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Obama vuole più prof “Ci servono scienziati”, di Federico Rampini

Centomila assunzioni e stipendio più alto: la Casa Bianca lancia un piano di investimenti per gli insegnanti “L´America sarà più competitiva e i giovani aumenteranno le chance di successo sul mercato del lavoro”. Voglio centomila nuovi prof di matematica nelle nostre scuole, saranno loro a rendere l´America più competitiva». Se la First Lady li sta spronando a essere più snelli, Barack Obama lancia un´altra sfida ai ragazzini. Lui li vuole curiosi, innovativi, allenati al pensiero scientifico. Annuncia il suo ambizioso piano ospitando alla Casa Bianca una Fiera delle Scienze. È l´occasione per ricevere nel palazzo presidenziale più famoso del mondo trenta squadre di “futuri Einstein”, adolescenti fra i 13 e i 17 anni selezionati per presentare le loro invenzioni, tutte nate sui banchi di scuola. È l´evento ideale per il messaggio che sta a cuore a Obama: «Più scienza nel futuro dei giovani è la chiave per avere una marcia in più, aumentare le chance di successo sul mercato del lavoro».
Centomila insegnanti di matematica e scienze in più nelle scuole – dalle elementari alla maturità – sono la risorsa umana che la sua Amministrazione decide di mettere in campo, per dare ai ragazzi la preparazione giusta fin dai primi anni di scuola. Obama ci mette i fondi: altri 80 milioni di dollari per il ministero dell´Istruzione, da usare con un criterio di efficienza imprenditoriale, cioè gare competitive aperte al settore privato per scegliere i migliori programmi di formazione del corpo insegnante nelle materie scientifiche. Matematica in testa, ma anche fisica, chimica, biologia, informatica. È tutto il ventaglio del sapere scientifico che Obama vuole promuovere. Agli 80 milioni di stanziamenti federali si aggregano fin dall´inizio 22 milioni di fondi privati, secondo la formula delle joint venture con il settore del mecenatismo non profit finanziato dalle imprese. Il piano “centomila prof di scienze” è piaciuto subito al settore privato, 115 organizzazioni guidate dalla Carnegie Corporation hanno già risposto all´appello di Obama. I contributi esterni non si fermano qui. La Casa Bianca fa da “polo aggregatore” di tante eccellenze: c´è Google che mette a disposizione i suoi metodi di selezione dei cervelli, per convogliare verso la scuola i migliori talenti scientifici. Grandi università, dalla California a Chicago, si mobilitano per programmi di formazione accelerata che sfornino nei tempi richiesti questa nuova leva di prof di scienze da mandare nelle scuole. Anche le politiche retributive saranno riviste. Il ministero dell´Istruzione avrà una nuova risorsa di 300 milioni, il Teacher Incentive Fund, finalizzata a «migliorare i sistemi di remunerazione, incentivo, promozione professionale del corpo insegnante». Non basta formare e reclutare i centomila prof di matematica, «bisogna saperli trattenere a scuola, con gli incentivi giusti».
La sfida lanciata da Obama ha tra i suoi ispiratori un grande scienziato indiano trapiantato in America, i cui editoriali appaiono spesso sul Washington Post. Si chiama Priya Natarajan, è docente di astrofisica all´università di Yale, e la sua seconda vocazione è quella di “rifondare” la pedagogia scolastica negli Stati Uniti. «Volete che vostro figlio sia uno scienziato? Cominciate a prepararlo dalle elementari». «La prossima rivoluzione scientifica partirà dai licei». Sono due dei titoli più recenti delle sue column sul Washington Post, dove cerca di unire «il meglio dei due mondi», l´antica tradizione matematica indiana e il pragmatismo made in Usa. Lo preoccupa il fatto che gli studenti nelle facoltà scientifiche americane arrivano con una discreta preparazione “astratta” di matematica, ma poco allenamento a “risolvere problemi”. Dell´istruzione elementare che lui ricevette a Delhi, invece, ricorda che oltre all´algebra fin dall´inizio c´era un costante addestramento ad applicare i concetti matematici a situazioni concrete.
Natarajan ammonisce gli Stati sul fatto che il loro sistema scolastico – elementari, medie, secondaria superiore – non sta preparando un numero sufficiente di futuri scienziati, o laureati in discipline tecnologico-matematico-ingegneristiche. Ma la svolta deve cominciare molto prima dell´università. La proposta di Natarajan è quella di partire dalle elementari, quando è alta la predisposizione dei bambini ad affrontare matematica e scienze come un gioco. Poi trasformare i licei in “laboratori di scienze”, incoraggiando l´approccio sperimentale più che l´astrazione. È un messaggio che Obama ha raccolto, sperando di associare il suo nome ad un “Rinascimento scientifico” sui banchi di scuola.

La Repubblica 09.02.12

"La possibilità di cambiamento adesso è reale", di Bill Emmott

Il tempo, si dice, è un gran dottore, ma il modo in cui l’immagine dell’Italia all’estero si è trasformata nei tre mesi passati tra le dimissioni del presidente Silvio Berlusconi il 12 novembre e l’odierna visita del presidente Mario Monti alla Casa Bianca è stato a dir poco miracoloso. Mi dispiace di essere sacrilego, ma, come molti miracoli, questo è un po’ un’illusione. Tuttavia, le illusioni sono importanti, e così, per questo miracolo, valgono tre parole: centralità, verità e possibilità.

Il miracolo è un’illusione perché un Paese non può cambiare così tanto in tre mesi.

Questo punto di vista non nasce, vi assicuro, perché io sia il tipo di scrittore straniero che preferisce pensare che la Costa Concordia rappresenti l’Italia meglio del presidente Monti: sarebbe assurdo. Piuttosto, si pone perché nessuno, e nessuna nuova legge o misura di bilancio, può cambiare una situazione così velocemente.

La maggior parte delle riforme economiche e istituzionali che sono necessarie non sono state ancora convertite in legge, figuriamoci attuate. E chiaramente resta una quantità enorme di resistenza ai cambiamenti che vengono proposti, in tutti i campi, sia il diritto del lavoro o la disciplina fiscale o la liberalizzazione dei mercati e delle professioni. Non si può assolvere un peccatore che non si è pentito, ha scritto Dante Alighieri, ed è tutt’altro che chiaro se il pentimento ci sia stato.

Anche così, la questione del cambiamento di rotta italiano ha raggiunto uno status di centralità, per questo il presidente Barack Obama sente il desiderio di incoraggiarlo. Per centralità si intende la percezione che il destino dell’Italia e il suo futuro siano improvvisamente importanti per il futuro dell’Europa e, a sua volta, per il futuro dell’Occidente nel suo complesso. Questo è precedente al 12 novembre, ma è diventato più urgente che mai in quel mese così caldo per i mercati obbligazionari.

Come i mercati obbligazionari avevano riconosciuto allora, l’Italia conta, tanto per gli americani come per i colleghi europei, prima di tutto per le sue dimensioni: sia come terzo maggior governo debitore al mondo (dopo America e Giappone) che come terza maggiore economia dell’eurozona (dopo Germania e Francia), una crisi del debito sovrano e una profonda recessione in Italia sarebbero veramente pericolose per tutti i Paesi ad essa strettamente legati, il che significa Europa e America.

L’ombra di una tale crisi è diventata più minacciosa a causa della crescente aspettativa di un default del debito greco, un’aspettativa che sta di nuovo crescendo. Questo non si traduce in rendimenti pericolosamente elevati dei titoli obbligazionari italiani, soprattutto perché un altro italiano assai stimato, Mario Draghi alla Banca centrale europea, ha scongiurato il pericolo di una crisi bancaria europea con la sua tempestiva e massiccia offerta alle banche di prestiti illimitati a tre anni.

L’Italia, però, è centrale anche per motivi diversi dal suo essere semplicemente una pericolosa bomba a orologeria economica. In primo luogo perché la sua stagnazione e paralisi politica nel corso degli ultimi 20 anni si presenta al resto dell’Occidente come un duro avvertimento ma anche come un’opportunità.

L’avvertimento riguarda il possibile lento, inesorabile declino se l’onere del debito non viene affrontato e se un’economia e una società perdono la capacità di evolversi, di cambiare, il tratto essenziale che i Paesi capitalisti democratici devono avere se vogliono sopravvivere e prosperare in questa epoca di grande fermento tecnologico e politico. L’opportunità, tuttavia è quella della ripresa e del rinnovamento, persino di un rinascimento, se la liberalizzazione s’impone e riprende un’evoluzione dinamica.

Se l’Italia potrà tornare a essere un’economia di mercato trainante, come durante gli Anni 50 e 60, allora c’è speranza per l’Europa e l’Occidente. Se non sarà possibile, gli oneri per gli altri Paesi saranno maggiori e più deboli le loro possibilità di successo.

L’Italia è strategica anche per la ragione che, in termini personali, stava dietro il famoso titolo di copertina «Inadatto a governare l’Italia», che volli quando ero direttore di The Economist, nel 2001. Ovvero che, durante vent’anni di politica dominata da Silvio Berlusconi, l’Italia ha reso evidente il pericolo che un governo democratico diventi ostaggio di grandi aziende, dei media e del potere personale. Le leggi vengono applicate iniquamente e piegate all’uso personale, il normale ruolo di regolamentazione del governo è sovvertito, la Costituzione è minata, e il flusso di informazioni è gravemente distorto.

Questo è importante – ancora oggi – soprattutto per l’Italia medesima, ma è anche esattamente la stessa preoccupazione che sovrasta la politica americana quando qualcuno si lamenta del potere di Wall Street o delle grandi compagnie petrolifere, o di altri lobbisti. È la paura corrosiva che lo strapotere possa distorcere o addirittura guidare le decisioni democratiche. La fine, almeno, di quel potere che aveva occupato Palazzo Chigi, è di grande importanza simbolica per le altre democrazie occidentali.

Uno degli effetti di quel potere, tuttavia, è la seconda parola determinante per questo miracolo: verità. Altri governi in Europa e certamente gli Stati Uniti sono giunti alla conclusione che non potevano fidarsi della parola dell’Italia con il governo Berlusconi. Non era il caso delle questioni militari, motivo per cui l’amministrazione Bush era cordiale con l’Italia, grazie ai dispiegamenti militari in Iraq e in Afghanistan. Ma valeva per tutto il resto.

Annunci, promesse, affermazioni, dichiarazioni d’intenti: i governi stranieri erano arrivati ad attribuire loro la credibilità di uno spettacolo teatrale. E’ stato triste vedere il presidente Berlusconi perseverare in questa abitudine nella sua intervista con il Financial Times, pubblicata il 4 febbraio, dove ha di nuovo fatto la sua promessa, impossibile da credere, di lasciare la politica in prima linea, ripetuto le sue incredibili smentite sul bunga-bunga, solo per tenere quella frase agli occhi dell’opinione pubblica, e reiterato gli attacchi alla Costituzione italiana che mettono in risalto l’inadeguatezza del suo potere.

Sono stato particolarmente colpito da quell’intervista, bisogna ammetterlo, perché recentemente sono stato trascinato nel solito balletto dal presidente Berlusconi in persona. A dicembre, a un evento al Quirinale, quando gli avevo detto che stavo girando un documentario sull’Italia, aveva detto spontaneamente che «era a mia disposizione» per un’intervista. In seguito ha negato di aver mai offerto una intervista filmata, sostenendo che doveva essere stato un malinteso.

Al contrario, ogni parola che dice il presidente Monti è ritenuta degna di fede dai governi stranieri. Sanno che affronta enormi difficoltà. Ma pensano che valga la pena di parlargli e di sostenerlo, perché possono credere a ciò che dice.

E questo ci porta alla possibilità. L’illusione della trasformazione miracolosa dell’immagine dell’Italia è che certamente l’Italia non si è trasformata, né è fuori pericolo dal punto di vista finanziario o economico. La recessione peggiorerà le finanze pubbliche, rendendo più che possibile il varo di un altro pacchetto di misure fiscali entro la fine dell’anno se si devono continuare a sostenere i mercati obbligazionari e a ottemperare agli obiettivi di bilancio della zona euro. La liberalizzazione e la riforma del lavoro sarà difficile da attuare, e ci vorranno molti anni perché abbia un effetto significativo sulla crescita economica. Tanto la parte politica come quella economica di questo processo sono irte di pericoli.

Ma ciò che è cambiato è che ora c’è una reale possibilità di cambiamento. C’è qualcosa da sollecitare e in cui sperare. Il governo Monti, e il sostegno parlamentare e pubblico che lo circondano, rappresentano per l’Occidente una luce brillante di possibilità in un paesaggio altrimenti oscuro. Alla fine, il Paese che ha più o meno inventato il capitalismo moderno, che ha dato origine al Rinascimento che ha prodotto l’uomo moderno, si sta risvegliando dopo un lungo sonno catatonico. Questa è una buona ragione per prestare attenzione, e offrire un caloroso benvenuto a Washington.

traduzione di Carla Reschia

La Stampa 09.02.12

“La possibilità di cambiamento adesso è reale”, di Bill Emmott

Il tempo, si dice, è un gran dottore, ma il modo in cui l’immagine dell’Italia all’estero si è trasformata nei tre mesi passati tra le dimissioni del presidente Silvio Berlusconi il 12 novembre e l’odierna visita del presidente Mario Monti alla Casa Bianca è stato a dir poco miracoloso. Mi dispiace di essere sacrilego, ma, come molti miracoli, questo è un po’ un’illusione. Tuttavia, le illusioni sono importanti, e così, per questo miracolo, valgono tre parole: centralità, verità e possibilità.

Il miracolo è un’illusione perché un Paese non può cambiare così tanto in tre mesi.

Questo punto di vista non nasce, vi assicuro, perché io sia il tipo di scrittore straniero che preferisce pensare che la Costa Concordia rappresenti l’Italia meglio del presidente Monti: sarebbe assurdo. Piuttosto, si pone perché nessuno, e nessuna nuova legge o misura di bilancio, può cambiare una situazione così velocemente.

La maggior parte delle riforme economiche e istituzionali che sono necessarie non sono state ancora convertite in legge, figuriamoci attuate. E chiaramente resta una quantità enorme di resistenza ai cambiamenti che vengono proposti, in tutti i campi, sia il diritto del lavoro o la disciplina fiscale o la liberalizzazione dei mercati e delle professioni. Non si può assolvere un peccatore che non si è pentito, ha scritto Dante Alighieri, ed è tutt’altro che chiaro se il pentimento ci sia stato.

Anche così, la questione del cambiamento di rotta italiano ha raggiunto uno status di centralità, per questo il presidente Barack Obama sente il desiderio di incoraggiarlo. Per centralità si intende la percezione che il destino dell’Italia e il suo futuro siano improvvisamente importanti per il futuro dell’Europa e, a sua volta, per il futuro dell’Occidente nel suo complesso. Questo è precedente al 12 novembre, ma è diventato più urgente che mai in quel mese così caldo per i mercati obbligazionari.

Come i mercati obbligazionari avevano riconosciuto allora, l’Italia conta, tanto per gli americani come per i colleghi europei, prima di tutto per le sue dimensioni: sia come terzo maggior governo debitore al mondo (dopo America e Giappone) che come terza maggiore economia dell’eurozona (dopo Germania e Francia), una crisi del debito sovrano e una profonda recessione in Italia sarebbero veramente pericolose per tutti i Paesi ad essa strettamente legati, il che significa Europa e America.

L’ombra di una tale crisi è diventata più minacciosa a causa della crescente aspettativa di un default del debito greco, un’aspettativa che sta di nuovo crescendo. Questo non si traduce in rendimenti pericolosamente elevati dei titoli obbligazionari italiani, soprattutto perché un altro italiano assai stimato, Mario Draghi alla Banca centrale europea, ha scongiurato il pericolo di una crisi bancaria europea con la sua tempestiva e massiccia offerta alle banche di prestiti illimitati a tre anni.

L’Italia, però, è centrale anche per motivi diversi dal suo essere semplicemente una pericolosa bomba a orologeria economica. In primo luogo perché la sua stagnazione e paralisi politica nel corso degli ultimi 20 anni si presenta al resto dell’Occidente come un duro avvertimento ma anche come un’opportunità.

L’avvertimento riguarda il possibile lento, inesorabile declino se l’onere del debito non viene affrontato e se un’economia e una società perdono la capacità di evolversi, di cambiare, il tratto essenziale che i Paesi capitalisti democratici devono avere se vogliono sopravvivere e prosperare in questa epoca di grande fermento tecnologico e politico. L’opportunità, tuttavia è quella della ripresa e del rinnovamento, persino di un rinascimento, se la liberalizzazione s’impone e riprende un’evoluzione dinamica.

Se l’Italia potrà tornare a essere un’economia di mercato trainante, come durante gli Anni 50 e 60, allora c’è speranza per l’Europa e l’Occidente. Se non sarà possibile, gli oneri per gli altri Paesi saranno maggiori e più deboli le loro possibilità di successo.

L’Italia è strategica anche per la ragione che, in termini personali, stava dietro il famoso titolo di copertina «Inadatto a governare l’Italia», che volli quando ero direttore di The Economist, nel 2001. Ovvero che, durante vent’anni di politica dominata da Silvio Berlusconi, l’Italia ha reso evidente il pericolo che un governo democratico diventi ostaggio di grandi aziende, dei media e del potere personale. Le leggi vengono applicate iniquamente e piegate all’uso personale, il normale ruolo di regolamentazione del governo è sovvertito, la Costituzione è minata, e il flusso di informazioni è gravemente distorto.

Questo è importante – ancora oggi – soprattutto per l’Italia medesima, ma è anche esattamente la stessa preoccupazione che sovrasta la politica americana quando qualcuno si lamenta del potere di Wall Street o delle grandi compagnie petrolifere, o di altri lobbisti. È la paura corrosiva che lo strapotere possa distorcere o addirittura guidare le decisioni democratiche. La fine, almeno, di quel potere che aveva occupato Palazzo Chigi, è di grande importanza simbolica per le altre democrazie occidentali.

Uno degli effetti di quel potere, tuttavia, è la seconda parola determinante per questo miracolo: verità. Altri governi in Europa e certamente gli Stati Uniti sono giunti alla conclusione che non potevano fidarsi della parola dell’Italia con il governo Berlusconi. Non era il caso delle questioni militari, motivo per cui l’amministrazione Bush era cordiale con l’Italia, grazie ai dispiegamenti militari in Iraq e in Afghanistan. Ma valeva per tutto il resto.

Annunci, promesse, affermazioni, dichiarazioni d’intenti: i governi stranieri erano arrivati ad attribuire loro la credibilità di uno spettacolo teatrale. E’ stato triste vedere il presidente Berlusconi perseverare in questa abitudine nella sua intervista con il Financial Times, pubblicata il 4 febbraio, dove ha di nuovo fatto la sua promessa, impossibile da credere, di lasciare la politica in prima linea, ripetuto le sue incredibili smentite sul bunga-bunga, solo per tenere quella frase agli occhi dell’opinione pubblica, e reiterato gli attacchi alla Costituzione italiana che mettono in risalto l’inadeguatezza del suo potere.

Sono stato particolarmente colpito da quell’intervista, bisogna ammetterlo, perché recentemente sono stato trascinato nel solito balletto dal presidente Berlusconi in persona. A dicembre, a un evento al Quirinale, quando gli avevo detto che stavo girando un documentario sull’Italia, aveva detto spontaneamente che «era a mia disposizione» per un’intervista. In seguito ha negato di aver mai offerto una intervista filmata, sostenendo che doveva essere stato un malinteso.

Al contrario, ogni parola che dice il presidente Monti è ritenuta degna di fede dai governi stranieri. Sanno che affronta enormi difficoltà. Ma pensano che valga la pena di parlargli e di sostenerlo, perché possono credere a ciò che dice.

E questo ci porta alla possibilità. L’illusione della trasformazione miracolosa dell’immagine dell’Italia è che certamente l’Italia non si è trasformata, né è fuori pericolo dal punto di vista finanziario o economico. La recessione peggiorerà le finanze pubbliche, rendendo più che possibile il varo di un altro pacchetto di misure fiscali entro la fine dell’anno se si devono continuare a sostenere i mercati obbligazionari e a ottemperare agli obiettivi di bilancio della zona euro. La liberalizzazione e la riforma del lavoro sarà difficile da attuare, e ci vorranno molti anni perché abbia un effetto significativo sulla crescita economica. Tanto la parte politica come quella economica di questo processo sono irte di pericoli.

Ma ciò che è cambiato è che ora c’è una reale possibilità di cambiamento. C’è qualcosa da sollecitare e in cui sperare. Il governo Monti, e il sostegno parlamentare e pubblico che lo circondano, rappresentano per l’Occidente una luce brillante di possibilità in un paesaggio altrimenti oscuro. Alla fine, il Paese che ha più o meno inventato il capitalismo moderno, che ha dato origine al Rinascimento che ha prodotto l’uomo moderno, si sta risvegliando dopo un lungo sonno catatonico. Questa è una buona ragione per prestare attenzione, e offrire un caloroso benvenuto a Washington.

traduzione di Carla Reschia

La Stampa 09.02.12

"Il declino dei partiti e il potere economico", di Nadia Urbinati

La combinazione di capitalismo e democrazia costituisce un compromesso tra proprietà dei mezzi privati di produzione e suffragio universale, per cui chi possiede i primi accetta istituzioni politiche nelle quali le decisioni sono l´aggregato di voti che hanno uguale peso. Il keynesianesimo ha dato i fondamenti ideologici e politici di questo compromesso, e lo ha fatto rispondendo alla crisi del 1929 che lasciò sul tappeto una disoccupazione tremenda. Il compromesso con l´esistente dottrina economica consistette nell´assegnare al pubblico un ruolo centrale poiché invece di assistere i poveri come aveva fatto nei decenni precedenti, li impiegava o promuoveva politiche sociali che creavano impiego. Questo comportò l´incremento della domanda e la ripresa dell´occupazione. Come ebbe a dire Léon Blum, una migliore distribuzione può rivitalizzare l´occupazione e nello stesso tempo soddisfare la giustizia sociale.
L´esito del compromesso tra democrazia e capitalismo fu che i poveri diventarono davvero i rappresentanti dell´interesse generale della società –la loro emancipazione bloccò le politiche restauratrici della classe che possedeva il potere economico. L´allargamento dei consumi privati aveva messo in moto il più importante investimento, quello sulla cittadinanza. La politica del doppio binario “piena occupazione e eguaglianza politica” fu la costituzione materiale delle costituzioni democratiche dalla fine della Seconda guerra mondiale. L´esito fu che l´allocazione delle risorse economiche – dal lavoro ai beni sociali e primari ai servizi– fu dominata dalle relazioni delle forze politiche. I partiti politici si incaricarono di gestire la politica, di essere rappresentanti delle forze sociali, le quali rinunciavano a fare da sole.
Quel tempo è finito. La combinazione tra democrazia e capitalismo è interrotta, il compromesso sospeso e le classi sono tornate a prendere nelle loro mani le decisioni, in particolare quella che ha il potere economico. Il declino dei partiti non ha solo fattori politici alla sua origine. La fase nella quale lo Stato si curava dell´emancipazione delle classi oppresse è chiusa. Ora è l´altra classe a gestire le relazioni pubbliche. Non c´è bisogno di scomodare Marx per registrare questi mutamenti. La diagnosi è alla portata del pubblico.
L´ideologia keynesiana poteva funzionare fino a quando l´accumulazione del capitale andava negli investimenti e nell´allargamento del consumo. Negli Anni 80 una nuova filosofia ha cominciato a prendere piede: politica di diminuzione delle tasse per consentire una nuova redistribuzione ma questa volta a favore dei profitti, con la giustificazione per gli elettori che ciò serviva a stimolare gli investimenti. Ma la riduzione delle tasse non ha liberato risorse per gli investimenti produttivi ma per quelli finanziari. Il tipo degli investimenti è quindi cambiato con il capitalismo della rendita finanziaria. Quale compromesso la democrazia potrà siglare con questo capitalismo?
A partire dagli Anni 80 l´accumulazione si è liberata dai lacci imposti dalla democrazia; l´accumulazione si è liberata dai vincoli dell´investimento imposti dalla filosofia della piena occupazione. La nuova destra ha preso corpo, quella che ha promosso piani di detassazione dei profitti, di abolizione dei controlli sull´impatto ambientale e sulle condizioni di lavoro (l´aumento degli incidenti sul lavoro non è accidentale), l´indebolimento dei sindacati e il loro riorientamento dalla contrattazione nazionale a quella aziendale. Questa fase, che è quella sulle cui conseguenze l´Europa si sta dibattendo in questi mesi, impersona a tutto tondo una nuova società, una mutazione della democrazia. Verso quale direzione?
Nel passato keynesiano, la rottura del compromesso per imporre la fine di politiche sociali si era servita di strategie anche violente: il colpo di Stato in Cile nel 1973 impose una svolta liberista radicale e immediata. È difficile pensare a qualcosa di simile oggi, nel nostro continente, benché la storia insegna a mai dire mai. Un altro cambiamento, forse meno indolore benché non assolutamente senza sofferenza, è quello che si sta profilando a chiare lettere in questi anni: la depoliticizzazione delle relazioni economiche.
La democrazia che aveva siglato il compromesso col capitalismo aveva rivendicato la natura politica di tutte le relazioni sociali, e i diritti civili bastavano a limitare il potere decisionale delle maggioranze. In questo modo la politica democratica entrava in tutte le pieghe della società ogni qualvolta si trattava di difendere l´eguale libertà dei cittadini. Con la fine di quel compromesso, la politica arretra progressivamente, e soprattutto fa giganti passi indietro nel mondo del lavoro e delle relazioni industriali. Il lavoro deve tornare a essere un bene solo economico, fuori dai lacci del diritto e della politica. La battaglia sull´articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori ha questo significato.
Si ripete da più parti che questo articolo ha comunque poco impatto operando su aziende medio-grandi mentre l´Italia ha in maggioranza aziende medio-piccole o familiari. Allora perché? Perché, si dice, lo vogliono i mercati, gli investitori. È una decisione simbolica, un segnale. E perché i mercati hanno bisogno di questo tipo di segnale? La risposta si ricava da quanto detto fin qui: la regia della nuova democrazia non deve più essere la legge, il legislatore, lo Stato, ma il mercato. Perché una parte importante della sfera sociale deve tornare a essere privata, e quindi cacciare l´interferenza della politica. Il limite della “giusta causa” che l´articolo 18 impone, è un limite che segnala la priorità del pubblico sul privato: il datore di lavoro deve rendere conto della ragione della sua decisione di licenziare. Quell´articolo rispecchia quindi la filosofia del compromesso di democrazia e capitalismo, perché stabilisce la libertà dal dominio per tutti, dal non essere soggetti alla decisione altrui, senz´altra ragione che la volontà arbitraria di chi decide. Questo articolo è la conseguenza naturale dell´articolo 41 della Costituzione poiché impone una responsabilità di cittadinanza alla sfera degli interessi economici.
Valutando questa fase di restaurazione delle relazioni politiche tra le classi dovremmo farci questa domanda: che tipo di società sarà una società nella quale l´accumulazione è libera da ogni vincolo politico, da ogni limite di distribuzione, da ogni considerazione di impiego che non sia il profitto, da ogni responsabilità verso l´ambiente, la salute di chi lavora e di chi consuma? Siamo certi di voler vivere in una società di questo tipo?

La Repubblica 09.02.12

“Il declino dei partiti e il potere economico”, di Nadia Urbinati

La combinazione di capitalismo e democrazia costituisce un compromesso tra proprietà dei mezzi privati di produzione e suffragio universale, per cui chi possiede i primi accetta istituzioni politiche nelle quali le decisioni sono l´aggregato di voti che hanno uguale peso. Il keynesianesimo ha dato i fondamenti ideologici e politici di questo compromesso, e lo ha fatto rispondendo alla crisi del 1929 che lasciò sul tappeto una disoccupazione tremenda. Il compromesso con l´esistente dottrina economica consistette nell´assegnare al pubblico un ruolo centrale poiché invece di assistere i poveri come aveva fatto nei decenni precedenti, li impiegava o promuoveva politiche sociali che creavano impiego. Questo comportò l´incremento della domanda e la ripresa dell´occupazione. Come ebbe a dire Léon Blum, una migliore distribuzione può rivitalizzare l´occupazione e nello stesso tempo soddisfare la giustizia sociale.
L´esito del compromesso tra democrazia e capitalismo fu che i poveri diventarono davvero i rappresentanti dell´interesse generale della società –la loro emancipazione bloccò le politiche restauratrici della classe che possedeva il potere economico. L´allargamento dei consumi privati aveva messo in moto il più importante investimento, quello sulla cittadinanza. La politica del doppio binario “piena occupazione e eguaglianza politica” fu la costituzione materiale delle costituzioni democratiche dalla fine della Seconda guerra mondiale. L´esito fu che l´allocazione delle risorse economiche – dal lavoro ai beni sociali e primari ai servizi– fu dominata dalle relazioni delle forze politiche. I partiti politici si incaricarono di gestire la politica, di essere rappresentanti delle forze sociali, le quali rinunciavano a fare da sole.
Quel tempo è finito. La combinazione tra democrazia e capitalismo è interrotta, il compromesso sospeso e le classi sono tornate a prendere nelle loro mani le decisioni, in particolare quella che ha il potere economico. Il declino dei partiti non ha solo fattori politici alla sua origine. La fase nella quale lo Stato si curava dell´emancipazione delle classi oppresse è chiusa. Ora è l´altra classe a gestire le relazioni pubbliche. Non c´è bisogno di scomodare Marx per registrare questi mutamenti. La diagnosi è alla portata del pubblico.
L´ideologia keynesiana poteva funzionare fino a quando l´accumulazione del capitale andava negli investimenti e nell´allargamento del consumo. Negli Anni 80 una nuova filosofia ha cominciato a prendere piede: politica di diminuzione delle tasse per consentire una nuova redistribuzione ma questa volta a favore dei profitti, con la giustificazione per gli elettori che ciò serviva a stimolare gli investimenti. Ma la riduzione delle tasse non ha liberato risorse per gli investimenti produttivi ma per quelli finanziari. Il tipo degli investimenti è quindi cambiato con il capitalismo della rendita finanziaria. Quale compromesso la democrazia potrà siglare con questo capitalismo?
A partire dagli Anni 80 l´accumulazione si è liberata dai lacci imposti dalla democrazia; l´accumulazione si è liberata dai vincoli dell´investimento imposti dalla filosofia della piena occupazione. La nuova destra ha preso corpo, quella che ha promosso piani di detassazione dei profitti, di abolizione dei controlli sull´impatto ambientale e sulle condizioni di lavoro (l´aumento degli incidenti sul lavoro non è accidentale), l´indebolimento dei sindacati e il loro riorientamento dalla contrattazione nazionale a quella aziendale. Questa fase, che è quella sulle cui conseguenze l´Europa si sta dibattendo in questi mesi, impersona a tutto tondo una nuova società, una mutazione della democrazia. Verso quale direzione?
Nel passato keynesiano, la rottura del compromesso per imporre la fine di politiche sociali si era servita di strategie anche violente: il colpo di Stato in Cile nel 1973 impose una svolta liberista radicale e immediata. È difficile pensare a qualcosa di simile oggi, nel nostro continente, benché la storia insegna a mai dire mai. Un altro cambiamento, forse meno indolore benché non assolutamente senza sofferenza, è quello che si sta profilando a chiare lettere in questi anni: la depoliticizzazione delle relazioni economiche.
La democrazia che aveva siglato il compromesso col capitalismo aveva rivendicato la natura politica di tutte le relazioni sociali, e i diritti civili bastavano a limitare il potere decisionale delle maggioranze. In questo modo la politica democratica entrava in tutte le pieghe della società ogni qualvolta si trattava di difendere l´eguale libertà dei cittadini. Con la fine di quel compromesso, la politica arretra progressivamente, e soprattutto fa giganti passi indietro nel mondo del lavoro e delle relazioni industriali. Il lavoro deve tornare a essere un bene solo economico, fuori dai lacci del diritto e della politica. La battaglia sull´articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori ha questo significato.
Si ripete da più parti che questo articolo ha comunque poco impatto operando su aziende medio-grandi mentre l´Italia ha in maggioranza aziende medio-piccole o familiari. Allora perché? Perché, si dice, lo vogliono i mercati, gli investitori. È una decisione simbolica, un segnale. E perché i mercati hanno bisogno di questo tipo di segnale? La risposta si ricava da quanto detto fin qui: la regia della nuova democrazia non deve più essere la legge, il legislatore, lo Stato, ma il mercato. Perché una parte importante della sfera sociale deve tornare a essere privata, e quindi cacciare l´interferenza della politica. Il limite della “giusta causa” che l´articolo 18 impone, è un limite che segnala la priorità del pubblico sul privato: il datore di lavoro deve rendere conto della ragione della sua decisione di licenziare. Quell´articolo rispecchia quindi la filosofia del compromesso di democrazia e capitalismo, perché stabilisce la libertà dal dominio per tutti, dal non essere soggetti alla decisione altrui, senz´altra ragione che la volontà arbitraria di chi decide. Questo articolo è la conseguenza naturale dell´articolo 41 della Costituzione poiché impone una responsabilità di cittadinanza alla sfera degli interessi economici.
Valutando questa fase di restaurazione delle relazioni politiche tra le classi dovremmo farci questa domanda: che tipo di società sarà una società nella quale l´accumulazione è libera da ogni vincolo politico, da ogni limite di distribuzione, da ogni considerazione di impiego che non sia il profitto, da ogni responsabilità verso l´ambiente, la salute di chi lavora e di chi consuma? Siamo certi di voler vivere in una società di questo tipo?

La Repubblica 09.02.12

"Lavoro, Fornero: I soldi non ci sono", di Luigina Venturelli

Da giorni si susseguono incontri informali preliminari tra le parti sociali ed il governo, in vista del tavolo istituzionale sul mercato del lavoro che dovrebbe essere convocato per la prossima settimana. E tra gli argomenti da discutere ci sono ancora temi caldi come l’articolo 18, in grado di trasformare il confronto in scontro aperto. Eppure l’esecutivo si mostra ottimista: la riforma in questione vedrà la luce entro il mese di marzo. L’ha affermato il premier Mario Monti in un’intervista concessa al Wall Street Journal: «Ci stiamo avvicinando alla conclusione ». E l’ha ribadito il ministro Elsa Fornero, definendo «un bel sentiero largo» la strada per giungere ad un accordo con le parti sociali.
L’OTTIMISMO DEL GOVERNO Per il momento viene considerata lontana la possibilità di arrivare comunque a un pacchetto di provvedimenti senza il consenso delle parti sociali. «Noi lavoriamo per l’accordo » ha assicurato la responsabile del Welfare, ricordando che la porta «è aperta» per «tutti quelli che vogliono vedermi per parlare di riforma del mercato del lavoro con l’agenda che abbiamo stabilito». La disponibilità dell’esecutivo alla discussione, dunque, non è completa, ma circoscritta dai limiti di merito previsti da Palazzo Chigi e, soprattutto, dai vincoli di risorse che peseranno sulla revisione degli ammortizzatori sociali. «Sappiamo bene che abbiamo vincoli di risorse che sono drammatici» ha continuato la Fornero. «Abbiamo per molti anni un piano per la restituzione del debito che è molto impegnativo. Questo deve permettere a ciascuno di comprendere che ogni euro destinato a una spesa pubblica è sottratto a un’altra». E in quest’ottica «aver evitato il depauperamento delle risorse», se «non èmotivo di grande soddisfazione», è almeno «un risultato abbastanza importante ». Nel frattempo, non si fermano le riunioni informali tra le parti sociali e i faccia a faccia tra il ministro del Welfare e i diversi rappresentanti sindacali e datoriali. Obiettivo: arrivare all’apertura del tavolo istituzionale previsto per la prossima settimana a Palazzo Chigi con buona parte del lavoro già fatta, per chiudere in tempi brevi con una riforma condivisa.
GLI INCONTRI PRELIMINARI Per questo Elsa Fornero martedì ha visto il presidente di Rete Imprese Marco Venturi, ieri mattina ha avuto tre ore di colloquio con la segretaria generale della Cgil Susanna Camusso, ed oggi si prepara a vedere la leader uscente di Confindustria Emma Marcegaglia. Ancora più decisivi, forse, potrebbero rivelarsi i vertici preparatori tra leparti sociali, che puntano a presentarsi all’esecutivo con una lista di proposte comuni per evitare, almeno questa volta, di dover subire una decisione unilaterale del governo come già accaduto sul capitolo pensioni (capitolo che le tre confederazioni non considerano ancora chiuso, visto che per questo pomeriggio hanno organizzato un presidio unitario in piazza del Pantheon a Roma, per chiedere modifiche al decreto Milleproroghe sulle misure di carattere previdenziale). Ieri, dunque, i leader di Cgil, Cisl e Uil si sono visti per definire in dettaglio i punti di riforma che più stanno a cuore ai sindacati: l’estensione degli ammortizzatori sociali alle fasce di lavoratori che ancora risultano scoperte, la riduzione della flessibilità in ingresso nel mercato del lavoro, che ora conta oltre quaranta tipologie contrattuali, e un piano di interventi per affrontare l’emergenza giovani. E su questi temi si è concentrato anche l’incontro immediatamente successivo tra i sindacati e la Confindustria nella foresteria dell’associazione imprenditoriale: un’ora circa di discussione per decidere «un tavolo permanente tra sindacati e imprese » che già da oggi tornerà nel merito della riforma del mercato del lavoro. «L’idea è di lavorare insieme per capire se possiamo trovare un accordo su alcuni punti specifici» ha spiegato Emma Marcegaglia, parlando di «un contributo tecnico al governo molto dettagliato». Accantonato, per il momento, l’articolo 18, sul quale i leader confederali Camusso, Bonanni e Angeletti si sono limitati al “no comment”.

L’Unità 09.02.12

“Lavoro, Fornero: I soldi non ci sono”, di Luigina Venturelli

Da giorni si susseguono incontri informali preliminari tra le parti sociali ed il governo, in vista del tavolo istituzionale sul mercato del lavoro che dovrebbe essere convocato per la prossima settimana. E tra gli argomenti da discutere ci sono ancora temi caldi come l’articolo 18, in grado di trasformare il confronto in scontro aperto. Eppure l’esecutivo si mostra ottimista: la riforma in questione vedrà la luce entro il mese di marzo. L’ha affermato il premier Mario Monti in un’intervista concessa al Wall Street Journal: «Ci stiamo avvicinando alla conclusione ». E l’ha ribadito il ministro Elsa Fornero, definendo «un bel sentiero largo» la strada per giungere ad un accordo con le parti sociali.
L’OTTIMISMO DEL GOVERNO Per il momento viene considerata lontana la possibilità di arrivare comunque a un pacchetto di provvedimenti senza il consenso delle parti sociali. «Noi lavoriamo per l’accordo » ha assicurato la responsabile del Welfare, ricordando che la porta «è aperta» per «tutti quelli che vogliono vedermi per parlare di riforma del mercato del lavoro con l’agenda che abbiamo stabilito». La disponibilità dell’esecutivo alla discussione, dunque, non è completa, ma circoscritta dai limiti di merito previsti da Palazzo Chigi e, soprattutto, dai vincoli di risorse che peseranno sulla revisione degli ammortizzatori sociali. «Sappiamo bene che abbiamo vincoli di risorse che sono drammatici» ha continuato la Fornero. «Abbiamo per molti anni un piano per la restituzione del debito che è molto impegnativo. Questo deve permettere a ciascuno di comprendere che ogni euro destinato a una spesa pubblica è sottratto a un’altra». E in quest’ottica «aver evitato il depauperamento delle risorse», se «non èmotivo di grande soddisfazione», è almeno «un risultato abbastanza importante ». Nel frattempo, non si fermano le riunioni informali tra le parti sociali e i faccia a faccia tra il ministro del Welfare e i diversi rappresentanti sindacali e datoriali. Obiettivo: arrivare all’apertura del tavolo istituzionale previsto per la prossima settimana a Palazzo Chigi con buona parte del lavoro già fatta, per chiudere in tempi brevi con una riforma condivisa.
GLI INCONTRI PRELIMINARI Per questo Elsa Fornero martedì ha visto il presidente di Rete Imprese Marco Venturi, ieri mattina ha avuto tre ore di colloquio con la segretaria generale della Cgil Susanna Camusso, ed oggi si prepara a vedere la leader uscente di Confindustria Emma Marcegaglia. Ancora più decisivi, forse, potrebbero rivelarsi i vertici preparatori tra leparti sociali, che puntano a presentarsi all’esecutivo con una lista di proposte comuni per evitare, almeno questa volta, di dover subire una decisione unilaterale del governo come già accaduto sul capitolo pensioni (capitolo che le tre confederazioni non considerano ancora chiuso, visto che per questo pomeriggio hanno organizzato un presidio unitario in piazza del Pantheon a Roma, per chiedere modifiche al decreto Milleproroghe sulle misure di carattere previdenziale). Ieri, dunque, i leader di Cgil, Cisl e Uil si sono visti per definire in dettaglio i punti di riforma che più stanno a cuore ai sindacati: l’estensione degli ammortizzatori sociali alle fasce di lavoratori che ancora risultano scoperte, la riduzione della flessibilità in ingresso nel mercato del lavoro, che ora conta oltre quaranta tipologie contrattuali, e un piano di interventi per affrontare l’emergenza giovani. E su questi temi si è concentrato anche l’incontro immediatamente successivo tra i sindacati e la Confindustria nella foresteria dell’associazione imprenditoriale: un’ora circa di discussione per decidere «un tavolo permanente tra sindacati e imprese » che già da oggi tornerà nel merito della riforma del mercato del lavoro. «L’idea è di lavorare insieme per capire se possiamo trovare un accordo su alcuni punti specifici» ha spiegato Emma Marcegaglia, parlando di «un contributo tecnico al governo molto dettagliato». Accantonato, per il momento, l’articolo 18, sul quale i leader confederali Camusso, Bonanni e Angeletti si sono limitati al “no comment”.

L’Unità 09.02.12