memoria

Da Marzabotto a Stazzema massacri ancora senza giustizia", di Luigi Spezia

L´ultimo processo farà luce sulla strage di Fragheto in provincia di Rimini. Negli scantinati della Procura militare di Roma c´erano 700 faldoni occultati per decenni. Gli avvocati che rappresentano superstiti e parenti delle vittime, nella sentenza della Corte dell´Aja vedono anche un´«opportunità», dopo faticose vicende giudiziarie che si trascinano da anni. I risarcimenti sono ancora possibili per le stragi di Marzabotto (Bologna), di Monchio (Modena), di Sant´Anna di Stazzema (Lucca), le più note, e per molte altre: l´ultimo processo è iniziato il 20 gennaio e deve far luce sulla strage di Fragheto, in provincia di Rimini. Certo, per vie diverse, non più quelle giudiziarie, riconosce l´avvocato Andrea Speranzoni, che ha seguito le cause di Monchio e di Marzabotto. «Direi che, in parte, il lavoro che abbiamo fatto verrà disatteso, non si toccano le sentenze penali, ma la Germania uscirà dai processi ancora in corso, le condanne già emesse nei suoi confronti forse saranno revocate. Si è perduta un´occasione storica, quella di dichiarare inammissibile l´immunità di uno Stato in caso di crimini contro l´umanità». Ma non tutto è perduto: «La sentenza dell´Aja impone di affrontare ora i risarcimenti sul piano politico internazionale, le dichiarazioni dei due ministri sono confortanti». Non è finita la speranza di ottenere giustizia che si era riaperta a metà anni ‘90, cinquant´anni dopo i fatti a causa dell´insabbiamento del cosiddetto “armadio della vergogna”. Tutti questi processi nascono infatti, con grave ritardo, dal ritrovamento negli scantinati della Procura militare di Roma di settecento fascicoli occultati per decenni, dove erano custoditi i nomi dei carnefici e delle vittime, dei reparti tedeschi e dei paesi messi a ferro e fuoco, la storia di rappresaglie e fucilazioni di massa delle Ss, di cui si erano perduti gli atti e le denunce piene di dettagli sconosciuti, ma non la memoria.
Il caso della strage di Civitella, Cornia e San Pancrazio era arrivato fino alla Cassazione penale, che nel 2008, a sezioni unite, aveva per la prima volta condannato la Germania al pagamento dei danni alle vittime, in quanto “responsabile civile” di quella strage. Gli avvocati l´avevano ottenuta, questa condanna, ma prima di allora solo il pensiero di chiederla sembrava un azzardo, anche se c´era già stata una sentenza simile della Cassazione civile nel 2004. Il processo sugli eccidi di Marzabotto (dal 29 settembre al 5 ottobre 1944, 700 morti) e di Sant´Anna di Stazzema (12 agosto 1944, 560 morti) erano iniziati prima del 2008 e nessuno aveva chiesto di condannare anche la Germania, oltre agli autori delle stragi. Su Marzabotto, il 13 gennaio del 2007, comunque la corte militare di La Spezia proferì dieci condanne di militari tedeschi ormai ottantenni e cinque assoluzioni. La sentenza di primo grado per la strage di Stazzema uscì nel 2004 e tre anni dopo vennero confermati dalla Cassazione gli ergastoli all´ufficiale Gerhard Sommer e ai sottufficiali nazisti Georg Rauch e Karl Gropler. Ma è dopo il 2008 che quella sentenza di Cassazione, ora rigettata dall´Aja, ha fatto scuola.
Per la strage di Monchio, Costrignano e Susano (18 marzo ‘44, 136 morti), il cui procedimento fu istruito dal procuratore di La Spezia Marco de Paolis, uno dei più attivi su questo fronte giudiziario, la corte militare di Verona il 6 luglio scorso ha infatti pronunciato non solo una sentenza di condanna penale per quattro militari tedeschi, due delle quali non appellate e dunque già definitive, ma anche la condanna al risarcimento dello Stato tedesco. Identici riconoscimenti di responsabilità della Germania a causa dei crimini commessi in Italia dalle forze naziste sono stati sanciti in due processi di appello, per le stragi di Vinca e di Bardine San Terenzo, entrambe in provincia di Massa Carrara, per la strage di Padulle di Fucecchio (primo grado nel maggio 2011) e per le 180 persone trucidate a Vallucciole (Arezzo-Firenze), con un processo che anche in questo caso è giunto alla sentenza di primo grado.

La Repubblica 04.02.12

******

“Berlino non deve risarcire le vittime italiane dei nazisti
La Corte dell’Aia: la Germania ha l’immunità sulle stragi”, di Paolo Lepri

Niente più processi, niente più risarcimenti. L’Italia ha «violato il diritto internazionale» consentendo procedimenti legali contro la Germania per i massacri compiuti dai nazisti. È una sentenza chiara, quella pronunciata ieri dalla Corte internazionale dell’Aia, anche se i giudici hanno invitato le due parti al dialogo e hanno deplorato il fatto che i deportati italiani nella Seconda guerra mondiale siano stati esclusi dal piano dei risarcimenti tedeschi.
«Non è stata riconosciuta — ha detto il presidente della Corte, il giapponese Hisashi Owada — l’immunità giurisdizionale che spetta a un altro Stato sovrano». Come voleva Berlino, l’Italia dovrà prendere «tutte le misure necessarie», anche modificando la sua legislazione, perché siano prive d’effetto le decisioni della giustizia contrarie al rispetto dei principi indicati nella sentenza. Già nel luglio 2010 un ricorso presentato da Roma era stata dichiarato irricevibile. Le speranze di «vincere» erano poche.
Anche se l’edificio di mattoni rossi, in stile neorinascimentale, dove si riuniscono all’Aia i giudici dell’Onu si chiama «Palazzo della Pace», la sentenza non sembra destinata a pacificare del tutto. Anzi, può forse suscitare qualche dubbio, in un’epoca in cui si è andata sempre più affermando la dimensione «transnazionale» della giustizia. Non la pensa così il ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle, che dopo aver premesso che il suo governo «ha sempre riconosciuto la sofferenza» delle vittime del nazismo, ha salutato con grande favore le decisioni della Corte. «È stata confermata — ha detto — la nostra concezione del diritto sotto il profilo della immunità degli Stati. Un chiarimento non era solo nell’interesse tedesco ma piuttosto nell’interesse della comunità internazionale». Sarà così, ma la Germania (e non solo lei) temeva che il caso italiano diventasse un temibile precedente.
Il ministro degli Esteri del governo Monti, Giulio Terzi, ha espresso il suo «rispetto» per la sentenza, anche se, ha aggiunto, «non coincide con le posizioni sostenute dall’Italia». Che le decisioni dei giudici dell’Onu, comunque, non siano destinate a scatenare una guerra diplomatica tra Roma e Berlino lo si capisce non solo da queste parole pacate, ma soprattutto dal riferimento che entrambi i ministri hanno fatto al proseguimento del negoziato, peraltro raccomandato dalla Corte. Westerwelle parla però con i toni del vincitore («Applicheremo tutte le questioni inerenti a questo giudizio in collaborazione con i nostri amici italiani, in uno spirito di piena fiducia»), mentre Terzi con quelli dello sconfitto, non potendo fare altro che notare «l’utile contributo di chiarimento» venuto dal tribunale dell’Onu. Duro, invece, il giudizio del suo predecessore alla Farnesina, Franco Frattini, oggi responsabile Affari Internazionali del Pdl, secondo cui «il verdetto è una pesante frusta per tutti coloro che sono stati colpiti da quei massacri».
Il ricorso della Germania alla Corte dell’Aia era stato presentato nel dicembre 2008 due mesi dopo la sentenza della Corte di Cassazione che aveva riconosciuto il diritto di ricevere indennizzi individuali da parte del governo tedesco ai familiari delle vittime di uno dei tanti massacri compiuti dal 1943 al 1945 dai tedeschi: la strage del 29 giugno 1944 a Civitella, Cornia e San Pancrazio, in cui furono assassinate oltre duecento persone, alcune delle quali riunite nella chiesa dove si era appena celebrata la Messa. I procedimenti legali in Italia si erano avviati con il «caso Ferrini», dal nome di un deportato in Germania nel 1944 costretto ai lavori forzati. A parte il problema dei deportati italiani, che sarà oggetto del negoziato, sono molte le questioni che questa sentenza certamente non cancella. Come saranno risolte, non lo potrà mai sapere Tina Randellini, l’ultima vedova delle vittime della strage nazista del Mulinaccio, morta proprio ieri all’età di 97 anni. Il marito fu ucciso nel 1944, con altri quattordici. Non si sa ancora perché.

Corriere della Sera 04.02.12

******

I giuristi: «Decisione inevitabile, non si può processare uno Stato», di Dino Messina

È difficile parlare di formalismi giuridici quando si tratta di massacri dei civili: in questo caso di una delle meno conosciute ma più atroci rappresaglie, compiuta da un reparto della Wehrmacht in ritirata, il 29 giugno 1944, tre mesi dopo le Fosse Ardeatine, tre prima di Marzabotto. Le vittime in Val di Chiana (a Civitella, San Pancrazio, Cornia), nell’Aretino, furono 203, molte delle quali bambini, anziani, donne, adolescenti, con una proporzione di cinquanta italiani per ogni soldato tedesco ucciso dai partigiani della banda «Renzino». Un criterio più duro del famigerato dieci a uno seguito all’attentato di via Rasella.
«Non c’è indennizzo sufficiente a risarcire ciascuna di quelle vittime», dice lo storico tedesco Lutz Klinkhammer, autore del fondamentale saggio L’occupazione tedesca in Italia (Bollati Boringhieri). Eppure la Corte dell’Aia ha accolto il ricorso della Germania contro la sentenza della Cassazione che per la prima volta condannava lo Stato tedesco a risarcire le vittime delle stragi naziste in Italia.
La sentenza dell’Aia ha una spiegazione giuridica e una storica. Un tribunale interno, dice Umberto Leanza, professore emerito di Diritto internazionale all’università Roma 2, non può in alcun modo considerare responsabile uno Stato. È quel che ha fatto la nostra Corte di Cassazione ritenendo crimini internazionali le rappresaglie compiute dalle truppe tedesche in Italia dopo l’8 settembre 1943. Il crimine internazionale è una figura giuridica nata a partire dai tribunali di Norimberga e di Tokyo. «Si tratta di crimini — chiarisce Leanza — che costituiscono tuttavia una eccezione all’immunità dalla giurisdizione non degli Stati ma degli organi statali che li hanno compiuti». Un criterio già seguito dai tribunali di Norimberga e Tokyo. La Corte di Cassazione italiana ha ritenuto di estendere la responsabilità allo Stato tedesco sulla base della più recente giurisdizione internazionale che equipara la violenza sui civili ai crimini contro l’umanità.
La sentenza dell’Aia è l’ultimo atto della riapertura a metà degli anni Novanta dei processi archiviati nel cosiddetto «armadio della vergogna». Con i processi si è riaperto anche un contenzioso con la Germania che si riteneva chiuso dal 2 giugno 1961, quando con due accordi bilaterali tra Roma e Bonn, la Germania riconosceva un indennizzo complessivo di quaranta milioni di marchi per le vittime italiane dei campi di concentramento. «In totale — spiega lo storico Filippo Focardi — i beneficiari furono circa dodicimila, in maggioranza deportati politici, ebrei e loro familiari. Solo mille i risarcimenti riguardanti gli internati militari, su un totale di seicentomila. Come contropartita ai risarcimenti, l’Italia garantiva la cessazione di tutte le cause contro lo Stato tedesco». Del resto la Germania riconobbe quegli indennizzi come un atto di buona volontà unilaterale, non come il riconoscimento di un diritto. L’Italia nel 1947, con il controverso comma 4 dell’articolo 77 del Trattato di Pace, aveva rinunciato a chiedere gli indennizzi per i danni dell’occupazione nazista. Faceva eccezione il diritto a chiedere la restituzione dei beni trafugati.
La sentenza dell’Aia ha dunque ribadito che l’immunità degli Stati, non solo di quello tedesco, non si tocca. «Me l’aspettavo — dice Focardi —. E da un certo punto di vista è un bene anche per l’Italia, se si considera che lo stesso tribunale internazionale ha respinto un ricorso presentato contro il nostro Stato dai parenti delle vittime della strage di Domenikon, nella Grecia centrale, dove i fanti della Divisione Pinerolo, il 16 febbraio 1943, uccisero per rappresaglia 150 civili».
Resta un dubbio: se le responsabilità dei crimini sono personali perché sedici ufficiali tedeschi condannati all’ergastolo per le stragi in Italia vivono ancora liberi in Germania?

Corriere della Sera 04.02.12

******

«Bruciarono la casa poi uccisero papà. Sarebbe bastato un euro a famiglia», di Andrea Pasqualetto

La televisione che va, la notizia sulle stragi e lei, la signora Maria Luisa, che non può evitarla: «Mi sono sentita male, ancora una volta». Quella mattina, Maria Luisa Paini aveva due anni. Era il 20 marzo del 1944, il giorno dell’eccidio di Cervarolo: 24 uomini fucilati nell’aia del paese. Lei in braccio alla mamma, a un passo dall’orrore: «Stavamo andando lì, dove volevano uccidere il nonno e il papà. Il tedesco mi ha preso, mi ha messo a testa in giù per ammazzarmi. Allora la mamma disse: prima me e poi lei. Un altro nazista si è fatto largo e ha ordinato di lasciar stare altrimenti avrebbe ucciso il commilitone». Lei si salvò ma di lì a poco spararono molti colpi e sotto quel piombo caddero anche il papà quarantunenne e il nonno di settantadue, quasi l’età di Maria Luisa. Non riesce a dire altro, a distanza di quasi settant’anni. Non ce l’ha con giudici della Corte internazionale dell’Aia. No, è il ricordo: «Mi succede tutte le volte che sento parlare di stragi, qualsiasi strage. Tutte le volte che vedo del fumo fuori… mi prende il panico. Forse perché quella volta bruciarono anche la casa. Mi scusi ma preferisco mettere giù». Così l’allora bimba di Villa Minozzi, oggi casalinga, un figlio e una vita segnata dalla fucilazione dell’aia.
Per la strage di Cervarolo e per quelle dell’Appennino tosco-emiliano, diciotto massacri per 350 vittime civili, sono stati condannati all’ergastolo sei nazisti della Panzer-division «Hermann Goering», il reparto speciale tedesco che nel marzo del 1944, battendo in ritirata dopo la rottura dell’alleanza fra Italia e Germania, mise a ferro e fuoco borghi e paesi. Con la signora Maria Luisa c’è Loretta Righi, che aveva nove anni e abitava proprio di fronte al comando provvisorio nazista. Perse il nonno: «Remigio Fontana, io sono la figlia della Santina che la scampò», tiene a ricordare. È indignata: «Entrarono in casa con le bombe a mano, spararono alle galline, razziarono e mangiarono e io e mia nonna eravamo chiuse in un angolo, terrorizzate. Mentre il nonno non è più tornato. Dalla Germania non volevo i soldi ma che fosse riconosciuto il grande danno per tutti noi e invece la Germania l’ha vinta ancora una volta».
L’avvocato Roberto Alboni, invece, non vide cosa successe sulle colline appenniniche di Civitella, Cornia e San Pancrazio, in provincia di Arezzo, il 29 giugno di quell’anno, quando i tedeschi trucidarono 203 conterranei. Ma siccome lì ha perso il nonno «mentre stava andando in bicicletta al molino a prendere il grano» e siccome «quella scomparsa ha rovinato la vita della mia famiglia, che prima stava bene e poi è rimasta senza nulla», allora ha deciso di rappresentare i parenti delle vittime e soprattutto i suoi: «Un milione ho ottenuto per i congiunti di mio nonno. Nel senso che i giudici hanno sentenziato questa provvisionale: 200 mila euro per ogni figlio». E ora che l’Italia ha perso? «Io non dispero, anzi. Mi sono già letto le motivazioni e mi sembra che i giudici invitino i due Paesi a risolvere la questione per via extragiudiziale, in forma pattizia. Andrò avanti».
Ma, di certo, rimane il principio. Come riconosce il procuratore capo militare di Roma, Marco De Paolis, il magistrato che da La Spezia ha dato un forte impulso ai processi per le stragi naziste commesse dal settembre del 1943 al maggio 1945, riaprendo molti fascicoli rimasti a ingiallire nel cosiddetto «armadio della vergogna» del capitolino palazzo Celsi: «I processi vanno avanti ma sicuramente non potremo più condannare la Germania come responsabile civile. Con il riconoscimento della responsabilità dei nazisti, la Cassazione aveva stabilito un principio innovativo ma è chiaro che in una materia tanto delicata come il diritto internazionale, dove hanno grande peso gli usi e le consuetudini, serve più tempo». Il suo collega padovano, Sergio Dini, anche lui impegnato in passato a scavare negli eccidi nazisti in Veneto, sospira: «Qual è il limite di questo diritto? L’Italia si deve far carico forse delle colpe degli antichi romani?». De Paolis: userebbe il buon senso: «Direi di guardare ai parenti in linea diretta, sopravvissuti. Finché sono in vita possono chiedere i danni».
Rimane la profonda amarezza del sindaco di Marzabotto (oltre 800 morti) Romano Franchi, che ne fa una questione morale e umana: «Già, ma la ragion di Stato ha prevalso ancora una volta». Idealmente gli stringe la mano da Cervarolo il dottor Italo Rovali che perse un bisnonno e un nonno e che riconosce di aver vissuto in funzione di quel sangue: «Per questo motivo ho voluto una laurea in giurisprudenza, per questo ho guidato il comitato dei familiari, per questo ho studiato diritto internazionale. E ora dico: sentenza politica». Gli sarebbe bastato un inchino della Germania, dice: «Bastava che qualcuno dell’ambasciata venisse qui a dare, chessò, un euro a ogni famiglia delle vittime. Era sufficiente: altro che chiedere l’immunità».
Alla signora Loretta forse non sarebbe bastato: «Ho una scossa tutte le volte che mi viene qualcuno da dietro, come quel nazista a casa mia».

Corriere della Sera 04.02.12