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"Tagli ai soldi per l´editoria e calo delle vendite "il manifesto" in liquidazione", di Alessandra Longo

“Nessuna soluzione nonostante gli impegni di Monti e le richieste di Napolitano”. Il direttore Rangeri “Non si tratta solo di una prova di affetto ma anche di una prova politica”. Il ministero per lo Sviluppo Economico «ha avviato la procedura di liquidazione coatta amministrativa della cooperativa editrice «il manifesto». Il linguaggio è questo: crudo, burocratico. Non lo usa il “carnefice” ma le stesse vittime, cioè il collettivo del «manifesto» in una nota. Il giornale di Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Valentino Parlato, Lucio Magri, Luciana Castellina e tanti altri conosce il suo «momento più difficile» nei suoi già tormentati 40 anni di vita. E´ in liquidazione, il decreto è stato firmato ieri. Difficile ammetterlo, anche se la crisi viene da lontano, difficile persino scriverlo, al punto che il primo a dare la notizia è il nuovo portale www. globalist. it, contenitore progressista di siti e firme indipendenti diretto da Gianni Cipriani. Primo pomeriggio: i colleghi della stampa cominciano a chiamare, ad informarsi, «il manifesto» è costretto ad elaborare pubblicamente il lutto. Non sono arrivati i fondi governativi per l´editoria, da tempo vanno male le vendite, la pubblicità. Non sono bastate la cassintegrazione, la riduzione drastica di costi e pagine. Impossibile andare avanti: «Nonostante le promesse di intervento fatte dal presidente del consiglio Mario Monti e l´esplicita richiesta in tal senso del presidente della Repubblica, a oggi nessuna soluzione è stata trovata», recita il comunicato ufficiale del collettivo. A questo punto la procedura di liquidazione è «inevitabile», un atto obbligato.
Norma Rangeri, direttore attualmente in carica, (le ha provate tutte, anche a dare le dimissioni «come stimolo»), aggiunge amara: «Dove non è riuscito Berlusconi, ecco che ci è riuscito Monti». «Delitto politico»: lo definiscono così. Bilancio in rosso, non un euro in cassa, l´ultimo stipendio pieno la sessantina di giornalisti e amministrativi sopravvissuti l´ha preso nel settembre 2011. «Se «il manifesto» chiuderà – dice la Rangeri – vorrà dire che avrà vinto quel mercato fasullo che considera l´informazione una merce e la sua legge sarà legge per tutti». Si sentono «uccisi dall´oligopolio informativo», travolti dalla «crisi profonda della sinistra», «dal deficit di cultura politica di questo Paese».
Ore di riunione. Poi, a tarda sera, sul sito del quotidiano, la conferma della messa in liquidazione. Prima pagina, sfondo nero e un titolo forte: «Ci vogliono chiudere». Non si arrendono, però, «rilanciano», annunciano «una campagna straordinaria a sostegno del giornale», chiedono aiuto ai lettori. Videoeditoriale della Rangeri in nero: «Abbiamo avuto tante crisi, ma questa è la più seria, la più grave, anche per il contesto politico esterno in cui ci troviamo». Appello ai molti lettori diventati «saltuari» per colpa della crisi: «Vi chiediamo di comprare il giornale tutti i giorni. Da soli non ce la facciamo più. Abbiamo bisogno di voi». Oggi, alle 14, conferenza stampa nella sede romana di via Bargoni. Intanto si pensa al titolo di apertura. Qualcuno propone «Senza di noi», altri sponsorizzano «Zitti mai». Prima pagina monotematica, quella odierna, non ci saranno altre notizie.
Quei 50 milioni promessi dal governo per l´editoria minore (sono a rischio 100 testate e quattromila posti di lavoro) non sono arrivati in tempo, decretando già la fine di «Liberazione». Ora tocca al «manifesto». C´è rabbia: «Ringraziamo Monti e Passera». Scuro in volto, Valentino Parlato se ne va a casa. Presto, magari nel suo ufficio, si siederà «il liquidatore», a valutare bilanci, a decidere cosa fare. Compatti nella denuncia, i colleghi del «manifesto» si dividono nell´immaginare lo scenario del «dopo». Chi pensa ad un piano di salvataggio che tuteli la storia del giornale così com´è, magari in versione ridotta (Dice Rangeri: «Il manifesto» di carta deve resistere e trovare il modo di stare in edicola»). Chi invece vagheggia, ancora sottotraccia, qualcosa di nuovo, «perché la nostra crisi non è solo economica, ma anche di progettualità». La testata è di proprietà della Manifesto Spa (che non è in liquidazione) e può teoricamente essere affittata. La bad company fallisce, la new company prende il nome e lancia magari un prodotto nuovo, online. Suggestioni che circolano, nessuno se ne attribuisce, in questa fase, la paternità.
Norma Rangeri si congeda, per il momento, dai lettori: «Quella che vi chiediamo non è solo una prova di affetto, di amore per la testata, è anche una prova politica».

La Repubblica 09.02.12

“Tagli ai soldi per l´editoria e calo delle vendite “il manifesto” in liquidazione”, di Alessandra Longo

“Nessuna soluzione nonostante gli impegni di Monti e le richieste di Napolitano”. Il direttore Rangeri “Non si tratta solo di una prova di affetto ma anche di una prova politica”. Il ministero per lo Sviluppo Economico «ha avviato la procedura di liquidazione coatta amministrativa della cooperativa editrice «il manifesto». Il linguaggio è questo: crudo, burocratico. Non lo usa il “carnefice” ma le stesse vittime, cioè il collettivo del «manifesto» in una nota. Il giornale di Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Valentino Parlato, Lucio Magri, Luciana Castellina e tanti altri conosce il suo «momento più difficile» nei suoi già tormentati 40 anni di vita. E´ in liquidazione, il decreto è stato firmato ieri. Difficile ammetterlo, anche se la crisi viene da lontano, difficile persino scriverlo, al punto che il primo a dare la notizia è il nuovo portale www. globalist. it, contenitore progressista di siti e firme indipendenti diretto da Gianni Cipriani. Primo pomeriggio: i colleghi della stampa cominciano a chiamare, ad informarsi, «il manifesto» è costretto ad elaborare pubblicamente il lutto. Non sono arrivati i fondi governativi per l´editoria, da tempo vanno male le vendite, la pubblicità. Non sono bastate la cassintegrazione, la riduzione drastica di costi e pagine. Impossibile andare avanti: «Nonostante le promesse di intervento fatte dal presidente del consiglio Mario Monti e l´esplicita richiesta in tal senso del presidente della Repubblica, a oggi nessuna soluzione è stata trovata», recita il comunicato ufficiale del collettivo. A questo punto la procedura di liquidazione è «inevitabile», un atto obbligato.
Norma Rangeri, direttore attualmente in carica, (le ha provate tutte, anche a dare le dimissioni «come stimolo»), aggiunge amara: «Dove non è riuscito Berlusconi, ecco che ci è riuscito Monti». «Delitto politico»: lo definiscono così. Bilancio in rosso, non un euro in cassa, l´ultimo stipendio pieno la sessantina di giornalisti e amministrativi sopravvissuti l´ha preso nel settembre 2011. «Se «il manifesto» chiuderà – dice la Rangeri – vorrà dire che avrà vinto quel mercato fasullo che considera l´informazione una merce e la sua legge sarà legge per tutti». Si sentono «uccisi dall´oligopolio informativo», travolti dalla «crisi profonda della sinistra», «dal deficit di cultura politica di questo Paese».
Ore di riunione. Poi, a tarda sera, sul sito del quotidiano, la conferma della messa in liquidazione. Prima pagina, sfondo nero e un titolo forte: «Ci vogliono chiudere». Non si arrendono, però, «rilanciano», annunciano «una campagna straordinaria a sostegno del giornale», chiedono aiuto ai lettori. Videoeditoriale della Rangeri in nero: «Abbiamo avuto tante crisi, ma questa è la più seria, la più grave, anche per il contesto politico esterno in cui ci troviamo». Appello ai molti lettori diventati «saltuari» per colpa della crisi: «Vi chiediamo di comprare il giornale tutti i giorni. Da soli non ce la facciamo più. Abbiamo bisogno di voi». Oggi, alle 14, conferenza stampa nella sede romana di via Bargoni. Intanto si pensa al titolo di apertura. Qualcuno propone «Senza di noi», altri sponsorizzano «Zitti mai». Prima pagina monotematica, quella odierna, non ci saranno altre notizie.
Quei 50 milioni promessi dal governo per l´editoria minore (sono a rischio 100 testate e quattromila posti di lavoro) non sono arrivati in tempo, decretando già la fine di «Liberazione». Ora tocca al «manifesto». C´è rabbia: «Ringraziamo Monti e Passera». Scuro in volto, Valentino Parlato se ne va a casa. Presto, magari nel suo ufficio, si siederà «il liquidatore», a valutare bilanci, a decidere cosa fare. Compatti nella denuncia, i colleghi del «manifesto» si dividono nell´immaginare lo scenario del «dopo». Chi pensa ad un piano di salvataggio che tuteli la storia del giornale così com´è, magari in versione ridotta (Dice Rangeri: «Il manifesto» di carta deve resistere e trovare il modo di stare in edicola»). Chi invece vagheggia, ancora sottotraccia, qualcosa di nuovo, «perché la nostra crisi non è solo economica, ma anche di progettualità». La testata è di proprietà della Manifesto Spa (che non è in liquidazione) e può teoricamente essere affittata. La bad company fallisce, la new company prende il nome e lancia magari un prodotto nuovo, online. Suggestioni che circolano, nessuno se ne attribuisce, in questa fase, la paternità.
Norma Rangeri si congeda, per il momento, dai lettori: «Quella che vi chiediamo non è solo una prova di affetto, di amore per la testata, è anche una prova politica».

La Repubblica 09.02.12

"Pensioni agli insegnanti, una 'stortura' da correggere", di Giuseppe Grasso

L’onorevole Manuela Ghizzoni e la senatrice Mariangela Bastico stanno facendo davvero molto e stanno spendendo energie che spero le ripaghino di tanto oneroso dibattere. Di cosa parliamo, nello specifico? Della possibilità di poter differire al 31 agosto il requisito per poter accedere, per il comparto della scuola, al sistema pensionistico con le vecchie regole, ovvero per usufruire della quota 96 dal momento che nella scuola, da sempre, il termine temporale per andare in pensione non è il 31 dicembre bensì il 1 settembre. Inserire il termine del 31 dicembre 2011 non ha difatti alcun senso visto che la scuola vive e lavora, da sempre, non già sulla scansione dell’anno solare bensì su quella dell’anno scolastico: l’inizio è a settembre e la fine ad agosto. Così è sempre stato, almeno finora.

Sbaglia, peraltro, chi pensa che chi compie gli anni dal 1 settembre al 31 dicembre 2012 è fuori dell’emendamento che sarà presentato al Senato entro domani 8 febbraio. La quota 96 si ottiene entro l’anno 2012 e dunque anche chi matura il requisito anagrafico tra settembre e dicembre non ne è escluso. Fare un po’ di chiarezza non guasta in questi giorni in cui la confusione e la mancanza di certezze sembrano davvero offuscare la lettura di norme scolastiche che vigono da lunghissimo tempo ma che sembrano diventate astruse leggi per ingegnosi azzeccagarbugli.

Si tratta non di un “emendamento buonista”, come ha scritto giustamente l’onorevole Giuseppe Fioroni, ma di un correttivo profondamente giusto che pone rimedio ad una stortura normativa che molti parlamentari e “tecnici” del governo non hanno tenuto nel debito conto, una stortura che potrebbe invece far assumere al decreto milleproroghe, come ha ribadito l’ex ministro dell’Istruzione, “profili di anticostituzionalità”.

Per questo auspichiamo che il Senato approvi, anche con l’appoggio del governo e del ministro Profumo, questo importante emendamento, che non salverà certo tutti gli altri che sono rimasti intrappolati nella morsa della riforma Fornero, ma mitigherà quanto meno quei 4000 (o quasi) lavoratori, fra docenti e personale ATA, che nel 2012 raggiungono quota 96 attraverso un’anzianità contributiva di almeno 35 anni di servizio più 61 di età o di 36 anni di servizio e 60 di età. Le vecchie regole, per l’appunto, ante-Fornero.

Solo un rapido varo in tal senso potrà restituire una certa equità ad una riforma che ha blindato in ogni minimo aspetto la riforma previdenziale e su cui si dovrà tornare, crediamo noi, per rivedere alcune modifiche di carattere ordinamentale e non legate ad una mera proroga di tempo.

Il governo prenda atto di questa anomalia anche perché quasi 1000 lavoratori del mondo scolastico stanno prevedendo una class action avverso il decreto milleproroghe. Grazie comunque a Manuela Ghizzoni, a Mariangela Bastico e a Giuseppe Fioroni per il loro intervento decisivo e incisivo. Il 9 febbraio il presidio al Pantheon con i tre maggiori sindacati. Intervengono Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Lugi Angeletti.

da Affari Italiani.it

“Pensioni agli insegnanti, una ‘stortura’ da correggere”, di Giuseppe Grasso

L’onorevole Manuela Ghizzoni e la senatrice Mariangela Bastico stanno facendo davvero molto e stanno spendendo energie che spero le ripaghino di tanto oneroso dibattere. Di cosa parliamo, nello specifico? Della possibilità di poter differire al 31 agosto il requisito per poter accedere, per il comparto della scuola, al sistema pensionistico con le vecchie regole, ovvero per usufruire della quota 96 dal momento che nella scuola, da sempre, il termine temporale per andare in pensione non è il 31 dicembre bensì il 1 settembre. Inserire il termine del 31 dicembre 2011 non ha difatti alcun senso visto che la scuola vive e lavora, da sempre, non già sulla scansione dell’anno solare bensì su quella dell’anno scolastico: l’inizio è a settembre e la fine ad agosto. Così è sempre stato, almeno finora.

Sbaglia, peraltro, chi pensa che chi compie gli anni dal 1 settembre al 31 dicembre 2012 è fuori dell’emendamento che sarà presentato al Senato entro domani 8 febbraio. La quota 96 si ottiene entro l’anno 2012 e dunque anche chi matura il requisito anagrafico tra settembre e dicembre non ne è escluso. Fare un po’ di chiarezza non guasta in questi giorni in cui la confusione e la mancanza di certezze sembrano davvero offuscare la lettura di norme scolastiche che vigono da lunghissimo tempo ma che sembrano diventate astruse leggi per ingegnosi azzeccagarbugli.

Si tratta non di un “emendamento buonista”, come ha scritto giustamente l’onorevole Giuseppe Fioroni, ma di un correttivo profondamente giusto che pone rimedio ad una stortura normativa che molti parlamentari e “tecnici” del governo non hanno tenuto nel debito conto, una stortura che potrebbe invece far assumere al decreto milleproroghe, come ha ribadito l’ex ministro dell’Istruzione, “profili di anticostituzionalità”.

Per questo auspichiamo che il Senato approvi, anche con l’appoggio del governo e del ministro Profumo, questo importante emendamento, che non salverà certo tutti gli altri che sono rimasti intrappolati nella morsa della riforma Fornero, ma mitigherà quanto meno quei 4000 (o quasi) lavoratori, fra docenti e personale ATA, che nel 2012 raggiungono quota 96 attraverso un’anzianità contributiva di almeno 35 anni di servizio più 61 di età o di 36 anni di servizio e 60 di età. Le vecchie regole, per l’appunto, ante-Fornero.

Solo un rapido varo in tal senso potrà restituire una certa equità ad una riforma che ha blindato in ogni minimo aspetto la riforma previdenziale e su cui si dovrà tornare, crediamo noi, per rivedere alcune modifiche di carattere ordinamentale e non legate ad una mera proroga di tempo.

Il governo prenda atto di questa anomalia anche perché quasi 1000 lavoratori del mondo scolastico stanno prevedendo una class action avverso il decreto milleproroghe. Grazie comunque a Manuela Ghizzoni, a Mariangela Bastico e a Giuseppe Fioroni per il loro intervento decisivo e incisivo. Il 9 febbraio il presidio al Pantheon con i tre maggiori sindacati. Intervengono Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Lugi Angeletti.

da Affari Italiani.it

"L'Italia unita divisa dalla scuola", di Gian Antonio Stella

«A i figli regalategli un lager», fu il titolo del Foglio a un articolo scritto da Amy Chua su The Wall Street Journal per spiegare perché lei e le altre mamme cinesi sono certe che «si deve essere durissimi con i pargoli: “Per imparare bisogna soffrire”». Spiegava la signora che «quando i genitori occidentali pensano di essere rigorosi, di solito non si avvicinano nemmeno alle mamme cinesi. Ad esempio, i miei amici occidentali che si considerano severi fanno esercitare i figli sui loro strumenti musicali 30 minuti al giorno. Un’ora al massimo. Per una madre cinese, la prima ora è la parte facile. Sono la seconda e la terza ora quelle difficili». C’è chi dirà che è una follia: tirato su a bacchettate quel figlio sarà poi sereno, equilibrato, creativo? La discussione è aperta. Ma un punto appare sicuro: i genitori orientali sembrano più decisi di noi a incidere sull’educazione dei figli nel quotidiano affiancamento alla scuola.
Lo confermano un paio di dati presi da L’Italia che va a scuola (Laterza), un libro in cui Salvo Intravaia, professore in un liceo palermitano e collaboratore di Repubblica, fotografa un mondo che tocca un italiano su quattro che «ogni mattina si alza per recarsi a scuola: gli alunni per studiare, i genitori per accompagnare i figli, e il personale — docente e non docente — per lavorare».
Scrive dunque l’autore che di anno in anno, a partire dal ‘90, le elezioni per i consigli di classe vedono l’affluenza calare, calare, calare. Fino a scendere in certi casi, come per le «superiori» in Sardegna, sotto il 4 per cento. Certo, il distacco non può avere come unica unità di misura la sfiducia in un organismo che evidentemente ha deluso. Ma anche questa è una conferma di una cosa che maestri e professori assaggiano tutti i giorni: i genitori italiani, pronti a scatenare l’iradiddio se i figlioli portano a casa un brutto voto, sono generalmente distratti.
Se non lo fossero potrebbero mai accettare certe storture denunciate da Intravaia? Manderebbero sereni i figli a scuola sapendo che il 92 per cento (dato Cittadinanzattiva) o il 93 (dato Legambiente) delle scuole costruite prima del 1990, tre su quattro, necessiterebbero d’urgenti interventi? Accetterebbero i tagli sapendo che l’Italia spende per l’istruzione il 6,7 per cento del Pil contro il 7,9 della Finlandia, l’8,7 del Regno Unito, l’8,9% della Danimarca, il 10,3 dell’Irlanda?
Vale soprattutto per i genitori del Sud, che alla faccia dello stereotipo sui mammoni, sono i più assenti: come possono accettare certi squilibri? Complessivamente «tra le diverse Regioni italiane si presentano grosse differenze. Al Nord la spesa media per alunno nel 2009 è stata pari a 1.461 euro. Una cifra leggermente più bassa, 1.387 euro ad alunno, si spende nelle quattro Regioni centrali. Ma quando si passa a quelle meridionali (…) l’investimento precipita a 716 euro per alunno». È accettabile, 150 anni dopo l’Unità?

Il Corriere della Sera 08.02.12

“L’Italia unita divisa dalla scuola”, di Gian Antonio Stella

«A i figli regalategli un lager», fu il titolo del Foglio a un articolo scritto da Amy Chua su The Wall Street Journal per spiegare perché lei e le altre mamme cinesi sono certe che «si deve essere durissimi con i pargoli: “Per imparare bisogna soffrire”». Spiegava la signora che «quando i genitori occidentali pensano di essere rigorosi, di solito non si avvicinano nemmeno alle mamme cinesi. Ad esempio, i miei amici occidentali che si considerano severi fanno esercitare i figli sui loro strumenti musicali 30 minuti al giorno. Un’ora al massimo. Per una madre cinese, la prima ora è la parte facile. Sono la seconda e la terza ora quelle difficili». C’è chi dirà che è una follia: tirato su a bacchettate quel figlio sarà poi sereno, equilibrato, creativo? La discussione è aperta. Ma un punto appare sicuro: i genitori orientali sembrano più decisi di noi a incidere sull’educazione dei figli nel quotidiano affiancamento alla scuola.
Lo confermano un paio di dati presi da L’Italia che va a scuola (Laterza), un libro in cui Salvo Intravaia, professore in un liceo palermitano e collaboratore di Repubblica, fotografa un mondo che tocca un italiano su quattro che «ogni mattina si alza per recarsi a scuola: gli alunni per studiare, i genitori per accompagnare i figli, e il personale — docente e non docente — per lavorare».
Scrive dunque l’autore che di anno in anno, a partire dal ‘90, le elezioni per i consigli di classe vedono l’affluenza calare, calare, calare. Fino a scendere in certi casi, come per le «superiori» in Sardegna, sotto il 4 per cento. Certo, il distacco non può avere come unica unità di misura la sfiducia in un organismo che evidentemente ha deluso. Ma anche questa è una conferma di una cosa che maestri e professori assaggiano tutti i giorni: i genitori italiani, pronti a scatenare l’iradiddio se i figlioli portano a casa un brutto voto, sono generalmente distratti.
Se non lo fossero potrebbero mai accettare certe storture denunciate da Intravaia? Manderebbero sereni i figli a scuola sapendo che il 92 per cento (dato Cittadinanzattiva) o il 93 (dato Legambiente) delle scuole costruite prima del 1990, tre su quattro, necessiterebbero d’urgenti interventi? Accetterebbero i tagli sapendo che l’Italia spende per l’istruzione il 6,7 per cento del Pil contro il 7,9 della Finlandia, l’8,7 del Regno Unito, l’8,9% della Danimarca, il 10,3 dell’Irlanda?
Vale soprattutto per i genitori del Sud, che alla faccia dello stereotipo sui mammoni, sono i più assenti: come possono accettare certi squilibri? Complessivamente «tra le diverse Regioni italiane si presentano grosse differenze. Al Nord la spesa media per alunno nel 2009 è stata pari a 1.461 euro. Una cifra leggermente più bassa, 1.387 euro ad alunno, si spende nelle quattro Regioni centrali. Ma quando si passa a quelle meridionali (…) l’investimento precipita a 716 euro per alunno». È accettabile, 150 anni dopo l’Unità?

Il Corriere della Sera 08.02.12

Gas, Ghizzoni e Miglioli “E’ inutile resuscitare un progetto bocciato”

“E’ improprio da parte del sen. Giovanardi cercare di fare leva sulle difficoltà energetiche”. Il parlamentare del Pdl Giovanardi gioca la carta delle temporanee difficoltà energetiche del paese per tentare di rilanciare il progetto del gas interrato a Rivara, ma le comunità locali e la Regione hanno già detto di no. Ecco la dichiarazione in proposito dei parlamentari del Pd Manuela Ghizzoni e Ivano Miglioli: «E’ inutile tentare di riaprire un caso che le istituzioni locali hanno dichiarato chiuso. La Regione Emilia Romagna ha già, a più riprese, ribadito il proprio no al deposito di gas interrato di Rivara. Sono ragioni basate su valutazioni tecniche accurate: non ci sono altre considerazioni da fare su un progetto che le comunità locali hanno dimostrato di avversare con forza per ragioni di sicurezza e di tutela della salute dei cittadini e che l’ente locale deputato ha bocciato. E’ improprio, come fa oggi il senatore Giovanardi, cercare di fare leva sulle difficoltà energetiche del paese, tra l’altro transitorie e in via di superamento, per cercare di portare nuova linfa ad un progetto già, più volte, bocciato. Non del deposito di Rivara si dovrebbe continuare a discutere, ma di un piano energetico complessivo per tutto il paese, un piano in grado di sottrarci alle dipendenze dall’estero, ma al contempo ancorato a garanzie di sicurezza e salubrità per la comunità»