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Ma ora pensiamo alla «fase tre», di Vincenzo Visco

Ancora una volta la manovra correttiva del Governo è stata ritenuta da molti eccessivamente squilibrata dal lato delle entrate. Il Governo ha comunque deciso di riprendere e completare la spending review impostata dal Governo Prodi nel 2006-08 per individuare i margini esistenti per tagli consistenti. Tuttavia le difficoltà (tecniche e politiche) di un deciso intervento di riduzione delle spese rimarranno ed è bene cercare di capire il perché e di impostare una strategia di lungo periodo capace di ottenere una riduzione strutturale della spesa pubblica di (almeno?) 4-5 punti di Pil. Se si osserva il periodo compreso tra il 2000 e il 2010 (10 anni), si può verificare che le spese correnti sono cresciute di 4,5 punti di Pil che, al netto degli interessi, diminuiti nel decennio di 1,8 punti, diventano ben 6,2! Questo è il lascito di quello che ben può essere definito il “decennio perduto”.
È possibile tornare indietro? La risposta è positiva, ma saranno necessari molto tempo e molta perseveranza.

Se si guardano le singole voci è possibile notare che quelle di maggior rilievo quantitativo, che sono le pensioni (prestazioni sociali in denaro) e le retribuzioni dei dipendenti pubblici, sono anche quelle che nei 10 anni considerati sono cresciute di più: +2,9 e +1,3% rispettivamente. Se non si vogliono ridurre le pensioni e i salari in essere è evidente che queste spese non possono essere ridotte nel breve periodo. Tuttavia è possibile programmare (e prevedere) la riduzione della loro rilevanza nel periodo medio-lungo. In questa direzione va la recente riforma previdenziale che dovrebbe contenere in misura rilevante la dinamica delle spese, nonché il blocco degli stipendi del settore pubblico. In alcuni anni, quindi, queste politiche potrebbero contribuire a una riduzione non episodica e non trascurabile della incidenza della spesa.

Il blocco degli stipendi pubblici potrebbe essere attenuato da una consapevole politica nazionale di riallocazione e riqualificazione dl personale, anche ricorrendo a forme di prepensionamento.
Quanto alle altre voci di spesa i consumi intermedi sono cresciuti di quasi un punto di Pil che riflette sia la gestione della spesa sanitaria, sia la perdurante incapacità delle pubbliche amministrazioni a esercitare il loro potere di monopsonio (e a pagare tempestivamente gli acquisti). Le prestazioni sociali in natura sono cresciute di 0,6 punti, e le altre spese correnti di 0,9 punti.
In ogni caso sembra evidente che il controllo e la riduzione di una spesa primaria che, fino al 2007 – come ha più volte ricordato Giuseppe Pisauro – è cresciuta continuamente ogni anno del 2% in termini reali è operazione complessa che può essere affrontata solo attraverso modifiche sostanziali del funzionamento e dell’assetto istituzionale delle pubbliche amministrazioni.

Modifiche quali l’accorpamento o abolizione di Comuni e Province vanno nella giusta direzione a condizione che esse producano la riorganizzazione dell’erogazione dei servizi sul territorio. L’unificazione nell’Inps degli enti previdenziali è positiva, anche se l’ammontare dei risparmi attesi appare deludente. Più efficace sarebbe probabilmente l’attribuzione all’Agenzia delle Entrate del compito di riscuotere anche i contributi, dal momento che in questo caso siamo di fronte a una evidente duplicazione di funzioni. Da evitare, invece, la fusione delle Agenzie fiscali dal momento che l’attività svolta da ciascuna non presenta settori rilevanti di sovrapposizione, e si rischierebbe invece una perdita rilevante di efficienza complessiva; andrebbe piuttosto rafforzato il ruolo di direzione e controllo del dipartimento delle Politiche fiscali, oggi troppo debole. Sicuramente importante sarebbe la riorganizzazione delle attività giudiziarie sul territorio.

Per quanto riguarda le forze di Polizia andrebbe valutata attentamente la situazione attuale, che vede una parte consistente del personale impegnata in attività di back-office che potrebbero essere più efficacemente gestite unitariamente da un organismo esterno. Andrebbe inoltre creata una unica piattaforma informatica per l’intera pubblica amministrazione. Andrebbe rivista la normativa sugli appalti riducendo le stazioni appaltanti…
Vi è poi la questione del “federalismo”: i principali erogatori di spesa sono in Italia gli enti previdenziali (42% del totale delle spese primarie), seguono le amministrazioni locali (33%), e a distanza quelle centrali (25%). È allora evidente che se non si riesce a incidere anche sulle spese locali non si va lontano. E qui il lavoro da fare è enorme, dal momento che non si dispone delle informazioni statistiche necessarie e che sino attendibili e confrontabili. È chiaro ad esempio che l’esternalizzazione di servizi, o la creazione o l’uso improprio di società controllate sono state uno strumento non trascurabile di aumento delle spese locali.
Si potrebbe continuare. Ma sembra evidente che per ridurre effettivamente le spese nel nostro Paese una spending review non può che essere l’inizio. Idealmente per ciascuna pubblica amministrazione servirebbe un vero e proprio piano industriale elaborato con l’aiuto di consulenze, anche esterne, molto professionali. Si può fare, ma occorre tempo, condivisione e determinazione. Il nuovo Governo ha le carte in regola e l’opportunità per iniziare un processo che non sarà comunque breve, ma che una volta iniziato dovrà proseguire senza interruzione indicando obiettivi intermedi qualificabili e verificabili.

Il Sole 24 Ore 02.02.12

"Lusi espulso dal gruppo del Pd", di Simone Collini

L’ufficio di presidenza dei senatori Pd decide all’unanimità l’espulsione di Lusi dal gruppo. Berlinguerha convocato per lunedì il comitato dei garanti: verso la sospensione dal partito. Espulso dal gruppo al Senato e al centro diun pressing affinché si dimetta da parlamentare, mentre la commissione di garanzia si riunisce lunedì per ratificare una decisione che sembra già scritta: sospensione dal partito. Pier Luigi Bersani vuole accelerare i tempi per chiudere la vicenda che vede coinvolto l’ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi. Il primo passo deciso dai vertici del Pd è stata l’«esclusione», come recita il regolamento interno, dal gruppo a Palazzo Madama, decisa all’unanimità dall’ufficio di presidenza convocato di buon’ora da Anna Finocchiaro. Il presidente dei garanti Luigi Berlinguer ha poi convocato a Roma per lunedì tutti i membri dell’unico organismo interno che ha il potere di «sospendere» un iscritto (di fatto è un’espulsione, prevedendo la perdita di ogni diritto come tesserato).
Il parlamentare europeo in questi giorni è impegnato a Bruxelles madi fatto ha avviato l’istruttoria, che conta di aprire e chiudere in una sola seduta, specialmente se verrà confermata la richiesta di patteggiamento da parte del senatore. Anche se di fronte a un’ammissione del reato di appropriazione indebita sarà complicato non decidere per l’espulsione, spiega più di un membro della commissione, i garanti stanno anche cercando di contattare Lusi per chiedergli se voglia consegnare della documentazione per chiarire la sua posizione. L’ex tesoriere della Margherita si sta però trincerando dietro il silenzio più totale. Un atteggiamento che fa aumentare l’irritazione tra i vertici del Pd e che alimentando sospetti sulla destinazione reale dei quasi 13 milioni sottratti ai bilanci della Margherita alimenta un clima di tensione tra gli ex-diellini. Ettore Rosato, responsabile della campagna per le primarie del 2009 di Dario Franceschini, smentisce che il capogruppo del Pd in quel periodo abbia ottenuto da Lusi quattro milioni per la corsa alla leadership del Pd, come l’ex tesoriere disse ad Arturo Parisi per giustificare uscite poco chiare. «La campagna – chiarisce Rosato – costò 249 mila euro e le entrate sono state tutte derivanti da contributi volontari di singoli parlamentari e cittadini». Risposta giudicata «convincente» da Parisi. Ma per un caso che si chiude, restano aperti tutti gli interrogativi su come sia potuta verificarsi una vicenda simile, e perché. Se ne parla nei capannelli di parlamentari che si formano a Montecitorio come a Palazzo Madama. E non è casuale che il vicesegretario del Pd Enrico Letta dica che questa «vicenda incredibile» si debba chiarire in tempi rapidi: «Si riunisca al più presto, ad horas, l’organo di gestione della Margherita per chiarimenti e decisioni conseguenti».
PRESSING PER LE DIMISSIONI
La priorità ora, per i vertici del Pd, è mostrare chenonc’è nessun collegamentotra i bilanci del partito e quelli della Margherita, e separare i destini dei Democratici da quelli di Lusi. Il pressing affinché si dimetta da senatore è forte. A cominciare dal responsabile Giustizia Andrea Orlando, che come molti altri giudicaì necessaria una legge che introduca norme severe sul finanziamento pubblico e regole di trasparenza nella vita democratica interna, passando per Ignazio Marino, Marta Leonori e Stefano Fassina. Il responsabile Economia del Pd è tra l’altro il primo dei non eletti che subentrerebbe al Senato in caso di dimissioni di Lusi (eletto in Liguria). Ma Fassina, mentre già cominciavano a nascere su Facebook gruppi di supporto («metti a Fassina»), ha chiarito: «Chiedo le dimissioni di Luigi Lusi da senatore e mi impegno pubblicamente a non subentrargli al Senato e lasciare il seggio a Brunella Ricci, di Imperia, dopo di me nella lista. Donna e ligure. Un piccolo risarcimento agli elettori liguri del Pd».

L’Unità 02.02.12

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“Ora i democratici facciano chiarezza”, di Francesco CUndari

I contorni del caso che riguarda il senatore del Pd Luigi Lusi, il tesoriere della Margherita accusato di essersi intascato i rimborsi elettorali del suo ex partito, sono ancora tutt’altro che chiari. Non è chiaro, anzitutto, fin dove arrivino le sue responsabilità personali e dove comincino responsabilità politiche o di gruppo. Un aspetto, questo, che sta al Partito democratico, non alla magistratura, spiegare in modo convincente, perché la vicenda investe le radici del partito nato dalla confluenza di Ds e Margherita, la sua stessa genesi.
Ogni ombra va subito dissipata, e non con il fumo di un improbabile rogo purificatore, ma con parole chiare, che devono
venire in primo luogo da chi nel Pd condivideva con Lusi la responsabilità di gestire quel denaro. Ombre che vanno dissipate subito anche perché non si possano confondere con accuse generiche e polemiche strumentali. Certo, il fatto stesso che si parli di fondi pubblici per un partito sciolto ufficialmente da anni non può non scandalizzare, anche se a ben vedere si tratta dei rimborsi per le ultime elezioni cui la Margherita aveva effettivamente partecipato. Da questo punto di vista, però, la rivendicazione di avere «bilanci in attivo» non sembra proprio un’attenuante: la sopravvivenza giuridica di partiti che non si presentano più alle elezioni si giustifica con l’esigenza non d’incassare crediti dallo Stato, ma di pagare i debiti verso fornitori, banche, dipendenti (ci mancherebbe solo che sparissero nel nulla da un giorno all’altro).
Fare chiarezza su questa vicenda è indispensabile anche per potere contrastare credibilmente la campagna contro il finanziamento pubblico della politica. Un argomento di cui si è occupato recentemente anche il Financial Times, in un articolo di Martin Wolf dedicato al dibattito sul «capitalismo in crisi», a partire da una sacrosanta preoccupazione per il rapporto tra ricchezza e politica democratica. «In assenza di difese per la politica ha scritto Wolf il risultato è la plutocrazia». E ancora: «Proteggere la politica democratica dalla plutocrazia è una delle maggiori sfide alla salute delle democrazie». E infine: «La difesa della politica dal mercato si ottiene regolando l’uso del denaro alle elezioni e attraverso l’offerta di risorse pubbliche a chi vi partecipa. Almeno un parziale finanziamento dei partiti e delle elezioni è
inevitabile».
È davvero curioso che a segnalare il rischio che la democrazia possa essere comprata dalla grande ricchezza sia proprio il quotidiano della comunità finanziaria britannica, mentre nell’Italia appena uscita dal ventennio berlusconiano si continua a rimuovere il problema dal dibattito. Ma se non vogliamo che a giovarsi del discredito dei partiti, proprio come nel 92-93, sia un nuovo miliardario ansioso di scendere in campo col suo partito di plastica e i suoi personali mezzi di comunicazione e persuasione, sono i partiti democratici che devono per primi promuovere una riforma di questi meccanismi. A partire dalla piena attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, per fare in modo che ogni forma di sostegno pubblico sia indissolubilmente legata non solo a meccanismi certi di trasparenza e rendicontazione delle risorse, ma prima ancora al carattere democratico della vita interna di quei partiti.

L’Unità 02.02.12

“Lusi espulso dal gruppo del Pd”, di Simone Collini

L’ufficio di presidenza dei senatori Pd decide all’unanimità l’espulsione di Lusi dal gruppo. Berlinguerha convocato per lunedì il comitato dei garanti: verso la sospensione dal partito. Espulso dal gruppo al Senato e al centro diun pressing affinché si dimetta da parlamentare, mentre la commissione di garanzia si riunisce lunedì per ratificare una decisione che sembra già scritta: sospensione dal partito. Pier Luigi Bersani vuole accelerare i tempi per chiudere la vicenda che vede coinvolto l’ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi. Il primo passo deciso dai vertici del Pd è stata l’«esclusione», come recita il regolamento interno, dal gruppo a Palazzo Madama, decisa all’unanimità dall’ufficio di presidenza convocato di buon’ora da Anna Finocchiaro. Il presidente dei garanti Luigi Berlinguer ha poi convocato a Roma per lunedì tutti i membri dell’unico organismo interno che ha il potere di «sospendere» un iscritto (di fatto è un’espulsione, prevedendo la perdita di ogni diritto come tesserato).
Il parlamentare europeo in questi giorni è impegnato a Bruxelles madi fatto ha avviato l’istruttoria, che conta di aprire e chiudere in una sola seduta, specialmente se verrà confermata la richiesta di patteggiamento da parte del senatore. Anche se di fronte a un’ammissione del reato di appropriazione indebita sarà complicato non decidere per l’espulsione, spiega più di un membro della commissione, i garanti stanno anche cercando di contattare Lusi per chiedergli se voglia consegnare della documentazione per chiarire la sua posizione. L’ex tesoriere della Margherita si sta però trincerando dietro il silenzio più totale. Un atteggiamento che fa aumentare l’irritazione tra i vertici del Pd e che alimentando sospetti sulla destinazione reale dei quasi 13 milioni sottratti ai bilanci della Margherita alimenta un clima di tensione tra gli ex-diellini. Ettore Rosato, responsabile della campagna per le primarie del 2009 di Dario Franceschini, smentisce che il capogruppo del Pd in quel periodo abbia ottenuto da Lusi quattro milioni per la corsa alla leadership del Pd, come l’ex tesoriere disse ad Arturo Parisi per giustificare uscite poco chiare. «La campagna – chiarisce Rosato – costò 249 mila euro e le entrate sono state tutte derivanti da contributi volontari di singoli parlamentari e cittadini». Risposta giudicata «convincente» da Parisi. Ma per un caso che si chiude, restano aperti tutti gli interrogativi su come sia potuta verificarsi una vicenda simile, e perché. Se ne parla nei capannelli di parlamentari che si formano a Montecitorio come a Palazzo Madama. E non è casuale che il vicesegretario del Pd Enrico Letta dica che questa «vicenda incredibile» si debba chiarire in tempi rapidi: «Si riunisca al più presto, ad horas, l’organo di gestione della Margherita per chiarimenti e decisioni conseguenti».
PRESSING PER LE DIMISSIONI
La priorità ora, per i vertici del Pd, è mostrare chenonc’è nessun collegamentotra i bilanci del partito e quelli della Margherita, e separare i destini dei Democratici da quelli di Lusi. Il pressing affinché si dimetta da senatore è forte. A cominciare dal responsabile Giustizia Andrea Orlando, che come molti altri giudicaì necessaria una legge che introduca norme severe sul finanziamento pubblico e regole di trasparenza nella vita democratica interna, passando per Ignazio Marino, Marta Leonori e Stefano Fassina. Il responsabile Economia del Pd è tra l’altro il primo dei non eletti che subentrerebbe al Senato in caso di dimissioni di Lusi (eletto in Liguria). Ma Fassina, mentre già cominciavano a nascere su Facebook gruppi di supporto («metti a Fassina»), ha chiarito: «Chiedo le dimissioni di Luigi Lusi da senatore e mi impegno pubblicamente a non subentrargli al Senato e lasciare il seggio a Brunella Ricci, di Imperia, dopo di me nella lista. Donna e ligure. Un piccolo risarcimento agli elettori liguri del Pd».

L’Unità 02.02.12

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“Ora i democratici facciano chiarezza”, di Francesco CUndari

I contorni del caso che riguarda il senatore del Pd Luigi Lusi, il tesoriere della Margherita accusato di essersi intascato i rimborsi elettorali del suo ex partito, sono ancora tutt’altro che chiari. Non è chiaro, anzitutto, fin dove arrivino le sue responsabilità personali e dove comincino responsabilità politiche o di gruppo. Un aspetto, questo, che sta al Partito democratico, non alla magistratura, spiegare in modo convincente, perché la vicenda investe le radici del partito nato dalla confluenza di Ds e Margherita, la sua stessa genesi.
Ogni ombra va subito dissipata, e non con il fumo di un improbabile rogo purificatore, ma con parole chiare, che devono
venire in primo luogo da chi nel Pd condivideva con Lusi la responsabilità di gestire quel denaro. Ombre che vanno dissipate subito anche perché non si possano confondere con accuse generiche e polemiche strumentali. Certo, il fatto stesso che si parli di fondi pubblici per un partito sciolto ufficialmente da anni non può non scandalizzare, anche se a ben vedere si tratta dei rimborsi per le ultime elezioni cui la Margherita aveva effettivamente partecipato. Da questo punto di vista, però, la rivendicazione di avere «bilanci in attivo» non sembra proprio un’attenuante: la sopravvivenza giuridica di partiti che non si presentano più alle elezioni si giustifica con l’esigenza non d’incassare crediti dallo Stato, ma di pagare i debiti verso fornitori, banche, dipendenti (ci mancherebbe solo che sparissero nel nulla da un giorno all’altro).
Fare chiarezza su questa vicenda è indispensabile anche per potere contrastare credibilmente la campagna contro il finanziamento pubblico della politica. Un argomento di cui si è occupato recentemente anche il Financial Times, in un articolo di Martin Wolf dedicato al dibattito sul «capitalismo in crisi», a partire da una sacrosanta preoccupazione per il rapporto tra ricchezza e politica democratica. «In assenza di difese per la politica ha scritto Wolf il risultato è la plutocrazia». E ancora: «Proteggere la politica democratica dalla plutocrazia è una delle maggiori sfide alla salute delle democrazie». E infine: «La difesa della politica dal mercato si ottiene regolando l’uso del denaro alle elezioni e attraverso l’offerta di risorse pubbliche a chi vi partecipa. Almeno un parziale finanziamento dei partiti e delle elezioni è
inevitabile».
È davvero curioso che a segnalare il rischio che la democrazia possa essere comprata dalla grande ricchezza sia proprio il quotidiano della comunità finanziaria britannica, mentre nell’Italia appena uscita dal ventennio berlusconiano si continua a rimuovere il problema dal dibattito. Ma se non vogliamo che a giovarsi del discredito dei partiti, proprio come nel 92-93, sia un nuovo miliardario ansioso di scendere in campo col suo partito di plastica e i suoi personali mezzi di comunicazione e persuasione, sono i partiti democratici che devono per primi promuovere una riforma di questi meccanismi. A partire dalla piena attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, per fare in modo che ogni forma di sostegno pubblico sia indissolubilmente legata non solo a meccanismi certi di trasparenza e rendicontazione delle risorse, ma prima ancora al carattere democratico della vita interna di quei partiti.

L’Unità 02.02.12

"Il Cavaliere tra sondaggi e tribunali", di Marcello Sorgi

Saranno delusi nel Pdl quelli che fino a due giorni fa volevano far ripartire la campagna antimagistrati, per sensibilizzare l’elettorato di centrodestra sul fatto che il loro leader è ancora al centro di un imponente assedio giudiziario. Silvio Berlusconi, al contrario, ha scelto il basso profilo e la prudenza, non solo in tema di processi. E ieri ha ribadito che non ha nessuna intenzione di far cadere il governo Monti. Non si tratta solo di un atteggiamento pubblico. Le valutazioni che il Cavaliere insieme ai suoi più stretti collaboratori ha fatto riservatamente nei giorni scorsi non sono diverse. Berlusconi sa di dover attraversare un passaggio assai delicato del suo percorso giudiziario: secondo come gli andrà nei processi Mills e Ruby la sua personale agibilità politica potrebbe risentirne notevolmente.

Se la corte d’appello di Milano il 18 febbraio dovesse accogliere l’istanza di ricusazione, l’accelerata impressa dai giudici del Tribunale per arrivare a sentenza diverrebbe inutile e difficilmente il processo Mills potrebbe sfuggire alla prescrizione. E se la Corte costituzionale dovesse giudicare legittimo il conflitto di attribuzione proposto dal Cavaliere, che per ottenere lo spostamento del caso Ruby al Tribunale dei ministri sostiene di aver agito da presidente del Consiglio quando telefonò alla questura di Milano per difendere la ragazza marocchina, anche in questo caso i tempi del processo si allungherebbero. Berlusconi potrebbe riprendere fiato. E nell’immediato, si capisce, ogni sua decisione è legata allo sbocco che le due vicende avranno.

Ma a sconsigliare iniziative contro il governo, sul tavolo del Cavaliere continuano ad arrivare anche i sondaggi settimanali che segnalano la forte difficoltà del Pdl e il disorientamento degli elettori berlusconiani, che ancora non hanno ben capito cosa ha davvero convinto Berlusconi ad accettare di farsi da parte e cosa lo sta spingendo a sostenere la dura politica di sacrifici imposta dal governo Monti. In queste condizioni, provocare una crisi per ottenere le elezioni anticipate, per poi magari perderle, come dicono i pronostici più accreditati, non avrebbe senso. E questo, pazientemente, il leader del centrodestra sta spiegando ai più impazienti dei suoi uomini. Rimane tuttavia difficile immaginare cosa accadrebbe se il Cavaliere, come non si può escludere, dovesse andare incontro a un rovescio giudiziario: al momento ha il piede ben premuto sul freno. Ma in quel caso la prudenza sarebbe messa a dura prova e la tentazione di riprendere la sfida con i magistrati tornerebbe ad essere più forte per Berlusconi.

La Stampa 02.02.12

“Il Cavaliere tra sondaggi e tribunali”, di Marcello Sorgi

Saranno delusi nel Pdl quelli che fino a due giorni fa volevano far ripartire la campagna antimagistrati, per sensibilizzare l’elettorato di centrodestra sul fatto che il loro leader è ancora al centro di un imponente assedio giudiziario. Silvio Berlusconi, al contrario, ha scelto il basso profilo e la prudenza, non solo in tema di processi. E ieri ha ribadito che non ha nessuna intenzione di far cadere il governo Monti. Non si tratta solo di un atteggiamento pubblico. Le valutazioni che il Cavaliere insieme ai suoi più stretti collaboratori ha fatto riservatamente nei giorni scorsi non sono diverse. Berlusconi sa di dover attraversare un passaggio assai delicato del suo percorso giudiziario: secondo come gli andrà nei processi Mills e Ruby la sua personale agibilità politica potrebbe risentirne notevolmente.

Se la corte d’appello di Milano il 18 febbraio dovesse accogliere l’istanza di ricusazione, l’accelerata impressa dai giudici del Tribunale per arrivare a sentenza diverrebbe inutile e difficilmente il processo Mills potrebbe sfuggire alla prescrizione. E se la Corte costituzionale dovesse giudicare legittimo il conflitto di attribuzione proposto dal Cavaliere, che per ottenere lo spostamento del caso Ruby al Tribunale dei ministri sostiene di aver agito da presidente del Consiglio quando telefonò alla questura di Milano per difendere la ragazza marocchina, anche in questo caso i tempi del processo si allungherebbero. Berlusconi potrebbe riprendere fiato. E nell’immediato, si capisce, ogni sua decisione è legata allo sbocco che le due vicende avranno.

Ma a sconsigliare iniziative contro il governo, sul tavolo del Cavaliere continuano ad arrivare anche i sondaggi settimanali che segnalano la forte difficoltà del Pdl e il disorientamento degli elettori berlusconiani, che ancora non hanno ben capito cosa ha davvero convinto Berlusconi ad accettare di farsi da parte e cosa lo sta spingendo a sostenere la dura politica di sacrifici imposta dal governo Monti. In queste condizioni, provocare una crisi per ottenere le elezioni anticipate, per poi magari perderle, come dicono i pronostici più accreditati, non avrebbe senso. E questo, pazientemente, il leader del centrodestra sta spiegando ai più impazienti dei suoi uomini. Rimane tuttavia difficile immaginare cosa accadrebbe se il Cavaliere, come non si può escludere, dovesse andare incontro a un rovescio giudiziario: al momento ha il piede ben premuto sul freno. Ma in quel caso la prudenza sarebbe messa a dura prova e la tentazione di riprendere la sfida con i magistrati tornerebbe ad essere più forte per Berlusconi.

La Stampa 02.02.12

"Il silenzio su Scampia prigioniera del coprifuoco", di Roberto Saviano

Accade che un ordine dato da un clan imponga il coprifuoco e che il resto del Paese quasi non se ne accorga. Accade a Secondigliano, Scampia, Melito, Giugliano, in un territorio che raggiunge quasi 300 mila persone. I clan danno l’ordine: entro le sette, sette e mezza di sera bisogna chiudere i negozi. Entro le otto tornare a casa. I bar al massimo entro le 22 devono avere le saracinesche chiuse.

Accade anche che si dica dopo poco che questo coprifuoco non esiste, che è un inutile allarmismo, un’invenzione. Le associazioni si spaccano, i magistrati indagano, i messaggi di diverso segno iniziano a diffondersi. È un coprifuoco anomalo. Lo consigliano piuttosto che imporlo. Lo consigliano caldamente. E il calore dell’intimidazione prevede un’unica cosa: dichiarazione di guerra. Le ragioni del coprifuoco sembrano infatti le ragioni tipiche di ogni conflitto, e siccome nel 2004 la faida che scoppiò interna al clan Di Lauro di Secondigliano generò molti morti innocenti, questa volta i clan chiedono a chi vive lì di non diventare un bersaglio sbagliato.

O forse non lo chiedono affatto.

Accade che le persone si comportino così sentendo paura e basta. Eppure quasi nessuno parla di quel che accade. Il destino della battaglia alle mafie è sempre identico. Diventano grimaldello utile quando le parti politiche si scontrano e quando invece l’attenzione si sposta su altro decadono dall’attenzione pubblica. Eppure il più grande tesoro da poter far tornare nelle risorse dello Stato è proprio quello delle mafie. In questo caso Twitter sta dando il suo contributo. Pina Picierno, deputata del Pd, ha dato avvio con un tweet a un movimento spontaneo che, sulle orme di OccupyWallStreet, invita a riprendere il controllo delle strade di Scampia, a sottrarle a chi sente di possederle e di poterne disporre liberamente. Venerdì prossimo in piazza Giovanni Paolo II Scampia vorrebbe diventare un piccolo Zuccotti Park, e ci si riapproprierà del quartiere. OccupyScampia avrà il merito di riportare attenzione su luoghi dove o ci si spara addosso o si muore o si scompare dalle carte geografiche.

Sperando di trovare unità tra le diverse associazioni antimafia attive sul territorio, che sono molte e spesso serie.

Il coprifuoco, ovviamente, non nasce dalla filantropia dei clan. Morti – e soprattutto morti innocenti – significano attenzione; attenzione significa telecamere e forze dell’ordine e questo significa niente più affari nella più grande piazza di spaccio d’Europa. Gli Scissionisti usciti vincitori dalla faida si sono spaccati. Il clan vincente governato dalle famiglie Amato e Pagano ha sempre più rapporti con la Catalogna e sempre meno con il territorio.

Il loro nome di Spagnoli era infatti determinato dal potere che avevano costruito a Barcellona. Gli Amato-Pagano avendo le spese più importanti in Spagna hanno smesso di tenere a stipendio le famiglie dei detenuti. Errore grave c h e c o m m e t t o n o sempre i clan in ascesa che perdono di vista il territorio considerandolo ormai a loro disposizione. Tutte le mafie hanno regole disciplinate e infrangibili circa gli stipendi e gli indennizzi in caso di arresto. Con pene inferiori ai dieci anni l’affiliato riceve una parte dei soldi in carcere per sopravvivere meglio in prigione, una fetta va alla sua famiglia e un’altra al suo avvocato (a meno che non sia l’avvocato di uno studio già a disposizione degli affiliati). Con una pena superiore ai dieci anni l’indennizzo alla famiglia aumenta.

Questa volta dinanzi ai ritardi nei pagamenti e alle distrazioni il clan Scissionista si è spaccato. E hanno iniziato a sparare. Le altre famiglie hanno smesso di lavorare per loro e gli hanno imposto di non oltrepassare il ponte di Melito. Se lo fanno sono morti. Gli Amato-Pagano con le piazze di spaccio ferme e con questi divieti si sono armati e sono pronti alla risposta. I morti già ci sono stati ma anche questi sono stati relegati alla cronaca nera locale. Il primo morto è stato Rosario Tripicchio, 31 anni, poi Raffaele Stanchi, 39, poi Patrizio Serrao, 52 anni, poi Fortunato Scognamiglio, 28 anni.

Tutto questo nel solo mese di gennaio. Eppure è calato il silenzio. “Fa più notizia se il panettiere ti fa lo scontrino che fiumi di danaro della cocaina qui a Melito” scrive un ragazzo commentando la notizia su Facebook. Quello che mette paura ai cittadini di questo territorio è che gli Amato sono quasi tutti in galera e quindi hanno delegato la guerra ai ragazzini.

La promessa è: se riuscite a riprendervii territori saretei nuovi reggenti. Spesso non pagare le mesate in carcere serve proprio a mettere le giovani generazioni di camorristi contro le vecchie. I ragazzini sono comandati da Mariano Riccio che ha sposato la figlia del capo scissionista Cesare Pagano e vuole rinnovare il clan, scegliendo lui chi pagare e chi no affiliando persone nuove, facendo pace con vecchi nemici responsabili spesso di aver ucciso familiari degli alleati del suo clan. Le altre famiglie, da Abbinante a Petriccione, dai Marino ai Pariante, si sono messe contro.

Ma la figura centrale è Arcangelo Abate, nuovo capo dell’asse Scissionista: senza la sua autorizzazione Riccio non potrebbe agire, senza la sua autorizzazione la guerra non potrebbe partire. Abate è stato nei mesi scorsi scarcerato ed è oggi il nuovo re dei narcos. E ora il territorio, già vittima in passato delle più cruente faide mai viste in Italia (decine di morti, uso di esplosivi, interi stabilimenti bruciati con persone dentro, esecuzioni di persone scelte a caso), diventa l’ambito in cui fronteggiarsi. E allora le ragazze smettono di uscire in tacchi e indossano scarpe da ginnastica con cui è più facile scappare, non si va in macchina in due, ma solo uno per auto, perché potresti essere scambiato per una paranza (gruppo di fuoco). Si guida possibilmente tenendo le due mani sullo sterzo.

Non si indossa casco, si evitano luoghi pubblici. Persino i negozi di pesce abituati a vendere di più la domenica ordinano meno pesce perché si vende sempre meno. Dettagli di un territorio in guerra. Negarlo sarebbe omertà. Perché la disattenzione di questi giorni sta portando i gruppi a poter decidere un coprifuoco. E i clan si nutrono di buio, di ordinarietà, di abitudine. Tutto normale. Tutto solito.

L’attenzione costante si oppone a questo. Il contrasto alla crisi economica si fa anche fermando l’economia criminale e il furto di territorio che le mafie compiono. A Scampia lo sanno: ogni anno a carnevale c’è un appuntamento per riprendersi (simbolicamente, e non solo) il territorio. Anche quest’anno il 19 febbraio ci sarà la festa di carnevale, una delle poche in questi territori che non si ferma dinanzi alle case dei boss, che non mostra nessun rispetto per i poteri criminali ma che ricorda il diritto fondamentale alla felicità.

Sarebbe bello se questo governo trovasse il modo di esserci, se le luci non si spegnessero per riaccendersi solo quando è troppo tardi. Solo quando si spara e si uccide molto. Solo quando torna la guerra, la solita guerra a sud.

La Repubblica 02.02.12

“Il silenzio su Scampia prigioniera del coprifuoco”, di Roberto Saviano

Accade che un ordine dato da un clan imponga il coprifuoco e che il resto del Paese quasi non se ne accorga. Accade a Secondigliano, Scampia, Melito, Giugliano, in un territorio che raggiunge quasi 300 mila persone. I clan danno l’ordine: entro le sette, sette e mezza di sera bisogna chiudere i negozi. Entro le otto tornare a casa. I bar al massimo entro le 22 devono avere le saracinesche chiuse.

Accade anche che si dica dopo poco che questo coprifuoco non esiste, che è un inutile allarmismo, un’invenzione. Le associazioni si spaccano, i magistrati indagano, i messaggi di diverso segno iniziano a diffondersi. È un coprifuoco anomalo. Lo consigliano piuttosto che imporlo. Lo consigliano caldamente. E il calore dell’intimidazione prevede un’unica cosa: dichiarazione di guerra. Le ragioni del coprifuoco sembrano infatti le ragioni tipiche di ogni conflitto, e siccome nel 2004 la faida che scoppiò interna al clan Di Lauro di Secondigliano generò molti morti innocenti, questa volta i clan chiedono a chi vive lì di non diventare un bersaglio sbagliato.

O forse non lo chiedono affatto.

Accade che le persone si comportino così sentendo paura e basta. Eppure quasi nessuno parla di quel che accade. Il destino della battaglia alle mafie è sempre identico. Diventano grimaldello utile quando le parti politiche si scontrano e quando invece l’attenzione si sposta su altro decadono dall’attenzione pubblica. Eppure il più grande tesoro da poter far tornare nelle risorse dello Stato è proprio quello delle mafie. In questo caso Twitter sta dando il suo contributo. Pina Picierno, deputata del Pd, ha dato avvio con un tweet a un movimento spontaneo che, sulle orme di OccupyWallStreet, invita a riprendere il controllo delle strade di Scampia, a sottrarle a chi sente di possederle e di poterne disporre liberamente. Venerdì prossimo in piazza Giovanni Paolo II Scampia vorrebbe diventare un piccolo Zuccotti Park, e ci si riapproprierà del quartiere. OccupyScampia avrà il merito di riportare attenzione su luoghi dove o ci si spara addosso o si muore o si scompare dalle carte geografiche.

Sperando di trovare unità tra le diverse associazioni antimafia attive sul territorio, che sono molte e spesso serie.

Il coprifuoco, ovviamente, non nasce dalla filantropia dei clan. Morti – e soprattutto morti innocenti – significano attenzione; attenzione significa telecamere e forze dell’ordine e questo significa niente più affari nella più grande piazza di spaccio d’Europa. Gli Scissionisti usciti vincitori dalla faida si sono spaccati. Il clan vincente governato dalle famiglie Amato e Pagano ha sempre più rapporti con la Catalogna e sempre meno con il territorio.

Il loro nome di Spagnoli era infatti determinato dal potere che avevano costruito a Barcellona. Gli Amato-Pagano avendo le spese più importanti in Spagna hanno smesso di tenere a stipendio le famiglie dei detenuti. Errore grave c h e c o m m e t t o n o sempre i clan in ascesa che perdono di vista il territorio considerandolo ormai a loro disposizione. Tutte le mafie hanno regole disciplinate e infrangibili circa gli stipendi e gli indennizzi in caso di arresto. Con pene inferiori ai dieci anni l’affiliato riceve una parte dei soldi in carcere per sopravvivere meglio in prigione, una fetta va alla sua famiglia e un’altra al suo avvocato (a meno che non sia l’avvocato di uno studio già a disposizione degli affiliati). Con una pena superiore ai dieci anni l’indennizzo alla famiglia aumenta.

Questa volta dinanzi ai ritardi nei pagamenti e alle distrazioni il clan Scissionista si è spaccato. E hanno iniziato a sparare. Le altre famiglie hanno smesso di lavorare per loro e gli hanno imposto di non oltrepassare il ponte di Melito. Se lo fanno sono morti. Gli Amato-Pagano con le piazze di spaccio ferme e con questi divieti si sono armati e sono pronti alla risposta. I morti già ci sono stati ma anche questi sono stati relegati alla cronaca nera locale. Il primo morto è stato Rosario Tripicchio, 31 anni, poi Raffaele Stanchi, 39, poi Patrizio Serrao, 52 anni, poi Fortunato Scognamiglio, 28 anni.

Tutto questo nel solo mese di gennaio. Eppure è calato il silenzio. “Fa più notizia se il panettiere ti fa lo scontrino che fiumi di danaro della cocaina qui a Melito” scrive un ragazzo commentando la notizia su Facebook. Quello che mette paura ai cittadini di questo territorio è che gli Amato sono quasi tutti in galera e quindi hanno delegato la guerra ai ragazzini.

La promessa è: se riuscite a riprendervii territori saretei nuovi reggenti. Spesso non pagare le mesate in carcere serve proprio a mettere le giovani generazioni di camorristi contro le vecchie. I ragazzini sono comandati da Mariano Riccio che ha sposato la figlia del capo scissionista Cesare Pagano e vuole rinnovare il clan, scegliendo lui chi pagare e chi no affiliando persone nuove, facendo pace con vecchi nemici responsabili spesso di aver ucciso familiari degli alleati del suo clan. Le altre famiglie, da Abbinante a Petriccione, dai Marino ai Pariante, si sono messe contro.

Ma la figura centrale è Arcangelo Abate, nuovo capo dell’asse Scissionista: senza la sua autorizzazione Riccio non potrebbe agire, senza la sua autorizzazione la guerra non potrebbe partire. Abate è stato nei mesi scorsi scarcerato ed è oggi il nuovo re dei narcos. E ora il territorio, già vittima in passato delle più cruente faide mai viste in Italia (decine di morti, uso di esplosivi, interi stabilimenti bruciati con persone dentro, esecuzioni di persone scelte a caso), diventa l’ambito in cui fronteggiarsi. E allora le ragazze smettono di uscire in tacchi e indossano scarpe da ginnastica con cui è più facile scappare, non si va in macchina in due, ma solo uno per auto, perché potresti essere scambiato per una paranza (gruppo di fuoco). Si guida possibilmente tenendo le due mani sullo sterzo.

Non si indossa casco, si evitano luoghi pubblici. Persino i negozi di pesce abituati a vendere di più la domenica ordinano meno pesce perché si vende sempre meno. Dettagli di un territorio in guerra. Negarlo sarebbe omertà. Perché la disattenzione di questi giorni sta portando i gruppi a poter decidere un coprifuoco. E i clan si nutrono di buio, di ordinarietà, di abitudine. Tutto normale. Tutto solito.

L’attenzione costante si oppone a questo. Il contrasto alla crisi economica si fa anche fermando l’economia criminale e il furto di territorio che le mafie compiono. A Scampia lo sanno: ogni anno a carnevale c’è un appuntamento per riprendersi (simbolicamente, e non solo) il territorio. Anche quest’anno il 19 febbraio ci sarà la festa di carnevale, una delle poche in questi territori che non si ferma dinanzi alle case dei boss, che non mostra nessun rispetto per i poteri criminali ma che ricorda il diritto fondamentale alla felicità.

Sarebbe bello se questo governo trovasse il modo di esserci, se le luci non si spegnessero per riaccendersi solo quando è troppo tardi. Solo quando si spara e si uccide molto. Solo quando torna la guerra, la solita guerra a sud.

La Repubblica 02.02.12