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“Maschi, unitevi a noi nella battaglia dei diritti delle donne” , discorso di Emma Watson all'Onu – La Repubblica 24.09.14

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Il discorso dell’attrice di “Harry Potter” all’Onu “Basta con gli stereotipi di genere, il cambiamento deve iniziare da noi” Poi l’appello agli uomini: “Dobbiamo tutti essere liberi di sentirci fragili o forti”
 
Ho iniziato a contestare i pregiudizi basati sul genere quando, a otto anni, non capivo perché a me davano della “prepotente” quando volevo dirigere le recite che organizzavamo per i nostri genitori, mentre ai maschi non dicevano nulla. A 14 anni, quando è iniziata la mia connotazione sessuale da parte di una certa stampa. A 15, nel momento in cui le mie amiche lasciavano lo sport agonistico per timore di diventare troppo “muscolose”. A 18, vedendo che i miei amici maschi non riuscivano a esprimere le loro emozioni.
Decisi di essere femminista e mi sembrava molto semplice. Ma approfondendo ultimamente la tematica ho capito che il termine femminismo è diventato impopolare. A quanto pare appartengo ad un ordine di donne che sono giudicate troppo forti, aggressive nel modo di esprimersi, che si autoemarginano, sono contro gli uomini e poco attraenti. Sono britannica e reputo giusto ricevere, come donna, la stessa retribuzione dei miei colleghi maschi. Reputo giusto di poter decidere del mio corpo. Reputo giusto che le donne si impegnino in politica e decidano le sorti del mio paese. Reputo giusto godere dello stesso rispetto sociale degli uomini. Purtroppo però posso dire che non esiste paese al mondo in cui questi diritti sono garantiti a tutte le donne.
Per me questi diritti rientrano tra i diritti umani ma io sono una delle fortunate. Sono privilegiata perché i miei genitori non mi hanno amata meno perché sono nata femmina. A scuola non ho avuto limitazioni perché ero femmina. I miei insegnanti non hanno dato per scontato che non sarei andata lontano perché un giorno avrei potuto dare alla luce un figlio. Con la loro influenza costoro hanno fatto di me ciò che sono ora: forse non lo sanno ma sono femministi involontari. E ne servono altri come loro. E se ancora odiate il termine, sappiate che non è la parola che importa, ma l’idea e l’ambizione che porta con sé. Perché non tutte le donne hanno garantiti gli stessi diritti che ho io. A dire il vero, statisticamente, sono pochissime.
Uomini — vorrei cogliere questa opportunità per estendervi un invito formale. La parità di genere interessa anche voi. Perché oggi ad esempio ho visto che per la società mio padre vale meno come genitore, anche se, da figlia, ho bisogno di lui quanto di mia madre. Ho visto giovani affetti incapaci di chiedere aiuto per timore di sembrare meno virili: in effetti nel Regno Unito il suicidio è la prima causa di morte per i maschi tra i 20 e i 49 anni, superando di gran lunga gli incidenti stradali, il cancro e le coronaropatie. Ho visto uomini resi fragili e insicuri da un concetto distorto del successo maschile. Neppure gli uomini godono della parità.
Non si parla spesso degli stereotipi di genere che imprigionano gli uomini ma so che esistono e quando se ne libereranno, come naturale conseguenza cambieranno le cose per le donne. Se gli uomini non dovranno essere aggressivi per essere accettati, le donne non si sentiranno costrette ad essere remissive. Se gli uomini non dovranno esercitare il controllo, le donne non dovranno essere controllate. Uomini e donne dovrebbero entrambi sentirsi liberi di essere sensibili. Entrambi dovrebbero sentirsi liberi di essere forti.
Forse penserete: ma chi è questa ragazzina di Harry Potter, cosa ci sta a fare all’Onu? È una domanda lecita e, credetemi, me lo sono chiesta anch’io. Non so se ho le carte in regola per stare qui. So solo che questo tema mi sta a cuore. E so che voglio migliorare le cose. E sulla base di quello che ho visto — avendone l’occasione — sento il dovere di prendere la parola. Lo statista inglese Edmund Burke disse: «Perché le forze del male trionfino basta solo che i buoni, uomini e donne, non facciano nulla». Prima di salire sul palco ero nervosa e insicura ma mi son detta: se non io, chi, se non ora, quando. Perché la realtà è che se non facciamo nulla ci vorranno 75 anni, e io ne avrò quasi cento, prima che le donne possano aspettarsi di ricevere la stessa retribuzione di un uomo svolgendo lo stesso lavoro. Nei prossimi 16 anni saranno 15,5 milioni le spose bambine. E ai ritmi attuali si dovrà arrivare al 2086 prima che tutte le ragazze dell’Africa rurale siano in grado di accedere all’istruzione secondaria. Se credete nella parità potreste essere tra i femministi involontari di cui parlavo prima. E per questo avete il mio applauso.

Sì della Camera al reato di depistaggio, atto di giustizia per le vittime delle stragi – Manuela Ghizzoni 24.09.14

Oggi la Camera ha approvato la proposta di legge per l’introduzione del reato di depistaggio e inquinamento processuale. La norma prevede fino a quattro anni di reclusioneper chiunque distrugga o manometta prove al fine di impedire indagini o processi. con aggravanti se a depistare è un pubblico ufficiale e se il reato riguarda processi per stragi e terrorismo, mafia e associazioni segrete. Una battaglia vinta da Paolo Bolognesi, deputato e presidente del’Associazione familiari delle vittime della strage del 2 agosto, insieme alle altre associazioni di vittime e ai 30.000 cittadini che hanno firmato la petizione per portare la legge in Parlamento. Sono orgogliosa di essere stata fra i firmatari di questa proposta perché oggi, dopo ben quattro legislature di “niente di fatto”, abbiamo reso un atto di giustizia verso i familiari, verso la memoria delle vittime  e verso la verità. Quella verità troppo spesso occultata dagli apparati dello Stato.  

Ecco l’intervento di Paolo Bolognesi nell’Aula della Camera:

Signor Presidente, come primo firmatario di questa proposta di legge, desidero intervenire per ricordare a quest’Aula che la sua approvazione rappresenta una svolta storica per questo Paese. 
  Ci sono volute ben quattro legislature perché questa legge fosse discussa. Il fatto di essere arrivati alla sua approvazione credo sia estremamente importante e rilevante. Con il nostro voto noi scegliamo di cambiare a favore di un sistema che taglia completamente con il passato, che guarda in faccia la propria storia e dice «basta» all’impunità fino ad oggi data a quelle zone grigie del potere, che per decenni hanno utilizzato il depistaggio per coprire le responsabilità di esecutori, mandanti ed ispiratori politici. Come dimostrano alcune sentenze e migliaia di atti processuali, da Piazza Fontana del 1969 alle stragi del 1993, i depistaggi, gli occultamenti, la distruzione di documenti e le complicità di alcuni apparati hanno impedito che si potesse giungere alla scoperta dei responsabili materiali e morali degli attentati, negando il diritto ai cittadini, alla società civile ed ai familiari di conoscere la completa verità su questi eccidi. Diritto di un Paese democratico deve essere, invece, difendere e garantire.
  Come presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage di Bologna del 2 agosto 1980 contro i depistaggi ed assieme alle altre associazioni di vittime, ho combattuto dal giorno della strage ed è stato uno dei miei primi obiettivi, come parlamentare, presentare e portare alla discussione dell’Aula questa proposta di legge, che, voglio ricordare, è stata sostenuta anche da circa 30 mila cittadini, che hanno firmato la petizione lanciata da change.org, perché fosse approvata dal Parlamento. Dopo anni di battaglie civili e dopo quattro legislature, in cui la proposta presentata è stata ignorata, oggi, con l’approvazione di questa legge, siamo convinti di avere dato al Paese finalmente la possibilità di garantire la verità a tutti i cittadini, liberato dal rischio di un possibile e nuovo silenzio, un nuovo depistaggio e nuove opacità di Stato. 
  Grazie, anche a nome dei familiari delle vittime del terrorismo, grazie ancora” 

 

 

"La Gran Bretagna dice stop al nozionismo, sui banchi ora si «impara» la vita", di Nicola Barone – Scuola 24 23.09.14

Basta con i soli tradizionali corsi d’insegnamento, ora il Regno Unito apre le porte della scuola a nuove e più allargate forme di sapere. È solo un passo iniziale ma i fondi supplementari stanziati dal ministro inglese dell’Istruzione Nicky Morgan segnano una svolta: il primo mattone di una riforma del curriculum che offra ai giovani, accanto alle nozioni di base, una cultura di senso moderno. Le scuole saranno perciò incoraggiate finanziariamente a offrire dibattiti, coaching sportivo, produzioni teatrali e lezioni di musica, sia all’ora del pranzo sia nel dopo-scuola, puntando allo sviluppo di attitudini come la «resilienza», la perseveranza e la capacità di lavorare in team.

L’annuncio davanti a esponenti dell’impresa e del non profit 
Molte ricerche di ambito psicologico concordano sull’utilità di dare, già in età scolare, elementi di quelle conoscenze che nel mondo anglosassone vanno sotto il nome di «character-building». L’accento è soprattutto posto sulla resilienza, che nel mondo dei materiali indica la capacità di assorbire un urto senza rompersi. Traslato nel mondo degli uomini e delle donne in carne e ossa, ciò significa avere la fortuna di essere dotati per tempo degli strumenti per affrontare i colpi negativi della vita. In questo senso il Regno Unito ha fatto da battistrada nel mondo con sperimentazioni di successo soprattutto nelle scuole private. È anche per colmare il gap crescente con il settore pubblico che ieri il ministro ha annunciato la decisione partecipando a una tavola rotonda con figure chiave del mondo imprenditoriale e del non profit. Per l’avvio pronto uno stanziamento ah hoc pari a 5 milioni di sterline. «Il nostro piano è che i giovani escano dalla scuola preparati per la vita moderna in Gran Bretagna. Ciò significa non solo garantire che imparino le materie accademiche di base e le nozioni, ma anche che vengano sviluppati i valori e le abilità per avere successo nel mondo del lavoro, per andare avanti negli studi e nella vita. Ecco perché voglio che tutti gli alunni abbiano dimestichezza con il tipo di attività che accrescono il carattere e le capacità di recupero, fuori e dentro le aule», ha spiegato Nicky Morgan.

Tra i pionieri lo storico e biografo di Blair Anthony Seldon 
Secondo le anticipazioni del Daily Mail le risorse saranno destinate principalmente alle scuole in zone svantaggiate e bisognerà prevedere inoltre azioni di «mentoring», pensate per aiutare i bambini nella transizione alla vita adulta. «Se è dalla pratica dello sport che arrivano il lavoro di squadra e la resilienza, se servono dedizione e perseveranza per imparare uno strumento o la fiducia e l’estroversione si possono trovare sul palco, con questi fondi ogni bambino avrà la possibilità di ricevere una formazione più ampia ed equilibrata», ha aggiunto il ministro. Per quanto non manchino esperienze del genere in giro per il mondo e alcune nel nostro stesso Paese, il Regno Unito è senza dubbio il cuore di questa rivoluzione. Esistono persino centri universitari specializzati nella formazione dei docenti. In parecchi casi l’introduzione di una vasta gamma di attività extra-scolastiche è stata determinante per il successo di alcune scuole in precedenza piazzate male nelle graduatorie nazionali. Tra i pionieri dell’approccio orientato alla crescita personale ai valori un posto di primo piano è occupato da Anthony Seldon. Storico, autore di numerose e apprezzate biografie di Tony Blair (una in corso d’opera riguarderà il premier David Cameron). A lui si deve ilFestival of education , un’iniziativa realizzata in collaborazione con il Sunday Times che richiama ogni anno nei dintorni di Londra una platea internazionale di esperti, docenti e policy-maker.

"Dalla ricerca di base al mercato: l'Erc finanzia 50 progetti, tre sono italiani", di Marzio Bartoloni – Scuola 24 23.09.14

Aiutare i ricercatori a testare l’applicabilità sul mercato il potenziale innovativo di una sperimentazione fatta in laboratorio e pronta invece ora a diventare un prodotto. È quello a cui puntano i nuovi finanziamenti del Consiglio europeo della ricerca che ieri ha stanziato fino a 150mila euro per ognuno dei 50 progetti selezionati che già avevano ricevuto fondi dall’Erc quando ancora erano nella prima fase di studio. Ora con questa nuova iniezione di risorse l’obiettivo è passare dalla ricerca di base al mercato. Tra i 50 progetti ci sono anche tre “a firma” italiana.

Assegnati i primi fondi, la nuova “call” scade il 1° ottobre 
I 50 scienziati che riceveranno i fondi – fino a 150mila euro – dal programma «Proof of concept» li potranno utilizzare per provare a dare un risvolto “pratico” alle loro ricerche: le risorse potranno infatti essere impiegate a esempio per difendere i diritti brevettuali di una scoperta oppure per mettere in piedi una start up o ancora per realizzare un prototipo o effettuare dei test clinici di una terapia. Complessivamente sono arrivate a Bruxelles 182 richieste di finanziamento, tra queste ne sono state scelte 50 (28% di successo). I fondi saranno assegnati a ricercatori che operano in 12 Paesi, tra questi c’è anche l’Italia. Il budget complessivo messo a disposizione dall’Erc per «Proof of concept» è di 15 milioni di euro: circa la metà è stato distribuito ieri con questo primo “round” di progetti finanziati. Il secondo round è invece ancora aperto e c’è tempo fino al prossimo 1° ottobre per partecipare. Per il prossimo anno il Consiglio europeo di ricerca conta di aumentare le risorse a disposizione per questa iniziativa portandole a 20 milioni.

Tre i progetti italiani selezionati tra i 50 vincitori 
Dallo sviluppo di terapie per bambini con problemi cardiaci congeniti al monitoraggio in tempo reale della qualità dell’acqua fino a un tool per aiutare chi vuole acquistare una casa a scegliere nel modo migliore e più informato . Sono alcuni dei 50 progetti scientifici che riceveranno i fondi per passare dai laboratori al mercato. Nella lista dell’Erc ce ne sono anche tre che saranno sviluppati in Italia: uno presso il Consorzio interuniversitario per le telecomunicazioni, il secondo all’università di Padova e il terzo nell’ateneo di Udine. Qui in particolare un docente italiano, Giacinto Scoles, da 40 anni impegnato nella ricerca scientifica e negli ultimi anni nelle nanotecnologie proverà grazie ai fondi dell’Erc a realizzare un nuovo metodo investigativo per l’individuazione precoce dei fattori responsabili della disseminazione delle cellule tumorali. Scoles ha già ricevuto nel 2010 un finanziamento di 3 milioni dall’Erc per sviluppare la sua ricerca di base . Per il presidente del Consiglio europeo della ricerca, Jean-Pierre Bourguignon, questo programma rappresenta per chi ha già vinto un grant di avere «un supporto extra per investigare l’innovazione potenziale contenuta nelle loro buone idee».

 

"Giovani, competenti e occupati: ecco il ritratto della generazione Erasmus" di Eugenio Bruno – Scuola 24 23.09.14

I giovani che studiano o si formano all’estero non acquisiscono soltanto conoscenze specifiche, ma consolidano anche le competenze trasversali fondamentali. Due circostanze molto apprezzate dai datori di lavoro come dimostrano i tassi disoccupazione che risultano infatti dimezzati rispetto ai loro coetanei che restano all’interno dei confini nazionali. A confermarlo è un nuovo studio dell’Unione europea sull’impatto di Erasmus che ha visto quasi 80 000 partecipanti tra cui studenti e imprese ed è stato presentato ieri.

L’impatto sul mercato del lavoro 
Lo studio sull’impatto dell’Erasmus mostra come i laureati con esperienza internazionale se la cavino meglio degli altri sul mercato del lavoro. Come dimostrano i tassi disoccupazione di lunga durata dimezzati rispetto a chi non ha studiato né si è formato all’estero. A cinque anni dalla laurea, inoltre, il loro tasso di disoccupazione è più basso del 23 per cento. Lo stesso paper evidenzia come il 92% delle aziende ricerchi nei candidati proprio i tratti della personalità che sono potenziati dal programma Erasmus: la tolleranza, la fiducia in se stessi, le abilità di problem solving, la curiosità, la consapevolezza dei propri punti di forza e di debolezza, e la risolutezza. Una volta rientrati in patria gli studenti interessati dimostrano valori in questi campi più alti in media del 42 per cento.

L’importanza dei tirocini
La relazione dell’Ue rivela che a più di un tirocinante Erasmus su tre viene offerto un posto nell’azienda dove si è svolto il tirocinio. I tirocinanti in questione hanno anche più attitudini imprenditoriali rispetto a chi è rimasto a casa: uno su dieci avvia una propria azienda e più di tre su quattro prevedono, o non escludono, di farlo. Anche gli avanzamenti di carriera dovrebbero essere più veloci: il 64% dei datori di lavoro attribuisce maggiori responsabilità al personale con esperienza internazionale.

Un orizzonte più ampio 
Erasmus non si limita a migliorare le prospettive professionali, ma allarga anche gli orizzonti degli studenti e la loro rete di relazioni. Il 40% cambia il paese di residenza o di lavoro almeno una volta dopo la laurea, quasi il doppio di quelli che non hanno fatto un’esperienza di mobilità durante gli studi. Il 93% degli studenti con esperienza internazionale può concepire di vivere all’estero nel futuro mentre per chi resta a studiare all’interno dei confini nazionali questa percentuale scende al 73 per cento. Ma il programma di scambio dell’Ue ha effetti anche sulle scelte familiari: il 33% degli ex studenti Erasmus ha un partner di un’altra nazionalità, a fronte del 13% di chi non ha fatto quest’esperienza; nel 27% dei casi la scintilla è scoccata proprio durante l’Erasmus. In base a questi dati, la Commissione stima che dal 1987 in poi siano nati circa un milione di bambini figli di coppie Erasmus.

Gli obiettivi dell’Unione europea
Da quest’anno al 2020 il nuovo programma Erasmus+ darà l’opportunità di andare all’estero a 4 milioni di persone, tra cui 2 milioni di studenti e 300.000 docenti dell’istruzione superiore. Al tempo stesso si punta a sovvenzionare 135.000 scambi di studenti e personale con paesi partner non europei. Nel commentare i risultati dello studio pubblicato ieri, la Commissaria per l’Istruzione, la cultura, il multilinguismo e la gioventù, Androulla Vassiliou, ha sottolineato: «In un contesto europeo segnato da livelli inaccettabili di disoccupazione giovanile i risultati dello studio di impatto su Erasmus sono estremamente significativi. Il messaggio è chiaro: chi studia o si forma all’estero migliora le proprie prospettive lavorative».

Perché la cultura non sia un luogo comune – Manuela Ghizzoni 22.09.14

Nei dibattiti sulla “cultura”, c’è sempre il rischio di trovarsi inevitabilmente ad alimentare due opinioni, che scivolano ormai in luoghi comuni.

La prima riguarda la cultura come patrimonio che ha valore in sé in quanto somma di saperi, testimone di identità e strumento di conoscenza. Queste connaturate virtù la rendono esclusivo oggetto di finanziamento pubblico e non contaminabile dalle regole del mercato.

La seconda, più mondana, è ormai sintetizzabile in una affermazione attribuita ad un famoso ministro dell’Economia: “Con la cultura non si mangia”; si tratta, pertanto, di intrattenimento, mediamente inutile, soprattutto nei periodi di crisi.

I dati sono incontrovertibili: secondo l’Osservatorio sulle Strategie Europee per la Crescita e l’Occupazione, “in Germania le 237mila PMI culturali e creative hanno fatto crescere il Pil, al tempo della crisi, di quasi il 3% e l’occupazione di quasi il 2%. Al livello comunitario, il fatturato di settore e, in particolare, dei prodotti culturali legati all’ICT… ha superato i 600 miliardi di euro che, con margini superiori al 2,5 %, sono arrivati a contribuire più di quanto non abbiano fatto il settore immobiliare, alimentare, tessile o chimico”. Per l’Unesco, invece, “In dieci anni il commercio mondiale dei beni e dei servizi culturali è raddoppiato, superando i 620 miliardi di dollari”.

Del resto, a fronte delle innegabili intrinseche virtù della cultura, lo Stato e le altre istituzioni pubbliche del nostro Paese non investono quanto dovrebbero, e non penso alle sole risorse finanziarie, per le quali siamo – come al solito – fanalino di coda nelle classifiche internazionali. Penso all’assenza di un investimento progettuale, soprattutto all’assenza di un sistema che consenta ai tanti, tantissimi soggetti presenti in un territorio (istituzioni di cultura, operatori culturali, artisti, imprese profit e non, organizzazioni sociali e istituti finanziari) di fare massa critica, di uscire dall’autoreferenzialità, di cooperare nell’offerta e nella produzione culturale. Di essere, insieme, presidi di socialità e civiltà.

La cultura – prodotto umano per antonomasia – si ciba di idee, di talento, di curiosità e di tolleranza. E’ legata all’atto rivoluzionario e individuale della creatività. Ma affinché essa diventi motore di innovazione, di integrazione e persino di giustizia sociale deve intervenire la politica, la buona politica. L’estro personale, la custodia di un bene culturale, la preservazione di un paesaggio o il tramandare una memoria non possono restare atti isolati, pena il fallimento del senso ultimo della cultura, cioè il progresso: qui entra in gioco la capacità di chi ha responsabilità di governo per rendere possibile, vivo e fecondo il connubio tra intrattenimento e formazione, conservazione e reddito, identità e inclusione, economia e civiltà. Una “missione impossibile”? Facciamo in modo, tutti insieme, che non lo sia.

"Ritorno a Marzabotto", di Michele Smargiassi – La Repubblica 21.09.14

«Etu, quanti?». Come ogni anno davanti a questo altare sbrecciato ci si rinfresca la memoria: «Io cinque, e tu?», «Io sette». Non sono i figli. Neppure i nipoti. Sono i morti ammazzati. I passi di Tina van da soli, fra questi ruderi. Da settanta dei suoi ottantasei anni viene a trovarli, i suoi fantasmi su questo calvario di settecentosettanta cristi in croce che si chiama Monte Sole, nome splendente di una storia buia. Gli italiani la conoscono, ammesso che la ricordino ancora, come “la strage di Marzabotto”, ma a Marzabotto non accadde quasi niente, quel 29 settembre 1944.
«Marzabotto è il paese dove ogni anno mettono i banchi di mortadella e i politici pronunciano il loro bla-bla di circostanza», mormora Tina, «i nostri morti sono quassù». Passeggiamo sullo sterrato verso Casaglia. Sui pendii galleggiano i ruderi di sasso delle case bruciate, delle chiese fatte esplodere coi fedeli dentro. «La nostra Pompei», scrive un vecchio partigiano, Francesco Berti Arnoaldi. Com’è vero. Una colata di lava sanguigna seppellì tutto, qui, lasciando la pace disabitata delle pietre. «Ecco, qui spararono alla Vittoria, perché non voleva camminare, era paralitica… Questa croce di ferro… Qui fucilarono don Ubaldo Marchionni». Sull’altare, come Thomas Becket. Aveva appena ingoiato tutte le ostie consacrate, per proteggere col suo corpo almeno Cristo. Un cagnolino da tartufi guizza da chissà dove, cerca il padrone. «Qualcosa di vivo, finalmente… Solo le lumache fanno compagnia ai morti». Furono centoquindici massacri che in una settimana fecero il grande massacro. È un trekking, oggi, il golgota dei contadini. Prendi la mappa giù al centro visitatori, tra boyscout in gita e famigliole al picnic, calchi i passi delle SS di Walter Reder, 16esima Panzergrenadier-Division , vieni su dalla valle del Setta o da quella del Reno, su su fino al crinale, e ogni cento passi trovi una lapide, una croce. «Qui sono morti tre dei miei cinque: zia Maria, le cugine Dirce e Marisa». Tina Lera Bugané non c’era, nei giorni dell’apocalisse. Abitava a Serravalle Scrivia, Alessandria, con papà che costruiva la prima autostrada d’Italia. Una lontananza che le è pesata, che sublimò vent’anni dopo, diventata redattrice di riviste, romanzando le storie di famiglia in un libro, Sole nero a Casaglia. «Pensi che eravamo noi, là, ad aver paura, dicevano: gli Alleati sbarcano in Liguria, arriva la guerra…». E i parenti rimasti qui le scrivevano preoccupati: «Torna da noi… Qui sei al sicuro…». Sì, certo, sull’Appennino bolognese il fronte vero era vicino. Linea Gotica. Gli americani poco più su. Lampi nel cielo di notte. Bombe sulla ferrovia. Ma come immaginare l’inimmaginabile, visto che i tedeschi già da mesi bussavano alle porte, cercando i partigiani, e «a donne, bambini e vecchi non avevano mai fatto nulla». Quel giorno, invece, qualcuno capì che il vento era cambiato. «Ma questo glielo racconta mio cugino Lillo. Lui c’era. Aveva quattordici anni».
Scendiamo a Gardelletta. Lillo Bugané è appena tornato a casa dalla dialisi. È un po’ frastornato, ma ricorda tutto. «Si vedeva il fumo. I tedeschi vengon su, bruciano le case!», i suoi occhi chiari li vedono ancora. Scappare, ma dove? Dove si è abituati ad andare, tutte le domeniche: lungo il sentiero medievale dell’Enfialugo, quello coi cippi antichi, su fino a Casaglia, alla chiesa parrocchiale di San Michele. Il 29 settembre è il suo giorno, il giorno dell’angelo custode, ci custodirà. Una cappella di pochi metri quadri, bastano poche decine di persone per stiparla, «in chiesa non ci faranno nulla ». Ma Lillo ha paura, mica di morire, no, «paura che i tedeschi mi prendano per portarmi in Germania». E allora, la mamma gli grida dal sagrato «Lillo vieni dentro!» ma lui in un secondo prende la decisione, «mi volto indietro e corro nel bosco», la voce gli si rompe, «io sono vivo perché ho disobbedito a mia madre». Nascosto fra querce e larici, vede tutto. La pattuglia che scardina la porta della chiesa, fa uscire tutti facendo il verso beffardo che si fa ai maiali, «brrr! brrr!», la colonna di donne vecchi bambini avviata verso il cimitero, appena cento metri, ecco, saltano anche i cancelli del camposanto, tutti in fila lungo il muro, la mitragliatrice montata, i colpi… Lillo non va più avanti, ora piange come il ragazzino terrorizzato che era.
Eccolo, il cimitero di Casaglia. C’è la tomba di don Giuseppe Dossetti, “l’onorevole di Dio”, il monaco che riconsacrò Monte Sole. Ci sono poche vecchie croci di ferro. Qualcuna mostra ancora i fori dei proiettili. «Volevano uccidere anche i morti…». Sono fori bassi. Ad altezza di bambino. «Volevo tornare a cercare la mamma», si riprende Lillo, «lì in quel mucchio di morti. Ma i tedeschi non se ne andavano. Ho girato due giorni nei boschi. Poi ho preso un camion che andava a Firenze», piange ancora. Sì, Lillo, basta, basta così.
«Forse, fossero scappati tutti nei boschi… disperdendosi, come Lillo…», si chiede Tina. «Ma credevano nell’inviolabilità della Chiesa. Rimasero tutti assieme e facilitarono il lavoro ai tedeschi». Scrisse con triste sintesi una delle sentenze dei processi del dopoguerra: “Rimase chi credeva di essere protetto dalla propria debolezza”. O magari dai partigiani. Ma loro avevano già perso la partita, fin dalla mattina. All’alba i tedeschi avevano sorpreso e ammazzato a Cadotto il Lupo, il capo della brigata Stella Rossa. Qualcuno dice: avevano fatto festa la sera prima, erano certi che gli americani stessero arrivando, che fosse ormai finita. Chissà. Di certo, in quei giorni non ci fu nessun vero combattimento. Solo massacro, che i partigiani ormai sbandati guardarono attoniti dalla cima di Monte Sole, poche centinaia di metri più su di Casaglia, impreparati e impotenti di fronte a una guerra fatta così. Perché non fecero un tentativo disperato? È la domanda che da settant’anni infiamma le polemiche fra le due narrazioni rivali del martirio, quella partigiana-comunista che rivendica la lotta impari, e quella cattolica che li accusa di aver attirato l’ira dei tedeschi per poi lasciar sola la popolazione coi suoi sacerdoti. Ma ormai si sa, che cosa vennero a fare i tedeschi. Di andare a stanare ribelli armati uno per uno, nei boschi, sul loro terreno, non avevano la minima intenzione. Il piano di Reder era chiaro, lucido, razionale. Era “guerra sterminazionista”, come l’hanno definita gli storici Luca Baldissara e Paolo Pezzino nel libro Il massacro. L’ordine era: fare terra bruciata attorno ai partigiani. Case, cibo, persone, distruggere tutto. L’obiettivo, primario e anzi unico, erano i civili. Tutti i civili indifferentemente. Il massacro di Monte Sole non fu un’eruzione inspiegabile di bestialità, di “male assoluto”, non fu un crudele inutile irrazionale supplemento alla guerra: era la guerra. Era la guerra ai civili, la guerra inventata dal Novecento, la guerra che non punta a sconfiggere il nemico, vuole annientarlo, la stessa guerra che continua a seminare, nel mondo, anche oggi, la domanda agghiacciante: «E tu, quanti?».
A Monte Sole niente follia disumana, ma genocidio militarmente pianificato. Auschwitz sull’Appennino. La lapide nel sacrario, giù a Marzabotto, celebra le vittime «dell’amor di patria», ma di quale patria erano mai patrioti i settecentosettanta abitanti di questa prua di rocce e boschi, mondo di storia lenta, di uova sotto la cenere e mele sotto il letto? Vittime senza neppure la ricompensa dell’eroismo, scrive Tina nel suo romanzo, «morirono l’uno sull’altro, senza nessun motivo che li inorgoglisse per il sacrificio », senza nomi di condottieri o di ideali da gridare, solo quelli di figli, sorelle e madri. Testimoni rovesciarono al processo cataratte di episodi atroci, stupri, sevizie indicibili, un groviglio di terribili verità e mitologie dell’orrore che gli storici fanno ancora fatica a dipanare. Ma basterebbe dire: duecentosedici bambini. Una delle lapidi riporta «Ferretti Annamaria, di mesi uno». Come può un uomo, Tina? «I tedeschi erano ragazzi, sì, avevano madri, sorelle, forse figli. Ma per loro quelle erano persone. Razza dominatrice del mondo. Noi no, per loro eravamo bestiame, piante, polvere». Andiamo a trovare nonno Mingòn. Lo ammazzarono a Cerpiano, un chilometro oltre il crinale. I tedeschi lo trovarono seduto sulla panca di legno che aveva scavato in un tronco. Prima di sparargli, il soldato del Reich gli tolse dal taschino l’orologio d’oro, orgoglio di una vita, e glielo fece dondolare davanti agli occhi, ridendo. Ecco, fra gli sterpi, la chiesa distrutta con le bombe a mano con quarantanove persone dentro. «Zia Amelia cercò di uscire dall’inferno, la falciarono sulla soglia». Vide tutto Antonietta Benni, la maestra della scuolina degli sfollati, che si salvò fingendosi morta fra i cadaveri, e salvò due bambini tappando loro la bocca. «Lasciarono lì la zia per due giorni. I maiali le mangiarono la testa». Come riesce a raccontarlo, Tina? Esita. «Vede, quando Reder ci chiese la grazia, a noi sopravvissuti, disse che doveva rivedere la madre inferma prima che morisse». Tina è una dolce signora, una nonna da libri d’infanzia. Sospira: «Lei capisce, vero? Perdonare sarebbe stato disumano».
Tina saluta in silenzio i suoi spiriti, è un saluto speciale, «non so quante altre volte potrò tornare». Risaliamo la mulattiera verso Casaglia. Ha piovuto tutta la notte, proprio come settant’anni fa. La macchina scivola, s’impantana. Il salvatore che ci trascina fuori col suo fuoristrada mormora con disapprovazione: «i morti, bisogna lasciarli in pace».