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“I disabili (veri) dimenticati dallo Stato”, di Gian Antonio Stella

«Un pazzo costa allo Stato 4 marchi al giorno, uno storpio 5,50, un criminale 3,50…». Iniziava così un problema del manuale di matematica nella Germania nazista del 1940: lo scolaro doveva calcolare, senza quei pesi, quanto si poteva risparmiare. Alla larga dai paragoni provocatori, ma che razza di Paese è quello che taglia i fondi ai disabili? Ed è lecito che sfrutti fino in fondo, come denuncia il Censis, le famiglie che si fanno carico giorno dopo giorno, spesso eroicamente, dell’assistenza?
Pochi numeri, presi da un’inchiesta del «Sole 24 Ore», dicono tutto. Rispetto al Pil, l’Italia spende molto più della media dell’Europa a 15 per le pensioni (16,1% contro 11,7%), come gli altri nel totale del welfare (26,5% contro 26%) ma nettamente meno per la non autosufficienza: 1,6% contro 2,1%. Un quarto di meno.
Non bastasse, negli ultimi anni, nella scia della scoperta di casi come quello emerso la settimana scorsa al rione Santa Lucia di Napoli (dove secondo il «Mattino» 9 su 10 degli invalidi controllati erano falsi) l’accetta si è abbattuta sui costi del pianeta della disabilità colpendo tutti. I furbi ma più ancora i disabili veri, verso i quali lo Stato era già storicamente molto tirchio.
Basti vedere, in un’analisi di Antonio Misiani, il taglio delle due voci che più interessano l’handicap. Dal 2008 al 2013 il Fondo per le politiche sociali precipita nelle tabelle del governo Berlusconi da 929,3 milioni di euro a 44,6. Quello per la non autosufficienza da 300 a 0: zero! Numeri che da soli confermano il giudizio durissimo del Censis: «La disabilità è ancora una questione invisibile nell’agenda istituzionale, mentre i problemi gravano drammaticamente sulle famiglie, spesso lasciate sole nei compiti di cura». Peggio: «L’assistenza rimane nella grande maggioranza dei casi un onere esclusivo della famiglia».
Scegliamo una storia esemplare, una fra centinaia di migliaia. Quella di Gloriano e di sua moglie Mariagrazia. Lui fa l’elettricista, lei lavorava in una fabbrica tessile finché, 28 anni fa, non fu costretta a mollare per seguire Giulia. La piccola aveva dei problemi. Seri. «La prima diagnosi fu emessa dopo quasi 4 anni (non per colpa nostra !..) dalla nascita: “Ritardo psicomotorio con deficit cognitivo in paralisi cerebrale minima”». Problemi che con il passare del tempo si sono sempre più aggravati. Basti dire che, nonostante gli insegnanti di sostegno a scuola, i progetti di recupero, l’assistenza minuto per minuto dei genitori, non ha mai imparato a leggere e scrivere.
Fatto sta che al secondo accertamento sull’handicap, al 18° compleanno, il responso fu netto: «Invalida con totale e permanente inabilità lavorativa 100%». Tanto per capirci, spiega la madre, è del tutto non autosufficiente. Ogni consulto, ogni cura, ogni tentativo d’arginare la progressiva deriva della malattia sono stati inutili. Colpa di un’anomalia, pare, «del cromosoma 16». Finché nel 2006 il degrado è stato nuovamente verificato: «Insufficienza mentale medio-grave in paraparesi spastica (neurologica e sensitiva assonale) cognitiva. Scoliosi e invalidità al 100% con necessità di assistenza continua».
Un calvario. Una vita intera inchiodata minuto per minuto, giorno dopo giorno, anno dopo anno a quella missione. Unici momenti di tregua, indispensabili per respirare e non impazzire, quelli in cui Giulia, sia pure sempre più a fatica, veniva affidata a strutture di assistenza tipo le case famiglia: «Nostra figlia ha sempre desiderato sin da piccola di stare coi bambini prima e poi man mano che cresceva con i ragazzi e comunque in mezzo alla gente». Una soluzione che l’anno scorso aveva permesso a Gloriano e Mariagrazia di fare perfino, evviva, una breve vacanza.
Costava 27 euro al giorno, alla famiglia, l’accoglienza di Giulia in una comunità-alloggio di Abano Terme: «Poi, prima di Natale, ci è stato comunicato che il contributo familiare sarebbe salito a 92 euro e 68 centesimi, cioè la quota alberghiera totale». Troppi, per chi riceve dallo Stato, per prendersi cura 24 ore su 24 di quella figlia totalmente disabile, una pensione lorda mensile di 270,60 euro più l’indennità di accompagnamento di 487,39 per un totale complessivo di 757 euro e 99 centesimi.
I giornali locali ne hanno fatto un caso, giustamente, di quelle cento o centoventi famiglie che di colpo si sono viste togliere quel servizio che per molti rappresentava l’unica occasione per «staccare» un po’. «Diventerà un servizio solo per chi potrà permetterselo?», si è chiesto il settimanale diocesano «La difesa del popolo».
Ma la storia della famiglia di Giulia va moltiplicata, come dicevamo, per centinaia di migliaia. Dice la pagina «La disabilità in cifre» dell’Istat che in Italia i disabili «sono 2 milioni 600 mila, pari al 4,8% circa della popolazione di 6 anni e più che vive in famiglia. Considerando anche le 190.134 persone residenti nei presidi socio-sanitari si giunge a una stima complessiva di poco meno di 2 milioni 800 mila persone».
In primo luogo, ovvio, ricorda uno studio della Caritas Ambrosiana, ci sono i vecchi: «Secondo un’indagine dello Studio Gender, l’Italia spende meno della metà di quanto fanno in media gli altri Paesi europei per l’assistenza agli anziani». Risultato: «la cura dell’anziano non più autosufficiente ricade sulle famiglie. In due casi su tre lasciate a loro stesse. In particolare sono le donne, figlie, mogli, nuore, le indiscusse protagoniste del lavoro di cura».
Per i disabili più giovani, spiega al sito superabile.it Pietro Barbieri, presidente della Fish, la Federazione italiana del sostegno all’handicap, il quadro è lo stesso: «Da noi si spende meno della metà della media europea a 15 per la non autosufficienza. E il dato comprende sia l’indennità civile che l’assistenza domiciliare pagata dai Comuni. Qui non si tratta di prendere provvedimenti più equi, qui si dice alle famiglie “arrangiatevi!”» E a quel punto sapete cosa accadrà? «Che le famiglie cominceranno a chiedere il ricovero per un congiunto non autosufficiente. E a quel punto avremo una maggiore segregazione di persone che non hanno fatto nulla di male e un costo molto più alto per il Paese. Si pensi al costo giornaliero di una degenza».
Facciamo due conti? Questi disabili non anziani, secondo la Fish, sarebbero circa 400 mila. Se le famiglie, abbandonate a se stesse, fossero obbligate a scaricare i figli e i fratelli sul groppone dello Stato, questo sarebbe obbligato a costruire strutture per un costo minimo (dall’acquisto del terreno alla costruzione fino all’arredamento) di 130 mila euro a posto letto per un totale di 52 miliardi. Per poi assumere, stando ai protocolli, almeno 280 mila infermieri, psicologi, cuochi, inservienti per almeno altri 7 miliardi l’anno. Più tutto il resto. Un peso enorme, del quale l’Italia di oggi non potrebbe assolutamente farsi carico.
E allora ti domandi: possibile che lo Stato non si accorga di quanto si fanno carico al suo posto le famiglie? Lo studio presentato ieri dalla Fondazione Cesare Serono e dal Censis, e centrato sulle persone colpite dalla sclerosi multipla e dall’autismo, dice che «il 48,5% dei malati ha bisogno di aiuto nella vita quotidiana. Ma il dato oscilla dal 9,5% di chi si definisce lievemente o per nulla disabile all’83% tra i malati più gravi».
Bene: «Le risposte arrivano quasi solo dalle famiglie. Il 38,1% dei malati riceve assistenza informale tutti i giorni dai familiari conviventi (e la percentuale aumenta tra chi riferisce livelli di disabilità più elevati: 62,8%). L’aiuto quotidiano da parte di parenti non conviventi e amici è più raro (8,1%)». E se è «minoritario il supporto offerto dal volontariato (8,4%)» solamente «il 15,3% riceve aiuto da personale pubblico e solo il 3,3% tutti i giorni». Umiliante.
Tanto è vero che le famiglie, dignitosamente, non chiedono soldi, nonostante si sobbarchino spese molto spesso insopportabili: chiedono collaborazione. «L’assistenza domiciliare è ritenuta uno dei servizi più utili dal 77,5% del campione e il 72,4 ne ritiene necessario il potenziamento». Gli «aiuti economici e gli sgravi fiscali» vengono dopo.
Lo studio presentato ieri dice tutto: «La disabilità della persona con autismo ha avuto un impatto negativo sulla vita lavorativa del 65,9% delle famiglie coinvolte nello studio. In particolare, il 25,9% delle madri ha dovuto lasciare il lavoro e il 23,4% lo ha dovuto ridurre». Uno Stato serio, davanti a numeri così, se lo deve porre il problema. Perché sarebbe inaccettabile scaricare ulteriori responsabilità e fatiche e spese e angosce su quelle famiglie. Ci sono già state, come ricordavamo, stagioni orribili in cui i disabili (si pensi a certi manifesti tedeschi degli anni Trenta…) sono stati visti come un fardello economico. Mai più.

Il Corriere della Sera 09.02.12