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"Il «paradosso» di Silvio. Ora vuole riforme condivise", di Federica Fantozzi

Al Nazareno prima sono arrivati, pressanti e suadenti, gli ambasciatori del Pdl sulla legge elettorale. Poi, il «ragionamento sul filo del paradosso» fatto da Silvio Berlusconi a Libero, ha esplicitato l’offerta.

Un tavolo per le riforme a tamburo battente e un cambio in corsa del Porcellum. Un patto con il Pd per cambiare l’architettura costituzionale e il sistema elettorale «a trazione bipolarista». E, non c’è bisogno di dirlo, presidenzialista.

Una sorta di riedizione del «patto per l’Italia» che Berlusconi ventilava di proporre a Veltroni nel 2008. Quell’ipotesi (mai realizzata) di «coalizione trasversale» per un dialogo sui temi sensibili. Quello che Giuliano Ferrara chiamava il “Caw, Silvio più Walter”, e gli scettici temevano come «patto del Minotauro».
Quattro anni dopo, la scena si ripete. Anche se il Pd sente odore di bruciato, intuisce che il sospetto di inciucio è dietro l’angolo, e si smarca dalle tentazioni pericolose: disponibili al confronto con tutti, è la nota ufficiale del partito, senza preclusioni e se il tavolo è alla luce del sole in Parlamento.
«Il voto degli italiani si disperde in una miriade di partiti e partitini
– argomenta il Cavaliere accomunando realtà molto diverse – La sinistra di Vendola, i Grillini, IdV, Fli, Lega, Udc, Radicali». Per compiere la transizione, tocca ai due partiti maggiori prendere in mano la situazione: non per tagliare le ali, per carità, ma per “trainare” il bipolarismo fuori dalla finora con-
naturata imperfezione. E dunque, a Bersani propone di ragionare intorno alla proposta Quagliariello: nella sostanza, un proporzionale con ampi correttivi maggioritari, un mix di tedesco con soglia di sbarramento al 5% e di spagnolo con collegi molto personalizzati,metà preferenze e metà liste bloccate. Un ibrido che avvantaggia i partiti grandi senza distruggere i medi come Udc e Lega ma togliendo loro il potere di ago della bilancia. Un avviso a Casini e al Senatùr. Ma soprattutto a suoi in tumulto.
Berlusconi, per dirla alla Santanché, è finalmente «salito a bordo». Della corazzata di via dell’Umiltà, ammaccata e immalinconita dall’attesa di un voto amministrativo pronosticato come «la débacle perfetta», ma pur sempre partitone del 23%. Vuoi che abbia superato il trauma da defenestrazione da Palazzo Chigi, vuoi che abbia elaborato il lutto della rottura con Bossi, vuoi – infine – che Denis Verdini sia riuscito a fargli capire che il rischio della deflagrazione primaverile della sua creatura è a portata di mano, in ogni caso adesso Silvio c’è. A Palazzo Chigi ha fatto arrivare tutta la sua inquietudine, acuita dallo spettro del precedente Dini (nella mente del Cavaliereun vero spartiacque che il tempo non appanna),per un governo tecnico protagonista, presenzialista e attento al consenso popolare a poco più di un anno dalla scadenza della legislatura. La paura, condivisa con Alfano e Cicchitto, di trovarsi a breve con una scissione dentro casa (gli ex An: un ennesimo “partitino” con cui fare i conti) e quelli che percepisce come i veri rivali – Passera, Riccardi, Fornero – società civile scesi in campo per «salvare il Paese» chepotrebbe prendere gusto alla politica.
UN INCUBO
A Mario Monti, che sarà tecnico ma non è fesso, l’imprenditore di Arcore ha esposto quindi il suo problema di rappresentanza degli interessi della “sua” parte politica. Il premier ha ascoltato con interesse. E fatto sta che l’articolo 18 è tornato al centro della partita sulla riforma del lavoro. A ruota, Berlusconi è tornato a fare titolo di prima pagina. Così Vittorio Feltri può scrivere sul Giornale «coraggio Monti, cancella l’articolo 18 per decreto, se poi il sindacato rosso e il suo referente, il Pd, si impunteranno e faranno cadere il governo, sapremo di chi è la responsabilità». Così Belpietro può scrivere su Libero: «Il Cav si sveglia, ne avrà per tutti, Bossi compreso, ne vedremo delle belle». Al di là della stampa di centrodestra, le reazioni sono tiepide. La Russa accelera: già martedì le prime consultazioni. Un incontro a Montecitorio Pd-Pdl. Bressa, Violante e Zanda in missione. Il Pd però vedrà tutti. «Disponibili a discutere sulla riforma elettorale con tutte le forze politiche che intendono superare il Porcellum – avverte Migliavacca – Ma senza esclusioni e se il tavolo del confronto è il Parlamento». Il finiano Briguglio fa del sarcasmo sull’ex «presidente operaio» tramutatosi in «compagno Silvio». IdV denuncia la «proposta indecente»: un «accordo-truffa a due anti-piccoli». Sorniona, l’Udc per boc- ca di Cesa apprezza il Berlusconi dialogante.

L’Unità 06.02.12

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“Le manovre del Cavaliere che vuole rientrare in gioco”, di Michele Ciliberto

In Italia si stanno ponendo le basi per la nascita di una destra di tipo nuovo, estranea ai modelli della democrazia dispotica di Berlusconi. Per questo su Monti ha improvvisamente cambiato linea. Un sentiero stretto. Il Pd deve impedire che il costo della crisi si scarichi sugli strati più deboli con l’argomento, in larga parte retorico, secondo cui così si salva il futuro delle «nuove generazioni». In questi giorni sono accadute cose inquietanti: le nomine alla Rai imposte da Pdl e Lega, il voto della Camera a favore di una norma contro i magistrati, gli emendamenti in Senato per frenare le liberalizzazioni. A loro volta i giornali di destra, approfittando della situazione per spingere il Pdl fuori dall’angolo, si sono messi a dare giudizi assai positivi sul governo Monti, cercando di annetterlo al loro schieramento e contrapponendolo direttamente al Pd.
Sono manovre comprensibili, come è comprensibile che Berlusconi cerchi di rientrare nel gioco politico, nei modi e nelle forme possibili. Dispone ancora di una significativa forza elettorale, né ha rinunciato a svolgere un ruolo nel nostro Paese. Non credo però che abbia reali spazi di manovra: in Italia, tutto il sistema politico è entrato in una fase di crisi e di trasformazione, e si stanno ponendo le basi anche per la nascita di una destra di tipo nuovo, estranea ai modelli della democrazia dispotica berlusconiana. Questo è il punto centrale su cui riflettere.
Una volta Andreotti disse che la Democrazia cristiana era come la cozza che pulisce e filtra l’acqua nera, alludendo alla funzione che il suo partito svolgeva impedendo che si affermasse in Italia, quale forza di governo, un partito di destra come è poi avvenuto con la fine della Dc e con l’avvento di Berlusconi. Oggi si sono riaperte le condizioni per costruire nel nostro Paese una destra di tipo moderno, europeo. Ma una prospettiva di questo tipo è legata a due elementi strettamente connessi: alla funzione che il governo Monti riesce a svolgere e, in questo quadro, al rapporto che si stabilisce fra il governo Monti e il Partito democratico.
È naturale che ci possano essere contrasti e differenze, anche profonde, di valutazione. Sarebbe singolare il contrario, così come sarebbe ingenuo sorprendersi per le prese di posizione di Monti in questi giorni sulla «monotonia» del posto fisso, sull’articolo 18, sulla necessità di procedere a un’organica, e drastica, riforma del mercato del lavoro coerente con gli orientamenti della Bce… Monti non ha mai nascosto queste sue posizioni: i governi «tecnici» non esistono; sono sempre, direttamente e indirettamente, espressioni di forze sociali ed economiche, di interessi, e su questi basano la loro forza e anche il loro consenso.
Né è immaginabile che il Pd non fosse consapevole di questo e della direzione che Monti avrebbe dato al suo governo. Per senso di responsabilità ha deciso di rinunciare alle elezioni e di sostenere la nascita di un nuovo governo, con il mandato e questa è stata la ragione fondamentale della sua scelta di portare il Paese fuori dalla crisi in cui era precipitato, sia per la situazione internazionale che per responsabilità specifiche del governo Berlusconi.
Monti e il Pd vengono entrambi da molto lontano (come si sarebbe detto una volta), né è facile o scontata la loro collaborazione. Ma essa è fondamentale, in questo momento, sia per dare una prospettiva all’Italia sia per mettere su nuove basi l’intero sistema politico. E tanto più essa sarà feconda quanto più il Pd farà sentire la sua forza cercando, senza venir meno alla propria responsabilità nazionale, di far in modo che il costo della crisi e del suo superamento non si scarichi sugli strati più deboli e sulle classi lavoratrici sfruttando l’argomento, in larga parte retorico, secondo cui in questo modo si salva il futuro delle «nuove generazioni».
Il Pd deve dire, giorno dopo giorno, che la posta in gioco è altissima; deve convogliare intorno a sé tutte le forze che vogliono riformare in senso progressista questo Paese; deve rendere chiaro che siamo in una situazione eccezionale, che richiede sforzi eccezionali; deve spiegare i motivi per i quali sostiene questo governo, impedendo che esso faccia scelte conservatrici.
Non è una strada facile né lineare, ma è l’unica che oggi si possa seguire se si vuol dare una prospettiva all’Italia, ponendo su nuove basi il nostro sistema democratico e costruendo un bipolarismo che non si risolva, come è avvenuto con Berlusconi, nella rinascita del nostro vecchio, e tradizionale, trasformismo.
Come dicevano gli antichi, il futuro è sulle ginocchia di Giove. Ma due cose appaiono certe: nonostante le avances dei suoi «trombetti», Berlusconi non ha niente a che fare con tutto questo. Una nuova storia potrà nascere solo se Monti e il Pd riusciranno a trovare un «punto dell’unione», riconoscendo reciprocamente le loro ragioni.

L’Unità 06.02.12

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“Berlusconi, contrattacco per smarcarsi dalla Lega”, di UGO MAGRI

Berlusconi scodella in un’intervista (a «Libero») quanto andava sostenendo da qualche giorno nel conciliaboli di partito, con tutti che gli dicevano «Silvio, vacci piano con questi discorsi…». Piano, perché il Cavaliere è arrivato alla convinzione che la salute della Repubblica passi attraverso un’intesa tra Pdl e Pd. Vale a dire con gli odiati «comunisti» per i quali prova adesso una sorta di innamoramento. Non è la prima volta. Anche nel 2006, subito dopo la striminzita vittoria elettorale di Prodi, Berlusconi aveva teso la mano, salvo ritirarla due anni dopo, quando in sella ritornò lui. La novità dell’intervista, raccolta da Salvatore Dama, consiste nel tono alto, quasi una palingenesi per la democrazia italiana, tale da far esclamare l’exministro Rotondi: «Berlusconi ragiona da statista!». Il senso è: governare con queste regole è una tragedia, quindi «tornare a Palazzo Chigi con l’attuale architettura istituzionale sarebbe inutile»; meglio lanciare in pista Alfano, «giovane bravissimo». Il dialogo con Bersani & C serve a rimettere il Paese sulle gambe, «bisogna lavorare con loro sulle riforma istituzionale». Anche sulla giustizia? «Perché no», conferma Berlusconi, «in fondo 40 loro deputati hanno votato per la responsabilità civile dei magistrati…». E’ uno scenario da «governissimo»: non adesso, perché alla guida del governo c’è Monti, il quale «è molto bravo». La prospettiva rigurda un domani ancora tutto da costruire. E non a caso la precisazione «soft» messa a punto da Bonaiuti, portavoce del premier, ridimensiona l’intervista a ragionamento «sul filo del paradosso, proiettato verso un futuro non facilmente prevedibile». Insomma, nulla che riguardi il presente.

In verità, un riscontro con l’oggi ci sarebbe. Berlusconi indica nella legge elettorale il terreno su cui «il dialogo non può non essere col Pd». Perché i due partiti più grossi, insieme, possono rimettere tutti gli altri al posto loro. Attualmente il voto degli italiani «si disperde tra una miriade di sigle» che elenca: la sinistra radicale di Vendola, i grillini, Di Pietro, i Radicali, Fini, l’Udc di Casini, la Lega… Tutti guastafeste che confondono le idee alla gente, difatti «il 46 per cento non sa chi votare e se andare a votare». Per questo, butta lì, «sarebbe opportuno alzare la soglia di sbarramento». Berlusconi la immagina parecchio in alto; talmente lassù, che nemmeno Casini ci potrà arrivare.

I centristi dovrebbero preoccuparsi, invece col segretario Udc Cesa rispondono un filo sfottenti (bene, bravo, finalmente pure il Cavaliere «capisce che i comunisti non esistono più»). Sono sereni in quanto Bersani non ha intenzione di reggere il sacco all’uomo di Arcore. Il segretario Pd è già di suo parecchio nervoso per le «provocazioni» subite in materia di Rai e di giustizia, ieri ha invitato il Pdl «a darsi una regolata». Addirittura, l’uscita di Berlusconi pare abbia permesso a Bersani di guadagnare punti con Casini promettendo che la riforma elettorale sarà rispettosa del Terzo Polo, con cui il Pd si vorrebbe alleare. Cicchitto, capogruppo berlusconiano alla Camera, è corso ai ripari sostenendo che pure il Pdl vuole tanto bene ai centristi, con loro vorrebbe costruire addirittura un soggetto politico insieme. Ma l’intervista a «Libero» rischia di danneggiare pure l’iniziativa importante che verrà sviluppata in settimana da Quagliariello e da La Russa: vere e proprie consultazioni sulla riforma del Porcellum, a partire da domattina con la Lega e nel pomeriggio con il Pd. I due esponenti Pdl non sottoporranno alcuna proposta specifica, tenendo la porta aperta a tutte le soluzioni, pur privilegiando il modello spagnolo. Se sotto sotto puntavano a qualche intesa privilegiata con il Pd, in danno di tutti gli altri, Berlusconi ha reso scoperto il gioco. A questo punto nessuno ci cascherà più.

La Stampa 0.02.12

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“Il Cavaliere riapre i giochi”, di MARCELLO SORGI

Una novità imprevista si affaccia nel quadro politico congelato dal governo Monti: Berlusconi non sta pensando a restaurare l’asse con la Lega, ma a tentare l’accordo con il Pd su una nuova legge elettorale. È il Cavaliere stesso a dirlo in un colloquio con Libero , mentre dal Giornale Giuliano Ferrara gli suggerisce di trattare a tutto campo, mettendo in conto anche la possibilità di una sistema maggioritario a doppio turno come quello francese. Le conseguenze di una simile riforma sarebbero di capovolgimento della tendenza considerata al momento più diffusa: mentre infatti in molti sono disposti a scommettere che la conclusione della legislatura segnerà, con o senza la riforma, la fine dell’assetto bipolare che ha caratterizzato la Seconda Repubblica, da un accordo PdlPd, sia il bipolarismo, sia i due partiti maggiori, uscirebbero molto rafforzati. Che poi Berlusconi sia disposto a spendersi fino in fondo per limitare le prospettive del Terzo polo e che il Pd sia in grado di mettere da parte una volta e per tutte l’antiberlusconismo pregiudiziale che, a parte la Bicamerale, lo ha sempre caratterizzato, per trattare con il Cavaliere, è ancora tutto da vedere.

Prove di intelligenza con il nemico sono in corso da un po’ al Senato e alla Camera. Ma risultati concreti ancora non se ne sono visti.

La ragione di queste difficoltà è presto detta: i partiti italiani da tempo non sono più in grado di trattare in modo pragmatico su singole issues, come avviene in tutte le democrazie occidentali, senza rimettere in discussione il resto. Per fare solo un esempio recente, in Inghilterra dopo le ultime elezioni politiche che non avevano sancito nessun vincitore, i conservatori di Cameron e i lib-dem di Clegg hanno formato un governo di coalizione basato anche sull’impegno reciproco di riformare il sistema uninominale maggioritario secco, che non sembrava più garantire l’alternanza tra laburisti e tories. Sottoposta a referendum, questa eventualità è stata scartata dagli elettori, senza che poi per questo si aprisse una crisi di governo. Una cosa del genere da noi sarebbe impensabile: e la vera ragione per cui la Lega minaccia di far cadere la giunta della Regione Lombardia in questi giorni, non è tanto il sostegno dato a Monti da Berlusconi mentre il Carroccio passava all’opposizione. Ma appunto il rischio, inaccettabile per Bossi, che all’ombra di questo governo Berlusconi trovi un’intesa con il Pd per cambiare la legge elettorale.

I referendum elettorali bocciati il mese scorso dalla Corte Costituzionale avrebbero potuto costringere tutti a una trattativa più serrata, essendo scontato che se fossero stati ammessi la maggioranza degli elettori avrebbe votato a favore dell’abrogazione dell’attuale contestatissimo Porcellum. Adesso invece i partiti si trovano nella scomoda posizione di temere, ciascuno per conto suo, che gli altri si mettano d’accordo a proprio discapito. Di qui la riapertura di un gioco in cui ognuno ha almeno due possibilità di scelta. E infatti, assodato che Berlusconi, per chiudere con il Pd, dovrebbe apertamente rompere con la Lega, la stessa cosa vale per i rapporti tra Bersani e Casini. Al Senato infatti (dove, sia detto per inciso, giacciono una quarantina di diverse proposte di riforma elettorale) l’ala veltroniana che fa capo a Morando, Tonini e Ceccanti ha un discorso aperto con il vicecapogruppo del Pdl Quagliariello. Obiettivo: salvare a qualsiasi costo il bipolarismo, per non consentire il propugnato (dai terzisti) ritorno a una riedizione del centrismo democristiano. Mentre alla Camera Violante (non più parlamentare, ma ancora autorevolmente in campo su questa materia), Franceschini e Bressa trattano più volentieri con Casini su un sistema di tipo tedesco o spagnolo (proporzionale ma anche bipolare), valutando in questo caso, non solo le regole elettorali, ma anche la possibilità di un alleanza tra Terzo polo e centrosinistra per il prossimo governo. Inoltre Franceschini ha avanzato la proposta cosiddetta «del proporzionale per una volta sola»: eleggere proporzionalmente, senza alcuna limitazione come ai tempi della Prima Repubblica, un Parlamento costituente che si incarichi una volta e per tutte della riforma della Costituzione, rinviando a subito dopo la gara, con regole elettorali da stabilirsi, per chi dovrà governare il Paese.

C’è dunque una complicata antologia di proposte, di fronte alla quale non c’è dubbio che la proposta di Berlusconi sposti in avanti la discussione. Se davvero, come dice, il Cavaliere non si sente più vincolato all’asse con Bossi (che d’altra parte ripete la stessa cosa), e se è disposto a trattare senza pregiudiziali con il Pd, approfittando del comune sostegno al governo Monti che lo pone in una posizione meno antagonistica rispetto a Bersani, la riforma, da improbabile che era, diventa possibile. E non perché i due maggiori partiti debbano farla necessariamente nel loro interesse e contro quello di tutti gli altri, a cominciare dal Terzo polo. Ma al contrario perché, se Pdl e Pd sono in campo, e prendono in considerazione un accordo diretto, anche gli altri devono necessariamente darsi una mossa.

Da questo punto di vista, il sistema francese a doppio turno, da sempre scartato in Italia, vuoi, a suo tempo, per le riserve democristiane, vuoi, più di recente per i timori della destra (entrambe ritenevano che la scelta secca incoraggiasse di più la maggioranza di elettori moderati a manifestarsi), da implausibile che era, è destinato a diventare almeno un buon argomento di discussione. Nel primo turno, infatti, contiene un buon tasso di proporzionale (tutti o quasi tutti i partiti possono presentarsi e le intese locali diventano necessarie per un’equilibrata rappresentanza parlamentare). Nel secondo turno costringe ad alleanze trasparenti, che difficilmente possono essere capovolte con il trasformismo o soggette al ribaltonismo.

Una cura possibile per le più recenti e insidiose malattie italiane, che nell’ultima legislatura, non va dimenticato, sono riuscite ad atterrare anche una maggioranza fortissima come quella (ex) di Berlusconi. Il cui impegno diretto nella trattativa, tuttavia, non è detto serva a sbloccare la discussione. La politica italiana, si sa, a volte preferisce convivere con i suoi mali. O peggio ancora, sopravvivere grazie ad essi.

La Stampa 06.02.12

“Il «paradosso» di Silvio. Ora vuole riforme condivise”, di Federica Fantozzi

Al Nazareno prima sono arrivati, pressanti e suadenti, gli ambasciatori del Pdl sulla legge elettorale. Poi, il «ragionamento sul filo del paradosso» fatto da Silvio Berlusconi a Libero, ha esplicitato l’offerta.

Un tavolo per le riforme a tamburo battente e un cambio in corsa del Porcellum. Un patto con il Pd per cambiare l’architettura costituzionale e il sistema elettorale «a trazione bipolarista». E, non c’è bisogno di dirlo, presidenzialista.

Una sorta di riedizione del «patto per l’Italia» che Berlusconi ventilava di proporre a Veltroni nel 2008. Quell’ipotesi (mai realizzata) di «coalizione trasversale» per un dialogo sui temi sensibili. Quello che Giuliano Ferrara chiamava il “Caw, Silvio più Walter”, e gli scettici temevano come «patto del Minotauro».
Quattro anni dopo, la scena si ripete. Anche se il Pd sente odore di bruciato, intuisce che il sospetto di inciucio è dietro l’angolo, e si smarca dalle tentazioni pericolose: disponibili al confronto con tutti, è la nota ufficiale del partito, senza preclusioni e se il tavolo è alla luce del sole in Parlamento.
«Il voto degli italiani si disperde in una miriade di partiti e partitini
– argomenta il Cavaliere accomunando realtà molto diverse – La sinistra di Vendola, i Grillini, IdV, Fli, Lega, Udc, Radicali». Per compiere la transizione, tocca ai due partiti maggiori prendere in mano la situazione: non per tagliare le ali, per carità, ma per “trainare” il bipolarismo fuori dalla finora con-
naturata imperfezione. E dunque, a Bersani propone di ragionare intorno alla proposta Quagliariello: nella sostanza, un proporzionale con ampi correttivi maggioritari, un mix di tedesco con soglia di sbarramento al 5% e di spagnolo con collegi molto personalizzati,metà preferenze e metà liste bloccate. Un ibrido che avvantaggia i partiti grandi senza distruggere i medi come Udc e Lega ma togliendo loro il potere di ago della bilancia. Un avviso a Casini e al Senatùr. Ma soprattutto a suoi in tumulto.
Berlusconi, per dirla alla Santanché, è finalmente «salito a bordo». Della corazzata di via dell’Umiltà, ammaccata e immalinconita dall’attesa di un voto amministrativo pronosticato come «la débacle perfetta», ma pur sempre partitone del 23%. Vuoi che abbia superato il trauma da defenestrazione da Palazzo Chigi, vuoi che abbia elaborato il lutto della rottura con Bossi, vuoi – infine – che Denis Verdini sia riuscito a fargli capire che il rischio della deflagrazione primaverile della sua creatura è a portata di mano, in ogni caso adesso Silvio c’è. A Palazzo Chigi ha fatto arrivare tutta la sua inquietudine, acuita dallo spettro del precedente Dini (nella mente del Cavaliereun vero spartiacque che il tempo non appanna),per un governo tecnico protagonista, presenzialista e attento al consenso popolare a poco più di un anno dalla scadenza della legislatura. La paura, condivisa con Alfano e Cicchitto, di trovarsi a breve con una scissione dentro casa (gli ex An: un ennesimo “partitino” con cui fare i conti) e quelli che percepisce come i veri rivali – Passera, Riccardi, Fornero – società civile scesi in campo per «salvare il Paese» chepotrebbe prendere gusto alla politica.
UN INCUBO
A Mario Monti, che sarà tecnico ma non è fesso, l’imprenditore di Arcore ha esposto quindi il suo problema di rappresentanza degli interessi della “sua” parte politica. Il premier ha ascoltato con interesse. E fatto sta che l’articolo 18 è tornato al centro della partita sulla riforma del lavoro. A ruota, Berlusconi è tornato a fare titolo di prima pagina. Così Vittorio Feltri può scrivere sul Giornale «coraggio Monti, cancella l’articolo 18 per decreto, se poi il sindacato rosso e il suo referente, il Pd, si impunteranno e faranno cadere il governo, sapremo di chi è la responsabilità». Così Belpietro può scrivere su Libero: «Il Cav si sveglia, ne avrà per tutti, Bossi compreso, ne vedremo delle belle». Al di là della stampa di centrodestra, le reazioni sono tiepide. La Russa accelera: già martedì le prime consultazioni. Un incontro a Montecitorio Pd-Pdl. Bressa, Violante e Zanda in missione. Il Pd però vedrà tutti. «Disponibili a discutere sulla riforma elettorale con tutte le forze politiche che intendono superare il Porcellum – avverte Migliavacca – Ma senza esclusioni e se il tavolo del confronto è il Parlamento». Il finiano Briguglio fa del sarcasmo sull’ex «presidente operaio» tramutatosi in «compagno Silvio». IdV denuncia la «proposta indecente»: un «accordo-truffa a due anti-piccoli». Sorniona, l’Udc per boc- ca di Cesa apprezza il Berlusconi dialogante.

L’Unità 06.02.12

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“Le manovre del Cavaliere che vuole rientrare in gioco”, di Michele Ciliberto

In Italia si stanno ponendo le basi per la nascita di una destra di tipo nuovo, estranea ai modelli della democrazia dispotica di Berlusconi. Per questo su Monti ha improvvisamente cambiato linea. Un sentiero stretto. Il Pd deve impedire che il costo della crisi si scarichi sugli strati più deboli con l’argomento, in larga parte retorico, secondo cui così si salva il futuro delle «nuove generazioni». In questi giorni sono accadute cose inquietanti: le nomine alla Rai imposte da Pdl e Lega, il voto della Camera a favore di una norma contro i magistrati, gli emendamenti in Senato per frenare le liberalizzazioni. A loro volta i giornali di destra, approfittando della situazione per spingere il Pdl fuori dall’angolo, si sono messi a dare giudizi assai positivi sul governo Monti, cercando di annetterlo al loro schieramento e contrapponendolo direttamente al Pd.
Sono manovre comprensibili, come è comprensibile che Berlusconi cerchi di rientrare nel gioco politico, nei modi e nelle forme possibili. Dispone ancora di una significativa forza elettorale, né ha rinunciato a svolgere un ruolo nel nostro Paese. Non credo però che abbia reali spazi di manovra: in Italia, tutto il sistema politico è entrato in una fase di crisi e di trasformazione, e si stanno ponendo le basi anche per la nascita di una destra di tipo nuovo, estranea ai modelli della democrazia dispotica berlusconiana. Questo è il punto centrale su cui riflettere.
Una volta Andreotti disse che la Democrazia cristiana era come la cozza che pulisce e filtra l’acqua nera, alludendo alla funzione che il suo partito svolgeva impedendo che si affermasse in Italia, quale forza di governo, un partito di destra come è poi avvenuto con la fine della Dc e con l’avvento di Berlusconi. Oggi si sono riaperte le condizioni per costruire nel nostro Paese una destra di tipo moderno, europeo. Ma una prospettiva di questo tipo è legata a due elementi strettamente connessi: alla funzione che il governo Monti riesce a svolgere e, in questo quadro, al rapporto che si stabilisce fra il governo Monti e il Partito democratico.
È naturale che ci possano essere contrasti e differenze, anche profonde, di valutazione. Sarebbe singolare il contrario, così come sarebbe ingenuo sorprendersi per le prese di posizione di Monti in questi giorni sulla «monotonia» del posto fisso, sull’articolo 18, sulla necessità di procedere a un’organica, e drastica, riforma del mercato del lavoro coerente con gli orientamenti della Bce… Monti non ha mai nascosto queste sue posizioni: i governi «tecnici» non esistono; sono sempre, direttamente e indirettamente, espressioni di forze sociali ed economiche, di interessi, e su questi basano la loro forza e anche il loro consenso.
Né è immaginabile che il Pd non fosse consapevole di questo e della direzione che Monti avrebbe dato al suo governo. Per senso di responsabilità ha deciso di rinunciare alle elezioni e di sostenere la nascita di un nuovo governo, con il mandato e questa è stata la ragione fondamentale della sua scelta di portare il Paese fuori dalla crisi in cui era precipitato, sia per la situazione internazionale che per responsabilità specifiche del governo Berlusconi.
Monti e il Pd vengono entrambi da molto lontano (come si sarebbe detto una volta), né è facile o scontata la loro collaborazione. Ma essa è fondamentale, in questo momento, sia per dare una prospettiva all’Italia sia per mettere su nuove basi l’intero sistema politico. E tanto più essa sarà feconda quanto più il Pd farà sentire la sua forza cercando, senza venir meno alla propria responsabilità nazionale, di far in modo che il costo della crisi e del suo superamento non si scarichi sugli strati più deboli e sulle classi lavoratrici sfruttando l’argomento, in larga parte retorico, secondo cui in questo modo si salva il futuro delle «nuove generazioni».
Il Pd deve dire, giorno dopo giorno, che la posta in gioco è altissima; deve convogliare intorno a sé tutte le forze che vogliono riformare in senso progressista questo Paese; deve rendere chiaro che siamo in una situazione eccezionale, che richiede sforzi eccezionali; deve spiegare i motivi per i quali sostiene questo governo, impedendo che esso faccia scelte conservatrici.
Non è una strada facile né lineare, ma è l’unica che oggi si possa seguire se si vuol dare una prospettiva all’Italia, ponendo su nuove basi il nostro sistema democratico e costruendo un bipolarismo che non si risolva, come è avvenuto con Berlusconi, nella rinascita del nostro vecchio, e tradizionale, trasformismo.
Come dicevano gli antichi, il futuro è sulle ginocchia di Giove. Ma due cose appaiono certe: nonostante le avances dei suoi «trombetti», Berlusconi non ha niente a che fare con tutto questo. Una nuova storia potrà nascere solo se Monti e il Pd riusciranno a trovare un «punto dell’unione», riconoscendo reciprocamente le loro ragioni.

L’Unità 06.02.12

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“Berlusconi, contrattacco per smarcarsi dalla Lega”, di UGO MAGRI

Berlusconi scodella in un’intervista (a «Libero») quanto andava sostenendo da qualche giorno nel conciliaboli di partito, con tutti che gli dicevano «Silvio, vacci piano con questi discorsi…». Piano, perché il Cavaliere è arrivato alla convinzione che la salute della Repubblica passi attraverso un’intesa tra Pdl e Pd. Vale a dire con gli odiati «comunisti» per i quali prova adesso una sorta di innamoramento. Non è la prima volta. Anche nel 2006, subito dopo la striminzita vittoria elettorale di Prodi, Berlusconi aveva teso la mano, salvo ritirarla due anni dopo, quando in sella ritornò lui. La novità dell’intervista, raccolta da Salvatore Dama, consiste nel tono alto, quasi una palingenesi per la democrazia italiana, tale da far esclamare l’exministro Rotondi: «Berlusconi ragiona da statista!». Il senso è: governare con queste regole è una tragedia, quindi «tornare a Palazzo Chigi con l’attuale architettura istituzionale sarebbe inutile»; meglio lanciare in pista Alfano, «giovane bravissimo». Il dialogo con Bersani & C serve a rimettere il Paese sulle gambe, «bisogna lavorare con loro sulle riforma istituzionale». Anche sulla giustizia? «Perché no», conferma Berlusconi, «in fondo 40 loro deputati hanno votato per la responsabilità civile dei magistrati…». E’ uno scenario da «governissimo»: non adesso, perché alla guida del governo c’è Monti, il quale «è molto bravo». La prospettiva rigurda un domani ancora tutto da costruire. E non a caso la precisazione «soft» messa a punto da Bonaiuti, portavoce del premier, ridimensiona l’intervista a ragionamento «sul filo del paradosso, proiettato verso un futuro non facilmente prevedibile». Insomma, nulla che riguardi il presente.

In verità, un riscontro con l’oggi ci sarebbe. Berlusconi indica nella legge elettorale il terreno su cui «il dialogo non può non essere col Pd». Perché i due partiti più grossi, insieme, possono rimettere tutti gli altri al posto loro. Attualmente il voto degli italiani «si disperde tra una miriade di sigle» che elenca: la sinistra radicale di Vendola, i grillini, Di Pietro, i Radicali, Fini, l’Udc di Casini, la Lega… Tutti guastafeste che confondono le idee alla gente, difatti «il 46 per cento non sa chi votare e se andare a votare». Per questo, butta lì, «sarebbe opportuno alzare la soglia di sbarramento». Berlusconi la immagina parecchio in alto; talmente lassù, che nemmeno Casini ci potrà arrivare.

I centristi dovrebbero preoccuparsi, invece col segretario Udc Cesa rispondono un filo sfottenti (bene, bravo, finalmente pure il Cavaliere «capisce che i comunisti non esistono più»). Sono sereni in quanto Bersani non ha intenzione di reggere il sacco all’uomo di Arcore. Il segretario Pd è già di suo parecchio nervoso per le «provocazioni» subite in materia di Rai e di giustizia, ieri ha invitato il Pdl «a darsi una regolata». Addirittura, l’uscita di Berlusconi pare abbia permesso a Bersani di guadagnare punti con Casini promettendo che la riforma elettorale sarà rispettosa del Terzo Polo, con cui il Pd si vorrebbe alleare. Cicchitto, capogruppo berlusconiano alla Camera, è corso ai ripari sostenendo che pure il Pdl vuole tanto bene ai centristi, con loro vorrebbe costruire addirittura un soggetto politico insieme. Ma l’intervista a «Libero» rischia di danneggiare pure l’iniziativa importante che verrà sviluppata in settimana da Quagliariello e da La Russa: vere e proprie consultazioni sulla riforma del Porcellum, a partire da domattina con la Lega e nel pomeriggio con il Pd. I due esponenti Pdl non sottoporranno alcuna proposta specifica, tenendo la porta aperta a tutte le soluzioni, pur privilegiando il modello spagnolo. Se sotto sotto puntavano a qualche intesa privilegiata con il Pd, in danno di tutti gli altri, Berlusconi ha reso scoperto il gioco. A questo punto nessuno ci cascherà più.

La Stampa 0.02.12

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“Il Cavaliere riapre i giochi”, di MARCELLO SORGI

Una novità imprevista si affaccia nel quadro politico congelato dal governo Monti: Berlusconi non sta pensando a restaurare l’asse con la Lega, ma a tentare l’accordo con il Pd su una nuova legge elettorale. È il Cavaliere stesso a dirlo in un colloquio con Libero , mentre dal Giornale Giuliano Ferrara gli suggerisce di trattare a tutto campo, mettendo in conto anche la possibilità di una sistema maggioritario a doppio turno come quello francese. Le conseguenze di una simile riforma sarebbero di capovolgimento della tendenza considerata al momento più diffusa: mentre infatti in molti sono disposti a scommettere che la conclusione della legislatura segnerà, con o senza la riforma, la fine dell’assetto bipolare che ha caratterizzato la Seconda Repubblica, da un accordo PdlPd, sia il bipolarismo, sia i due partiti maggiori, uscirebbero molto rafforzati. Che poi Berlusconi sia disposto a spendersi fino in fondo per limitare le prospettive del Terzo polo e che il Pd sia in grado di mettere da parte una volta e per tutte l’antiberlusconismo pregiudiziale che, a parte la Bicamerale, lo ha sempre caratterizzato, per trattare con il Cavaliere, è ancora tutto da vedere.

Prove di intelligenza con il nemico sono in corso da un po’ al Senato e alla Camera. Ma risultati concreti ancora non se ne sono visti.

La ragione di queste difficoltà è presto detta: i partiti italiani da tempo non sono più in grado di trattare in modo pragmatico su singole issues, come avviene in tutte le democrazie occidentali, senza rimettere in discussione il resto. Per fare solo un esempio recente, in Inghilterra dopo le ultime elezioni politiche che non avevano sancito nessun vincitore, i conservatori di Cameron e i lib-dem di Clegg hanno formato un governo di coalizione basato anche sull’impegno reciproco di riformare il sistema uninominale maggioritario secco, che non sembrava più garantire l’alternanza tra laburisti e tories. Sottoposta a referendum, questa eventualità è stata scartata dagli elettori, senza che poi per questo si aprisse una crisi di governo. Una cosa del genere da noi sarebbe impensabile: e la vera ragione per cui la Lega minaccia di far cadere la giunta della Regione Lombardia in questi giorni, non è tanto il sostegno dato a Monti da Berlusconi mentre il Carroccio passava all’opposizione. Ma appunto il rischio, inaccettabile per Bossi, che all’ombra di questo governo Berlusconi trovi un’intesa con il Pd per cambiare la legge elettorale.

I referendum elettorali bocciati il mese scorso dalla Corte Costituzionale avrebbero potuto costringere tutti a una trattativa più serrata, essendo scontato che se fossero stati ammessi la maggioranza degli elettori avrebbe votato a favore dell’abrogazione dell’attuale contestatissimo Porcellum. Adesso invece i partiti si trovano nella scomoda posizione di temere, ciascuno per conto suo, che gli altri si mettano d’accordo a proprio discapito. Di qui la riapertura di un gioco in cui ognuno ha almeno due possibilità di scelta. E infatti, assodato che Berlusconi, per chiudere con il Pd, dovrebbe apertamente rompere con la Lega, la stessa cosa vale per i rapporti tra Bersani e Casini. Al Senato infatti (dove, sia detto per inciso, giacciono una quarantina di diverse proposte di riforma elettorale) l’ala veltroniana che fa capo a Morando, Tonini e Ceccanti ha un discorso aperto con il vicecapogruppo del Pdl Quagliariello. Obiettivo: salvare a qualsiasi costo il bipolarismo, per non consentire il propugnato (dai terzisti) ritorno a una riedizione del centrismo democristiano. Mentre alla Camera Violante (non più parlamentare, ma ancora autorevolmente in campo su questa materia), Franceschini e Bressa trattano più volentieri con Casini su un sistema di tipo tedesco o spagnolo (proporzionale ma anche bipolare), valutando in questo caso, non solo le regole elettorali, ma anche la possibilità di un alleanza tra Terzo polo e centrosinistra per il prossimo governo. Inoltre Franceschini ha avanzato la proposta cosiddetta «del proporzionale per una volta sola»: eleggere proporzionalmente, senza alcuna limitazione come ai tempi della Prima Repubblica, un Parlamento costituente che si incarichi una volta e per tutte della riforma della Costituzione, rinviando a subito dopo la gara, con regole elettorali da stabilirsi, per chi dovrà governare il Paese.

C’è dunque una complicata antologia di proposte, di fronte alla quale non c’è dubbio che la proposta di Berlusconi sposti in avanti la discussione. Se davvero, come dice, il Cavaliere non si sente più vincolato all’asse con Bossi (che d’altra parte ripete la stessa cosa), e se è disposto a trattare senza pregiudiziali con il Pd, approfittando del comune sostegno al governo Monti che lo pone in una posizione meno antagonistica rispetto a Bersani, la riforma, da improbabile che era, diventa possibile. E non perché i due maggiori partiti debbano farla necessariamente nel loro interesse e contro quello di tutti gli altri, a cominciare dal Terzo polo. Ma al contrario perché, se Pdl e Pd sono in campo, e prendono in considerazione un accordo diretto, anche gli altri devono necessariamente darsi una mossa.

Da questo punto di vista, il sistema francese a doppio turno, da sempre scartato in Italia, vuoi, a suo tempo, per le riserve democristiane, vuoi, più di recente per i timori della destra (entrambe ritenevano che la scelta secca incoraggiasse di più la maggioranza di elettori moderati a manifestarsi), da implausibile che era, è destinato a diventare almeno un buon argomento di discussione. Nel primo turno, infatti, contiene un buon tasso di proporzionale (tutti o quasi tutti i partiti possono presentarsi e le intese locali diventano necessarie per un’equilibrata rappresentanza parlamentare). Nel secondo turno costringe ad alleanze trasparenti, che difficilmente possono essere capovolte con il trasformismo o soggette al ribaltonismo.

Una cura possibile per le più recenti e insidiose malattie italiane, che nell’ultima legislatura, non va dimenticato, sono riuscite ad atterrare anche una maggioranza fortissima come quella (ex) di Berlusconi. Il cui impegno diretto nella trattativa, tuttavia, non è detto serva a sbloccare la discussione. La politica italiana, si sa, a volte preferisce convivere con i suoi mali. O peggio ancora, sopravvivere grazie ad essi.

La Stampa 06.02.12

"Internet, scuola e sanità piano per l´Italia online", di Riccardo Luna

Non solo buchi e cavi di fibra ottica, ma anche opere di bene, cioè servizi al cittadino. Con ritardo di quasi due anni, prende forma l´Agenda digitale: ovvero la strategia per portare l´Italia nel futuro con l´utilizzo di Internet. È lo strumento fondamentale per creare posti di lavoro e far crescere l´economia nell´era del web. Presentata nel maggio 2010, la Digital Agenda è uno dei 7 “obiettivi faro” dell´Ue per avere una crescita «inclusiva, intelligente e sostenibile». Il traguardo è il 2020, ma è previsto un obiettivo intermedio molto sfidante: portare la banda larga di base (ovvero due megabit al secondo) a tutti i cittadini europei entro il 2013. La rincorsa italiana è partita: il 15 dicembre sul sito del ministero dello Sviluppo Economico è stata aperta una consultazione di un mese. Il 3 febbraio il Consiglio dei ministri, nel decreto Semplificazione, ha approvato la nascita di una “cabina di regia” di 5 ministri. Fra questi un ruolo fondamentale lo giocherà Francesco Profumo che oltre a Scuola Università e Ricerca ha la delega per la Innovazione e che ha integrato l´Agenda digitale. Giovedì la prima riunione.
L´obiettivo è attivare la domanda da parte del 40% delle famiglie che non si collega alla Rete
In calendario giovedì prossimo la riunione dei cinque ministri della “cabina di regia”

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Grazie al software libero risparmi e più efficienza

Affinché la rivoluzione digitale della pubblica amministrazione sia efficace ed efficiente, sono necessarie due condizioni. La prima: tutte le soluzioni adottate dovranno essere «aperte e interoperabili» (oggi spesso i documenti di una amministrazione non sono leggibili da un´altra semplicemente perché sono scritti in un formato diverso). Questo vuol dire una scelta netta e definitiva in favore del software open source, rispetto a soluzioni «chiuse, proprietarie e idiosincratiche a determinati ambienti tecnici o a dispositivi specifici». La seconda condizione è creare una infrastruttura nazionale di cloud computing: ovvero portare i dati, i server e le applicazioni SU “una nuvola”. Questa politica non solo garantirà risparmi (minori costi e servizio sempre garantito), ma favorirà la standardizzazione necessaria per valorizzare il patrimonio di dati e le conseguenti applicazioni civiche. Saranno la scuola e la sanità i primi settori interessati da questa novità, mentre le regioni che ospiteranno i data center sono «le regioni del Sud percorse da dorsali potenti della connettività internazionale, in particolare Sicilia e Sardegna».

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Le “città intelligenti” ecologiche e sostenibili

Tutte le azioni sul fronte dalla ricerca e della innovazione, per evitare dispersione e confusione, si muoveranno nel quadro del progetto “città intelligenti” (Smart Cities) che diventa «parte integrante della Agenda Digitale». Si tratta di una visione di una città del futuro in cui «una grande infrastruttura tecnologica e immateriale faccia dialogare persone ed oggetti, integrando informazioni e generando intelligenza, producendo inclusione e migliorando il nostro vivere quotidiano». In una città intelligente è possibile costruire una agenda della innovazione sociale che partendo dai tantissimi dati ricevuti ed elaborati in tempo reale, consenta di affrontare problemi complessi come «la riduzione delle emissioni inquinanti, la nuova mobilità, abitazioni più sostenibili, una sanità più efficiente, un welfare equo e tecnologico per una società che invecchia». Il progetto Smart City si configura come un progetto-Paese: «il modello di sviluppo attorno al quale disegnare il vestito tecnologico della Agenda Digitale». Far questo ha anche motivi pratici: utilizzare con un forte coordinamento i fondi strutturali ancora disponibili e quelli previsti dal 2013 al 2020.

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Un fondo da 50 milioni per i baby imprenditori

Il successo di una Agenda Digitale così costruita poggia sul rafforzamento delle capacità tecnologiche delle imprese esistenti e degli enti di ricerca e scommette sulla nascita di nuove imprese guidate da giovani innovatori. Essenziale favorire la nascita di startup (in questo senso va letta l´imminente istituzione della società semplificata con un euro di capitale riservata agli under 35); e aumentando la disponibilità di capitale di rischio (di qui discende la decisione del fondo per la innovazione di destinare 50 milioni di euro al venture capital). Tutto ciò favorirà un nuovo tipo di distretto tecnologico, «nel quale prevalgono i criteri di specializzazione e concentrazione territoriale delle competenze, con una bassa incidenza di infrastruttura fisica rispetto a quella immateriale e con un forte coinvolgimento della pubblica amministrazione quale sperimentatore attivo di nuove tecnologie ed applicazioni nel perimetro della Smart City». Potrà giocare un ruolo l´Agenzia per la diffusione delle tecnologie della innovazione che fin qui si era occupata di promuovere mini-expo all´estero e invece «sarà restituita alla sua missione originaria»

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Più servizi sul web wi-fi libero nelle aule

La premessa è che l´attuale Rete è sufficiente per sostenere l´offerta di servizi digitali ai cittadini: sono i servizi ad essere largamente insufficienti. Per questo, all´indispensabile investimento in infrastrutture, vanno affiancate azioni per far crescere “la domanda di Internet” (oggi circa il 40% degli italiani sono in digital divide volontario, ovvero non si collegano alla Rete pur abitando in zone coperte). Le norme del decreto Semplificazione, che impongono l´uso del web nel dialogo fra Pubblica Amministrazione e cittadini, vanno in questa direzione. Ma perché la strategia si riveli efficace, la connettività «dovrà assicurare diffusione rispetto all´obiettivo di garantire alte prestazioni»: tradotto, vuol dire, prima si porta Internet di base a tutti (ovvero a quel 6% di italiani ancora al buio), e poi si pensa alla fibra ottica superveloce da 100 megabit. E´ un rovesciamento della strategia precedente. Non solo. Il documento Profumo propone di superare una impostazione per cui la connettività va assicurata “fino alla porta di casa”, alla famiglia o alla singola impresa; per puntare sui grandi spazi pubblici come scuole, piazze, locali pubblici.

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Un portale nazionale dove giudicare le politiche

Quando si parla di servizi al cittadini attraverso la rete, ci si riferisce ad uno strumento principale: «l´e-government in una logica di open goverment». Non vuol dire solo fare i certificati online ma avere una pubblica amministrazione aperta e trasparente, che favorisca la partecipazione attiva dei cittadini, riducendo i costi e i tempi del servizio. (Si tratta di una delle grandi rivoluzioni in corso: lo scorso 20 settembre Brasile e Stati Uniti hanno promosso la Open Government Partnership alla quale hanno subito aderito oltre settanta paesi, Italia compresa: e il prossimo 17 aprile a Brasilia, si terrà il primo summit mondiale). In questo quadro c´è una totale adesione all´Open access dei dati pubblici (Open Data). Il portale nazionale dei dati pubblici varato lo scorso 18 ottobre (dat.gov.it) sarà potenziato con tre obiettivi: consentire al cittadino decisioni informate; favorire lo sviluppo di applicazioni e modelli imprenditoriali di successo; garantire la trasparenza e quindi la responsabilità dei politici per i loro atti. Uno dei primi settori in cui questa strategia open-gov verrà attuata sarà la scuola: la messa in rete dei dati è già iniziata.

La Repubblica 06.02.12

“Internet, scuola e sanità piano per l´Italia online”, di Riccardo Luna

Non solo buchi e cavi di fibra ottica, ma anche opere di bene, cioè servizi al cittadino. Con ritardo di quasi due anni, prende forma l´Agenda digitale: ovvero la strategia per portare l´Italia nel futuro con l´utilizzo di Internet. È lo strumento fondamentale per creare posti di lavoro e far crescere l´economia nell´era del web. Presentata nel maggio 2010, la Digital Agenda è uno dei 7 “obiettivi faro” dell´Ue per avere una crescita «inclusiva, intelligente e sostenibile». Il traguardo è il 2020, ma è previsto un obiettivo intermedio molto sfidante: portare la banda larga di base (ovvero due megabit al secondo) a tutti i cittadini europei entro il 2013. La rincorsa italiana è partita: il 15 dicembre sul sito del ministero dello Sviluppo Economico è stata aperta una consultazione di un mese. Il 3 febbraio il Consiglio dei ministri, nel decreto Semplificazione, ha approvato la nascita di una “cabina di regia” di 5 ministri. Fra questi un ruolo fondamentale lo giocherà Francesco Profumo che oltre a Scuola Università e Ricerca ha la delega per la Innovazione e che ha integrato l´Agenda digitale. Giovedì la prima riunione.
L´obiettivo è attivare la domanda da parte del 40% delle famiglie che non si collega alla Rete
In calendario giovedì prossimo la riunione dei cinque ministri della “cabina di regia”

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Grazie al software libero risparmi e più efficienza

Affinché la rivoluzione digitale della pubblica amministrazione sia efficace ed efficiente, sono necessarie due condizioni. La prima: tutte le soluzioni adottate dovranno essere «aperte e interoperabili» (oggi spesso i documenti di una amministrazione non sono leggibili da un´altra semplicemente perché sono scritti in un formato diverso). Questo vuol dire una scelta netta e definitiva in favore del software open source, rispetto a soluzioni «chiuse, proprietarie e idiosincratiche a determinati ambienti tecnici o a dispositivi specifici». La seconda condizione è creare una infrastruttura nazionale di cloud computing: ovvero portare i dati, i server e le applicazioni SU “una nuvola”. Questa politica non solo garantirà risparmi (minori costi e servizio sempre garantito), ma favorirà la standardizzazione necessaria per valorizzare il patrimonio di dati e le conseguenti applicazioni civiche. Saranno la scuola e la sanità i primi settori interessati da questa novità, mentre le regioni che ospiteranno i data center sono «le regioni del Sud percorse da dorsali potenti della connettività internazionale, in particolare Sicilia e Sardegna».

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Le “città intelligenti” ecologiche e sostenibili

Tutte le azioni sul fronte dalla ricerca e della innovazione, per evitare dispersione e confusione, si muoveranno nel quadro del progetto “città intelligenti” (Smart Cities) che diventa «parte integrante della Agenda Digitale». Si tratta di una visione di una città del futuro in cui «una grande infrastruttura tecnologica e immateriale faccia dialogare persone ed oggetti, integrando informazioni e generando intelligenza, producendo inclusione e migliorando il nostro vivere quotidiano». In una città intelligente è possibile costruire una agenda della innovazione sociale che partendo dai tantissimi dati ricevuti ed elaborati in tempo reale, consenta di affrontare problemi complessi come «la riduzione delle emissioni inquinanti, la nuova mobilità, abitazioni più sostenibili, una sanità più efficiente, un welfare equo e tecnologico per una società che invecchia». Il progetto Smart City si configura come un progetto-Paese: «il modello di sviluppo attorno al quale disegnare il vestito tecnologico della Agenda Digitale». Far questo ha anche motivi pratici: utilizzare con un forte coordinamento i fondi strutturali ancora disponibili e quelli previsti dal 2013 al 2020.

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Un fondo da 50 milioni per i baby imprenditori

Il successo di una Agenda Digitale così costruita poggia sul rafforzamento delle capacità tecnologiche delle imprese esistenti e degli enti di ricerca e scommette sulla nascita di nuove imprese guidate da giovani innovatori. Essenziale favorire la nascita di startup (in questo senso va letta l´imminente istituzione della società semplificata con un euro di capitale riservata agli under 35); e aumentando la disponibilità di capitale di rischio (di qui discende la decisione del fondo per la innovazione di destinare 50 milioni di euro al venture capital). Tutto ciò favorirà un nuovo tipo di distretto tecnologico, «nel quale prevalgono i criteri di specializzazione e concentrazione territoriale delle competenze, con una bassa incidenza di infrastruttura fisica rispetto a quella immateriale e con un forte coinvolgimento della pubblica amministrazione quale sperimentatore attivo di nuove tecnologie ed applicazioni nel perimetro della Smart City». Potrà giocare un ruolo l´Agenzia per la diffusione delle tecnologie della innovazione che fin qui si era occupata di promuovere mini-expo all´estero e invece «sarà restituita alla sua missione originaria»

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Più servizi sul web wi-fi libero nelle aule

La premessa è che l´attuale Rete è sufficiente per sostenere l´offerta di servizi digitali ai cittadini: sono i servizi ad essere largamente insufficienti. Per questo, all´indispensabile investimento in infrastrutture, vanno affiancate azioni per far crescere “la domanda di Internet” (oggi circa il 40% degli italiani sono in digital divide volontario, ovvero non si collegano alla Rete pur abitando in zone coperte). Le norme del decreto Semplificazione, che impongono l´uso del web nel dialogo fra Pubblica Amministrazione e cittadini, vanno in questa direzione. Ma perché la strategia si riveli efficace, la connettività «dovrà assicurare diffusione rispetto all´obiettivo di garantire alte prestazioni»: tradotto, vuol dire, prima si porta Internet di base a tutti (ovvero a quel 6% di italiani ancora al buio), e poi si pensa alla fibra ottica superveloce da 100 megabit. E´ un rovesciamento della strategia precedente. Non solo. Il documento Profumo propone di superare una impostazione per cui la connettività va assicurata “fino alla porta di casa”, alla famiglia o alla singola impresa; per puntare sui grandi spazi pubblici come scuole, piazze, locali pubblici.

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Un portale nazionale dove giudicare le politiche

Quando si parla di servizi al cittadini attraverso la rete, ci si riferisce ad uno strumento principale: «l´e-government in una logica di open goverment». Non vuol dire solo fare i certificati online ma avere una pubblica amministrazione aperta e trasparente, che favorisca la partecipazione attiva dei cittadini, riducendo i costi e i tempi del servizio. (Si tratta di una delle grandi rivoluzioni in corso: lo scorso 20 settembre Brasile e Stati Uniti hanno promosso la Open Government Partnership alla quale hanno subito aderito oltre settanta paesi, Italia compresa: e il prossimo 17 aprile a Brasilia, si terrà il primo summit mondiale). In questo quadro c´è una totale adesione all´Open access dei dati pubblici (Open Data). Il portale nazionale dei dati pubblici varato lo scorso 18 ottobre (dat.gov.it) sarà potenziato con tre obiettivi: consentire al cittadino decisioni informate; favorire lo sviluppo di applicazioni e modelli imprenditoriali di successo; garantire la trasparenza e quindi la responsabilità dei politici per i loro atti. Uno dei primi settori in cui questa strategia open-gov verrà attuata sarà la scuola: la messa in rete dei dati è già iniziata.

La Repubblica 06.02.12

"La maledizione dei giovani, precario il 47%" , di Luigi Grassia

In Italia essere giovane vuol dire in quasi metà dei casi essere anche precario: risulta dai numeri dell’Istat che nella classe d’età fra i 15 e i 24 anni, e considerando solo chi ha un lavoro, i dipendenti a tempo determinato (cioè con la data di scadenza) sono pari al 46,7% degli occupati. La quota dei precari resta elevata anche se si alza l’asticella dell’età allo scaglione successivo: fra i 25 e i 34 anni, il 18 per cento dei dipendenti risulta assunto con un contratto a tempo determinato. Per veder scendere l’incidenza della precarietà a valori molto più bassi bisogna guardare al mondo del lavoro da 35 anni in su: in questa fascia pienamente adulta di persone solo l’8% è precario, con un’ulteriore distinzione: il valore è dell’8,3% fra i 35 e i 54 anni e scende al 6,3% fra gli over-55.

Le cifre riportare sopra si riferiscono alla media del 2010 e bisogna tener presente che valgono per chi ha la fortuna di avere un lavoro, mentre per gli altri anche la precarietà può essere un sogno impossibile. Infatti dati sulla disoccupazione parlano di un giovane su tre a casa per forza, non riuscendo a trovare un impiego di nessun tipo.

E le cose dal punto di vista della precarietà sono in via di peggioramento: per colpa della crisi che morde, più del 70% dei nuovi ingressi dei ragazzi e delle ragazze è a tempo.

Invece dai dati dell’Istat relativi al terzo trimestre 2011 risulta che Italia fra luglio e settembre c’erano 2,364 milioni di dipendenti a tempo determinato e 385 mila collaboratori. In tutto 2,749 milioni di persone a cui manca il posto fisso, ovvero lavoratori «atipici». Purtroppo questi numeri sulla precarietà non sono esaustivi, rappresentano solo una base di partenza, uno «zoccolo duro»: il totale risulterebbe molto più alto se ai precari formalmente censiti come tali si aggiungesse tutto il vasto sottobosco di rapporti di lavoro ancora più deboli, cioè gli irregolari, e le innumerevoli forme di abuso, a cominciare dalle cosiddette «false partite Iva», presunti liberi professionisti che in realtà sono lavoratori dipendenti senza le tutele di legge e sfruttati.

Per di più il fenomeno non è affatto in regresso, anzi il numero dei precari risulta in forte aumento; secondo l’Istat i dipendenti a termine nel terzo trimestre del 2011 sono cresciuti, su base annua, del 7,6% (+166 mila persone) e l’incidenza del lavoro «a tempo» sul totale degli occupati ha toccato il 10,3%. Inoltre, fra gli assunti con la data di scadenza una forte quota (il 25 per cento) vede la condizione di lavoro ulteriormente peggiorata dall’avere un contratto part-time. E a causa della crisi l’unica forma di part-time in crescita è quella involontaria, ovvero imposta dal datore di lavoro e non chiesta dal lavoratore o dalla lavoratrice per ragioni loro.

Tutto questo sarebbe più sopportabile se la precarietà fosse temporanea e servisse ad agevolare un ingresso nel mercato del lavoro, come semplice prima tappa di un dignitoso posto a tempo indeterminato, da raggiungere dopo un po’; ma finché l’economia non riparte il meccanismo è bloccato, resta solo la pura lotta per la sopravvivenza, senza prospettive.

“La maledizione dei giovani, precario il 47%” , di Luigi Grassia

In Italia essere giovane vuol dire in quasi metà dei casi essere anche precario: risulta dai numeri dell’Istat che nella classe d’età fra i 15 e i 24 anni, e considerando solo chi ha un lavoro, i dipendenti a tempo determinato (cioè con la data di scadenza) sono pari al 46,7% degli occupati. La quota dei precari resta elevata anche se si alza l’asticella dell’età allo scaglione successivo: fra i 25 e i 34 anni, il 18 per cento dei dipendenti risulta assunto con un contratto a tempo determinato. Per veder scendere l’incidenza della precarietà a valori molto più bassi bisogna guardare al mondo del lavoro da 35 anni in su: in questa fascia pienamente adulta di persone solo l’8% è precario, con un’ulteriore distinzione: il valore è dell’8,3% fra i 35 e i 54 anni e scende al 6,3% fra gli over-55.

Le cifre riportare sopra si riferiscono alla media del 2010 e bisogna tener presente che valgono per chi ha la fortuna di avere un lavoro, mentre per gli altri anche la precarietà può essere un sogno impossibile. Infatti dati sulla disoccupazione parlano di un giovane su tre a casa per forza, non riuscendo a trovare un impiego di nessun tipo.

E le cose dal punto di vista della precarietà sono in via di peggioramento: per colpa della crisi che morde, più del 70% dei nuovi ingressi dei ragazzi e delle ragazze è a tempo.

Invece dai dati dell’Istat relativi al terzo trimestre 2011 risulta che Italia fra luglio e settembre c’erano 2,364 milioni di dipendenti a tempo determinato e 385 mila collaboratori. In tutto 2,749 milioni di persone a cui manca il posto fisso, ovvero lavoratori «atipici». Purtroppo questi numeri sulla precarietà non sono esaustivi, rappresentano solo una base di partenza, uno «zoccolo duro»: il totale risulterebbe molto più alto se ai precari formalmente censiti come tali si aggiungesse tutto il vasto sottobosco di rapporti di lavoro ancora più deboli, cioè gli irregolari, e le innumerevoli forme di abuso, a cominciare dalle cosiddette «false partite Iva», presunti liberi professionisti che in realtà sono lavoratori dipendenti senza le tutele di legge e sfruttati.

Per di più il fenomeno non è affatto in regresso, anzi il numero dei precari risulta in forte aumento; secondo l’Istat i dipendenti a termine nel terzo trimestre del 2011 sono cresciuti, su base annua, del 7,6% (+166 mila persone) e l’incidenza del lavoro «a tempo» sul totale degli occupati ha toccato il 10,3%. Inoltre, fra gli assunti con la data di scadenza una forte quota (il 25 per cento) vede la condizione di lavoro ulteriormente peggiorata dall’avere un contratto part-time. E a causa della crisi l’unica forma di part-time in crescita è quella involontaria, ovvero imposta dal datore di lavoro e non chiesta dal lavoratore o dalla lavoratrice per ragioni loro.

Tutto questo sarebbe più sopportabile se la precarietà fosse temporanea e servisse ad agevolare un ingresso nel mercato del lavoro, come semplice prima tappa di un dignitoso posto a tempo indeterminato, da raggiungere dopo un po’; ma finché l’economia non riparte il meccanismo è bloccato, resta solo la pura lotta per la sopravvivenza, senza prospettive.

"Basta maggioranze variabili niente forzature sull´articolo 18 serve il consenso dei sindacati", intervista a Dario Franceschini di Giovanna Casadio

Per difendere il finanziamento ai partiti vanno introdotte regole scrupolose. Non siamo disposti a escludere il Terzo Polo da un accordo Serve una intesa molto larga.
Su giustizia, articolo 18 e mercato del lavoro, il Pd è in allarme, onorevole Franceschini?
«Noi Democratici abbiamo cercato e voluto il governo Monti, al contrario del Pdl che l´ha subito. Sapevamo che non sarebbe stato un cammino semplice, perché un esperimento totalmente inedito, reso possibile dall´emergenza e dalla gravità della crisi, cioè di avversari politici – che si sono scontrati duramente e che torneranno a scontrarsi alle elezioni, e che intanto sostengono lo stesso governo – è inevitabilmente difficile. Però il Pd appoggia Monti pienamente, sapendo che il lavoro è appena iniziato».
Tuttavia il segretario Bersani lancia l´offensiva e avverte che i Democratici non sono disposti a farsi prendere in giro.
«Il voto a Montecitorio sulla responsabilità dei giudici è stato gravissimo. Innanzitutto, mostra il rischio davvero grosso che quando le forze politiche non trovano tra loro un´intesa, Lega e Pdl tornano a votare insieme e sono maggioranza in Parlamento. Né ci si può affidare a una logica di maggioranze variabili e imprevedibili. A Monti abbiamo chiesto un suo impegno diretto per trovare una soluzione su quei “nodi” su cui è prevedibile uno scontro tra le forze politiche. Ferma restando la nostra lealtà».
Anche se il governo modifica l´articolo 18 sarete leali a tutti i costi?
«Non penso che il problema si porrà. Il ministro Fornero ha detto ci sarà un percorso di concertazione con le parti sociali, sindacato in primo luogo. Non mi riferisco solo al confronto, che è dovuto, ma al testo che giungerà in Parlamento e che dovrà avere il consenso delle parti sociali, indispensabile in un momento così carico di tensioni nel paese. Attenzione, però: nessuno faccia forzature su questo, né alle Camere né tantomeno nel paese».
È diventato Berlusconi ora il più convinto supporter di Monti, almeno a sentire le ultime dichiarazioni?
«Dopo vent´anni non riesco proprio a credere alle dichiarazioni di giornata di Berlusconi, e comunque se fosse vero che lo sostiene in modo convinto, ben venga».
L´ex premier pensa a una riforma elettorale con il Pd. E voi come rispondete a questa offerta di dialogo?
«Rispondiamo che non siamo disposti a escludere il Terzo Polo da un accordo. Facciamo un passo indietro. Il tema legge elettorale/riforme costituzionali è un compito affidato al Parlamento: al governo spetta affrontare l´emergenza economica, alle forze politiche costituire un sistema di regole che metta nelle condizioni chi vincerà le elezioni di riuscire a governare. Manca più di un anno alla fine della legislatura ed è un tempo più che sufficiente perché il Parlamento cambi i propri regolamenti, superi il bicameralismo perfetto e le sue lentezze, faccia una nuova legge elettorale. Non si può usare l´alibi del poco tempo. Noi vogliamo fare anche alcune riforme istituzionali e la legge elettorale. Ma non potremmo mai rinunciare alla modifica del Porcellum, dell´attuale legge porcata».
Quindi, pensate a un confronto con il Pdl?
«Serve una intesa molto larga. Alla trattativa devono partecipare tutte le forze parlamentari, comprese Idv e Lega. Tanto che Anna Finocchiaro e io abbiamo proposto le conferenze congiunte dei capigruppo di Camera e Senato e stiamo aspettando la risposta dei presidenti Fini e Schifani. La sede è istituzionale e nessuno può parlare di inciuci. Questo è l´obiettivo massimo, ovvero una intesa generale. Ce n´è però uno imprescindibile: l´accordo tra le forze che sostengono Monti. Perciò se l´idea è di un´intesa tra Pd e Pdl a scapito del Terzo Polo, la risposta è “no”. Sia perché la legge elettorale non si può fare imponendo la logica dei numeri in Parlamento, sia perché si metterebbe a rischio il governo stesso».
Quali caratteristiche sono irrinunciabili per il Pd in una nuova legge elettorale?
«Primo, restituire agli elettori la scelta degli eletti, per noi con i collegi uninominali; liberare dal vincolo delle alleanze forzose, inevitabilmente eterogenee e incapaci poi di governare; ridurre la frammentazione partitica. Incontri a livello tecnico ce ne sono già stati, e mi pare del tutto naturale. Ce ne saranno altri».
Il discredito nei confronti della politica è altissimo, e il “caso Lusi” , il tesoriere della Margherita – che è il partito in cui lei militava – contribuisce ad aumentarlo.
«Anche dalle vicende più brutte come questa possono scattare dei meccanismi virtuosi. Oggi tutti capiscono che, se si vuole difendere il finanziamento pubblico ai partiti, vanno introdotte regole di controllo e certificazione scrupolose, che garantiscano la totale trasparenza».

La Repubblica 06.02.12