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Da Marzabotto a Stazzema massacri ancora senza giustizia", di Luigi Spezia

L´ultimo processo farà luce sulla strage di Fragheto in provincia di Rimini. Negli scantinati della Procura militare di Roma c´erano 700 faldoni occultati per decenni. Gli avvocati che rappresentano superstiti e parenti delle vittime, nella sentenza della Corte dell´Aja vedono anche un´«opportunità», dopo faticose vicende giudiziarie che si trascinano da anni. I risarcimenti sono ancora possibili per le stragi di Marzabotto (Bologna), di Monchio (Modena), di Sant´Anna di Stazzema (Lucca), le più note, e per molte altre: l´ultimo processo è iniziato il 20 gennaio e deve far luce sulla strage di Fragheto, in provincia di Rimini. Certo, per vie diverse, non più quelle giudiziarie, riconosce l´avvocato Andrea Speranzoni, che ha seguito le cause di Monchio e di Marzabotto. «Direi che, in parte, il lavoro che abbiamo fatto verrà disatteso, non si toccano le sentenze penali, ma la Germania uscirà dai processi ancora in corso, le condanne già emesse nei suoi confronti forse saranno revocate. Si è perduta un´occasione storica, quella di dichiarare inammissibile l´immunità di uno Stato in caso di crimini contro l´umanità». Ma non tutto è perduto: «La sentenza dell´Aja impone di affrontare ora i risarcimenti sul piano politico internazionale, le dichiarazioni dei due ministri sono confortanti». Non è finita la speranza di ottenere giustizia che si era riaperta a metà anni ‘90, cinquant´anni dopo i fatti a causa dell´insabbiamento del cosiddetto “armadio della vergogna”. Tutti questi processi nascono infatti, con grave ritardo, dal ritrovamento negli scantinati della Procura militare di Roma di settecento fascicoli occultati per decenni, dove erano custoditi i nomi dei carnefici e delle vittime, dei reparti tedeschi e dei paesi messi a ferro e fuoco, la storia di rappresaglie e fucilazioni di massa delle Ss, di cui si erano perduti gli atti e le denunce piene di dettagli sconosciuti, ma non la memoria.
Il caso della strage di Civitella, Cornia e San Pancrazio era arrivato fino alla Cassazione penale, che nel 2008, a sezioni unite, aveva per la prima volta condannato la Germania al pagamento dei danni alle vittime, in quanto “responsabile civile” di quella strage. Gli avvocati l´avevano ottenuta, questa condanna, ma prima di allora solo il pensiero di chiederla sembrava un azzardo, anche se c´era già stata una sentenza simile della Cassazione civile nel 2004. Il processo sugli eccidi di Marzabotto (dal 29 settembre al 5 ottobre 1944, 700 morti) e di Sant´Anna di Stazzema (12 agosto 1944, 560 morti) erano iniziati prima del 2008 e nessuno aveva chiesto di condannare anche la Germania, oltre agli autori delle stragi. Su Marzabotto, il 13 gennaio del 2007, comunque la corte militare di La Spezia proferì dieci condanne di militari tedeschi ormai ottantenni e cinque assoluzioni. La sentenza di primo grado per la strage di Stazzema uscì nel 2004 e tre anni dopo vennero confermati dalla Cassazione gli ergastoli all´ufficiale Gerhard Sommer e ai sottufficiali nazisti Georg Rauch e Karl Gropler. Ma è dopo il 2008 che quella sentenza di Cassazione, ora rigettata dall´Aja, ha fatto scuola.
Per la strage di Monchio, Costrignano e Susano (18 marzo ‘44, 136 morti), il cui procedimento fu istruito dal procuratore di La Spezia Marco de Paolis, uno dei più attivi su questo fronte giudiziario, la corte militare di Verona il 6 luglio scorso ha infatti pronunciato non solo una sentenza di condanna penale per quattro militari tedeschi, due delle quali non appellate e dunque già definitive, ma anche la condanna al risarcimento dello Stato tedesco. Identici riconoscimenti di responsabilità della Germania a causa dei crimini commessi in Italia dalle forze naziste sono stati sanciti in due processi di appello, per le stragi di Vinca e di Bardine San Terenzo, entrambe in provincia di Massa Carrara, per la strage di Padulle di Fucecchio (primo grado nel maggio 2011) e per le 180 persone trucidate a Vallucciole (Arezzo-Firenze), con un processo che anche in questo caso è giunto alla sentenza di primo grado.

La Repubblica 04.02.12

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“Berlino non deve risarcire le vittime italiane dei nazisti
La Corte dell’Aia: la Germania ha l’immunità sulle stragi”, di Paolo Lepri

Niente più processi, niente più risarcimenti. L’Italia ha «violato il diritto internazionale» consentendo procedimenti legali contro la Germania per i massacri compiuti dai nazisti. È una sentenza chiara, quella pronunciata ieri dalla Corte internazionale dell’Aia, anche se i giudici hanno invitato le due parti al dialogo e hanno deplorato il fatto che i deportati italiani nella Seconda guerra mondiale siano stati esclusi dal piano dei risarcimenti tedeschi.
«Non è stata riconosciuta — ha detto il presidente della Corte, il giapponese Hisashi Owada — l’immunità giurisdizionale che spetta a un altro Stato sovrano». Come voleva Berlino, l’Italia dovrà prendere «tutte le misure necessarie», anche modificando la sua legislazione, perché siano prive d’effetto le decisioni della giustizia contrarie al rispetto dei principi indicati nella sentenza. Già nel luglio 2010 un ricorso presentato da Roma era stata dichiarato irricevibile. Le speranze di «vincere» erano poche.
Anche se l’edificio di mattoni rossi, in stile neorinascimentale, dove si riuniscono all’Aia i giudici dell’Onu si chiama «Palazzo della Pace», la sentenza non sembra destinata a pacificare del tutto. Anzi, può forse suscitare qualche dubbio, in un’epoca in cui si è andata sempre più affermando la dimensione «transnazionale» della giustizia. Non la pensa così il ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle, che dopo aver premesso che il suo governo «ha sempre riconosciuto la sofferenza» delle vittime del nazismo, ha salutato con grande favore le decisioni della Corte. «È stata confermata — ha detto — la nostra concezione del diritto sotto il profilo della immunità degli Stati. Un chiarimento non era solo nell’interesse tedesco ma piuttosto nell’interesse della comunità internazionale». Sarà così, ma la Germania (e non solo lei) temeva che il caso italiano diventasse un temibile precedente.
Il ministro degli Esteri del governo Monti, Giulio Terzi, ha espresso il suo «rispetto» per la sentenza, anche se, ha aggiunto, «non coincide con le posizioni sostenute dall’Italia». Che le decisioni dei giudici dell’Onu, comunque, non siano destinate a scatenare una guerra diplomatica tra Roma e Berlino lo si capisce non solo da queste parole pacate, ma soprattutto dal riferimento che entrambi i ministri hanno fatto al proseguimento del negoziato, peraltro raccomandato dalla Corte. Westerwelle parla però con i toni del vincitore («Applicheremo tutte le questioni inerenti a questo giudizio in collaborazione con i nostri amici italiani, in uno spirito di piena fiducia»), mentre Terzi con quelli dello sconfitto, non potendo fare altro che notare «l’utile contributo di chiarimento» venuto dal tribunale dell’Onu. Duro, invece, il giudizio del suo predecessore alla Farnesina, Franco Frattini, oggi responsabile Affari Internazionali del Pdl, secondo cui «il verdetto è una pesante frusta per tutti coloro che sono stati colpiti da quei massacri».
Il ricorso della Germania alla Corte dell’Aia era stato presentato nel dicembre 2008 due mesi dopo la sentenza della Corte di Cassazione che aveva riconosciuto il diritto di ricevere indennizzi individuali da parte del governo tedesco ai familiari delle vittime di uno dei tanti massacri compiuti dal 1943 al 1945 dai tedeschi: la strage del 29 giugno 1944 a Civitella, Cornia e San Pancrazio, in cui furono assassinate oltre duecento persone, alcune delle quali riunite nella chiesa dove si era appena celebrata la Messa. I procedimenti legali in Italia si erano avviati con il «caso Ferrini», dal nome di un deportato in Germania nel 1944 costretto ai lavori forzati. A parte il problema dei deportati italiani, che sarà oggetto del negoziato, sono molte le questioni che questa sentenza certamente non cancella. Come saranno risolte, non lo potrà mai sapere Tina Randellini, l’ultima vedova delle vittime della strage nazista del Mulinaccio, morta proprio ieri all’età di 97 anni. Il marito fu ucciso nel 1944, con altri quattordici. Non si sa ancora perché.

Corriere della Sera 04.02.12

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I giuristi: «Decisione inevitabile, non si può processare uno Stato», di Dino Messina

È difficile parlare di formalismi giuridici quando si tratta di massacri dei civili: in questo caso di una delle meno conosciute ma più atroci rappresaglie, compiuta da un reparto della Wehrmacht in ritirata, il 29 giugno 1944, tre mesi dopo le Fosse Ardeatine, tre prima di Marzabotto. Le vittime in Val di Chiana (a Civitella, San Pancrazio, Cornia), nell’Aretino, furono 203, molte delle quali bambini, anziani, donne, adolescenti, con una proporzione di cinquanta italiani per ogni soldato tedesco ucciso dai partigiani della banda «Renzino». Un criterio più duro del famigerato dieci a uno seguito all’attentato di via Rasella.
«Non c’è indennizzo sufficiente a risarcire ciascuna di quelle vittime», dice lo storico tedesco Lutz Klinkhammer, autore del fondamentale saggio L’occupazione tedesca in Italia (Bollati Boringhieri). Eppure la Corte dell’Aia ha accolto il ricorso della Germania contro la sentenza della Cassazione che per la prima volta condannava lo Stato tedesco a risarcire le vittime delle stragi naziste in Italia.
La sentenza dell’Aia ha una spiegazione giuridica e una storica. Un tribunale interno, dice Umberto Leanza, professore emerito di Diritto internazionale all’università Roma 2, non può in alcun modo considerare responsabile uno Stato. È quel che ha fatto la nostra Corte di Cassazione ritenendo crimini internazionali le rappresaglie compiute dalle truppe tedesche in Italia dopo l’8 settembre 1943. Il crimine internazionale è una figura giuridica nata a partire dai tribunali di Norimberga e di Tokyo. «Si tratta di crimini — chiarisce Leanza — che costituiscono tuttavia una eccezione all’immunità dalla giurisdizione non degli Stati ma degli organi statali che li hanno compiuti». Un criterio già seguito dai tribunali di Norimberga e Tokyo. La Corte di Cassazione italiana ha ritenuto di estendere la responsabilità allo Stato tedesco sulla base della più recente giurisdizione internazionale che equipara la violenza sui civili ai crimini contro l’umanità.
La sentenza dell’Aia è l’ultimo atto della riapertura a metà degli anni Novanta dei processi archiviati nel cosiddetto «armadio della vergogna». Con i processi si è riaperto anche un contenzioso con la Germania che si riteneva chiuso dal 2 giugno 1961, quando con due accordi bilaterali tra Roma e Bonn, la Germania riconosceva un indennizzo complessivo di quaranta milioni di marchi per le vittime italiane dei campi di concentramento. «In totale — spiega lo storico Filippo Focardi — i beneficiari furono circa dodicimila, in maggioranza deportati politici, ebrei e loro familiari. Solo mille i risarcimenti riguardanti gli internati militari, su un totale di seicentomila. Come contropartita ai risarcimenti, l’Italia garantiva la cessazione di tutte le cause contro lo Stato tedesco». Del resto la Germania riconobbe quegli indennizzi come un atto di buona volontà unilaterale, non come il riconoscimento di un diritto. L’Italia nel 1947, con il controverso comma 4 dell’articolo 77 del Trattato di Pace, aveva rinunciato a chiedere gli indennizzi per i danni dell’occupazione nazista. Faceva eccezione il diritto a chiedere la restituzione dei beni trafugati.
La sentenza dell’Aia ha dunque ribadito che l’immunità degli Stati, non solo di quello tedesco, non si tocca. «Me l’aspettavo — dice Focardi —. E da un certo punto di vista è un bene anche per l’Italia, se si considera che lo stesso tribunale internazionale ha respinto un ricorso presentato contro il nostro Stato dai parenti delle vittime della strage di Domenikon, nella Grecia centrale, dove i fanti della Divisione Pinerolo, il 16 febbraio 1943, uccisero per rappresaglia 150 civili».
Resta un dubbio: se le responsabilità dei crimini sono personali perché sedici ufficiali tedeschi condannati all’ergastolo per le stragi in Italia vivono ancora liberi in Germania?

Corriere della Sera 04.02.12

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«Bruciarono la casa poi uccisero papà. Sarebbe bastato un euro a famiglia», di Andrea Pasqualetto

La televisione che va, la notizia sulle stragi e lei, la signora Maria Luisa, che non può evitarla: «Mi sono sentita male, ancora una volta». Quella mattina, Maria Luisa Paini aveva due anni. Era il 20 marzo del 1944, il giorno dell’eccidio di Cervarolo: 24 uomini fucilati nell’aia del paese. Lei in braccio alla mamma, a un passo dall’orrore: «Stavamo andando lì, dove volevano uccidere il nonno e il papà. Il tedesco mi ha preso, mi ha messo a testa in giù per ammazzarmi. Allora la mamma disse: prima me e poi lei. Un altro nazista si è fatto largo e ha ordinato di lasciar stare altrimenti avrebbe ucciso il commilitone». Lei si salvò ma di lì a poco spararono molti colpi e sotto quel piombo caddero anche il papà quarantunenne e il nonno di settantadue, quasi l’età di Maria Luisa. Non riesce a dire altro, a distanza di quasi settant’anni. Non ce l’ha con giudici della Corte internazionale dell’Aia. No, è il ricordo: «Mi succede tutte le volte che sento parlare di stragi, qualsiasi strage. Tutte le volte che vedo del fumo fuori… mi prende il panico. Forse perché quella volta bruciarono anche la casa. Mi scusi ma preferisco mettere giù». Così l’allora bimba di Villa Minozzi, oggi casalinga, un figlio e una vita segnata dalla fucilazione dell’aia.
Per la strage di Cervarolo e per quelle dell’Appennino tosco-emiliano, diciotto massacri per 350 vittime civili, sono stati condannati all’ergastolo sei nazisti della Panzer-division «Hermann Goering», il reparto speciale tedesco che nel marzo del 1944, battendo in ritirata dopo la rottura dell’alleanza fra Italia e Germania, mise a ferro e fuoco borghi e paesi. Con la signora Maria Luisa c’è Loretta Righi, che aveva nove anni e abitava proprio di fronte al comando provvisorio nazista. Perse il nonno: «Remigio Fontana, io sono la figlia della Santina che la scampò», tiene a ricordare. È indignata: «Entrarono in casa con le bombe a mano, spararono alle galline, razziarono e mangiarono e io e mia nonna eravamo chiuse in un angolo, terrorizzate. Mentre il nonno non è più tornato. Dalla Germania non volevo i soldi ma che fosse riconosciuto il grande danno per tutti noi e invece la Germania l’ha vinta ancora una volta».
L’avvocato Roberto Alboni, invece, non vide cosa successe sulle colline appenniniche di Civitella, Cornia e San Pancrazio, in provincia di Arezzo, il 29 giugno di quell’anno, quando i tedeschi trucidarono 203 conterranei. Ma siccome lì ha perso il nonno «mentre stava andando in bicicletta al molino a prendere il grano» e siccome «quella scomparsa ha rovinato la vita della mia famiglia, che prima stava bene e poi è rimasta senza nulla», allora ha deciso di rappresentare i parenti delle vittime e soprattutto i suoi: «Un milione ho ottenuto per i congiunti di mio nonno. Nel senso che i giudici hanno sentenziato questa provvisionale: 200 mila euro per ogni figlio». E ora che l’Italia ha perso? «Io non dispero, anzi. Mi sono già letto le motivazioni e mi sembra che i giudici invitino i due Paesi a risolvere la questione per via extragiudiziale, in forma pattizia. Andrò avanti».
Ma, di certo, rimane il principio. Come riconosce il procuratore capo militare di Roma, Marco De Paolis, il magistrato che da La Spezia ha dato un forte impulso ai processi per le stragi naziste commesse dal settembre del 1943 al maggio 1945, riaprendo molti fascicoli rimasti a ingiallire nel cosiddetto «armadio della vergogna» del capitolino palazzo Celsi: «I processi vanno avanti ma sicuramente non potremo più condannare la Germania come responsabile civile. Con il riconoscimento della responsabilità dei nazisti, la Cassazione aveva stabilito un principio innovativo ma è chiaro che in una materia tanto delicata come il diritto internazionale, dove hanno grande peso gli usi e le consuetudini, serve più tempo». Il suo collega padovano, Sergio Dini, anche lui impegnato in passato a scavare negli eccidi nazisti in Veneto, sospira: «Qual è il limite di questo diritto? L’Italia si deve far carico forse delle colpe degli antichi romani?». De Paolis: userebbe il buon senso: «Direi di guardare ai parenti in linea diretta, sopravvissuti. Finché sono in vita possono chiedere i danni».
Rimane la profonda amarezza del sindaco di Marzabotto (oltre 800 morti) Romano Franchi, che ne fa una questione morale e umana: «Già, ma la ragion di Stato ha prevalso ancora una volta». Idealmente gli stringe la mano da Cervarolo il dottor Italo Rovali che perse un bisnonno e un nonno e che riconosce di aver vissuto in funzione di quel sangue: «Per questo motivo ho voluto una laurea in giurisprudenza, per questo ho guidato il comitato dei familiari, per questo ho studiato diritto internazionale. E ora dico: sentenza politica». Gli sarebbe bastato un inchino della Germania, dice: «Bastava che qualcuno dell’ambasciata venisse qui a dare, chessò, un euro a ogni famiglia delle vittime. Era sufficiente: altro che chiedere l’immunità».
Alla signora Loretta forse non sarebbe bastato: «Ho una scossa tutte le volte che mi viene qualcuno da dietro, come quel nazista a casa mia».

Corriere della Sera 04.02.12

Da Marzabotto a Stazzema massacri ancora senza giustizia”, di Luigi Spezia

L´ultimo processo farà luce sulla strage di Fragheto in provincia di Rimini. Negli scantinati della Procura militare di Roma c´erano 700 faldoni occultati per decenni. Gli avvocati che rappresentano superstiti e parenti delle vittime, nella sentenza della Corte dell´Aja vedono anche un´«opportunità», dopo faticose vicende giudiziarie che si trascinano da anni. I risarcimenti sono ancora possibili per le stragi di Marzabotto (Bologna), di Monchio (Modena), di Sant´Anna di Stazzema (Lucca), le più note, e per molte altre: l´ultimo processo è iniziato il 20 gennaio e deve far luce sulla strage di Fragheto, in provincia di Rimini. Certo, per vie diverse, non più quelle giudiziarie, riconosce l´avvocato Andrea Speranzoni, che ha seguito le cause di Monchio e di Marzabotto. «Direi che, in parte, il lavoro che abbiamo fatto verrà disatteso, non si toccano le sentenze penali, ma la Germania uscirà dai processi ancora in corso, le condanne già emesse nei suoi confronti forse saranno revocate. Si è perduta un´occasione storica, quella di dichiarare inammissibile l´immunità di uno Stato in caso di crimini contro l´umanità». Ma non tutto è perduto: «La sentenza dell´Aja impone di affrontare ora i risarcimenti sul piano politico internazionale, le dichiarazioni dei due ministri sono confortanti». Non è finita la speranza di ottenere giustizia che si era riaperta a metà anni ‘90, cinquant´anni dopo i fatti a causa dell´insabbiamento del cosiddetto “armadio della vergogna”. Tutti questi processi nascono infatti, con grave ritardo, dal ritrovamento negli scantinati della Procura militare di Roma di settecento fascicoli occultati per decenni, dove erano custoditi i nomi dei carnefici e delle vittime, dei reparti tedeschi e dei paesi messi a ferro e fuoco, la storia di rappresaglie e fucilazioni di massa delle Ss, di cui si erano perduti gli atti e le denunce piene di dettagli sconosciuti, ma non la memoria.
Il caso della strage di Civitella, Cornia e San Pancrazio era arrivato fino alla Cassazione penale, che nel 2008, a sezioni unite, aveva per la prima volta condannato la Germania al pagamento dei danni alle vittime, in quanto “responsabile civile” di quella strage. Gli avvocati l´avevano ottenuta, questa condanna, ma prima di allora solo il pensiero di chiederla sembrava un azzardo, anche se c´era già stata una sentenza simile della Cassazione civile nel 2004. Il processo sugli eccidi di Marzabotto (dal 29 settembre al 5 ottobre 1944, 700 morti) e di Sant´Anna di Stazzema (12 agosto 1944, 560 morti) erano iniziati prima del 2008 e nessuno aveva chiesto di condannare anche la Germania, oltre agli autori delle stragi. Su Marzabotto, il 13 gennaio del 2007, comunque la corte militare di La Spezia proferì dieci condanne di militari tedeschi ormai ottantenni e cinque assoluzioni. La sentenza di primo grado per la strage di Stazzema uscì nel 2004 e tre anni dopo vennero confermati dalla Cassazione gli ergastoli all´ufficiale Gerhard Sommer e ai sottufficiali nazisti Georg Rauch e Karl Gropler. Ma è dopo il 2008 che quella sentenza di Cassazione, ora rigettata dall´Aja, ha fatto scuola.
Per la strage di Monchio, Costrignano e Susano (18 marzo ‘44, 136 morti), il cui procedimento fu istruito dal procuratore di La Spezia Marco de Paolis, uno dei più attivi su questo fronte giudiziario, la corte militare di Verona il 6 luglio scorso ha infatti pronunciato non solo una sentenza di condanna penale per quattro militari tedeschi, due delle quali non appellate e dunque già definitive, ma anche la condanna al risarcimento dello Stato tedesco. Identici riconoscimenti di responsabilità della Germania a causa dei crimini commessi in Italia dalle forze naziste sono stati sanciti in due processi di appello, per le stragi di Vinca e di Bardine San Terenzo, entrambe in provincia di Massa Carrara, per la strage di Padulle di Fucecchio (primo grado nel maggio 2011) e per le 180 persone trucidate a Vallucciole (Arezzo-Firenze), con un processo che anche in questo caso è giunto alla sentenza di primo grado.

La Repubblica 04.02.12

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“Berlino non deve risarcire le vittime italiane dei nazisti
La Corte dell’Aia: la Germania ha l’immunità sulle stragi”, di Paolo Lepri

Niente più processi, niente più risarcimenti. L’Italia ha «violato il diritto internazionale» consentendo procedimenti legali contro la Germania per i massacri compiuti dai nazisti. È una sentenza chiara, quella pronunciata ieri dalla Corte internazionale dell’Aia, anche se i giudici hanno invitato le due parti al dialogo e hanno deplorato il fatto che i deportati italiani nella Seconda guerra mondiale siano stati esclusi dal piano dei risarcimenti tedeschi.
«Non è stata riconosciuta — ha detto il presidente della Corte, il giapponese Hisashi Owada — l’immunità giurisdizionale che spetta a un altro Stato sovrano». Come voleva Berlino, l’Italia dovrà prendere «tutte le misure necessarie», anche modificando la sua legislazione, perché siano prive d’effetto le decisioni della giustizia contrarie al rispetto dei principi indicati nella sentenza. Già nel luglio 2010 un ricorso presentato da Roma era stata dichiarato irricevibile. Le speranze di «vincere» erano poche.
Anche se l’edificio di mattoni rossi, in stile neorinascimentale, dove si riuniscono all’Aia i giudici dell’Onu si chiama «Palazzo della Pace», la sentenza non sembra destinata a pacificare del tutto. Anzi, può forse suscitare qualche dubbio, in un’epoca in cui si è andata sempre più affermando la dimensione «transnazionale» della giustizia. Non la pensa così il ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle, che dopo aver premesso che il suo governo «ha sempre riconosciuto la sofferenza» delle vittime del nazismo, ha salutato con grande favore le decisioni della Corte. «È stata confermata — ha detto — la nostra concezione del diritto sotto il profilo della immunità degli Stati. Un chiarimento non era solo nell’interesse tedesco ma piuttosto nell’interesse della comunità internazionale». Sarà così, ma la Germania (e non solo lei) temeva che il caso italiano diventasse un temibile precedente.
Il ministro degli Esteri del governo Monti, Giulio Terzi, ha espresso il suo «rispetto» per la sentenza, anche se, ha aggiunto, «non coincide con le posizioni sostenute dall’Italia». Che le decisioni dei giudici dell’Onu, comunque, non siano destinate a scatenare una guerra diplomatica tra Roma e Berlino lo si capisce non solo da queste parole pacate, ma soprattutto dal riferimento che entrambi i ministri hanno fatto al proseguimento del negoziato, peraltro raccomandato dalla Corte. Westerwelle parla però con i toni del vincitore («Applicheremo tutte le questioni inerenti a questo giudizio in collaborazione con i nostri amici italiani, in uno spirito di piena fiducia»), mentre Terzi con quelli dello sconfitto, non potendo fare altro che notare «l’utile contributo di chiarimento» venuto dal tribunale dell’Onu. Duro, invece, il giudizio del suo predecessore alla Farnesina, Franco Frattini, oggi responsabile Affari Internazionali del Pdl, secondo cui «il verdetto è una pesante frusta per tutti coloro che sono stati colpiti da quei massacri».
Il ricorso della Germania alla Corte dell’Aia era stato presentato nel dicembre 2008 due mesi dopo la sentenza della Corte di Cassazione che aveva riconosciuto il diritto di ricevere indennizzi individuali da parte del governo tedesco ai familiari delle vittime di uno dei tanti massacri compiuti dal 1943 al 1945 dai tedeschi: la strage del 29 giugno 1944 a Civitella, Cornia e San Pancrazio, in cui furono assassinate oltre duecento persone, alcune delle quali riunite nella chiesa dove si era appena celebrata la Messa. I procedimenti legali in Italia si erano avviati con il «caso Ferrini», dal nome di un deportato in Germania nel 1944 costretto ai lavori forzati. A parte il problema dei deportati italiani, che sarà oggetto del negoziato, sono molte le questioni che questa sentenza certamente non cancella. Come saranno risolte, non lo potrà mai sapere Tina Randellini, l’ultima vedova delle vittime della strage nazista del Mulinaccio, morta proprio ieri all’età di 97 anni. Il marito fu ucciso nel 1944, con altri quattordici. Non si sa ancora perché.

Corriere della Sera 04.02.12

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I giuristi: «Decisione inevitabile, non si può processare uno Stato», di Dino Messina

È difficile parlare di formalismi giuridici quando si tratta di massacri dei civili: in questo caso di una delle meno conosciute ma più atroci rappresaglie, compiuta da un reparto della Wehrmacht in ritirata, il 29 giugno 1944, tre mesi dopo le Fosse Ardeatine, tre prima di Marzabotto. Le vittime in Val di Chiana (a Civitella, San Pancrazio, Cornia), nell’Aretino, furono 203, molte delle quali bambini, anziani, donne, adolescenti, con una proporzione di cinquanta italiani per ogni soldato tedesco ucciso dai partigiani della banda «Renzino». Un criterio più duro del famigerato dieci a uno seguito all’attentato di via Rasella.
«Non c’è indennizzo sufficiente a risarcire ciascuna di quelle vittime», dice lo storico tedesco Lutz Klinkhammer, autore del fondamentale saggio L’occupazione tedesca in Italia (Bollati Boringhieri). Eppure la Corte dell’Aia ha accolto il ricorso della Germania contro la sentenza della Cassazione che per la prima volta condannava lo Stato tedesco a risarcire le vittime delle stragi naziste in Italia.
La sentenza dell’Aia ha una spiegazione giuridica e una storica. Un tribunale interno, dice Umberto Leanza, professore emerito di Diritto internazionale all’università Roma 2, non può in alcun modo considerare responsabile uno Stato. È quel che ha fatto la nostra Corte di Cassazione ritenendo crimini internazionali le rappresaglie compiute dalle truppe tedesche in Italia dopo l’8 settembre 1943. Il crimine internazionale è una figura giuridica nata a partire dai tribunali di Norimberga e di Tokyo. «Si tratta di crimini — chiarisce Leanza — che costituiscono tuttavia una eccezione all’immunità dalla giurisdizione non degli Stati ma degli organi statali che li hanno compiuti». Un criterio già seguito dai tribunali di Norimberga e Tokyo. La Corte di Cassazione italiana ha ritenuto di estendere la responsabilità allo Stato tedesco sulla base della più recente giurisdizione internazionale che equipara la violenza sui civili ai crimini contro l’umanità.
La sentenza dell’Aia è l’ultimo atto della riapertura a metà degli anni Novanta dei processi archiviati nel cosiddetto «armadio della vergogna». Con i processi si è riaperto anche un contenzioso con la Germania che si riteneva chiuso dal 2 giugno 1961, quando con due accordi bilaterali tra Roma e Bonn, la Germania riconosceva un indennizzo complessivo di quaranta milioni di marchi per le vittime italiane dei campi di concentramento. «In totale — spiega lo storico Filippo Focardi — i beneficiari furono circa dodicimila, in maggioranza deportati politici, ebrei e loro familiari. Solo mille i risarcimenti riguardanti gli internati militari, su un totale di seicentomila. Come contropartita ai risarcimenti, l’Italia garantiva la cessazione di tutte le cause contro lo Stato tedesco». Del resto la Germania riconobbe quegli indennizzi come un atto di buona volontà unilaterale, non come il riconoscimento di un diritto. L’Italia nel 1947, con il controverso comma 4 dell’articolo 77 del Trattato di Pace, aveva rinunciato a chiedere gli indennizzi per i danni dell’occupazione nazista. Faceva eccezione il diritto a chiedere la restituzione dei beni trafugati.
La sentenza dell’Aia ha dunque ribadito che l’immunità degli Stati, non solo di quello tedesco, non si tocca. «Me l’aspettavo — dice Focardi —. E da un certo punto di vista è un bene anche per l’Italia, se si considera che lo stesso tribunale internazionale ha respinto un ricorso presentato contro il nostro Stato dai parenti delle vittime della strage di Domenikon, nella Grecia centrale, dove i fanti della Divisione Pinerolo, il 16 febbraio 1943, uccisero per rappresaglia 150 civili».
Resta un dubbio: se le responsabilità dei crimini sono personali perché sedici ufficiali tedeschi condannati all’ergastolo per le stragi in Italia vivono ancora liberi in Germania?

Corriere della Sera 04.02.12

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«Bruciarono la casa poi uccisero papà. Sarebbe bastato un euro a famiglia», di Andrea Pasqualetto

La televisione che va, la notizia sulle stragi e lei, la signora Maria Luisa, che non può evitarla: «Mi sono sentita male, ancora una volta». Quella mattina, Maria Luisa Paini aveva due anni. Era il 20 marzo del 1944, il giorno dell’eccidio di Cervarolo: 24 uomini fucilati nell’aia del paese. Lei in braccio alla mamma, a un passo dall’orrore: «Stavamo andando lì, dove volevano uccidere il nonno e il papà. Il tedesco mi ha preso, mi ha messo a testa in giù per ammazzarmi. Allora la mamma disse: prima me e poi lei. Un altro nazista si è fatto largo e ha ordinato di lasciar stare altrimenti avrebbe ucciso il commilitone». Lei si salvò ma di lì a poco spararono molti colpi e sotto quel piombo caddero anche il papà quarantunenne e il nonno di settantadue, quasi l’età di Maria Luisa. Non riesce a dire altro, a distanza di quasi settant’anni. Non ce l’ha con giudici della Corte internazionale dell’Aia. No, è il ricordo: «Mi succede tutte le volte che sento parlare di stragi, qualsiasi strage. Tutte le volte che vedo del fumo fuori… mi prende il panico. Forse perché quella volta bruciarono anche la casa. Mi scusi ma preferisco mettere giù». Così l’allora bimba di Villa Minozzi, oggi casalinga, un figlio e una vita segnata dalla fucilazione dell’aia.
Per la strage di Cervarolo e per quelle dell’Appennino tosco-emiliano, diciotto massacri per 350 vittime civili, sono stati condannati all’ergastolo sei nazisti della Panzer-division «Hermann Goering», il reparto speciale tedesco che nel marzo del 1944, battendo in ritirata dopo la rottura dell’alleanza fra Italia e Germania, mise a ferro e fuoco borghi e paesi. Con la signora Maria Luisa c’è Loretta Righi, che aveva nove anni e abitava proprio di fronte al comando provvisorio nazista. Perse il nonno: «Remigio Fontana, io sono la figlia della Santina che la scampò», tiene a ricordare. È indignata: «Entrarono in casa con le bombe a mano, spararono alle galline, razziarono e mangiarono e io e mia nonna eravamo chiuse in un angolo, terrorizzate. Mentre il nonno non è più tornato. Dalla Germania non volevo i soldi ma che fosse riconosciuto il grande danno per tutti noi e invece la Germania l’ha vinta ancora una volta».
L’avvocato Roberto Alboni, invece, non vide cosa successe sulle colline appenniniche di Civitella, Cornia e San Pancrazio, in provincia di Arezzo, il 29 giugno di quell’anno, quando i tedeschi trucidarono 203 conterranei. Ma siccome lì ha perso il nonno «mentre stava andando in bicicletta al molino a prendere il grano» e siccome «quella scomparsa ha rovinato la vita della mia famiglia, che prima stava bene e poi è rimasta senza nulla», allora ha deciso di rappresentare i parenti delle vittime e soprattutto i suoi: «Un milione ho ottenuto per i congiunti di mio nonno. Nel senso che i giudici hanno sentenziato questa provvisionale: 200 mila euro per ogni figlio». E ora che l’Italia ha perso? «Io non dispero, anzi. Mi sono già letto le motivazioni e mi sembra che i giudici invitino i due Paesi a risolvere la questione per via extragiudiziale, in forma pattizia. Andrò avanti».
Ma, di certo, rimane il principio. Come riconosce il procuratore capo militare di Roma, Marco De Paolis, il magistrato che da La Spezia ha dato un forte impulso ai processi per le stragi naziste commesse dal settembre del 1943 al maggio 1945, riaprendo molti fascicoli rimasti a ingiallire nel cosiddetto «armadio della vergogna» del capitolino palazzo Celsi: «I processi vanno avanti ma sicuramente non potremo più condannare la Germania come responsabile civile. Con il riconoscimento della responsabilità dei nazisti, la Cassazione aveva stabilito un principio innovativo ma è chiaro che in una materia tanto delicata come il diritto internazionale, dove hanno grande peso gli usi e le consuetudini, serve più tempo». Il suo collega padovano, Sergio Dini, anche lui impegnato in passato a scavare negli eccidi nazisti in Veneto, sospira: «Qual è il limite di questo diritto? L’Italia si deve far carico forse delle colpe degli antichi romani?». De Paolis: userebbe il buon senso: «Direi di guardare ai parenti in linea diretta, sopravvissuti. Finché sono in vita possono chiedere i danni».
Rimane la profonda amarezza del sindaco di Marzabotto (oltre 800 morti) Romano Franchi, che ne fa una questione morale e umana: «Già, ma la ragion di Stato ha prevalso ancora una volta». Idealmente gli stringe la mano da Cervarolo il dottor Italo Rovali che perse un bisnonno e un nonno e che riconosce di aver vissuto in funzione di quel sangue: «Per questo motivo ho voluto una laurea in giurisprudenza, per questo ho guidato il comitato dei familiari, per questo ho studiato diritto internazionale. E ora dico: sentenza politica». Gli sarebbe bastato un inchino della Germania, dice: «Bastava che qualcuno dell’ambasciata venisse qui a dare, chessò, un euro a ogni famiglia delle vittime. Era sufficiente: altro che chiedere l’immunità».
Alla signora Loretta forse non sarebbe bastato: «Ho una scossa tutte le volte che mi viene qualcuno da dietro, come quel nazista a casa mia».

Corriere della Sera 04.02.12

"Le piccole biblioteche come luoghi del welfare", di Francesco Erbani

In tutta Italia stanno nascendo sale di lettura organizzate “dal basso” grazie al modello della studiosa Agnoli. Sono posti pubblici dove si forniscono servizi multipli: si trovano i volumi e si tengono corsi. Sono nuovi spazi che vanno avanti grazie ai cittadini diventando “rifugi” per anziani e bimbi. «Mi piace, perché leggendo posso addormentarmi senza che nessuna guardia mi svegli», ha scritto su un post-it un lettore della bolognese Sala Borsa. Sala Borsa è la biblioteca multimediale di piazza Nettuno, pieno centro della città. Un tempo, alla fine dell´Ottocento, qui si scambiavano merci, bestiame e titoli. Ora alle cinquemila persone che tutti i giorni vi transitano hanno chiesto di completare la frase «Sala Borsa mi piace perché… ». E quella era una delle risposte. Un´altra recitava: «Perché “io barbone” quando piove o fa freddo ho un riparo ma soprattutto perché “posso” acculturarmi leggendo un buon libro il che non è poco, grazie».
Antonella Agnoli ha raccolto i post-it nel suo iPad e li porta sempre con sé. Da alcuni anni si fa promotrice in Italia di quelle che nel mondo anglosassone chiamano le public library e che lì si sa benissimo cosa sono. Non sono le biblioteche di conservazione, con gli scaffali grigi, i libri in ordine, le lampade liberty e le sale manoscritti riservate agli studiosi. Patrimonio indispensabile alla cultura di una nazione, eppure in Italia costrette a combattere per sopravvivere. Quelle alle quali lei pensa sono “piazze del sapere” (si intitolava così il libro che ha pubblicato da Laterza alcuni anni fa), luoghi in cui si fornisce un servizio multiplo: libri, certamente, e poi giornali, studio, collegamenti a internet, musica, caffè, poltrone, spazi per bambini, per le riunioni di associazioni e comitati, per i corsi più vari, dall´informatica all´ikebana, dal lavoro a maglia alla lingua cinese o all´italiano per stranieri. Luoghi di socialità. Tenuti in vita da bibliotecari di professione e da volontari. Servizio culturale e welfare. «Infrastrutture democratiche», le chiama, spazi essenziali soprattutto laddove si raggrumano vecchie e nuove povertà, solitudini e fatica di vivere.
La Agnoli, cadorina di nascita e di lingua, ha diretto la biblioteca di Spinea (vicino a Venezia) e inventato quella di San Giovanni di Pesaro, per tanti aspetti esemplare, di cui è stata direttrice fino al 2008. Ha appena scritto Caro sindaco, parliamo di biblioteche (Editrice Bibliografica, pagg. 140, euro 12). E da qualche tempo è diventata una specie di consulente itinerante di gruppi di cittadini, di volontari e anche di amministratori locali che la lezione anglosassone vogliono metterla in pratica. Anglosassone, poi, fino a un certo punto. Nei quartieri più difficili di Londra, come Tower Hamlets, funzionano gli Idea Store, di cui è responsabile anche un bibliotecario italiano, Sergio Dogliani. Ma per trovare un paese che vanta un trend vorticosamente positivo occorre andare in Colombia: a Bogotà le biblioteche non sono tantissime, 52, ma sono frequentate ogni anno da 5 dei 7 milioni di abitanti. Il che ha indotto l´Unesco a proclamare la città “Capitale mondiale del libro” nel 2007.
Tre giorni fa Antonella Agnoli ha girato fra Caivano, Cardito, Crispano e Frattaminore, paesi a nord di Napoli, verso Caserta. Realtà difficile, al limite della disperazione (discariche, abusivismo, caos edilizio, camorra). Eppure amministratori e soprattutto un gruppo di giovani si sono detti convinti che «una biblioteca con i suoi nuovi spazi e laboratori diviene un´istituzione fondamentale in una società democratica». «Lo hanno scritto in un documento intitolato La città che vogliamo, con il quale si sono presentati alle elezioni amministrative», racconta Antonella Agnoli. «Alla biblioteca chiedono ambienti di lavoro e di studio armoniosi, luoghi di accesso a internet, spazi autogestiti. Chiedono inoltre che contribuisca all´educazione permanente degli adulti: una serie di servizi che un´amministrazione pubblica intelligente non può ritenere superflui in un´area tanto mortificata, certamente più sensati di certe sagre, festival o premi letterari».
È spesa sociale, insiste la Agnoli. La sola parola welfare evoca l´idea dello spreco in chi pensa che bastino gli accomodamenti del mercato ad alleviare povertà e incultura. «Ma studi americani dimostrano che un welfare culturale riduce le malattie da depressione, dunque più soldi per la cultura sono meno soldi per la sanità. E ancora: nel 2010 il 68 per cento di chi cercava lavoro negli Stati Uniti ha inviato il suo curriculum da una biblioteca. Significa che le biblioteche, anziché sparire perché c´è il web, come profetizza qualcuno, sono un passaggio essenziale anche per accedere alla rete: molti di quel 68 per cento prima aprivano internet da casa, poi, perso il lavoro, hanno tagliato le spese di connessione».
In Italia solo il 10 per cento degli ultrasessantacinquenni ha familiarità con internet. E nel 2015 avranno oltre sessantacinque anni 13 milioni di italiani. Dice Antonella Agnoli: «Non esiste luogo migliore di una biblioteca per offrire agli anziani un´elementare alfabetizzazione informatica: vogliamo che vadano in un internet caffè?». Sono molte le cause che allontanano i lettori dai libri. «Ma quante di quelle settecentomila persone che, secondo l´Istat, l´anno scorso rispetto al 2010 si sono tenute alla larga da una libreria lo hanno fatto perché con tre figli e 1.200 o 1.400 euro al mese non ne hanno potuto spendere 20 per un romanzo? Questi lettori può recuperarli la biblioteca. Ma quale biblioteca?».
Non è un compito che possono assolvere le gloriose Marciana di Venezia o Nazionale di Firenze. Ma la biblioteca delle Balate del quartiere Albergheria, centro storico depresso di Palermo, sì. È una delle iniziative virtuose che segnala la Agnoli, molte delle quali spuntano al Sud. Biblioteca per bambini e adolescenti, le Balate è l´unica del capoluogo siciliano. È retta da volontari, con un contributo della Fondazione Unipolis, e da Donatella Natoli, una vita spesa nelle zone più degradate della città, prima come medico e ora come guida per una quarantina di piccoli lettori ogni giorno. Piccoli lettori difficili, oltre a lettori grandi, frequentano anche il Centro Hurtado diretto dal gesuita Fabrizio Valletti e la biblioteca Le Nuvole a Scampìa, Napoli. La Fondazione Unipolis ha aiutato Bibliocasa, la biblioteca sistemata in un prefabbricato dell´Aquila, a Piazza d´Arti, e animata da Nicoletta Bardi e da un gruppo di volontari (ora c´è anche un autobus che distribuisce libri nella martoriata e dispersa città). «I volontari sono indispensabili», spiega Antonella Agnoli, «i bibliotecari dipendenti dagli enti locali sono sempre meno e sempre più anziani. Sono generosi e competenti, senza di loro una biblioteca non funziona, ma ce ne sono anche di demotivati. Assunzioni non se ne fanno. Subentrano le cooperative, ma alcune pagano 5 euro l´ora, un compenso da sfruttamento che non induce a un atteggiamento cordiale e garbato, essenziale invece in una biblioteca: molto meglio i volontari». A Torino sono impegnati in tantissimi servizi, fra musei e siti storico-artistici. Poi c´è il caso di Giovanni Galeazzi, un pensionato che tutte le mattine da Mestre va all´Archivio di Stato di Venezia (lo ha raccontato Carlo Mazzacurati nel film Sei Venezia). «Ad Avellino un gruppo di persone aderente ai Presìdi del libro ha raccolto soldi in città, comprato scaffali, donato giornali e riviste, allestito tre postazioni internet e colorato gli arredi della biblioteca Nunzia Festa. Ma soprattutto ha consentito che le sale fossero aperte anche il pomeriggio. Una biblioteca accessibile dalle 9 alle 13 non è una biblioteca».

La Repubblica 03.02.12

“Le piccole biblioteche come luoghi del welfare”, di Francesco Erbani

In tutta Italia stanno nascendo sale di lettura organizzate “dal basso” grazie al modello della studiosa Agnoli. Sono posti pubblici dove si forniscono servizi multipli: si trovano i volumi e si tengono corsi. Sono nuovi spazi che vanno avanti grazie ai cittadini diventando “rifugi” per anziani e bimbi. «Mi piace, perché leggendo posso addormentarmi senza che nessuna guardia mi svegli», ha scritto su un post-it un lettore della bolognese Sala Borsa. Sala Borsa è la biblioteca multimediale di piazza Nettuno, pieno centro della città. Un tempo, alla fine dell´Ottocento, qui si scambiavano merci, bestiame e titoli. Ora alle cinquemila persone che tutti i giorni vi transitano hanno chiesto di completare la frase «Sala Borsa mi piace perché… ». E quella era una delle risposte. Un´altra recitava: «Perché “io barbone” quando piove o fa freddo ho un riparo ma soprattutto perché “posso” acculturarmi leggendo un buon libro il che non è poco, grazie».
Antonella Agnoli ha raccolto i post-it nel suo iPad e li porta sempre con sé. Da alcuni anni si fa promotrice in Italia di quelle che nel mondo anglosassone chiamano le public library e che lì si sa benissimo cosa sono. Non sono le biblioteche di conservazione, con gli scaffali grigi, i libri in ordine, le lampade liberty e le sale manoscritti riservate agli studiosi. Patrimonio indispensabile alla cultura di una nazione, eppure in Italia costrette a combattere per sopravvivere. Quelle alle quali lei pensa sono “piazze del sapere” (si intitolava così il libro che ha pubblicato da Laterza alcuni anni fa), luoghi in cui si fornisce un servizio multiplo: libri, certamente, e poi giornali, studio, collegamenti a internet, musica, caffè, poltrone, spazi per bambini, per le riunioni di associazioni e comitati, per i corsi più vari, dall´informatica all´ikebana, dal lavoro a maglia alla lingua cinese o all´italiano per stranieri. Luoghi di socialità. Tenuti in vita da bibliotecari di professione e da volontari. Servizio culturale e welfare. «Infrastrutture democratiche», le chiama, spazi essenziali soprattutto laddove si raggrumano vecchie e nuove povertà, solitudini e fatica di vivere.
La Agnoli, cadorina di nascita e di lingua, ha diretto la biblioteca di Spinea (vicino a Venezia) e inventato quella di San Giovanni di Pesaro, per tanti aspetti esemplare, di cui è stata direttrice fino al 2008. Ha appena scritto Caro sindaco, parliamo di biblioteche (Editrice Bibliografica, pagg. 140, euro 12). E da qualche tempo è diventata una specie di consulente itinerante di gruppi di cittadini, di volontari e anche di amministratori locali che la lezione anglosassone vogliono metterla in pratica. Anglosassone, poi, fino a un certo punto. Nei quartieri più difficili di Londra, come Tower Hamlets, funzionano gli Idea Store, di cui è responsabile anche un bibliotecario italiano, Sergio Dogliani. Ma per trovare un paese che vanta un trend vorticosamente positivo occorre andare in Colombia: a Bogotà le biblioteche non sono tantissime, 52, ma sono frequentate ogni anno da 5 dei 7 milioni di abitanti. Il che ha indotto l´Unesco a proclamare la città “Capitale mondiale del libro” nel 2007.
Tre giorni fa Antonella Agnoli ha girato fra Caivano, Cardito, Crispano e Frattaminore, paesi a nord di Napoli, verso Caserta. Realtà difficile, al limite della disperazione (discariche, abusivismo, caos edilizio, camorra). Eppure amministratori e soprattutto un gruppo di giovani si sono detti convinti che «una biblioteca con i suoi nuovi spazi e laboratori diviene un´istituzione fondamentale in una società democratica». «Lo hanno scritto in un documento intitolato La città che vogliamo, con il quale si sono presentati alle elezioni amministrative», racconta Antonella Agnoli. «Alla biblioteca chiedono ambienti di lavoro e di studio armoniosi, luoghi di accesso a internet, spazi autogestiti. Chiedono inoltre che contribuisca all´educazione permanente degli adulti: una serie di servizi che un´amministrazione pubblica intelligente non può ritenere superflui in un´area tanto mortificata, certamente più sensati di certe sagre, festival o premi letterari».
È spesa sociale, insiste la Agnoli. La sola parola welfare evoca l´idea dello spreco in chi pensa che bastino gli accomodamenti del mercato ad alleviare povertà e incultura. «Ma studi americani dimostrano che un welfare culturale riduce le malattie da depressione, dunque più soldi per la cultura sono meno soldi per la sanità. E ancora: nel 2010 il 68 per cento di chi cercava lavoro negli Stati Uniti ha inviato il suo curriculum da una biblioteca. Significa che le biblioteche, anziché sparire perché c´è il web, come profetizza qualcuno, sono un passaggio essenziale anche per accedere alla rete: molti di quel 68 per cento prima aprivano internet da casa, poi, perso il lavoro, hanno tagliato le spese di connessione».
In Italia solo il 10 per cento degli ultrasessantacinquenni ha familiarità con internet. E nel 2015 avranno oltre sessantacinque anni 13 milioni di italiani. Dice Antonella Agnoli: «Non esiste luogo migliore di una biblioteca per offrire agli anziani un´elementare alfabetizzazione informatica: vogliamo che vadano in un internet caffè?». Sono molte le cause che allontanano i lettori dai libri. «Ma quante di quelle settecentomila persone che, secondo l´Istat, l´anno scorso rispetto al 2010 si sono tenute alla larga da una libreria lo hanno fatto perché con tre figli e 1.200 o 1.400 euro al mese non ne hanno potuto spendere 20 per un romanzo? Questi lettori può recuperarli la biblioteca. Ma quale biblioteca?».
Non è un compito che possono assolvere le gloriose Marciana di Venezia o Nazionale di Firenze. Ma la biblioteca delle Balate del quartiere Albergheria, centro storico depresso di Palermo, sì. È una delle iniziative virtuose che segnala la Agnoli, molte delle quali spuntano al Sud. Biblioteca per bambini e adolescenti, le Balate è l´unica del capoluogo siciliano. È retta da volontari, con un contributo della Fondazione Unipolis, e da Donatella Natoli, una vita spesa nelle zone più degradate della città, prima come medico e ora come guida per una quarantina di piccoli lettori ogni giorno. Piccoli lettori difficili, oltre a lettori grandi, frequentano anche il Centro Hurtado diretto dal gesuita Fabrizio Valletti e la biblioteca Le Nuvole a Scampìa, Napoli. La Fondazione Unipolis ha aiutato Bibliocasa, la biblioteca sistemata in un prefabbricato dell´Aquila, a Piazza d´Arti, e animata da Nicoletta Bardi e da un gruppo di volontari (ora c´è anche un autobus che distribuisce libri nella martoriata e dispersa città). «I volontari sono indispensabili», spiega Antonella Agnoli, «i bibliotecari dipendenti dagli enti locali sono sempre meno e sempre più anziani. Sono generosi e competenti, senza di loro una biblioteca non funziona, ma ce ne sono anche di demotivati. Assunzioni non se ne fanno. Subentrano le cooperative, ma alcune pagano 5 euro l´ora, un compenso da sfruttamento che non induce a un atteggiamento cordiale e garbato, essenziale invece in una biblioteca: molto meglio i volontari». A Torino sono impegnati in tantissimi servizi, fra musei e siti storico-artistici. Poi c´è il caso di Giovanni Galeazzi, un pensionato che tutte le mattine da Mestre va all´Archivio di Stato di Venezia (lo ha raccontato Carlo Mazzacurati nel film Sei Venezia). «Ad Avellino un gruppo di persone aderente ai Presìdi del libro ha raccolto soldi in città, comprato scaffali, donato giornali e riviste, allestito tre postazioni internet e colorato gli arredi della biblioteca Nunzia Festa. Ma soprattutto ha consentito che le sale fossero aperte anche il pomeriggio. Una biblioteca accessibile dalle 9 alle 13 non è una biblioteca».

La Repubblica 03.02.12

"L'articolo 18 frena gli investimenti Il posto fisso? E' un valore positivo"

Monti: “La riforma già a marzo, possibili novità sui licenziamenti. Dobbiamo tutelare i giovani chi si trovano in uno stato di schiavitù”. «Se per posto fisso intendiamo un posto di lavoro che ha una su stabilità è ovvio che è un valore positivo». Il premier Mario Monti in videoforum a Repubblica.it, precisa la frase sul posto fisso monotono. «Una frase come quella presa fuori dal contesto puo’ prestarsi ad equivoco», ammette il presidente del consiglio che spiega di aver fatto riferimento «alla sfida del cambiamento di lavoro nel corso della vita» in particolare per i giovani.

Questi i principali punti dell’intervento di Monti:

“Già a marzo è possibile la modifica dell’articolo 18”
«Stiamo vedendo al tavolo sulla riforma del lavoro come si può contemperare la garanzia del rispetto di certi diritti del singolo lavoratore con forme che non scoraggino le imprese dall’assumere maggiormente e dobbiamo anche compararci con il piano internazionale» spiega il premier, secondo cui l’articolo 18 è «centrale nella discussione nel senso che è uno dei temi e siccome in passato per gli uni era la punta di una spada offensiva, per altri centro di scudo difensivo, e sembrava la contrapposizione tra orazi e curiazi. Il nostro scopo è passare dai simboli e i miti alla realtà». La riforma del mercato del lavoro è «un mosaico, non bisogna precludersi di usare ogni tessera». Monti ha anche indicato per «fine marzo il termine che il governo si è dato per varare la riforma».

“Trovare lavoro ai giovani è l’obiettivo centrale del nostro governo”
«Creare lavoro per i giovani è l’obiettivo centrale di tutta la politica economica e sociale del governo, se ci si riesce e ci vorrà del tempo, ma questo non significa che i giovani debbano e possano avere quel lavoro per tutta la loro esistenza, il cambiamento è da guardare positivamente e non negativamente. Se ci si riesce, e ci vorrà del tempo – aggiunge il premier – non significa che i giovani che troveranno un lavoro debbano o possano avere quel lavoro per tutta la loro esistenza. Se in una società esiste il lavoro ed esistono delle tutele di base il cambimento è da riguardare positivamente e non negativamente».

“E’ necessario tutelare chi si trova in una situzione di schiavitù”
«Avere la sfida del cambiamento di lavoro nel corso della propria vita è una cosa positiva, è una cosa che stimola, per arrivare a dare un lavoro ai giovani bisogna tutelare un po’ meno chi è già molto tutelato, quasi blindato nella cittadella, mentre c’è chi si trova quasi in una situazione di schiavitù, in una forma estrema di precariato».

“Nel mercato del lavoro il modello non sono gli Usa, ma la Danimarca”
Più che gli Stati Uniti, il modello cui guarda il governo per il mercato del lavoro è quello della
“mitica” Danimarca. Il premier sottolinea che «gli Usa non è che siano un esempio da imitare completamente. Sicuramente hanno un mercato del lavoro molto flessibile ed è più facile che altrove trovare il lavoro, ma in molti settori è molto poco tutelato il lavoratore che perde un lavoro. Se proprio si deve cercare un modello, meglio certi Paesi del nord, come la ‘mitica’ Danimarca che tutela il singolo lavoratore più che il posto del lavoro». Ovvero, «quando un lavoratore non può più lavorare in una certa fabbrica, ha una serie di tutele lui, non il posto in quella fabbrica che deve essere cancellato. Per fare questo occorrono tantissime cose che stiamo cercando di mettere in atto». Dunque «occorre creare più occasioni di lavoro per i giovani, un po’
meno tutelati in modo trincerato ma più posti di lavoro. E un Paese è capace di creare più o meno posti di lavoro a seconda di quanto è competitivo. Gli sforzi che stiamo facendo per diventare
più competitivi, mirano a far sì che le aziende possano espandersi, anzichè ridimensionarsi o chiudere».

“Con la disciplina di bilancio si convincerà la Merkel sugli eurobond”
L’euro è una moneta robusta, ma l’introduzione degli eurobond potrebbe contribuire a rafforzarla ulteriormente. Il premier, che si è detto ottimista sul fatto che una volta che l’accordo sulla disciplina di bilancio sarà definitivamente perfezionato anche la Germania si convincerà di questo.
«L’Euro è una creatura giovane, direi adolescente, ma è un giovane robusto che ha dato prova di grande forza», sottolinea Monti, ricordando che però «c’è stato un problema nella gestione dell’eurozona, e ci sono diverse posizioni circa l’importanza degli eurobond per irrobustire l’euro, io sono tra quelli, come il mio predecessore al tesoro Tremonti, che considerano gli eurobond possano avere una parte importante». Per Monti, «con la Cancelliera Merkel divergiamo sul ruolo oggi degli eurobond, ma siamo d’accordo sul fatto che una volta che sarà definitivamente perferzionato il meccanismo di disciplina di bilancio in Ue si potrà guardare più serenamente anche da parte tedesca all’introduzione degli eurobondo e l’euro sarà maggiormente potenziato».

“Il mondo bancario è stato molto disturbato dal mio governo”
«L’azione del governo vuole colpire un po’ tutti, magari ci sono norme meno evidenti ma il mondo
bancario è stato molto disturbato, già a dicembre con una norma che vieta ad un membro di un cda di una banca di sedere nel cda di un’altra banca e questo vale anche per le assicurazioni». Monti spiega come le norme che impediscono «ai membri del cda di una banca di sedere nel cda di un’altra banca» servano a impedire che «l’essere seduto in certi salotti della finanza porti a una situazione di scarsa concorrenza tra le banche».

“Siamo soddisfatti per lo spread”
Il Governo è contento dell’andamento dello ‘spread’ tra Btp e Bund tedeschi, ma quanto ottenuto fin
qui non è ancora abbastanza: «Mentre parliamo è 372 punti base, 200 punti più basso del 574 che era il 9 novembre, quando c’è stata la svolta politica e io sono stato raggiunto a Berlino – manco a farlo apposta – da una telefonta del capo dello Stato. Siamo soddisfati – spiega il premier – che sia 200 punti più basso, ma non ci basta nella dimensione e nella struttura: nella dimensione perché rispetto ai giudizi positivi questa diminuzione non riflette ancora la messa in sicurezza dei conti italiani».

Se lo spread non è ancora sceso come dovrebbe, in base alle manovre messe in campo dall’Italia, è per «quello che è diventato un rischio ‘euro-zona’ più diffuso nei mercati”. D’altro canto, l’accordo di lunedì scorso tra i Paesi Ue sul ‘fiscal compact’ produrrà «miglioramenti, che credo ci saranno nelle prossime settimane». Inoltre, ha aggiunto, attualmente i tassi sui titoli a breve termine sono scesi di più di quelli a lungo termine e questo “non ci piace ancora, i tassi rimangono un po’ troppo altini sui titoli a più lungo termine”. Colpa di una scarsa fiducia dei mercati nei confronti della politica italiana, sfiducia che secondo Monti verrà via via eliminata.

“L’Italia è ridotta male per colpa di governi buonisti”
L’Italia è «ridotta un po’ male» perché per troppo tempo i Governi che si sono succeduti hanno avuto un atteggiamento troppo «buonista». Monti punta il dito in particolare contro i governi degli
anni ’80 e primi ’90. «Perché l’Italia è ridotta un po’ male? Perché per decenni i governi italiani hanno avuto troppo cuore, hanno diffuso troppo buonismo sociale, soprattutto prima che
arrivasse l’Europa un po’ austera a renderci più attenti». C’è stato un periodo, ha ricordato, durante il quale «l’Italia aveva un disavanzo pubblico che era dell’8-10-12% Pil. Non c’era neanche dibattito, neanche consapevolezza di questo. Perché i governi, molto politici, accoglievano le richieste delle varie parti e la somma delle spese pubbliche era molto superiore alle entrate. Anno dopo anno si creava il debito pubblico. Un debito che è andato a gravare su persone che allora non votavano o non erano ancora nate”.

Quelle persone, ha sottolineato Monti, «sono i giovani di oggi che non trovano lavoro». Dunque, «va tenuto presente che più si eroga ‘bontà di cuore’ oggi, più si creano condizioni che graveranno come il piombo su quelli che verranno dopo. Per questo che i giovani italiani non trovano lavoro, perché si è detto di sì a tutti. Per questo un governo come il nostro ha il compito anche di spiegare che ciò che sembra sgradevole, può anche darsi che lo sia, ma ha l’intenzione di riequilibrare le cose”. E Monti ha concluso ricordando che «con la fretta della nostra manovra di dicembre abbiamo pur sempre introdotto una cosa che non abbiamo chiamato patrimoniale per non urtare sensibilità, ma abbiamo di fatto introdotto un’imposta su molte componenti del patrimonio, perché pensiamo che quando c’è da risanare una situazione c’è da fare attenzione al’equità».

da lastampa.it