era stato, di fatto, l’inventore, volto ad abolire le frontiere tra informazione e intrattenimento. Un’espressione esemplare della politica pop, come l’ha chiamata Gianpietro Mazzoleni, e un frullatore nel quale venivano centrifugati materiali diversissimi, l’«informazione con l’elmetto» indirizzata alle fasce meno acculturate della popolazione e le «meteorine», il pettegolezzo e gli attacchi durissimi agli avversari (con la famigerata, e insopportabile, damnatio memoriae della storpiatura del nome). Qualcosa di assimilabile al giornalismo tabloid di altre nazioni, che qui passava per il tubo catodico anziché per la carta stampata, e, nel momento del bisogno, si tramutava in oliatissima macchina propagandistica. Su tutto e tutti, a troneggiare, era sempre lui, conduttore instancabile e nel suo genere insuperabile, smaccato, parossistico, esagerato, faziosissimo. Un vero marchio di fabbrica: guardavi Fede, e sapevi cosa ti attendeva. Solo che quello, giustappunto, non era precisamente un telegiornale, ma un’altra cosa, sconfinante nello spettacolo integrale di debordiana memoria: un «varietà informativo», dove, per l’appunto, l’intrattenimento finiva per prevalere sulle news, che, tra l’altro, appartenevano per lo più alla tipologia soft e gossipara. Era, insomma, il regno, postmodernissimo, dell’indistinto e dell’abbattimento delle distinzioni tra gli ambiti e i generi e, come tale, un autentico «blob» (che, non a caso, tante soddisfazioni dava ai creatori dell’omonima trasmissione di Rai Tre), e si inseriva abilmente in quella strategia di produzione di un’egemonia sottoculturale che tanto ha segnato politicamente il Paese nel corso i questi anni.

Uno strumento a lungo efficacissimo, divenuto di botto, nell’epoca del governo tecnico e dell’emergenza spread a ciclo continuo, una sorta di reperto paleolitico. Ma the show must go on e quindi, archiviato un TG4, se ne fa un altro. Che, giudicando da quanto andato in onda ieri sera, giorno I dell’èra post-Fede, nell’edizione principale delle 18,55, sarà un po’ differente.

Emilio Fede, ex direttore e dominus assoluto, ha salutato commosso i suoi telespettatori, negando qualunque screzio all’interno dell’azienda e dando loro l’arrivederci. Ma la sensazione era piuttosto quella di un finale di partita…

La Stampa 30.03.12

“Fede e il sipario che cala sul Tg in versione varietà”, di Massimiliano Panarari

Ci potranno mai più essere un TG4 alla Emilio Fede e un TG1 stipato di editoriali alla Augusto Minzolini nell’Italia del governo tecnico? Con una naturalezza e una non- davvero impressionanti (e alquanto imprevedibili), il governo di Mario Monti ha avuto l’effetto di un terremoto in parecchi settori della vita pubblica italiana. Sta platealmente riscrivendo l’agenda economica e sociale, ma tutto fa pensare anche, in questo nostro Paese dall’aria (apparentemente) immutabile, che abbia dato inizio, quatto quatto, a una specie di nuovo spirito dei tempi, destinato, ovviamente, a non risparmiare quei termometri ipersensibili rispetto al clima politico che sono i telegiornali.

Il mix di competenza e sobrietà dei professori sta così producendo delle rivoluzioni anche nel sancta sanctorum del piccolo schermo. Uno sciame sismico: crisi d’ascolti dei talk show, aggiustamenti e ritocchi negli spazi giornalistici del servizio pubblico (a proposito del quale la maggioranza degli italiani invoca, giustamente, il recupero di uno spirito da troppo negletto), Minzolini che ha fatto i bagagli, il varo di TGCom 24 (il canale all news di Mediaset).

E, soprattutto, in termini simbolici, la fine di un’era, quella pluridecennale di Emilio Fede alla direzione del TG4, il quale, avendo intensamente (e piuttosto smodatamente) vissuto la stagione precedente, ne rappresenta un po’ il «capro espiatorio» ideale. Cosa sia successo nelle segrete stanze del primo gruppo televisivo privato italiano non è dato sapere, ma di sicuro Fede, che si proclamava l’ultimo dei «mohicani berlusconiani», produceva da tempo una sensazione di reducismo (e di «giapponese nella foresta») non più in sintonia con la fase mutata.

Era la sua la massima manifestazione di berlusconismo militante (e militare), con il TG4 caserma della Weltanschauung del Capo, di cui non si discuteva nulla, e men che meno la signorilità delle «cene eleganti» di Arcore.

Fedele agit prop di «Silvio», ma, anche e soprattutto, di se stesso, ovvero di un modello televisivo, di cui era stato, di fatto, l’inventore, volto ad abolire le frontiere tra informazione e intrattenimento. Un’espressione esemplare della politica pop, come l’ha chiamata Gianpietro Mazzoleni, e un frullatore nel quale venivano centrifugati materiali diversissimi, l’«informazione con l’elmetto» indirizzata alle fasce meno acculturate della popolazione e le «meteorine», il pettegolezzo e gli attacchi durissimi agli avversari (con la famigerata, e insopportabile, damnatio memoriae della storpiatura del nome). Qualcosa di assimilabile al giornalismo tabloid di altre nazioni, che qui passava per il tubo catodico anziché per la carta stampata, e, nel momento del bisogno, si tramutava in oliatissima macchina propagandistica. Su tutto e tutti, a troneggiare, era sempre lui, conduttore instancabile e nel suo genere insuperabile, smaccato, parossistico, esagerato, faziosissimo. Un vero marchio di fabbrica: guardavi Fede, e sapevi cosa ti attendeva. Solo che quello, giustappunto, non era precisamente un telegiornale, ma un’altra cosa, sconfinante nello spettacolo integrale di debordiana memoria: un «varietà informativo», dove, per l’appunto, l’intrattenimento finiva per prevalere sulle news, che, tra l’altro, appartenevano per lo più alla tipologia soft e gossipara. Era, insomma, il regno, postmodernissimo, dell’indistinto e dell’abbattimento delle distinzioni tra gli ambiti e i generi e, come tale, un autentico «blob» (che, non a caso, tante soddisfazioni dava ai creatori dell’omonima trasmissione di Rai Tre), e si inseriva abilmente in quella strategia di produzione di un’egemonia sottoculturale che tanto ha segnato politicamente il Paese nel corso i questi anni.

Uno strumento a lungo efficacissimo, divenuto di botto, nell’epoca del governo tecnico e dell’emergenza spread a ciclo continuo, una sorta di reperto paleolitico. Ma the show must go on e quindi, archiviato un TG4, se ne fa un altro. Che, giudicando da quanto andato in onda ieri sera, giorno I dell’èra post-Fede, nell’edizione principale delle 18,55, sarà un po’ differente.

Emilio Fede, ex direttore e dominus assoluto, ha salutato commosso i suoi telespettatori, negando qualunque screzio all’interno dell’azienda e dando loro l’arrivederci. Ma la sensazione era piuttosto quella di un finale di partita…

La Stampa 30.03.12

“Fede e il sipario che cala sul Tg in versione varietà”, di Massimiliano Panarari

Ci potranno mai più essere un TG4 alla Emilio Fede e un TG1 stipato di editoriali alla Augusto Minzolini nell’Italia del governo tecnico? Con una naturalezza e una non- davvero impressionanti (e alquanto imprevedibili), il governo di Mario Monti ha avuto l’effetto di un terremoto in parecchi settori della vita pubblica italiana. Sta platealmente riscrivendo l’agenda economica e sociale, ma tutto fa pensare anche, in questo nostro Paese dall’aria (apparentemente) immutabile, che abbia dato inizio, quatto quatto, a una specie di nuovo spirito dei tempi, destinato, ovviamente, a non risparmiare quei termometri ipersensibili rispetto al clima politico che sono i telegiornali.

Il mix di competenza e sobrietà dei professori sta così producendo delle rivoluzioni anche nel sancta sanctorum del piccolo schermo. Uno sciame sismico: crisi d’ascolti dei talk show, aggiustamenti e ritocchi negli spazi giornalistici del servizio pubblico (a proposito del quale la maggioranza degli italiani invoca, giustamente, il recupero di uno spirito da troppo negletto), Minzolini che ha fatto i bagagli, il varo di TGCom 24 (il canale all news di Mediaset).

E, soprattutto, in termini simbolici, la fine di un’era, quella pluridecennale di Emilio Fede alla direzione del TG4, il quale, avendo intensamente (e piuttosto smodatamente) vissuto la stagione precedente, ne rappresenta un po’ il «capro espiatorio» ideale. Cosa sia successo nelle segrete stanze del primo gruppo televisivo privato italiano non è dato sapere, ma di sicuro Fede, che si proclamava l’ultimo dei «mohicani berlusconiani», produceva da tempo una sensazione di reducismo (e di «giapponese nella foresta») non più in sintonia con la fase mutata.

Era la sua la massima manifestazione di berlusconismo militante (e militare), con il TG4 caserma della Weltanschauung del Capo, di cui non si discuteva nulla, e men che meno la signorilità delle «cene eleganti» di Arcore.

Fedele agit prop di «Silvio», ma, anche e soprattutto, di se stesso, ovvero di un modello televisivo, di cui era stato, di fatto, l’inventore, volto ad abolire le frontiere tra informazione e intrattenimento. Un’espressione esemplare della politica pop, come l’ha chiamata Gianpietro Mazzoleni, e un frullatore nel quale venivano centrifugati materiali diversissimi, l’«informazione con l’elmetto» indirizzata alle fasce meno acculturate della popolazione e le «meteorine», il pettegolezzo e gli attacchi durissimi agli avversari (con la famigerata, e insopportabile, damnatio memoriae della storpiatura del nome). Qualcosa di assimilabile al giornalismo tabloid di altre nazioni, che qui passava per il tubo catodico anziché per la carta stampata, e, nel momento del bisogno, si tramutava in oliatissima macchina propagandistica. Su tutto e tutti, a troneggiare, era sempre lui, conduttore instancabile e nel suo genere insuperabile, smaccato, parossistico, esagerato, faziosissimo. Un vero marchio di fabbrica: guardavi Fede, e sapevi cosa ti attendeva. Solo che quello, giustappunto, non era precisamente un telegiornale, ma un’altra cosa, sconfinante nello spettacolo integrale di debordiana memoria: un «varietà informativo», dove, per l’appunto, l’intrattenimento finiva per prevalere sulle news, che, tra l’altro, appartenevano per lo più alla tipologia soft e gossipara. Era, insomma, il regno, postmodernissimo, dell’indistinto e dell’abbattimento delle distinzioni tra gli ambiti e i generi e, come tale, un autentico «blob» (che, non a caso, tante soddisfazioni dava ai creatori dell’omonima trasmissione di Rai Tre), e si inseriva abilmente in quella strategia di produzione di un’egemonia sottoculturale che tanto ha segnato politicamente il Paese nel corso i questi anni.

Uno strumento a lungo efficacissimo, divenuto di botto, nell’epoca del governo tecnico e dell’emergenza spread a ciclo continuo, una sorta di reperto paleolitico. Ma the show must go on e quindi, archiviato un TG4, se ne fa un altro. Che, giudicando da quanto andato in onda ieri sera, giorno I dell’èra post-Fede, nell’edizione principale delle 18,55, sarà un po’ differente.

Emilio Fede, ex direttore e dominus assoluto, ha salutato commosso i suoi telespettatori, negando qualunque screzio all’interno dell’azienda e dando loro l’arrivederci. Ma la sensazione era piuttosto quella di un finale di partita…

La Stampa 30.03.12

"Le buone scuole vanno in cattedra", di Maria Novella De Luca

Dalle elementari alle medie, l´istruzione pubblica prova a reinventarsi. Con progetti che puntano sull´innovazione. È la creatività al servizio dello studio. Il movimento è sotterraneo, carsico, indipendente, refrattario alla burocrazia e spesso anche alle luci troppo forti. È fatto di professori, maestri, ragazzi, presidi, genitori. Batte nel cuore profondo della scuola, quella che resiste, quella che prova a ritrovarsi, come se arrivati all´anno zero (zero fondi, zero prospettive, zero motivazione), da una rete diffusa di realtà piccole e grandi, primarie, secondarie, licei, istituti tecnici, stesse emergendo una reazione dinamica, vitale, magari imperfetta ma autentica. Scuola-villaggio, scuola-agorà, scuola-comunità, 2.0, senza zaino, web-school, “book in progress”: bisogna andare dalla Puglia alla Toscana, dalla Lombardia al Lazio, spesso in provincia, tra paesi e borghi che si consorziano in comunità di saperi, per capire e scoprire germogli e fermenti del nuovo.
Come in questo Liceo Scientifico Tecnologico alla periferia Brindisi, brutta edilizia in una regione al terzo posto in Italia per dispersione scolastica, 23,4% i giovani che ogni anno disertano gli studi, un tasso di abbandoni altissimo in un´area flagellata dalla crisi, e dove il Petrolchimico fino a pochi anni fa dava lavoro a 12mila famiglie oggi invece ridotte a 700. Eppure qui, all´Itis “Ettore Majorana” è nato tre anni fa il progetto “Book in progress” una scommessa vinta ed esportata in tutto il Paese e già adottata in 70 scuole. Perché c´è chi si autoproduce i libri di testo (book in progress) e chi rivoluziona la didattica dei bambini, ritrovando Maria Montessori e magari Rudolf Steiner. Chi punta sulla tecnologia, chi sullo studio senza libri, chi si propone come diga al disagio delle famiglie, chi alfabetizza, insieme agli studenti, anche i loro genitori. Ci sono scuole che offrono ai prof dei coach che li ri-motivano al piacere dell´insegnare, e docenti che, gratuitamente, si mettono a scrivere libri di testo.
«Parliamo mentre stampo un libro», chiede il preside del Liceo Scientifico Tecnologico Ettore Majorana, Salvatore Giuliano, 45 anni, da tre alla guida di questo istituto che oggi fa parte della rete delle 15 scuole italiane certificate 2.0, ossia con alta dotazione tecnologica. Risultati ai test Invalsi di 10 punti superiori alla media, e una visita del ministro dell´Istruzione Profumo nel dicembre del 2011. «Ricordo che era il 2007, eravamo alle prese con la scelta dei libri di testo, ogni anno più cari e spesso fatti male, poco comprensibili… L´idea fu immediata, semplice: perché non proviamo a scrivere e stampare da soli i nostri manuali, con la competenza di tanti anni di insegnamento, in modo da far risparmiare drasticamente le famiglie e aiutare i ragazzi?». Il progetto passa, i libri vengono elaborati dai docenti, stampati e venduti a pochi euro, il semplice recupero delle spese di tipografia. Genitori entusiasti, ragazzi anche. Ma a quel punto il (vulcanico) preside Salvatore Giuliano rilancia: «Ho convocato le famiglie, e ho chiesto loro di comprare un Pc ai propri figli con i soldi risparmiati dai libri di testo… Del resto per i manuali avevano speso soltanto 35 euro contro i 350 che ci vogliono di solito all´inizio di un ciclo secondario. L´adesione è stata totale, ed è iniziata la rivoluzione tecnologica della scuola».
Dal risparmio all´investimento, economia di base. Arrivano le Lim, le lavagne interattive, si crea la rete, si possono seguire da casa le lezioni, le aule diventano connesse tra di loro, lo spazio da fisico si trasforma in virtuale. Il progetto “Book in progress” valica i confini del Majorana e comincia ad interessare sempre più scuole, che via via adottano il sistema. «È tutto lavoro gratuito. Scrivere, stampare, impaginare, spesso di domenica, d´estate, ad agosto – raccontano Maria Rosaria Serio e Gioacchino Margarito, docenti di Chimica – ma mettere a disposizione degli studenti il proprio sapere affinato in tanti anni, invece di far comprare loro un qualunque libro di testo, magari approssimativo e superficiale, è davvero una bella soddisfazione. È stato come ritrovare passione nel lavoro».
E se “Book in progress” sta diventando una realtà così capillare che costringerà gli editori di libri scolastici a rivedere, probabilmente, prezzi e qualità dei testi, è risalendo verso il Lazio e la Toscana che si incontra l´esperienza di “Senza zaino”, definizione riduttiva per una nuova didattica che sta cambiando il volto della scuola primaria, già sperimentata dal 2002 in 35 realtà. Perché al di là delle classifiche, che vedono Biella al top delle scuole migliori d´Italia (all´avanguardia per alcuni istituti tecnici specializzati nel tessile, ponte verso le aziende), e il Sud (Reggio Calabria) agli ultimi posti, innovazioni e cambiamento si trovano a macchia di leopardo, nascosti magari in territori meno noti, più depressi, in affanno.
Da tre anni all´istituto comprensivo “eSpazia”, a Monterotondo, venticinque chilometri da Roma, paese meta di migrazioni della middle class dalla Capitale ma anche di molta immigrazione, si sperimenta una didattica particolare basata sul concetto di comunità. Un polo d´istruzione dove le parole d´ordine sono accoglienza e integrazione, i percorsi sono differenziati per ogni allievo e le lezioni frontali, cioè una per tutti, un ricordo del passato. E i prof sembrano entusiasti del loro lavoro. «Le nostre classi vanno dalle sezioni Primavera alla terza media, dai 2 ai 14 anni, con una idea di approccio globale all´insegnamento, e di cooperative learning, chi è più veloce aiuta gli altri, pur nel rispetto e nell´incentivo delle eccellenze», spiega Caterina Manco, dirigente scolastica dell´”eSpazia” dal 1993, anima e motore di questa scuola dove sempre più docenti chiedono di poter lavorare.
L´architettura dei corridoi è scarna ma ingentilita da disegni e murales, l´odore della mensa è buono, e basta entrare nelle classi che adottano il metodo “Senza zaino” per trovarsi in aule luminose, senza cattedre, ricche di materiali di ogni tipo, perché nulla si porta a casa ma tutto resta a scuola, in comune. C´è l´angolo dell´agorà (di discussione), l´angolo dell´autocorrezione dei compiti… E poi laboratori, classi aperte, lezioni “lunghe” per i ragazzi delle medie, 90 minuti invece dei soliti 60 per non frammentare il tempo dell´apprendimento, che però avviene in modo creativo, attraverso, anche, teatro, fotografia, grafica, musica, e naturalmente classi 2.0, classi Mac. «Per arrivare al contenuto ogni ragazzo sceglie il medium cioè lo strumento che preferisce, ma attraverso questa flessibilità impara ad imparare».
Ma la caratteristica di questo istituto comprensivo, in prima linea nell´accoglienza agli immigrati, ai bambini e ragazzi con handicap, nel riconoscimento dei disturbi dell´apprendimento, è il “tutoraggio” dei professori. Aggiunge con orgoglio Caterina Manco: «Chi arriva in questa scuola viene preso in carico da docenti già esperti nel metodo, e seguito giorno dopo giorno. Questo si traduce spesso in una sorta di ri-motivazione verso l´insegnamento, anche se qui si fanno più ore, viene richiesto più impegno, si passano a scuola intere giornate. E infatti c´è chi dopo qualche settimana chiede il trasferimento, e chi invece fa di tutto per lavorare con noi».
Ricorda Marco Barozzi, educatore e fotografo: «Appena arrivato qui mi hanno chiesto di occuparmi di tre ragazzi difficili, anzi difficilissimi… Del mio laboratorio di fotografia non gli importava davvero nulla, erano arrabbiati con il mondo e con la vita, violenti, ma attraverso quel laboratorio si è creato un contatto, una confidenza, che a poco a poco ha vinto le loro diffidenze e sgretolato quel muro. Oggi siamo amici e loro sono ragazzi sereni».

La Repubblica 30.03.12

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Si diffonde nelle primarie il metodo rivoluzionario del pedagogista Marco Orsi. “Senza banchi e senza zaino così imparare diventa un gioco”

In Italia ci sono circa seimila bambini che ogni giorno, per loro fortuna, vanno a scuola senza zaino. Senza macigni sulla schiena, senza pesi che li fanno camminare più curvi, più lenti, e magari spengono anche un po´ la voglia di fare e di imparare. Già, perché penne, libri, matite, colori, pennelli, quaderni, compassi, ma anche legno, creta, carta, ferro, giochi, numeri, parole, i bambini li trovano a scuola, o magari li costruiscono, in un´aula già dotata di tutto e dove ognuno è responsabile di sé. È così, con una rappresentazione semplice che Marco Orsi, pedagogista, ex maestro elementare, oggi dirigente scolastico a Lucca, descrive il progetto “Senza zaino”, una didattica sperimentata dal 2002 in una rete di scuole primarie toscane, ma che adesso si sta diffondendo in tutta Italia.
Marco Orsi, come nasce questo progetto? E cosa vuol dire la metafora “Senza zaino”?
«Non è una metafora perché davvero i nostri bambini arrivano a scuola con una cartellina leggera leggera. E abbiamo deciso di definire la nostra didattica citando un oggetto di uso comune, ma strettamente connesso alla vita scolastica dei bambini, proprio per poter riparte dai concetti basilari della scuola».
Quali ad esempio?
«L´aula, la cattedra, la disposizione dei banchi. Siamo partiti dalla constatazione che l´insegnamento dall´alto verso il basso, cioè il maestro in cattedra e i bimbi fermi nei banchi, il maestro che corregge e gli alunni che eseguono, una modalità passiva e identica a se stessa da oltre un secolo, non solo non è più attuale, ma è davvero inefficace con i bambini di oggi».
Su quali basi pedagogiche?
«Prima di tutto dalla riscoperta del pensiero di Maria Montessori, ancora così poco attuato in Italia. La spinta verso l´autonomia del bambino, che si autocorregge i compiti, che impara non soltanto attraverso l´astrazione dei concetti, ma toccando materialmente strumenti matematici, inventando oggetti, manipolando legno, creta, stoffa. E poi le intuizioni di Howard Gardner, alcuni concetti del metodo steineriano, l´arte, la musica. Il senso è quello di scoprire il mondo attraverso sia la mente che il corpo. E per questo non si può stare fermi nei banchi».
E allora come si studia, come si impara?
«Nel metodo “Senza zaino” noi diamo grande importanza all´architettura dell´aula. Lo spazio è diviso in aree di lavoro, dove i bambini si auto-organizzano, studiando spesso materie diverse da tavolo e tavolo. Quando finiscono si spostano nell´angolo della correzione, dove, da soli, controllano il proprio compito. La classe è dotata di schedari, libri, classificatori, cerchiamo ad esempio per i bambini delle prime classi penne con impugnature particolari, che facilitino l´approccio alla scrittura…».
Questo permette di alzarsi, di muoversi. E l´insegnante?
«Raramente fa delle lezioni collettive, di solito segue i bambini gruppo per gruppo. Questo permette una didattica non standardizzata che non lascia indietro nessuno».
Ma i programmi sono quelli ministeriali?
«Sì certo, ciò che cambia è l´approccio. Noi lo chiamiamo “Metodo del Curriculo Globale”. Che si fonda su tre valori e sei pilastri. I tre valori sono: comunità, responsabilità, ospitalità. La comunità è quella dei professori. La responsabilità è quella dei bambini che vengono coinvolti, imparano ad autovalutarsi, a lavorare in autonomia».
E l´ospitalità?
«Sono le aule pensate come luoghi belli e accoglienti da un team di architetti e insegnanti. Hanno il laboratorio delle parole e quello dei numeri, le lavagne interattive, l´angolo del computer e quello dell´arte, ma anche lo spazio dell´agorà, dove i bambini possono parlare, discutere, rilassarsi».
E loro, i bambini, che pensano?
«Sono entusiasti. Non fanno assenze. E raggiungono ottimi livelli di preparazione».

La Repubblica 30.03.12

“Le buone scuole vanno in cattedra”, di Maria Novella De Luca

Dalle elementari alle medie, l´istruzione pubblica prova a reinventarsi. Con progetti che puntano sull´innovazione. È la creatività al servizio dello studio. Il movimento è sotterraneo, carsico, indipendente, refrattario alla burocrazia e spesso anche alle luci troppo forti. È fatto di professori, maestri, ragazzi, presidi, genitori. Batte nel cuore profondo della scuola, quella che resiste, quella che prova a ritrovarsi, come se arrivati all´anno zero (zero fondi, zero prospettive, zero motivazione), da una rete diffusa di realtà piccole e grandi, primarie, secondarie, licei, istituti tecnici, stesse emergendo una reazione dinamica, vitale, magari imperfetta ma autentica. Scuola-villaggio, scuola-agorà, scuola-comunità, 2.0, senza zaino, web-school, “book in progress”: bisogna andare dalla Puglia alla Toscana, dalla Lombardia al Lazio, spesso in provincia, tra paesi e borghi che si consorziano in comunità di saperi, per capire e scoprire germogli e fermenti del nuovo.
Come in questo Liceo Scientifico Tecnologico alla periferia Brindisi, brutta edilizia in una regione al terzo posto in Italia per dispersione scolastica, 23,4% i giovani che ogni anno disertano gli studi, un tasso di abbandoni altissimo in un´area flagellata dalla crisi, e dove il Petrolchimico fino a pochi anni fa dava lavoro a 12mila famiglie oggi invece ridotte a 700. Eppure qui, all´Itis “Ettore Majorana” è nato tre anni fa il progetto “Book in progress” una scommessa vinta ed esportata in tutto il Paese e già adottata in 70 scuole. Perché c´è chi si autoproduce i libri di testo (book in progress) e chi rivoluziona la didattica dei bambini, ritrovando Maria Montessori e magari Rudolf Steiner. Chi punta sulla tecnologia, chi sullo studio senza libri, chi si propone come diga al disagio delle famiglie, chi alfabetizza, insieme agli studenti, anche i loro genitori. Ci sono scuole che offrono ai prof dei coach che li ri-motivano al piacere dell´insegnare, e docenti che, gratuitamente, si mettono a scrivere libri di testo.
«Parliamo mentre stampo un libro», chiede il preside del Liceo Scientifico Tecnologico Ettore Majorana, Salvatore Giuliano, 45 anni, da tre alla guida di questo istituto che oggi fa parte della rete delle 15 scuole italiane certificate 2.0, ossia con alta dotazione tecnologica. Risultati ai test Invalsi di 10 punti superiori alla media, e una visita del ministro dell´Istruzione Profumo nel dicembre del 2011. «Ricordo che era il 2007, eravamo alle prese con la scelta dei libri di testo, ogni anno più cari e spesso fatti male, poco comprensibili… L´idea fu immediata, semplice: perché non proviamo a scrivere e stampare da soli i nostri manuali, con la competenza di tanti anni di insegnamento, in modo da far risparmiare drasticamente le famiglie e aiutare i ragazzi?». Il progetto passa, i libri vengono elaborati dai docenti, stampati e venduti a pochi euro, il semplice recupero delle spese di tipografia. Genitori entusiasti, ragazzi anche. Ma a quel punto il (vulcanico) preside Salvatore Giuliano rilancia: «Ho convocato le famiglie, e ho chiesto loro di comprare un Pc ai propri figli con i soldi risparmiati dai libri di testo… Del resto per i manuali avevano speso soltanto 35 euro contro i 350 che ci vogliono di solito all´inizio di un ciclo secondario. L´adesione è stata totale, ed è iniziata la rivoluzione tecnologica della scuola».
Dal risparmio all´investimento, economia di base. Arrivano le Lim, le lavagne interattive, si crea la rete, si possono seguire da casa le lezioni, le aule diventano connesse tra di loro, lo spazio da fisico si trasforma in virtuale. Il progetto “Book in progress” valica i confini del Majorana e comincia ad interessare sempre più scuole, che via via adottano il sistema. «È tutto lavoro gratuito. Scrivere, stampare, impaginare, spesso di domenica, d´estate, ad agosto – raccontano Maria Rosaria Serio e Gioacchino Margarito, docenti di Chimica – ma mettere a disposizione degli studenti il proprio sapere affinato in tanti anni, invece di far comprare loro un qualunque libro di testo, magari approssimativo e superficiale, è davvero una bella soddisfazione. È stato come ritrovare passione nel lavoro».
E se “Book in progress” sta diventando una realtà così capillare che costringerà gli editori di libri scolastici a rivedere, probabilmente, prezzi e qualità dei testi, è risalendo verso il Lazio e la Toscana che si incontra l´esperienza di “Senza zaino”, definizione riduttiva per una nuova didattica che sta cambiando il volto della scuola primaria, già sperimentata dal 2002 in 35 realtà. Perché al di là delle classifiche, che vedono Biella al top delle scuole migliori d´Italia (all´avanguardia per alcuni istituti tecnici specializzati nel tessile, ponte verso le aziende), e il Sud (Reggio Calabria) agli ultimi posti, innovazioni e cambiamento si trovano a macchia di leopardo, nascosti magari in territori meno noti, più depressi, in affanno.
Da tre anni all´istituto comprensivo “eSpazia”, a Monterotondo, venticinque chilometri da Roma, paese meta di migrazioni della middle class dalla Capitale ma anche di molta immigrazione, si sperimenta una didattica particolare basata sul concetto di comunità. Un polo d´istruzione dove le parole d´ordine sono accoglienza e integrazione, i percorsi sono differenziati per ogni allievo e le lezioni frontali, cioè una per tutti, un ricordo del passato. E i prof sembrano entusiasti del loro lavoro. «Le nostre classi vanno dalle sezioni Primavera alla terza media, dai 2 ai 14 anni, con una idea di approccio globale all´insegnamento, e di cooperative learning, chi è più veloce aiuta gli altri, pur nel rispetto e nell´incentivo delle eccellenze», spiega Caterina Manco, dirigente scolastica dell´”eSpazia” dal 1993, anima e motore di questa scuola dove sempre più docenti chiedono di poter lavorare.
L´architettura dei corridoi è scarna ma ingentilita da disegni e murales, l´odore della mensa è buono, e basta entrare nelle classi che adottano il metodo “Senza zaino” per trovarsi in aule luminose, senza cattedre, ricche di materiali di ogni tipo, perché nulla si porta a casa ma tutto resta a scuola, in comune. C´è l´angolo dell´agorà (di discussione), l´angolo dell´autocorrezione dei compiti… E poi laboratori, classi aperte, lezioni “lunghe” per i ragazzi delle medie, 90 minuti invece dei soliti 60 per non frammentare il tempo dell´apprendimento, che però avviene in modo creativo, attraverso, anche, teatro, fotografia, grafica, musica, e naturalmente classi 2.0, classi Mac. «Per arrivare al contenuto ogni ragazzo sceglie il medium cioè lo strumento che preferisce, ma attraverso questa flessibilità impara ad imparare».
Ma la caratteristica di questo istituto comprensivo, in prima linea nell´accoglienza agli immigrati, ai bambini e ragazzi con handicap, nel riconoscimento dei disturbi dell´apprendimento, è il “tutoraggio” dei professori. Aggiunge con orgoglio Caterina Manco: «Chi arriva in questa scuola viene preso in carico da docenti già esperti nel metodo, e seguito giorno dopo giorno. Questo si traduce spesso in una sorta di ri-motivazione verso l´insegnamento, anche se qui si fanno più ore, viene richiesto più impegno, si passano a scuola intere giornate. E infatti c´è chi dopo qualche settimana chiede il trasferimento, e chi invece fa di tutto per lavorare con noi».
Ricorda Marco Barozzi, educatore e fotografo: «Appena arrivato qui mi hanno chiesto di occuparmi di tre ragazzi difficili, anzi difficilissimi… Del mio laboratorio di fotografia non gli importava davvero nulla, erano arrabbiati con il mondo e con la vita, violenti, ma attraverso quel laboratorio si è creato un contatto, una confidenza, che a poco a poco ha vinto le loro diffidenze e sgretolato quel muro. Oggi siamo amici e loro sono ragazzi sereni».

La Repubblica 30.03.12

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Si diffonde nelle primarie il metodo rivoluzionario del pedagogista Marco Orsi. “Senza banchi e senza zaino così imparare diventa un gioco”

In Italia ci sono circa seimila bambini che ogni giorno, per loro fortuna, vanno a scuola senza zaino. Senza macigni sulla schiena, senza pesi che li fanno camminare più curvi, più lenti, e magari spengono anche un po´ la voglia di fare e di imparare. Già, perché penne, libri, matite, colori, pennelli, quaderni, compassi, ma anche legno, creta, carta, ferro, giochi, numeri, parole, i bambini li trovano a scuola, o magari li costruiscono, in un´aula già dotata di tutto e dove ognuno è responsabile di sé. È così, con una rappresentazione semplice che Marco Orsi, pedagogista, ex maestro elementare, oggi dirigente scolastico a Lucca, descrive il progetto “Senza zaino”, una didattica sperimentata dal 2002 in una rete di scuole primarie toscane, ma che adesso si sta diffondendo in tutta Italia.
Marco Orsi, come nasce questo progetto? E cosa vuol dire la metafora “Senza zaino”?
«Non è una metafora perché davvero i nostri bambini arrivano a scuola con una cartellina leggera leggera. E abbiamo deciso di definire la nostra didattica citando un oggetto di uso comune, ma strettamente connesso alla vita scolastica dei bambini, proprio per poter riparte dai concetti basilari della scuola».
Quali ad esempio?
«L´aula, la cattedra, la disposizione dei banchi. Siamo partiti dalla constatazione che l´insegnamento dall´alto verso il basso, cioè il maestro in cattedra e i bimbi fermi nei banchi, il maestro che corregge e gli alunni che eseguono, una modalità passiva e identica a se stessa da oltre un secolo, non solo non è più attuale, ma è davvero inefficace con i bambini di oggi».
Su quali basi pedagogiche?
«Prima di tutto dalla riscoperta del pensiero di Maria Montessori, ancora così poco attuato in Italia. La spinta verso l´autonomia del bambino, che si autocorregge i compiti, che impara non soltanto attraverso l´astrazione dei concetti, ma toccando materialmente strumenti matematici, inventando oggetti, manipolando legno, creta, stoffa. E poi le intuizioni di Howard Gardner, alcuni concetti del metodo steineriano, l´arte, la musica. Il senso è quello di scoprire il mondo attraverso sia la mente che il corpo. E per questo non si può stare fermi nei banchi».
E allora come si studia, come si impara?
«Nel metodo “Senza zaino” noi diamo grande importanza all´architettura dell´aula. Lo spazio è diviso in aree di lavoro, dove i bambini si auto-organizzano, studiando spesso materie diverse da tavolo e tavolo. Quando finiscono si spostano nell´angolo della correzione, dove, da soli, controllano il proprio compito. La classe è dotata di schedari, libri, classificatori, cerchiamo ad esempio per i bambini delle prime classi penne con impugnature particolari, che facilitino l´approccio alla scrittura…».
Questo permette di alzarsi, di muoversi. E l´insegnante?
«Raramente fa delle lezioni collettive, di solito segue i bambini gruppo per gruppo. Questo permette una didattica non standardizzata che non lascia indietro nessuno».
Ma i programmi sono quelli ministeriali?
«Sì certo, ciò che cambia è l´approccio. Noi lo chiamiamo “Metodo del Curriculo Globale”. Che si fonda su tre valori e sei pilastri. I tre valori sono: comunità, responsabilità, ospitalità. La comunità è quella dei professori. La responsabilità è quella dei bambini che vengono coinvolti, imparano ad autovalutarsi, a lavorare in autonomia».
E l´ospitalità?
«Sono le aule pensate come luoghi belli e accoglienti da un team di architetti e insegnanti. Hanno il laboratorio delle parole e quello dei numeri, le lavagne interattive, l´angolo del computer e quello dell´arte, ma anche lo spazio dell´agorà, dove i bambini possono parlare, discutere, rilassarsi».
E loro, i bambini, che pensano?
«Sono entusiasti. Non fanno assenze. E raggiungono ottimi livelli di preparazione».

La Repubblica 30.03.12