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“Una relazione da rafforzare”, di Pierluigi Battista

Il governo Monti ha svolto più che egregiamente i compiti a casa. Ha ridato credibilità e centralità all’Italia. Ha fatto del nostro Paese un interlocutore autorevole dell’Europa (e degli Stati Uniti, come ha confermato sul Corriere l’ambasciatore Usa a Roma). Ha avviato una politica economica dolorosa ma efficace, rimesso sui binari i conti impazziti, allontanato il fantasma del fallimento. Ma basta? Forse, a costo di apparire incontentabili, non basta. Perché gli incoraggianti risultati sui conti sembrano un po’ più opachi, se dalle formule matematiche si passa alla vita vera degli italiani, alle emozioni e ai simboli che ne cementano la coesione.
È vero, un governo tecnico non ha come obiettivo il consenso. Ma la prospettiva di un destino comune è pur sempre la missione di un governo che, oltre all’autorevolezza e alla competenza, deve saper trasmettere agli italiani fiducia, forza, energia in uno dei momenti più difficili della loro storia. Se il naufragio di una nave colpisce l’immaginazione pubblica e ferisce come un’umiliazione l’intera compagine nazionale per la sconsideratezza di comandanti fatui e tremebondi, un governo sensibile al bene comune deve esserci, deve dire qualcosa, deve essere presente. Se l’Italia, sommersa dalla neve, conta decine di morti, paesi senza energia elettrica, treni bloccati nel gelo, Roma tramortita dal caos, autostrade paralizzate, il governo, anche se tecnico, non può rifugiarsi dietro un’impassibile tecnicità, deve dare l’impressione di voler tirar fuori l’Italia dal disastro, sanzionare gli incapaci, dare una sferzata all’opera di chi si spende senza requie per soccorrere chi è in difficoltà. «Populista» sarà pure una brutta parola, una tentazione troppo invasiva nella nostra storia più recente. Ma i pericoli del populismo non devono impedire a un governo di essere popolare, di entrare in un rapporto di sintonia, di connessione emotiva, di compartecipazione con le sorti del «popolo» genericamente inteso. Non è obbligatorio essere simpatici, ma nemmeno perdersi in dichiarazioni inutilmente antipatiche. Bisogna dire la verità, ma non è che per evitare il rischio della demagogia bisogna mostrarsi indifferenti alle passioni della democrazia. Andare in una fabbrica in difficoltà, affrontare una delle piazze pulite in cui si esprime un malcontento diffuso, visitare un’università del Mezzogiorno per parlare con gli studenti di talento ma senza futuro, un convegno di liberi professionisti che si sentono penalizzati da misure dure e per loro drammatiche, persino sfidare in un confronto pubblico chi è vittima della crisi, darebbe a questo governo una forza simbolica straordinaria.
Nessuna nostalgia dell’esibizionismo festaiolo, ma l’atmosfera dei centri studi che hanno sfornato un consesso di ministri tra i più preparati e affidabili della nostra storia non può essere l’unico orizzonte emotivo, culturale, persino lessicale di chi sta chiedendo agli italiani di «fare compiti» difficili e gravosi. In un’atmosfera di angoscia che non può lasciare sordo anche il più tecnico ed efficace dei governi. Che ha reso miracolosamente credibile l’Italia nel mondo, ma che comunichi agli italiani un nuovo orgoglio. Missione impervia, ma non impossibile.

Il Corriere della Sera 09.02.12

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“Più realismo che ottimismo sul cammino difficile delle riforme”, di Stefano Folli

A proposito di riforme e di “dialogo” fra i partiti, gli ottimisti si sono già pronunciati e hanno speso ottimi argomenti per salutare il disgelo fra Pdl e Pd. In sostanza, però, l’enfasi è servita a salutare la scelta di un metodo (sempre meglio della non-comunicabilità precedente) e alcune intese di principio.

Ad esempio, è chiaro che non si potrà tornare al voto con la pretesa delle segreterie di compilare la lista dei candidati destinati a sicura elezione: come nel 2006 e nel 2008. Né si potrà ignorare che il paese si attende un tentativo, almeno un serio tentativo, di ridurre il numero dei parlamentari: 630 deputati e 315 senatori oggi sono eccessivi per il sentimento collettivo. Ma che si riesca davvero a rimaneggiarli con legge costituzionale prima della fine della legislatura, è tutt’altra questione. Per crederlo ci vuole una dose supplementare di ottimismo.

In ogni caso, per ora siamo a questo: accordi di principio per trasmettere all’opinione pubblica il senso di una classe politica desiderosa di recuperare credibilità e impegnata ad auto-riformarsi. Non c’è molto di più. Il resto del percorso – in Parlamento e fuori – non sarà più facile, ma assai più difficile. Il che, s’intende, non toglie valore all’obiettivo finale, il rinnovamento del sistema e dei suoi assetti. Ma è bene essere realisti.
La prova l’abbiamo avuta ieri nella conferenza dei capigruppo al Senato. Dopo tanti buoni propositi, è bastato scendere sul terreno delle decisioni concrete per scoprire quanto sono numerose le riserve mentali. Il centrodestra vuole incardinare le riforme istituzionali (bicameralismo, numero dei parlamentari, eccetera) prima e non dopo la legge elettorale. Il centrosinistra e anche i centristi vogliono l’opposto.

È un ostacolo insormontabile? In situazioni normali non lo sarebbe. Si tratta di schermaglie abbastanza normali che vengono superate se esiste una volontà politica forte e determinata. Dunque la vera domanda è: esiste questa volontà nel circuito Alfano-Bersani-Casini? E soprattutto, esiste in Silvio Berlusconi? Il quesito al momento non trova una risposta certa. Abbiamo assistito all’apertura di un dialogo, ma nessuno ha spiegato con chiarezza quale Italia si vuole costruire in vista delle elezioni del 2013. Un impianto politico più o meno bipolare di quello che oggi si è arreso al governo tecnico? Al momento si cerca di ottenere un doppio risultato, venato peraltro di notevoli contraddizioni: un modello che premia i due maggiori partiti, ma al tempo stesso non umilia e anzi concede un ragionevole spazio agli altri soggetti intermedi (Lega, terzo polo, area Vendola-Di Pietro). Un proporzionale corretto, reso più solido dall’indicazione del premier e dall’istituto della sfiducia costruttiva. Aspetto, quest’ultimo, che proietta il dibattito sul terreno scivoloso delle modifiche costituzionali.

Tutto si può e anzi si deve fare, ma ci vuole una grande coesione politica. Che al momento è tutta da verificare. Se Pdl, Pd e terzo polo fossero davvero decisi, avrebbero i numeri e i mezzi per procedere di buona lena. Tuttavia dovrebbero disinteressarsi del destino della Lega, da un lato, e del binomio Vendola-Di Pietro, dall’altro. Prima di dare per scontato un tale esito, aspettiamo almeno la primavera. Il disgelo con la temperatura sotto zero non è garantito.

Il Sole 24 Ore 09.02.12

"Un'intesa è possibile. L'articolo 18 non la pregiudichi", di Stefano Fassina ed Emilio Gabaglio*

Da quando si è aperto il confronto sulle riforme del mercato del lavoro la questione dell`art. 18, anche a seguito di alcune improvvide dichiarazioni governative, ha assunto, inopinatamente, una centralità che non merita fino a far dipendere dal suo destino, il giudizio sull`efficacia o meno di queste riforme.

Nulla di più erroneo se si considera che, contrariamente alla vulgata imperante, anche la sua eventuale abolizione non contribuirebbe affatto a ridurre la precarietà, dato che questa è largamente diffusa nelle imprese in cui l`art. 18 non si applica, o a indurre le aziende ad accrescere l`occupazione visto che anche recenti indagini nel mondo imprenditoriale segnalano come assumere o meno dipenda da ben altre ragioni, essenzialmente legate all`andamento del mercato.

Quanto poi alla relativa minore capacità dell`Italia di attrarre investimenti esteri è difficile pensare che essa dipenda da un eccesso di protezione del lavoro e non piuttosto da un`inadeguata modernizzazione del sistema-Paese nel suo complesso. Non è un caso che anche il segretario generale dell`Ocse, Angel Gurria, in occasione del suo recente soggiorno romano si sia sentito in dovere si segnalare che l`art. 18 «non è il punto fondamentale della riforma del lavoro» attualmente allo studio. Un`opinione tanto più degna di nota in quanto proveniente da un`organizzazione che è da sempre antesignana della flessibilità del lavoro.

Occorre quindi evitare che, nel momento in cui la trattativa tra governo e parti sociali entra nella sua fase più stringente, sia l`art. 18 a farla deragliare, pregiudicando la possibilità di un accordo che è invece essenziale in questa fase e che appare a portata di mano, grazie anche ad una ritrovata convergenza unitaria del movimento sindacale che rappresenta essa stessa un valore aggiunto per il Paese. A quanto è dato capire i termini per raggiungere questo accordo esistono e sono tali da dare risposte alle vere questioni dell`emergenza occupazionale che stiamo vivendo:

– facilitando l`ingresso dei giovani nel mercato del lavoro attraverso un apprendistato rafforzato;
– incentivando l`inserimento e il reinserimento al lavoro delle donne, degli over 50 e di altre figure deboli;
– riducendo drasticamente le tipologie contrattuali atipiche e rendendo il lavoro flessibile più oneroso di quello a tempo indeterminato;
– garantendo che le misure di sostegno al reddito, da mantenere ed estendere, siano effettivamente accompagnate da politiche attive, di formazione, riconversione professionale e outplacement.

Solo in questo quadro volto a rendere più inclusivo e fluido il mercato del lavoro ha senso affrontare anche alcuni aspetti dell`operatività dell`art. 18 senza rimetterne in discussione il valore come presidio per i diritti dei lavoratori nei luoghi di lavoro e la funzione deterrente rispetto a discriminazioni ed abusi.

Innanzitutto riducendo la durata dei processi che oggi si protraggano per troppo tempo alimentando l`incertezza per le parti e anche accrescendo gli oneri per le imprese. In secondo luogo valutando se e come i licenziamenti individuali di carattere economico non possano seguire un percorso simile a quello per i licenziamenti collettivi della stessa natura, con l`intervento del sindacato e l`applicazione di analoghe provvidenze sociali, ferma restando la possibilità, qualora emergesse nella procedura il carattere pretestuoso del comportamento dell`impresa, di intraprendere da parte del lavoratore le vie legali per ottenere giustizia secondo la normativa vigente.

È un`ipotesi che merita di essere pragmaticamente esplorata in quanto essa, nel caso di specie, non priva il lavoratore di protezione ma l`affida all’azione sindacale. Auspicando che la trattativa in corso approdi al risultato sperato non sarà tuttavia superfluo ricordare che anche il miglior accordo sulle riforme del mercato del lavoro non è in grado di per sé di assicurare la creazione di nuove opportunità di occupazione, in primo luogo dei giovani e della donne, in assenza di una politica economica e industriale che promuova lo sviluppo.

Su questo non meno che sul mercato del lavoro governo e le forze a suo sostegno in Parlamento sono attese alla prova.

Stefano Fassina – Responsabile Economia e Lavoro e Pd
Emilio Gabaglio – Presidente Forum Lavoro Pd

L’Unità 09.02.12

“Un’intesa è possibile. L’articolo 18 non la pregiudichi”, di Stefano Fassina ed Emilio Gabaglio*

Da quando si è aperto il confronto sulle riforme del mercato del lavoro la questione dell`art. 18, anche a seguito di alcune improvvide dichiarazioni governative, ha assunto, inopinatamente, una centralità che non merita fino a far dipendere dal suo destino, il giudizio sull`efficacia o meno di queste riforme.

Nulla di più erroneo se si considera che, contrariamente alla vulgata imperante, anche la sua eventuale abolizione non contribuirebbe affatto a ridurre la precarietà, dato che questa è largamente diffusa nelle imprese in cui l`art. 18 non si applica, o a indurre le aziende ad accrescere l`occupazione visto che anche recenti indagini nel mondo imprenditoriale segnalano come assumere o meno dipenda da ben altre ragioni, essenzialmente legate all`andamento del mercato.

Quanto poi alla relativa minore capacità dell`Italia di attrarre investimenti esteri è difficile pensare che essa dipenda da un eccesso di protezione del lavoro e non piuttosto da un`inadeguata modernizzazione del sistema-Paese nel suo complesso. Non è un caso che anche il segretario generale dell`Ocse, Angel Gurria, in occasione del suo recente soggiorno romano si sia sentito in dovere si segnalare che l`art. 18 «non è il punto fondamentale della riforma del lavoro» attualmente allo studio. Un`opinione tanto più degna di nota in quanto proveniente da un`organizzazione che è da sempre antesignana della flessibilità del lavoro.

Occorre quindi evitare che, nel momento in cui la trattativa tra governo e parti sociali entra nella sua fase più stringente, sia l`art. 18 a farla deragliare, pregiudicando la possibilità di un accordo che è invece essenziale in questa fase e che appare a portata di mano, grazie anche ad una ritrovata convergenza unitaria del movimento sindacale che rappresenta essa stessa un valore aggiunto per il Paese. A quanto è dato capire i termini per raggiungere questo accordo esistono e sono tali da dare risposte alle vere questioni dell`emergenza occupazionale che stiamo vivendo:

– facilitando l`ingresso dei giovani nel mercato del lavoro attraverso un apprendistato rafforzato;
– incentivando l`inserimento e il reinserimento al lavoro delle donne, degli over 50 e di altre figure deboli;
– riducendo drasticamente le tipologie contrattuali atipiche e rendendo il lavoro flessibile più oneroso di quello a tempo indeterminato;
– garantendo che le misure di sostegno al reddito, da mantenere ed estendere, siano effettivamente accompagnate da politiche attive, di formazione, riconversione professionale e outplacement.

Solo in questo quadro volto a rendere più inclusivo e fluido il mercato del lavoro ha senso affrontare anche alcuni aspetti dell`operatività dell`art. 18 senza rimetterne in discussione il valore come presidio per i diritti dei lavoratori nei luoghi di lavoro e la funzione deterrente rispetto a discriminazioni ed abusi.

Innanzitutto riducendo la durata dei processi che oggi si protraggano per troppo tempo alimentando l`incertezza per le parti e anche accrescendo gli oneri per le imprese. In secondo luogo valutando se e come i licenziamenti individuali di carattere economico non possano seguire un percorso simile a quello per i licenziamenti collettivi della stessa natura, con l`intervento del sindacato e l`applicazione di analoghe provvidenze sociali, ferma restando la possibilità, qualora emergesse nella procedura il carattere pretestuoso del comportamento dell`impresa, di intraprendere da parte del lavoratore le vie legali per ottenere giustizia secondo la normativa vigente.

È un`ipotesi che merita di essere pragmaticamente esplorata in quanto essa, nel caso di specie, non priva il lavoratore di protezione ma l`affida all’azione sindacale. Auspicando che la trattativa in corso approdi al risultato sperato non sarà tuttavia superfluo ricordare che anche il miglior accordo sulle riforme del mercato del lavoro non è in grado di per sé di assicurare la creazione di nuove opportunità di occupazione, in primo luogo dei giovani e della donne, in assenza di una politica economica e industriale che promuova lo sviluppo.

Su questo non meno che sul mercato del lavoro governo e le forze a suo sostegno in Parlamento sono attese alla prova.

Stefano Fassina – Responsabile Economia e Lavoro e Pd
Emilio Gabaglio – Presidente Forum Lavoro Pd

L’Unità 09.02.12

"I disabili (veri) dimenticati dallo Stato", di Gian Antonio Stella

«Un pazzo costa allo Stato 4 marchi al giorno, uno storpio 5,50, un criminale 3,50…». Iniziava così un problema del manuale di matematica nella Germania nazista del 1940: lo scolaro doveva calcolare, senza quei pesi, quanto si poteva risparmiare. Alla larga dai paragoni provocatori, ma che razza di Paese è quello che taglia i fondi ai disabili? Ed è lecito che sfrutti fino in fondo, come denuncia il Censis, le famiglie che si fanno carico giorno dopo giorno, spesso eroicamente, dell’assistenza?
Pochi numeri, presi da un’inchiesta del «Sole 24 Ore», dicono tutto. Rispetto al Pil, l’Italia spende molto più della media dell’Europa a 15 per le pensioni (16,1% contro 11,7%), come gli altri nel totale del welfare (26,5% contro 26%) ma nettamente meno per la non autosufficienza: 1,6% contro 2,1%. Un quarto di meno.
Non bastasse, negli ultimi anni, nella scia della scoperta di casi come quello emerso la settimana scorsa al rione Santa Lucia di Napoli (dove secondo il «Mattino» 9 su 10 degli invalidi controllati erano falsi) l’accetta si è abbattuta sui costi del pianeta della disabilità colpendo tutti. I furbi ma più ancora i disabili veri, verso i quali lo Stato era già storicamente molto tirchio.
Basti vedere, in un’analisi di Antonio Misiani, il taglio delle due voci che più interessano l’handicap. Dal 2008 al 2013 il Fondo per le politiche sociali precipita nelle tabelle del governo Berlusconi da 929,3 milioni di euro a 44,6. Quello per la non autosufficienza da 300 a 0: zero! Numeri che da soli confermano il giudizio durissimo del Censis: «La disabilità è ancora una questione invisibile nell’agenda istituzionale, mentre i problemi gravano drammaticamente sulle famiglie, spesso lasciate sole nei compiti di cura». Peggio: «L’assistenza rimane nella grande maggioranza dei casi un onere esclusivo della famiglia».
Scegliamo una storia esemplare, una fra centinaia di migliaia. Quella di Gloriano e di sua moglie Mariagrazia. Lui fa l’elettricista, lei lavorava in una fabbrica tessile finché, 28 anni fa, non fu costretta a mollare per seguire Giulia. La piccola aveva dei problemi. Seri. «La prima diagnosi fu emessa dopo quasi 4 anni (non per colpa nostra !..) dalla nascita: “Ritardo psicomotorio con deficit cognitivo in paralisi cerebrale minima”». Problemi che con il passare del tempo si sono sempre più aggravati. Basti dire che, nonostante gli insegnanti di sostegno a scuola, i progetti di recupero, l’assistenza minuto per minuto dei genitori, non ha mai imparato a leggere e scrivere.
Fatto sta che al secondo accertamento sull’handicap, al 18° compleanno, il responso fu netto: «Invalida con totale e permanente inabilità lavorativa 100%». Tanto per capirci, spiega la madre, è del tutto non autosufficiente. Ogni consulto, ogni cura, ogni tentativo d’arginare la progressiva deriva della malattia sono stati inutili. Colpa di un’anomalia, pare, «del cromosoma 16». Finché nel 2006 il degrado è stato nuovamente verificato: «Insufficienza mentale medio-grave in paraparesi spastica (neurologica e sensitiva assonale) cognitiva. Scoliosi e invalidità al 100% con necessità di assistenza continua».
Un calvario. Una vita intera inchiodata minuto per minuto, giorno dopo giorno, anno dopo anno a quella missione. Unici momenti di tregua, indispensabili per respirare e non impazzire, quelli in cui Giulia, sia pure sempre più a fatica, veniva affidata a strutture di assistenza tipo le case famiglia: «Nostra figlia ha sempre desiderato sin da piccola di stare coi bambini prima e poi man mano che cresceva con i ragazzi e comunque in mezzo alla gente». Una soluzione che l’anno scorso aveva permesso a Gloriano e Mariagrazia di fare perfino, evviva, una breve vacanza.
Costava 27 euro al giorno, alla famiglia, l’accoglienza di Giulia in una comunità-alloggio di Abano Terme: «Poi, prima di Natale, ci è stato comunicato che il contributo familiare sarebbe salito a 92 euro e 68 centesimi, cioè la quota alberghiera totale». Troppi, per chi riceve dallo Stato, per prendersi cura 24 ore su 24 di quella figlia totalmente disabile, una pensione lorda mensile di 270,60 euro più l’indennità di accompagnamento di 487,39 per un totale complessivo di 757 euro e 99 centesimi.
I giornali locali ne hanno fatto un caso, giustamente, di quelle cento o centoventi famiglie che di colpo si sono viste togliere quel servizio che per molti rappresentava l’unica occasione per «staccare» un po’. «Diventerà un servizio solo per chi potrà permetterselo?», si è chiesto il settimanale diocesano «La difesa del popolo».
Ma la storia della famiglia di Giulia va moltiplicata, come dicevamo, per centinaia di migliaia. Dice la pagina «La disabilità in cifre» dell’Istat che in Italia i disabili «sono 2 milioni 600 mila, pari al 4,8% circa della popolazione di 6 anni e più che vive in famiglia. Considerando anche le 190.134 persone residenti nei presidi socio-sanitari si giunge a una stima complessiva di poco meno di 2 milioni 800 mila persone».
In primo luogo, ovvio, ricorda uno studio della Caritas Ambrosiana, ci sono i vecchi: «Secondo un’indagine dello Studio Gender, l’Italia spende meno della metà di quanto fanno in media gli altri Paesi europei per l’assistenza agli anziani». Risultato: «la cura dell’anziano non più autosufficiente ricade sulle famiglie. In due casi su tre lasciate a loro stesse. In particolare sono le donne, figlie, mogli, nuore, le indiscusse protagoniste del lavoro di cura».
Per i disabili più giovani, spiega al sito superabile.it Pietro Barbieri, presidente della Fish, la Federazione italiana del sostegno all’handicap, il quadro è lo stesso: «Da noi si spende meno della metà della media europea a 15 per la non autosufficienza. E il dato comprende sia l’indennità civile che l’assistenza domiciliare pagata dai Comuni. Qui non si tratta di prendere provvedimenti più equi, qui si dice alle famiglie “arrangiatevi!”» E a quel punto sapete cosa accadrà? «Che le famiglie cominceranno a chiedere il ricovero per un congiunto non autosufficiente. E a quel punto avremo una maggiore segregazione di persone che non hanno fatto nulla di male e un costo molto più alto per il Paese. Si pensi al costo giornaliero di una degenza».
Facciamo due conti? Questi disabili non anziani, secondo la Fish, sarebbero circa 400 mila. Se le famiglie, abbandonate a se stesse, fossero obbligate a scaricare i figli e i fratelli sul groppone dello Stato, questo sarebbe obbligato a costruire strutture per un costo minimo (dall’acquisto del terreno alla costruzione fino all’arredamento) di 130 mila euro a posto letto per un totale di 52 miliardi. Per poi assumere, stando ai protocolli, almeno 280 mila infermieri, psicologi, cuochi, inservienti per almeno altri 7 miliardi l’anno. Più tutto il resto. Un peso enorme, del quale l’Italia di oggi non potrebbe assolutamente farsi carico.
E allora ti domandi: possibile che lo Stato non si accorga di quanto si fanno carico al suo posto le famiglie? Lo studio presentato ieri dalla Fondazione Cesare Serono e dal Censis, e centrato sulle persone colpite dalla sclerosi multipla e dall’autismo, dice che «il 48,5% dei malati ha bisogno di aiuto nella vita quotidiana. Ma il dato oscilla dal 9,5% di chi si definisce lievemente o per nulla disabile all’83% tra i malati più gravi».
Bene: «Le risposte arrivano quasi solo dalle famiglie. Il 38,1% dei malati riceve assistenza informale tutti i giorni dai familiari conviventi (e la percentuale aumenta tra chi riferisce livelli di disabilità più elevati: 62,8%). L’aiuto quotidiano da parte di parenti non conviventi e amici è più raro (8,1%)». E se è «minoritario il supporto offerto dal volontariato (8,4%)» solamente «il 15,3% riceve aiuto da personale pubblico e solo il 3,3% tutti i giorni». Umiliante.
Tanto è vero che le famiglie, dignitosamente, non chiedono soldi, nonostante si sobbarchino spese molto spesso insopportabili: chiedono collaborazione. «L’assistenza domiciliare è ritenuta uno dei servizi più utili dal 77,5% del campione e il 72,4 ne ritiene necessario il potenziamento». Gli «aiuti economici e gli sgravi fiscali» vengono dopo.
Lo studio presentato ieri dice tutto: «La disabilità della persona con autismo ha avuto un impatto negativo sulla vita lavorativa del 65,9% delle famiglie coinvolte nello studio. In particolare, il 25,9% delle madri ha dovuto lasciare il lavoro e il 23,4% lo ha dovuto ridurre». Uno Stato serio, davanti a numeri così, se lo deve porre il problema. Perché sarebbe inaccettabile scaricare ulteriori responsabilità e fatiche e spese e angosce su quelle famiglie. Ci sono già state, come ricordavamo, stagioni orribili in cui i disabili (si pensi a certi manifesti tedeschi degli anni Trenta…) sono stati visti come un fardello economico. Mai più.

Il Corriere della Sera 09.02.12

“I disabili (veri) dimenticati dallo Stato”, di Gian Antonio Stella

«Un pazzo costa allo Stato 4 marchi al giorno, uno storpio 5,50, un criminale 3,50…». Iniziava così un problema del manuale di matematica nella Germania nazista del 1940: lo scolaro doveva calcolare, senza quei pesi, quanto si poteva risparmiare. Alla larga dai paragoni provocatori, ma che razza di Paese è quello che taglia i fondi ai disabili? Ed è lecito che sfrutti fino in fondo, come denuncia il Censis, le famiglie che si fanno carico giorno dopo giorno, spesso eroicamente, dell’assistenza?
Pochi numeri, presi da un’inchiesta del «Sole 24 Ore», dicono tutto. Rispetto al Pil, l’Italia spende molto più della media dell’Europa a 15 per le pensioni (16,1% contro 11,7%), come gli altri nel totale del welfare (26,5% contro 26%) ma nettamente meno per la non autosufficienza: 1,6% contro 2,1%. Un quarto di meno.
Non bastasse, negli ultimi anni, nella scia della scoperta di casi come quello emerso la settimana scorsa al rione Santa Lucia di Napoli (dove secondo il «Mattino» 9 su 10 degli invalidi controllati erano falsi) l’accetta si è abbattuta sui costi del pianeta della disabilità colpendo tutti. I furbi ma più ancora i disabili veri, verso i quali lo Stato era già storicamente molto tirchio.
Basti vedere, in un’analisi di Antonio Misiani, il taglio delle due voci che più interessano l’handicap. Dal 2008 al 2013 il Fondo per le politiche sociali precipita nelle tabelle del governo Berlusconi da 929,3 milioni di euro a 44,6. Quello per la non autosufficienza da 300 a 0: zero! Numeri che da soli confermano il giudizio durissimo del Censis: «La disabilità è ancora una questione invisibile nell’agenda istituzionale, mentre i problemi gravano drammaticamente sulle famiglie, spesso lasciate sole nei compiti di cura». Peggio: «L’assistenza rimane nella grande maggioranza dei casi un onere esclusivo della famiglia».
Scegliamo una storia esemplare, una fra centinaia di migliaia. Quella di Gloriano e di sua moglie Mariagrazia. Lui fa l’elettricista, lei lavorava in una fabbrica tessile finché, 28 anni fa, non fu costretta a mollare per seguire Giulia. La piccola aveva dei problemi. Seri. «La prima diagnosi fu emessa dopo quasi 4 anni (non per colpa nostra !..) dalla nascita: “Ritardo psicomotorio con deficit cognitivo in paralisi cerebrale minima”». Problemi che con il passare del tempo si sono sempre più aggravati. Basti dire che, nonostante gli insegnanti di sostegno a scuola, i progetti di recupero, l’assistenza minuto per minuto dei genitori, non ha mai imparato a leggere e scrivere.
Fatto sta che al secondo accertamento sull’handicap, al 18° compleanno, il responso fu netto: «Invalida con totale e permanente inabilità lavorativa 100%». Tanto per capirci, spiega la madre, è del tutto non autosufficiente. Ogni consulto, ogni cura, ogni tentativo d’arginare la progressiva deriva della malattia sono stati inutili. Colpa di un’anomalia, pare, «del cromosoma 16». Finché nel 2006 il degrado è stato nuovamente verificato: «Insufficienza mentale medio-grave in paraparesi spastica (neurologica e sensitiva assonale) cognitiva. Scoliosi e invalidità al 100% con necessità di assistenza continua».
Un calvario. Una vita intera inchiodata minuto per minuto, giorno dopo giorno, anno dopo anno a quella missione. Unici momenti di tregua, indispensabili per respirare e non impazzire, quelli in cui Giulia, sia pure sempre più a fatica, veniva affidata a strutture di assistenza tipo le case famiglia: «Nostra figlia ha sempre desiderato sin da piccola di stare coi bambini prima e poi man mano che cresceva con i ragazzi e comunque in mezzo alla gente». Una soluzione che l’anno scorso aveva permesso a Gloriano e Mariagrazia di fare perfino, evviva, una breve vacanza.
Costava 27 euro al giorno, alla famiglia, l’accoglienza di Giulia in una comunità-alloggio di Abano Terme: «Poi, prima di Natale, ci è stato comunicato che il contributo familiare sarebbe salito a 92 euro e 68 centesimi, cioè la quota alberghiera totale». Troppi, per chi riceve dallo Stato, per prendersi cura 24 ore su 24 di quella figlia totalmente disabile, una pensione lorda mensile di 270,60 euro più l’indennità di accompagnamento di 487,39 per un totale complessivo di 757 euro e 99 centesimi.
I giornali locali ne hanno fatto un caso, giustamente, di quelle cento o centoventi famiglie che di colpo si sono viste togliere quel servizio che per molti rappresentava l’unica occasione per «staccare» un po’. «Diventerà un servizio solo per chi potrà permetterselo?», si è chiesto il settimanale diocesano «La difesa del popolo».
Ma la storia della famiglia di Giulia va moltiplicata, come dicevamo, per centinaia di migliaia. Dice la pagina «La disabilità in cifre» dell’Istat che in Italia i disabili «sono 2 milioni 600 mila, pari al 4,8% circa della popolazione di 6 anni e più che vive in famiglia. Considerando anche le 190.134 persone residenti nei presidi socio-sanitari si giunge a una stima complessiva di poco meno di 2 milioni 800 mila persone».
In primo luogo, ovvio, ricorda uno studio della Caritas Ambrosiana, ci sono i vecchi: «Secondo un’indagine dello Studio Gender, l’Italia spende meno della metà di quanto fanno in media gli altri Paesi europei per l’assistenza agli anziani». Risultato: «la cura dell’anziano non più autosufficiente ricade sulle famiglie. In due casi su tre lasciate a loro stesse. In particolare sono le donne, figlie, mogli, nuore, le indiscusse protagoniste del lavoro di cura».
Per i disabili più giovani, spiega al sito superabile.it Pietro Barbieri, presidente della Fish, la Federazione italiana del sostegno all’handicap, il quadro è lo stesso: «Da noi si spende meno della metà della media europea a 15 per la non autosufficienza. E il dato comprende sia l’indennità civile che l’assistenza domiciliare pagata dai Comuni. Qui non si tratta di prendere provvedimenti più equi, qui si dice alle famiglie “arrangiatevi!”» E a quel punto sapete cosa accadrà? «Che le famiglie cominceranno a chiedere il ricovero per un congiunto non autosufficiente. E a quel punto avremo una maggiore segregazione di persone che non hanno fatto nulla di male e un costo molto più alto per il Paese. Si pensi al costo giornaliero di una degenza».
Facciamo due conti? Questi disabili non anziani, secondo la Fish, sarebbero circa 400 mila. Se le famiglie, abbandonate a se stesse, fossero obbligate a scaricare i figli e i fratelli sul groppone dello Stato, questo sarebbe obbligato a costruire strutture per un costo minimo (dall’acquisto del terreno alla costruzione fino all’arredamento) di 130 mila euro a posto letto per un totale di 52 miliardi. Per poi assumere, stando ai protocolli, almeno 280 mila infermieri, psicologi, cuochi, inservienti per almeno altri 7 miliardi l’anno. Più tutto il resto. Un peso enorme, del quale l’Italia di oggi non potrebbe assolutamente farsi carico.
E allora ti domandi: possibile che lo Stato non si accorga di quanto si fanno carico al suo posto le famiglie? Lo studio presentato ieri dalla Fondazione Cesare Serono e dal Censis, e centrato sulle persone colpite dalla sclerosi multipla e dall’autismo, dice che «il 48,5% dei malati ha bisogno di aiuto nella vita quotidiana. Ma il dato oscilla dal 9,5% di chi si definisce lievemente o per nulla disabile all’83% tra i malati più gravi».
Bene: «Le risposte arrivano quasi solo dalle famiglie. Il 38,1% dei malati riceve assistenza informale tutti i giorni dai familiari conviventi (e la percentuale aumenta tra chi riferisce livelli di disabilità più elevati: 62,8%). L’aiuto quotidiano da parte di parenti non conviventi e amici è più raro (8,1%)». E se è «minoritario il supporto offerto dal volontariato (8,4%)» solamente «il 15,3% riceve aiuto da personale pubblico e solo il 3,3% tutti i giorni». Umiliante.
Tanto è vero che le famiglie, dignitosamente, non chiedono soldi, nonostante si sobbarchino spese molto spesso insopportabili: chiedono collaborazione. «L’assistenza domiciliare è ritenuta uno dei servizi più utili dal 77,5% del campione e il 72,4 ne ritiene necessario il potenziamento». Gli «aiuti economici e gli sgravi fiscali» vengono dopo.
Lo studio presentato ieri dice tutto: «La disabilità della persona con autismo ha avuto un impatto negativo sulla vita lavorativa del 65,9% delle famiglie coinvolte nello studio. In particolare, il 25,9% delle madri ha dovuto lasciare il lavoro e il 23,4% lo ha dovuto ridurre». Uno Stato serio, davanti a numeri così, se lo deve porre il problema. Perché sarebbe inaccettabile scaricare ulteriori responsabilità e fatiche e spese e angosce su quelle famiglie. Ci sono già state, come ricordavamo, stagioni orribili in cui i disabili (si pensi a certi manifesti tedeschi degli anni Trenta…) sono stati visti come un fardello economico. Mai più.

Il Corriere della Sera 09.02.12

Liberalizzazioni, l’Anci contro il governo: «Si stronca la cultura», di Luca del Fra

Semplicemente non ci stanno, e lanciano un grido d’allarme per la cultura: parliamo dell’Associazione Nazionale Comuni Italiani (Anci), di Federculture e del Fondoper l’Ambiente Italiano, che ieri in un incontro stampa a Roma hanno denunciato come il decreto legge n. 1/2012 del governo Monti, detto delle liberalizzazioni, nel settore culturale invece di liberare energie paradossalmente pone nuovi e pesanti limiti all’azione dei Comuni.
«Chiediamo un incontro con il governo, perché questo provvedimento prosegue nella direzione impressa da Tremonti con la legge 122 del 2010 – esordisce Andrea Ranieri, responsabile del settore cultura dell’Anci – e avrà effetti pesanti su quanti si occupano di cultura sul territorio».
«UN PARADOSSO»
L’articolo 25 del decreto prevede che le società “in house” – società a capitale pubblico – e le aziende speciali degli enti locali siano equiparate agli enti pubblici, con l’obbligo di osservare il patto di stabilità, il codice dei contratti pubblici per l’acquisto di beni e servizi, le procedure a evidenza pubblica per il personale e il contenimento degli stipendi.
Questo vale per la società dei trasporti come per uno spazio espositivo: ma se è comprensibile che un autista di autobus sia assunto per concorso, nel settore della cultura si giunge a strane conseguenze.
Un curatore che proponesse una mostra a uno spazio del Comune, per realizzarla dovrebbe partecipare a un bando e potrebbe rimanere escluso, malgrado l’idea sia sua. Senza considerare i tempi lunghi e i costi delle evidenze pubbliche,
in un settore che in Italia «non può programmare il proprio futuro né confrontarsi a livello internazionale senza un rinnovamento nelle politiche culturali», ha voluto ricordare il presidente di Federculture, Roberto Grossi. «Le società in house e le aziende speciali nel settore della cultura sono nate per rendere più snella l’attività – insiste Ranieri -, e questo decreto pone ulteriori limitazioni, non recependo la loro specificità. L’economia non è fatta solo di “spread” e di andamenti di borsa, esiste una economia reale che si realizza nel territorio. Questo decreto legge in generale è recessivo e per la cultura può avere effetti disastrosi, visto che nel settore culturale a fronte di un investimento di appena lo 0,20% del bilancio dello Stato, i Comuni investono il 3,5 dei loro bilanci».
«UNA NORMA CAPESTRO»
Eppure il governo Monti si era fatto un vanto di non aver tagliato nella cultura e nella scuola o nell’università… «Si vede che vuol far tagliare ai Comuni, perché così gli enti locali non sono più in condizione di operare», è la convinzione. Tuttavia è opinione diffusa che nel settore cultura,manon solo, molte società in house siano spesso il luogo per operazioni opache se non di disinvolto clientelismo da parte delle amministrazioni
locali. «È vero – dice Umberto Croppi, del consiglio direttivo di
Federculture, forte della sua esperienza come assessore alle politiche culturali del Comune di Roma –, ma occorre prendersela con le amministrazioni, non creare una normativa capestro che immobilizzi tutto».
Gli fa eco Ranieri: «Proprio per questo chiediamo al governo un serio confronto. Prendiamo a esempio il settore sociale: Comuni e governo hanno stabilito i servizi fondamentali. Facciamo lo stesso per la cultura, noi vogliamo dare il nostro contributo». È significativo infatti come la prossima iniziativa dell’Anci il 9 marzo sia stata indetta con l’Associazione
Italiana Biblioteche, che certo non organizza eventi spettacolari che piacciono tanto a certi sindaci. «La cosa più grave – conclude Ranieri – è che nella discussione sullo sviluppo del Paese aperta dal governo Monti la cultura non c’è, e non c’è neppure nel dibattito politico».

L’Unità 09.02.12

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Ricchezza e lavoro così la cultura aiuterà il mercato”, di LUISA GRION

La cultura è ricchezza, anche economica. Peccato che il governo nella sua opera di risanamento non sembra abbia intenzione di tenerne conto. E non si tratta solo di mancati investimenti – in calo da anni – o di storica carenza di strategia: serve un cambio di mentalità. Ci sono poche cose da fare subito e c´è un luogo comune da sconfiggere: la cultura non è un costo, al contrario – in tempi di crisi – rappresenta una possibilità di crescita. Ecco perché Federculture (che rappresenta le aziende che operano nel settore) il Fondo ambientale italiano e l´Anci, l´associazione dei comuni, hanno lanciato un appello al governo Monti chiedendogli di fare alcune riforme (meno burocrazia, più agevolazioni fiscali e una spinta agli investimenti dal privato) e di cancellare alcune norme, inserite nel decreto sulle liberalizzazioni, che rischiano di dare al settore «un colpo mortale».
Volendo tradurre il discorso in cifre va detto che, nonostante la crisi, la cultura resiste. Produce il 2,6 per cento del Pil e occupa 1,4 milioni di lavoratori. Negli ultimi due anni ha subito un taglio degli investimenti pubblici per un miliardo di euro, ma nonostante la scarsità di reddito pesi sui consumi delle famiglie, la «domanda» del settore è aumentata nel 2011 di oltre il 4 per cento. Garantire l´offerta, sostengono gli operatori, è diventato arduo. Alla carenza di investimenti (fra il 2010 e il 2011 le sponsorizzazioni sono crollate del 30 per cento) si aggiunge il rischio dell´immobilismo. Il decreto sulle liberalizzazioni, per esempio, prevede che le aziende speciali, quelle in house e le istituzioni – strutture «snelle» attraverso i quali un ente fa cultura – siano sottoposti a vincoli finanziari e burocratici che di fatto bloccano la possibilità di programmare mostre e interventi con l´anticipo dovuto. «Senza autonomia gestionale la cultura muore – precisa Roberto Grossi, presidente di Federculture – Senza interventi nei prossimi sei mesi il settore rischia un crollo del 20 per cento». «La cultura è anche un settore economico – denuncia Grossi – ma spesso viene vissuta solo come un costo, o peggio ancora come una fila di poltrone da occupare». Il problema appartiene anche agli enti locali: «I comuni, in media, investono in cultura il 3,5 per cento della loro ricchezza, lo Stato si ferma allo 0,19. Siamo pronti a ragionare su sprechi ed efficienza – commenta Andrea Ranieri dell´Anci – ma non vogliamo interventi indiscriminati». Quello che le tre associazioni chiedono è molto pratico: una programmazione pluriennale dei fondi, parte della tassa di soggiorno destinata ai beni culturali, allineare l´Iva del settore a quella degli altri paesi europei, permettere che l´8 per mille possa essere destinato alla musica e al teatro, dare la possibilità di scegliere l´ente culturale cui destinare il 5 per mille. Cose da fare subito perché non bisogna dimenticare – specifica Ilaria Borletti Buitoni, direttrice del Fai – «che attraverso la cultura cresce il valore morale, civile ed etico del Paese. Non basta risistemare i conti, serve uno “scatto”, ma senza cultura non si riparte».

La Repubblica 09.02.12

Obama vuole più prof "Ci servono scienziati", di Federico Rampini

Centomila assunzioni e stipendio più alto: la Casa Bianca lancia un piano di investimenti per gli insegnanti “L´America sarà più competitiva e i giovani aumenteranno le chance di successo sul mercato del lavoro”. Voglio centomila nuovi prof di matematica nelle nostre scuole, saranno loro a rendere l´America più competitiva». Se la First Lady li sta spronando a essere più snelli, Barack Obama lancia un´altra sfida ai ragazzini. Lui li vuole curiosi, innovativi, allenati al pensiero scientifico. Annuncia il suo ambizioso piano ospitando alla Casa Bianca una Fiera delle Scienze. È l´occasione per ricevere nel palazzo presidenziale più famoso del mondo trenta squadre di “futuri Einstein”, adolescenti fra i 13 e i 17 anni selezionati per presentare le loro invenzioni, tutte nate sui banchi di scuola. È l´evento ideale per il messaggio che sta a cuore a Obama: «Più scienza nel futuro dei giovani è la chiave per avere una marcia in più, aumentare le chance di successo sul mercato del lavoro».
Centomila insegnanti di matematica e scienze in più nelle scuole – dalle elementari alla maturità – sono la risorsa umana che la sua Amministrazione decide di mettere in campo, per dare ai ragazzi la preparazione giusta fin dai primi anni di scuola. Obama ci mette i fondi: altri 80 milioni di dollari per il ministero dell´Istruzione, da usare con un criterio di efficienza imprenditoriale, cioè gare competitive aperte al settore privato per scegliere i migliori programmi di formazione del corpo insegnante nelle materie scientifiche. Matematica in testa, ma anche fisica, chimica, biologia, informatica. È tutto il ventaglio del sapere scientifico che Obama vuole promuovere. Agli 80 milioni di stanziamenti federali si aggregano fin dall´inizio 22 milioni di fondi privati, secondo la formula delle joint venture con il settore del mecenatismo non profit finanziato dalle imprese. Il piano “centomila prof di scienze” è piaciuto subito al settore privato, 115 organizzazioni guidate dalla Carnegie Corporation hanno già risposto all´appello di Obama. I contributi esterni non si fermano qui. La Casa Bianca fa da “polo aggregatore” di tante eccellenze: c´è Google che mette a disposizione i suoi metodi di selezione dei cervelli, per convogliare verso la scuola i migliori talenti scientifici. Grandi università, dalla California a Chicago, si mobilitano per programmi di formazione accelerata che sfornino nei tempi richiesti questa nuova leva di prof di scienze da mandare nelle scuole. Anche le politiche retributive saranno riviste. Il ministero dell´Istruzione avrà una nuova risorsa di 300 milioni, il Teacher Incentive Fund, finalizzata a «migliorare i sistemi di remunerazione, incentivo, promozione professionale del corpo insegnante». Non basta formare e reclutare i centomila prof di matematica, «bisogna saperli trattenere a scuola, con gli incentivi giusti».
La sfida lanciata da Obama ha tra i suoi ispiratori un grande scienziato indiano trapiantato in America, i cui editoriali appaiono spesso sul Washington Post. Si chiama Priya Natarajan, è docente di astrofisica all´università di Yale, e la sua seconda vocazione è quella di “rifondare” la pedagogia scolastica negli Stati Uniti. «Volete che vostro figlio sia uno scienziato? Cominciate a prepararlo dalle elementari». «La prossima rivoluzione scientifica partirà dai licei». Sono due dei titoli più recenti delle sue column sul Washington Post, dove cerca di unire «il meglio dei due mondi», l´antica tradizione matematica indiana e il pragmatismo made in Usa. Lo preoccupa il fatto che gli studenti nelle facoltà scientifiche americane arrivano con una discreta preparazione “astratta” di matematica, ma poco allenamento a “risolvere problemi”. Dell´istruzione elementare che lui ricevette a Delhi, invece, ricorda che oltre all´algebra fin dall´inizio c´era un costante addestramento ad applicare i concetti matematici a situazioni concrete.
Natarajan ammonisce gli Stati sul fatto che il loro sistema scolastico – elementari, medie, secondaria superiore – non sta preparando un numero sufficiente di futuri scienziati, o laureati in discipline tecnologico-matematico-ingegneristiche. Ma la svolta deve cominciare molto prima dell´università. La proposta di Natarajan è quella di partire dalle elementari, quando è alta la predisposizione dei bambini ad affrontare matematica e scienze come un gioco. Poi trasformare i licei in “laboratori di scienze”, incoraggiando l´approccio sperimentale più che l´astrazione. È un messaggio che Obama ha raccolto, sperando di associare il suo nome ad un “Rinascimento scientifico” sui banchi di scuola.

La Repubblica 09.02.12