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“E a soffrire di più sono il Mezzogiorno e le aree industriali”, di Marco Alfieri

Nemmeno la jobless recove- ci salva più. La ripresa senza occupazione che ha tenuto compagnia all’Europa per un biennio (2˚semestre 2009 1˚ trimestre 2011). Giravi per le province industriali del nord – Varese, Vicenza, Treviso, Bergamo, Brescia, Torino, Reggio Emilia, Bologna – e la fotografia era quasi identica: ripresa di ordinativi, export e fatturato rispetto alla gelata 2008 ma calma piatta sull’occupazione.

La Cig non basta più Dalla scorsa primavera anche quello stato di sospensione, lenito dal materasso degli ammortizzatori sociali (30 miliardi spesi in 3 anni e mezzo per finanziare 3,4 miliardi di ore di cassa integrazione che hanno coinvolto oltre 4 milioni di lavoratori), è ormai un lontano ricordo. Il consuntivo 2011 calcolato dalla Cgil parla di 500mila lavoratori in cassa a zero ore, costretti a rinunciare a 8 mila euro in busta paga, pari a un taglio complessivo di 3,6 miliardi. Ma soprattutto di una disoccupazione ufficiale risalita a dicembre all’8,9%, al livello di 11 anni fa, prima della riforma Biagi. Quella reale, sommando gli inattivi che non cercano più, secondo la Cgia di Mestre avrebbe addirittura sfondato la barriera dell’11%. E’ un dato verosimile. Dopo l’estate, infatti, molte casse stanno diventando mobilità e licenziamenti, colpendo impieghi stabili in imprese tradizionali, età elevata e scolarità bassa. I profili più a rischio concorrenza asiatica su prezzo e prodotti.

Le industrie Al ministero dello Sviluppo le crisi industriali aperte sono quasi 250, con oltre 30mila dipendenti nel limbo. Coinvolti gruppi come Alcoa, Fincantieri, Sanofi-Aventis insieme a medie aziende che lavorano sul mercato interno (trasporti, telecomunicazioni e tessile). Finora ha tenuto il commercio: tra il 2000-2010 il settore ha generato quasi 900mila posti di lavoro. Ma quanto potrà resistere? «Rispetto al 2008-2009 spiegano gli economisti di Prometeia – la recessione in corso è dovuta all’andamento della domanda interna». La cassa degli ultimi 3 anni halimato di 48 miliardi i redditi degli italiani. Al sud, «intorno ai poli industriali campani e pugliesi al palo di commesse e costretti a tagliare occupazione – raccontano dalla Uil di Napoli – ci sono territori che vivono di sola Cig».

Meno consumi e occupazione Il risultato è che la spesa reale rischia di restare in rosso fino a metà 2013, per una riduzione complessiva del 4,5%. In particolare i consumi alimentari a fine 2014 potrebbero essere crollati del 9,6% sul 2007. «Siamo nel mezzo di un aggiustamento epocale», ragiona l’amministratore delegato di una nota catena di grande distribuzione. «Aumenta la clientela che sceglie i discount mentre chi frequenta i nostri scaffali si aggiusta al ribasso ripiegando sui prodotti a marchio, che costano il 20-30% in meno». Per Franca Porto, segretaria della Cisl veneta, siamo davanti ad una «disoccupazione di lungo periodo, sconosciuta, che colpisce territori ricchi che hanno avuto piena occupazione per 30 anni». In Lombardia, nell’ultimo anno, sono aumentati del 20% gli addetti incapaci di rioccuparsi nell’arco di 6 mesi, la boa tipica in cui chi veniva espulso dal circuito rientrava in gioco. Certo continua a tirare l’export del Quarto capitalismo internazionalizzato, che ha chiuso il 2011 a +6,2%, dopo la crescita del 12,2% nel 2010. Ma non basta a sollevare il sistema. Le somme da incubo le tira ancora Prometeia: «tra il 2008 e il 2013 avranno perso l’occupazione circa 650 mila persone, mentre il numero dei posti di lavoro si sarà ridotto di quasi 800 mila unità, di cui 700mila nel settore industriale».

I giovani da Milano a Napoli A farne le spese un’altra volta sono i giovani. Già oggi la disoccupazione ufficiale under 24 è arrivata al 31%, in aumento di 3 punti sul 2010. Ma quella reale vale molto di più. In Campania, secondo la Cgia tocca il 51,1%, in Basilicata il 48,3%, nel Lazio il 42,5%, in Sicilia 41,2% seguite a ruota, un po’ a sorpresa, dalle ricche Lombardia (40,3%) Piemonte (37,3%) e Veneto (37,2). Secondo Tito Boeri per fermare l’emorragia bisogna spezzare il circolo vizioso povertà/precariato in aumento al nord/disoccupazione giovanile. «La povertà aumenta (+6% negli ultimi 5 anni tra gli under 45) perché non si riesce ad entrare nel mercato del lavoro, perché ci sono molti lavoratori poco qualificati con lavori temporanei che non tengono il passo dell’inflazione (secondo l’Istat dal 2005 al 2010 il 71,5% dei neoassunti viene inquadrato con contratti a termine) e perché chi non è tutelato perde il posto», scrive l’economista della Bocconi. Lo si vede da alcuni segnali deboli: 2 giovani su 10 usciti di casa negli anni passati nel 2011 sono tornati all’ovile, in mancanza di altri ammortizzatori sociali. «In 10 anni abbiamo perso quasi 30 punti di competitività con la Germania. Chi viene espulso dal mercato e chi fatica ad entrare spesso è chi ha maggiore capitale umano e potrebbe contribuire a rendere più competitive le nostre imprese», continua Boeri. Non a caso nella Germania che tiene testa alla Cina la disoccupazione giovanile è ferma al 7,8%, 4 volte meno che in Italia.

La Stampa 01.02.12

"La laurea conta ma non è tutto", di Luigi Berlinguer

Caro direttore, nel dibattito, anche quello meritoriamente promosso da Europa, occorre tenere distinte la funzione formativa da quella professionale. L’università ha il compito della formazione dei cittadini per lo svolgimento delle alte professioni e la società, lo stato, il potere pubblico, le imprese devono presiedere alle forme di utilizzazione degli alti quadri e dei professionisti. Ciò che deve essere impedito (anzi, scongiurato) è l’automatismo tra il possesso di un titolo di studio e l’impegno nella funzione o nella professione.
Per l’esercizio del lavoro, l’utilizzatore deve sempre – sempre – procedere ad una sua verifica “indipendente”. Mentre la Costituzione prevede il concorso per l’impiego pubblico, nelle altre funzioni “private” tale compito spetta ai soggetti economici. È questione che richiede drastiche misure di riforma. Prima tra tutte la cancellazione degli automatismi perché è evidente come la prassi italiana abbia, ad oggi, concesso in questo senso davvero troppo.
Riassumere tutto ciò nella formula dell’abolizione del valore legale del titolo di studio è però, a mio parere, fuorviante. Sugli aspetti giuridici della questione rimando a quanto scritto, in modo esaustivo, da Sabino Cassese. Come è possibile che l’università possa erogare titoli di studio privi di valore legale? Si provi a chiedere cosa pensino un genitore o uno studente in procinto di iscriversi all’università della prospettiva del “pezzo di carta” senza valore (questo e non altro sarebbe il messaggio lanciato nella, spesso dannosa, semplificazione mediatica). In una parte rilevante della società italiana ci sarebbe sconcerto (forse anche angoscia).
Ritengo sbagliato insistere nello slogan e, parallelamente, doppiamente sbagliato non intervenire per eliminare gli automatismi. Come spiegare una eventuale abolizione del valore legale della laurea in medicina e un eventuale esercizio della professione medica sostanzialmente senza quel titolo? E lo stesso tema si potrebbe declinare per chi dovrà costruire un ponte (ingegneria), giudicare un reato (giurisprudenza). Le lauree sono necessarie con tutto il loro valore ma non possono certo abilitare alle professioni automaticamente né favorire gli scatti di carriera né coprire le molte forme di corporativismo che rinunciano alla verifica della effettiva capacità professionale degli aspiranti.
L’istruzione è un bene pubblico da difendere energicamente, chiunque eroghi il titolo. Per valorizzare il merito occorre piuttosto cambiare mentalità sulle forme di reclutamento, superando formalismi e automatismi. In primo luogo, valutando i risultati e i voti di laurea attraverso la verifica con la prova d’ingresso nell’esercizio del lavoro.
E, ancora, precisando il concetto stesso di concorso che in Italia è declinato ancor oggi in una dimensione prevalentemente formale e che spesso, molto spesso, non è in grado di valutare le vere capacità del concorrente.
Un esempio può aiutare a capire meglio la dimensione del fenomeno: è in corso, come è noto, un ampio reclutamento di presidi scolastici. Per la “valutazione” sono state individuate prove del tutto esterne (test, bandi…) che guardano essenzialmente alla conoscenza del diritto amministrativo. Prove formali che non diranno se il vincitore saprà davvero gestire una scuola. In simili circostanze occorre certamente verificare con rigore lo spessore culturale del candidato, ma insieme la sua propensione e la sua capacità di direzione e di coordinamento in un rapporto con una struttura complessa quale oggi è una scuola.
Concludo sulle misure da adottare. Prima di tutto occorre sostenere e far crescere il metodo della valutazione del sistema universitario, reso oggi imprescindibile dalla presenza del paese in Europa, dallo spazio europeo dell’istruzione superiore (Ehea) nel quale si deve raggiungere una fiducia reciproca tra i diversi sistemi universitari nazionali per tagliare il traguardo della validità della singola laurea in tutti i paesi europei.
Su questo crinale si richiede la verifica dei Learning outcames, i risultati dell’apprendimento, attraverso il Quality assurance register (ovvero la verifica permanente della qualità). In tal modo, si determina una legittima emulazione tra atenei e tra corsi di laurea, perché attraverso l’osservazione continua si è costretti alla valutazione permanente dei risultati. I principi, già introdotti, di accreditamento dei nuovi corsi di laurea (insieme alla ricognizione di quelli esistenti) aiutano tale persorso e sanciscono che l’istruzione è un bene pubblico e la verifica della possibilità di titoli con valore legale spetta, conseguentemente, al potere pubblico.
Un tempo nell’università d’élite funzionava l’orgoglio scientifico dell’accademico quale presidio della qualità. Oggi che, per fortuna, l’università è anche un grande bene sociale – Europa 2020 prescrive all’Italia di laureare il 40 per cento della leva d’età – la valutazione permanente interna ed esterna è necessità inderogabile.

da Europa Quotidiano 01.02.12

“La laurea conta ma non è tutto”, di Luigi Berlinguer

Caro direttore, nel dibattito, anche quello meritoriamente promosso da Europa, occorre tenere distinte la funzione formativa da quella professionale. L’università ha il compito della formazione dei cittadini per lo svolgimento delle alte professioni e la società, lo stato, il potere pubblico, le imprese devono presiedere alle forme di utilizzazione degli alti quadri e dei professionisti. Ciò che deve essere impedito (anzi, scongiurato) è l’automatismo tra il possesso di un titolo di studio e l’impegno nella funzione o nella professione.
Per l’esercizio del lavoro, l’utilizzatore deve sempre – sempre – procedere ad una sua verifica “indipendente”. Mentre la Costituzione prevede il concorso per l’impiego pubblico, nelle altre funzioni “private” tale compito spetta ai soggetti economici. È questione che richiede drastiche misure di riforma. Prima tra tutte la cancellazione degli automatismi perché è evidente come la prassi italiana abbia, ad oggi, concesso in questo senso davvero troppo.
Riassumere tutto ciò nella formula dell’abolizione del valore legale del titolo di studio è però, a mio parere, fuorviante. Sugli aspetti giuridici della questione rimando a quanto scritto, in modo esaustivo, da Sabino Cassese. Come è possibile che l’università possa erogare titoli di studio privi di valore legale? Si provi a chiedere cosa pensino un genitore o uno studente in procinto di iscriversi all’università della prospettiva del “pezzo di carta” senza valore (questo e non altro sarebbe il messaggio lanciato nella, spesso dannosa, semplificazione mediatica). In una parte rilevante della società italiana ci sarebbe sconcerto (forse anche angoscia).
Ritengo sbagliato insistere nello slogan e, parallelamente, doppiamente sbagliato non intervenire per eliminare gli automatismi. Come spiegare una eventuale abolizione del valore legale della laurea in medicina e un eventuale esercizio della professione medica sostanzialmente senza quel titolo? E lo stesso tema si potrebbe declinare per chi dovrà costruire un ponte (ingegneria), giudicare un reato (giurisprudenza). Le lauree sono necessarie con tutto il loro valore ma non possono certo abilitare alle professioni automaticamente né favorire gli scatti di carriera né coprire le molte forme di corporativismo che rinunciano alla verifica della effettiva capacità professionale degli aspiranti.
L’istruzione è un bene pubblico da difendere energicamente, chiunque eroghi il titolo. Per valorizzare il merito occorre piuttosto cambiare mentalità sulle forme di reclutamento, superando formalismi e automatismi. In primo luogo, valutando i risultati e i voti di laurea attraverso la verifica con la prova d’ingresso nell’esercizio del lavoro.
E, ancora, precisando il concetto stesso di concorso che in Italia è declinato ancor oggi in una dimensione prevalentemente formale e che spesso, molto spesso, non è in grado di valutare le vere capacità del concorrente.
Un esempio può aiutare a capire meglio la dimensione del fenomeno: è in corso, come è noto, un ampio reclutamento di presidi scolastici. Per la “valutazione” sono state individuate prove del tutto esterne (test, bandi…) che guardano essenzialmente alla conoscenza del diritto amministrativo. Prove formali che non diranno se il vincitore saprà davvero gestire una scuola. In simili circostanze occorre certamente verificare con rigore lo spessore culturale del candidato, ma insieme la sua propensione e la sua capacità di direzione e di coordinamento in un rapporto con una struttura complessa quale oggi è una scuola.
Concludo sulle misure da adottare. Prima di tutto occorre sostenere e far crescere il metodo della valutazione del sistema universitario, reso oggi imprescindibile dalla presenza del paese in Europa, dallo spazio europeo dell’istruzione superiore (Ehea) nel quale si deve raggiungere una fiducia reciproca tra i diversi sistemi universitari nazionali per tagliare il traguardo della validità della singola laurea in tutti i paesi europei.
Su questo crinale si richiede la verifica dei Learning outcames, i risultati dell’apprendimento, attraverso il Quality assurance register (ovvero la verifica permanente della qualità). In tal modo, si determina una legittima emulazione tra atenei e tra corsi di laurea, perché attraverso l’osservazione continua si è costretti alla valutazione permanente dei risultati. I principi, già introdotti, di accreditamento dei nuovi corsi di laurea (insieme alla ricognizione di quelli esistenti) aiutano tale persorso e sanciscono che l’istruzione è un bene pubblico e la verifica della possibilità di titoli con valore legale spetta, conseguentemente, al potere pubblico.
Un tempo nell’università d’élite funzionava l’orgoglio scientifico dell’accademico quale presidio della qualità. Oggi che, per fortuna, l’università è anche un grande bene sociale – Europa 2020 prescrive all’Italia di laureare il 40 per cento della leva d’età – la valutazione permanente interna ed esterna è necessità inderogabile.

da Europa Quotidiano 01.02.12

"Comportamento incompatibile", di Pietro Spataro

È una brutta storia. Nella quale si incrociano questioni che riguardano l’etica pubblica, la correttezza politica, il rapporto di fiducia con gli elettori e con il partito che si rappresenta. La vicenda giudiziaria che coinvolge Luigi Lusi, ex tesoriere della Margherita e oggi senatore del Pd, è appena agli inizi e presenta ancora alcuni aspetti poco chiari. Passaggi che sono sotto la lente della Procura di Roma e sui quali è bene riservarsi il giudizio finale. Toccherà ai pm verificare se quei 13 milioni di euro, in gran parte frutto dei rimborsi elettorali del vecchio partito di Rutelli, sono finiti tutti nelle tasche del senatore indagato. Per ora, l’unica cosa certa è che Lusi, davanti ai magistrati, ha ammesso le colpe e si è assunto ogni responsabilità. Anzi, in un’intervista, ha detto testualmente: «Mi assumo la responsabilità di tutto e di tutti».
Dove l’ambiguità di quel «tutti» sembra lasciare aperto ogni possibile sviluppo.
L’accusa è molto pesante: appropriazione indebita. Pesante non tanto da un punto di vista penale (il codice prevede una multa e il carcere fino a tre anni) quanto da quello politico. Per un parlamentare è una macchia indelebile, che sfregia la sua
onorabilità e ferisce la sua funzione di rappresentanza. Quel flusso di denaro che dal
conto della Margherita è transitato nelle casse di una società gestita da un titolare
canadese è già, per ammissione, la prova di un giro di affari irregolari. Lusi, grazie a quella movimentazione, avrebbe acquistato un appartamento nel centro di Roma, una villa ai Castelli Romani, pagato una costosissima ristrutturazione edilizia più diverse consulenze. Che cosa abbia spinto il tesoriere della Margherita ad azioni così
spericolate e difficili da tenere nascoste è un mistero. Resta la macchia. Ed è una
macchia personale che riguarda innanzitutto un partitoì precedente al Pd e che ora coinvolge il Pd di cui è senatore. Con la stessa convinzione con cui abbiamo chiesto ai democratici provvedimenti rapidi nei nconfronti di Filippo Penati e con la stesso spirito garantista con cui in questi giorni abbiamo sollevato dubbi sull’inchiesta
giudiziaria che coinvolge Ottaviano Del Turco, oggi diciamo ai vertici del Pd che non sono consentiti né tentennamenti né rinvii. Il senatore Lusi ha ammesso le sue colpe, quindi non ci sono ulteriori accertamenti da fare, né testimonianze da
raccogliere. È ormai chiaro che non può più stare nel Pd, né far parte dei suoi organismi dirigenti e del suo gruppo parlamentare. E crediamo anche che, avendo tradito il suo mandato, debba dimettersi da senatore. Anche se quest’ultima è una decisione che attiene esclusivamente alla sua coscienza. Ci aspettiamo che gli
consigli la scelta giusta. Il caso Lusi pone però alla politica un problema che va oltre i risvolti penali o giudiziari. Bisogna che il Parlamento, come suggerisce Luciano Violante in un’intervista al nostro giornale, si doti al più presto di organismi che valutino l’etica pubblica dei parlamentari. Accade già negli Usa e in Canada. Anche i partiti devono darsi regole certe e inflessibili. Per sconfiggere l’antipolitica non basta l’indignazione. Bisogna sviluppare gli anticorpi per impedire che qualche disonesto sporchi l’impegno di tante persone che hanno a cuore solo le loro idee.

L’Unità 01.02.12

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Rabbia nel Pd: «Niente sconti», di Simone Collini

Sconcerto, rabbia. E la sgradevole necessità di tornare a parlare in termini di ex: ex-Margherita, ex-Ds. Non è stata una bella giornata in casa Pd. La notizia dell’accusa di appropriazione indebita nei confronti di Luigi Lusi ha «sorpreso, e non gradevolmente» Pier Luigi Bersani, per il quale di fronte all’accertamento dei fatti il senatore del Pd va espulso: «Non facciamo sconti a nessuno, le procedure verranno applicate rigorosamente». Luigi Berlinguer ha già convocato la Commissione di garanzia, che è l’organismo incaricato di applicare Statuto e Codice etico e quindi l’unico in grado di prendere una decisione comel’espulsione.
Mentre Anna Finocchiaro ha inviato a Lusi una lettera in cui si chiede al senatore di dimettersi dal gruppo del Pd e dagli incarichi che, «in ragione di tale appartenenza», ricopre a PalazzoMadama: ovvero vicepresidente della commissione Bilancio e membro della Giunta delle immunità parlamentari.
Invano sia il segretario che la capogruppo del Pd al Senato hanno atteso per mezza giornata da Lusi un passo indietro volontario. Di fronte al silenzio del parlamentare, nel pomeriggio si è deciso per la richiesta formale di uscita dal gruppo (nel caso si dimettesse da senatore, subentrerebbe come primo dei non eletti Stefano Fassina).
Ma al di là di quello che farà Lusi, la vicenda scuote il partito e innesca tra i Democratici una serie di recriminazioni e anche di sospetti. La domanda più frequente nei capannelli che si formano nel Transatlantico della Camera è se sia possibile che Lusi abbia tenuto per sé una somma così ingente come 13 milioni di euro. E poi ci si domanda perché i vertici del Pd non siano stati avvisati di quanto stava avvenendo, visto che Lusi si è dimesso da tesoriere della Margherita il 25
gennaio, dopo che la vicenda è stata discussa per una settimana da più di un dirigente di quell’area insieme a Francesco Rutelli. Così se gli ex-dielle, soprattutto gli ex-popolari come Pierluigi Castagnetti e gli ulivisti come Arturo Parisi, chiedono
la convocazione immediata dell’Assemblea (si terrà entro il mese e servirà a eleggere un nuovo tesoriere) o ricordano di aver già denunciato «voci opache» nel bilancio approvato la scorsa estate, tra gli ex-diessini ci si domanda quanti
compagnidi partito provenienti dalla Margherita hanno taciuto sul caso che stava per scoppiare. E l’unico che riesce a ironizzare sulla vicenda è Massimo D’Alema, che incrociando a Montecitorio il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti (che alla nascita del
Pd ha difeso la linea della «separazione dei beni» con la Margherita) gli fa: «Quello ha una casa in Canada, ora se tu non ci dici che hai almeno una casa in Siberia non ti guardiamo neanche in faccia, non si fa un’unificazione alla pari».Ma la voglia
di scherzare nel Pd è poca. Il fatto che Rutelli si sia costituito parte offesa, che abbia fatto sapere che i vertici della Margherita sono «incazzati e addolorati», che ora il bilancio sarà verificato dalla società di revisione Kpmg, che Lusi avesse
«interamente nelle sue mani il potere amministrativo», serve fino a un certo punto. Bersani ha concordato conil tesoriere del Pd Antonio Misiani una nota per «precisare» che gli «unici rapporti economici» tra Pd e Margherita riguardano i pagamenti per il subaffitto e le spese di gestione della sede nazionale in Via Sant’Andrea delle Fratte (nel rendiconto dell’esercizio chiuso al 31 dicembre 2010 si legge che sono stati
pagati complessivamente poco più di tre milioni di euro). I vertici del Pd stanno ora bene attenti a tener arginata entro i confini della Margherita una vicenda di cui sono ancora da capire tutti i contorni e che rischia di influire su un’opinione pubblica che guarda con sempre minore fiducia ai partiti.

L’Unità 01.02.12

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“IL MISTERO MILIONARIO”, di GAD LERNER

La Margherita, un partito che non esiste più da cinque anni, dispone tuttora di un patrimonio superiore ai 20 milioni di euro. Questo partito-fantasma, cioè, da solo detiene una cifra di gran lunga superiore ai soldi che risparmieremo in un anno con la decurtazione sugli stipendi dei parlamentari approvata lunedì scorso. Il suo tesoriere, senatore Luigi Lusi, si è assunto davanti ai giudici la colpa di un’appropriazione indebita per 13 milioni.

Tredici milioni distolti attraverso 90 bonifici in soli due anni e mezzo dai conti bancari di cui era cointestatario insieme a Francesco Rutelli. Confidiamo di sapere al più presto se davvero si tratti solo di un clamoroso episodio di disonestà personale, come affermano gli ex dirigenti della Margherita, o se invece Lusi stia sacrificandosi anche nell’interesse di altri. Ma nel frattempo dobbiamo chiederci: cosa se ne fa la defunta Margherita, dopo la confluenza nel Partito Democratico, di tutti questi soldi? Nella reticente dichiarazione attraverso la quale i rappresentanti legali della Margherita (Francesco Rutelli, Enzo Bianco e Gianpiero Bocci) si dissociano dall’operato di Lusi, stupisce il compiacimento con cui rivendicano di avere sempre goduto di “bilanci sani e in attivo”. Quasi che il risparmio e la valorizzazione patrimoniale rientrassero tra le finalità di un partito politico, alla stregua di un’azienda profit. Grazie alla legge sui rimborsi elettorali (sovrabbondanti) con cui s’è aggirato il referendum che nel 1993 abrogò il finanziamento pubblico dei partiti, ci sono forze politiche che incassano molto più di quanto spendono, dedicandosi a investimenti speculativi di cui non sono tenute a rendere conto. La Margherita, per esempio, è riuscita a “risparmiare” oltre 20 milioni in un decennio. Usufruendo peraltro di rimborsi elettorali ben oltre la data del suo scioglimento. La verità è desolante: fra le ricchezze nascoste che penalizzano l’economia nazionale, rientrano pure i tesoretti occultati dalle forze politiche che ne predicano il risanamento. Partiti viventi e scomparsi gestiscono patrimoni mobiliari e immobiliari grazie ai quali i loro notabili intestatari perpetuano il proprio potere, talvolta traslocando perfino da uno schieramento all’altro. Non paghi di una legge elettorale che riserva loro l’esclusiva sulla scelta dei candidati, profittano ulteriormente di questo potere di firma per ostacolare la contendibilità democratica delle cariche dirigenti.

È capitato (di rado) che i “residui attivi” venissero investiti in operazioni politiche trasparenti: l’estate scorsa i Democratici dell’Asinello – dieci anni dopo il loro scioglimento! – li hanno devoluti per la raccolta di firme del referendum abrogativo della legge porcellum. Ma il più delle volte i capipartito e i capicorrente investono i nostri soldi nella loro autoperpetuazione. Basti pensare ai derivati speculativi acquisiti in Tanzania, a Cipro e in Norvegia dalla Lega Nord. E agli appartamenti comprati da Di Pietro e Mastella. Distinguere fra il lecito e l’illecito, in questa corsa all’accaparramento di risorse pubbliche, risulta difficoltoso. Perché i gruppi dirigenti tendono a diffidare anche al loro interno, come dimostra l’insolita “separazione dei beni” stabilita fra ex Ds e ex Margherita al momento del matrimonio nel Partito Democratico. Mentre i notabili che non dispongono di accesso diretto alla mangiatoia dei rimborsi elettorali, ricorrono alle Fondazioni per attingere finanziamenti sia pubblici che privati.

Stupisce la cautela di Bersani, cui non bastano le ammissioni di colpa già rese ai giudici dal senatore Lusi per deferirlo ai probiviri del partito, e resta in attesa che vengano “accertate responsabilità individuali”. Forse perché Lusi è depositario di troppe informazioni riservate, come già Filippo Penati? A vent’anni da Mani Pulite intorno ai partiti ruota un eccesso di denaro pubblico sottratto al dovere del rendiconto perché mascherato sotto forma di rimborsi elettorali, un eccesso scandaloso quanto il ritorno in auge delle tangenti, ancorché legalizzato.

Né può essere addotto come giustificazione il fatto che il principale partito della destra goda del sostegno di uno degli uomini più ricchi del paese.

L’autoriforma del Pd promessa da Bersani non potrà dunque limitarsi alla selezione delle candidature attraverso le primarie, su cui si è impegnato alla recente Assemblea nazionale. Deve contemplare un censimento veritiero delle risorse patrimoniali ereditate dal passato e un sistema di controlli rigoroso sul loro utilizzo no profit condiviso. Come direbbe lui, “non siamo mica qua a scimmiottare l’investment banking…”.

Desta invece curiosità Francesco Rutelli, trasmigrato con Casini e Fini nel Terzo Polo centrista, quando rilascia dichiarazioni a nome della fu Margherita intenzionataa “recuperare tutto il maltolto”.

D’accordo, ma per farne poi che cosa? Basterà la sua firma sul conto in banca depredato, sottoscritta con delega congressuale al tempo in cui Rutelli credeva ancora nel bipolarismo e nel progetto democratico, per riconoscerlo comproprietario di quei 13 milioni? Per oltrepassare la stagione della politica sottomessa alla tecnocrazia, urge liquidare questi partiti ridottia consorterie private, in palese violazione dell’articolo 49 della Costituzione della Repubblica: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Con metodo democratico, appunto.

La Repubblica 01.02.12

“Comportamento incompatibile”, di Pietro Spataro

È una brutta storia. Nella quale si incrociano questioni che riguardano l’etica pubblica, la correttezza politica, il rapporto di fiducia con gli elettori e con il partito che si rappresenta. La vicenda giudiziaria che coinvolge Luigi Lusi, ex tesoriere della Margherita e oggi senatore del Pd, è appena agli inizi e presenta ancora alcuni aspetti poco chiari. Passaggi che sono sotto la lente della Procura di Roma e sui quali è bene riservarsi il giudizio finale. Toccherà ai pm verificare se quei 13 milioni di euro, in gran parte frutto dei rimborsi elettorali del vecchio partito di Rutelli, sono finiti tutti nelle tasche del senatore indagato. Per ora, l’unica cosa certa è che Lusi, davanti ai magistrati, ha ammesso le colpe e si è assunto ogni responsabilità. Anzi, in un’intervista, ha detto testualmente: «Mi assumo la responsabilità di tutto e di tutti».
Dove l’ambiguità di quel «tutti» sembra lasciare aperto ogni possibile sviluppo.
L’accusa è molto pesante: appropriazione indebita. Pesante non tanto da un punto di vista penale (il codice prevede una multa e il carcere fino a tre anni) quanto da quello politico. Per un parlamentare è una macchia indelebile, che sfregia la sua
onorabilità e ferisce la sua funzione di rappresentanza. Quel flusso di denaro che dal
conto della Margherita è transitato nelle casse di una società gestita da un titolare
canadese è già, per ammissione, la prova di un giro di affari irregolari. Lusi, grazie a quella movimentazione, avrebbe acquistato un appartamento nel centro di Roma, una villa ai Castelli Romani, pagato una costosissima ristrutturazione edilizia più diverse consulenze. Che cosa abbia spinto il tesoriere della Margherita ad azioni così
spericolate e difficili da tenere nascoste è un mistero. Resta la macchia. Ed è una
macchia personale che riguarda innanzitutto un partitoì precedente al Pd e che ora coinvolge il Pd di cui è senatore. Con la stessa convinzione con cui abbiamo chiesto ai democratici provvedimenti rapidi nei nconfronti di Filippo Penati e con la stesso spirito garantista con cui in questi giorni abbiamo sollevato dubbi sull’inchiesta
giudiziaria che coinvolge Ottaviano Del Turco, oggi diciamo ai vertici del Pd che non sono consentiti né tentennamenti né rinvii. Il senatore Lusi ha ammesso le sue colpe, quindi non ci sono ulteriori accertamenti da fare, né testimonianze da
raccogliere. È ormai chiaro che non può più stare nel Pd, né far parte dei suoi organismi dirigenti e del suo gruppo parlamentare. E crediamo anche che, avendo tradito il suo mandato, debba dimettersi da senatore. Anche se quest’ultima è una decisione che attiene esclusivamente alla sua coscienza. Ci aspettiamo che gli
consigli la scelta giusta. Il caso Lusi pone però alla politica un problema che va oltre i risvolti penali o giudiziari. Bisogna che il Parlamento, come suggerisce Luciano Violante in un’intervista al nostro giornale, si doti al più presto di organismi che valutino l’etica pubblica dei parlamentari. Accade già negli Usa e in Canada. Anche i partiti devono darsi regole certe e inflessibili. Per sconfiggere l’antipolitica non basta l’indignazione. Bisogna sviluppare gli anticorpi per impedire che qualche disonesto sporchi l’impegno di tante persone che hanno a cuore solo le loro idee.

L’Unità 01.02.12

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Rabbia nel Pd: «Niente sconti», di Simone Collini

Sconcerto, rabbia. E la sgradevole necessità di tornare a parlare in termini di ex: ex-Margherita, ex-Ds. Non è stata una bella giornata in casa Pd. La notizia dell’accusa di appropriazione indebita nei confronti di Luigi Lusi ha «sorpreso, e non gradevolmente» Pier Luigi Bersani, per il quale di fronte all’accertamento dei fatti il senatore del Pd va espulso: «Non facciamo sconti a nessuno, le procedure verranno applicate rigorosamente». Luigi Berlinguer ha già convocato la Commissione di garanzia, che è l’organismo incaricato di applicare Statuto e Codice etico e quindi l’unico in grado di prendere una decisione comel’espulsione.
Mentre Anna Finocchiaro ha inviato a Lusi una lettera in cui si chiede al senatore di dimettersi dal gruppo del Pd e dagli incarichi che, «in ragione di tale appartenenza», ricopre a PalazzoMadama: ovvero vicepresidente della commissione Bilancio e membro della Giunta delle immunità parlamentari.
Invano sia il segretario che la capogruppo del Pd al Senato hanno atteso per mezza giornata da Lusi un passo indietro volontario. Di fronte al silenzio del parlamentare, nel pomeriggio si è deciso per la richiesta formale di uscita dal gruppo (nel caso si dimettesse da senatore, subentrerebbe come primo dei non eletti Stefano Fassina).
Ma al di là di quello che farà Lusi, la vicenda scuote il partito e innesca tra i Democratici una serie di recriminazioni e anche di sospetti. La domanda più frequente nei capannelli che si formano nel Transatlantico della Camera è se sia possibile che Lusi abbia tenuto per sé una somma così ingente come 13 milioni di euro. E poi ci si domanda perché i vertici del Pd non siano stati avvisati di quanto stava avvenendo, visto che Lusi si è dimesso da tesoriere della Margherita il 25
gennaio, dopo che la vicenda è stata discussa per una settimana da più di un dirigente di quell’area insieme a Francesco Rutelli. Così se gli ex-dielle, soprattutto gli ex-popolari come Pierluigi Castagnetti e gli ulivisti come Arturo Parisi, chiedono
la convocazione immediata dell’Assemblea (si terrà entro il mese e servirà a eleggere un nuovo tesoriere) o ricordano di aver già denunciato «voci opache» nel bilancio approvato la scorsa estate, tra gli ex-diessini ci si domanda quanti
compagnidi partito provenienti dalla Margherita hanno taciuto sul caso che stava per scoppiare. E l’unico che riesce a ironizzare sulla vicenda è Massimo D’Alema, che incrociando a Montecitorio il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti (che alla nascita del
Pd ha difeso la linea della «separazione dei beni» con la Margherita) gli fa: «Quello ha una casa in Canada, ora se tu non ci dici che hai almeno una casa in Siberia non ti guardiamo neanche in faccia, non si fa un’unificazione alla pari».Ma la voglia
di scherzare nel Pd è poca. Il fatto che Rutelli si sia costituito parte offesa, che abbia fatto sapere che i vertici della Margherita sono «incazzati e addolorati», che ora il bilancio sarà verificato dalla società di revisione Kpmg, che Lusi avesse
«interamente nelle sue mani il potere amministrativo», serve fino a un certo punto. Bersani ha concordato conil tesoriere del Pd Antonio Misiani una nota per «precisare» che gli «unici rapporti economici» tra Pd e Margherita riguardano i pagamenti per il subaffitto e le spese di gestione della sede nazionale in Via Sant’Andrea delle Fratte (nel rendiconto dell’esercizio chiuso al 31 dicembre 2010 si legge che sono stati
pagati complessivamente poco più di tre milioni di euro). I vertici del Pd stanno ora bene attenti a tener arginata entro i confini della Margherita una vicenda di cui sono ancora da capire tutti i contorni e che rischia di influire su un’opinione pubblica che guarda con sempre minore fiducia ai partiti.

L’Unità 01.02.12

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“IL MISTERO MILIONARIO”, di GAD LERNER

La Margherita, un partito che non esiste più da cinque anni, dispone tuttora di un patrimonio superiore ai 20 milioni di euro. Questo partito-fantasma, cioè, da solo detiene una cifra di gran lunga superiore ai soldi che risparmieremo in un anno con la decurtazione sugli stipendi dei parlamentari approvata lunedì scorso. Il suo tesoriere, senatore Luigi Lusi, si è assunto davanti ai giudici la colpa di un’appropriazione indebita per 13 milioni.

Tredici milioni distolti attraverso 90 bonifici in soli due anni e mezzo dai conti bancari di cui era cointestatario insieme a Francesco Rutelli. Confidiamo di sapere al più presto se davvero si tratti solo di un clamoroso episodio di disonestà personale, come affermano gli ex dirigenti della Margherita, o se invece Lusi stia sacrificandosi anche nell’interesse di altri. Ma nel frattempo dobbiamo chiederci: cosa se ne fa la defunta Margherita, dopo la confluenza nel Partito Democratico, di tutti questi soldi? Nella reticente dichiarazione attraverso la quale i rappresentanti legali della Margherita (Francesco Rutelli, Enzo Bianco e Gianpiero Bocci) si dissociano dall’operato di Lusi, stupisce il compiacimento con cui rivendicano di avere sempre goduto di “bilanci sani e in attivo”. Quasi che il risparmio e la valorizzazione patrimoniale rientrassero tra le finalità di un partito politico, alla stregua di un’azienda profit. Grazie alla legge sui rimborsi elettorali (sovrabbondanti) con cui s’è aggirato il referendum che nel 1993 abrogò il finanziamento pubblico dei partiti, ci sono forze politiche che incassano molto più di quanto spendono, dedicandosi a investimenti speculativi di cui non sono tenute a rendere conto. La Margherita, per esempio, è riuscita a “risparmiare” oltre 20 milioni in un decennio. Usufruendo peraltro di rimborsi elettorali ben oltre la data del suo scioglimento. La verità è desolante: fra le ricchezze nascoste che penalizzano l’economia nazionale, rientrano pure i tesoretti occultati dalle forze politiche che ne predicano il risanamento. Partiti viventi e scomparsi gestiscono patrimoni mobiliari e immobiliari grazie ai quali i loro notabili intestatari perpetuano il proprio potere, talvolta traslocando perfino da uno schieramento all’altro. Non paghi di una legge elettorale che riserva loro l’esclusiva sulla scelta dei candidati, profittano ulteriormente di questo potere di firma per ostacolare la contendibilità democratica delle cariche dirigenti.

È capitato (di rado) che i “residui attivi” venissero investiti in operazioni politiche trasparenti: l’estate scorsa i Democratici dell’Asinello – dieci anni dopo il loro scioglimento! – li hanno devoluti per la raccolta di firme del referendum abrogativo della legge porcellum. Ma il più delle volte i capipartito e i capicorrente investono i nostri soldi nella loro autoperpetuazione. Basti pensare ai derivati speculativi acquisiti in Tanzania, a Cipro e in Norvegia dalla Lega Nord. E agli appartamenti comprati da Di Pietro e Mastella. Distinguere fra il lecito e l’illecito, in questa corsa all’accaparramento di risorse pubbliche, risulta difficoltoso. Perché i gruppi dirigenti tendono a diffidare anche al loro interno, come dimostra l’insolita “separazione dei beni” stabilita fra ex Ds e ex Margherita al momento del matrimonio nel Partito Democratico. Mentre i notabili che non dispongono di accesso diretto alla mangiatoia dei rimborsi elettorali, ricorrono alle Fondazioni per attingere finanziamenti sia pubblici che privati.

Stupisce la cautela di Bersani, cui non bastano le ammissioni di colpa già rese ai giudici dal senatore Lusi per deferirlo ai probiviri del partito, e resta in attesa che vengano “accertate responsabilità individuali”. Forse perché Lusi è depositario di troppe informazioni riservate, come già Filippo Penati? A vent’anni da Mani Pulite intorno ai partiti ruota un eccesso di denaro pubblico sottratto al dovere del rendiconto perché mascherato sotto forma di rimborsi elettorali, un eccesso scandaloso quanto il ritorno in auge delle tangenti, ancorché legalizzato.

Né può essere addotto come giustificazione il fatto che il principale partito della destra goda del sostegno di uno degli uomini più ricchi del paese.

L’autoriforma del Pd promessa da Bersani non potrà dunque limitarsi alla selezione delle candidature attraverso le primarie, su cui si è impegnato alla recente Assemblea nazionale. Deve contemplare un censimento veritiero delle risorse patrimoniali ereditate dal passato e un sistema di controlli rigoroso sul loro utilizzo no profit condiviso. Come direbbe lui, “non siamo mica qua a scimmiottare l’investment banking…”.

Desta invece curiosità Francesco Rutelli, trasmigrato con Casini e Fini nel Terzo Polo centrista, quando rilascia dichiarazioni a nome della fu Margherita intenzionataa “recuperare tutto il maltolto”.

D’accordo, ma per farne poi che cosa? Basterà la sua firma sul conto in banca depredato, sottoscritta con delega congressuale al tempo in cui Rutelli credeva ancora nel bipolarismo e nel progetto democratico, per riconoscerlo comproprietario di quei 13 milioni? Per oltrepassare la stagione della politica sottomessa alla tecnocrazia, urge liquidare questi partiti ridottia consorterie private, in palese violazione dell’articolo 49 della Costituzione della Repubblica: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Con metodo democratico, appunto.

La Repubblica 01.02.12

"Maccari-Casarin, la Rai va in pezzi", di Fabrizia Bagozzi

Guerra a viale Mazzini su Tg1 e Tgr: gli ultimi sussulti di questo cda? Alla fine, dopo un cda Rai lungo e difficile, sono state confermate le previsioni della vigilia sulle controverse nomine del direttore del Tg1 e delle testate regionali della tv pubblica: Alberto Maccari rimane al Tg1 in proroga fino a fine dicembre e al Tgr va Alessandro Casarin, considerato molto vicino alla Lega. Con cinque voti a favore, quelli della resuscitata vecchia maggioranza Pdl-Lega e quattro contro, quelli dei consiglieri di area centrosinistra, van Straten e Rizzo Nervo – che si è dimesso –, dell’Udc De Laurentiis e, per la prima volta nella storia della Rai (almeno per il Tg1) del presidente Garimberti.
È andata dunque in scena una spaccatura netta sulle nomine che il direttore generale Lorenza Lei ha insistito a portare sul tavolo del piano nobile di viale Mazzini, a dispetto delle contrarietà e del dissenso esplicito e più volte ribadito oltre che dei consiglieri di area centrosinistra, anche del presidente della Rai Garimberti.
La doppietta Maccari al Tg1 e Casarin al Tgr – fortemente sostenuta dai falchi del Pdl nel tentativo di ricucire con la Lega in vista delle elezioni amministrative – era e rimane indigesta, nonostante le precisazioni del dg in commissione di vigilanza. Perché se anche Casarin segnala quello che Lei definisce «continuità aziendale» (essendo condirettore da tempo) e Maccari è prorogato con un contratto revocabile in qualunque momento senza oneri per la Rai, in una fase come questa la cosa più indicata era arrivare a una soluzione condivisa, sgombrando la strada a sospetti di accordi politici a destra. Senza forzature e divisioni insanabili, rese evidenti nello show down dal voto a favore dei soli consiglieri che fanno capo alla vecchia maggioranza (Pdl-Lega) e dalla contrarietà del presidente del consiglio di amministrazione.
Ma forzatura è stata, tanto più che, a rigore, la proroga di Maccari non sarebbe possibile, come ha spiegato nei giorni scorsi Rizzo Nervo: una delibera del cda che risale a due anni fa stabilisce infatti che non si possono affidare incarichi di responsabilità editoriali ai dirigenti andati in pensione, e senza possibilità di deroga. E tanto più che pendeva il caso Verro: il consigliere di amministrazione in quota Pdl, divenuto deputato subentrando al sindaco di Brescia che ha preferito la fascia tricolore a Montecitorio, ha votato in doppia carica. Solo ieri – proprio ieri – ha presentato alla camera le dimissioni da deputato. Montecitorio deciderà oggi, lui intanto fa sapere di preferire il cda Rai, anche se in scadenza.
La partita politica che fa da sfondo e su cui il centrosinistra si mette di traverso – e certo Maccari che rassicura il finto Bossi della Zanzara («sappia di poter contare su un amico») non aiuta a dissipare i sospetti – è un resuscitato accordo fra Pdl e Carroccio proiettato sulla Rai, mentre si prospetta un’importante tornata elettorale a livello locale. Con Casarin – vicino al Carroccio – alla direzione delle testate regionali, che al Nord hanno ascolti da record.
Dura la reazione del segretario Pd Bersani: «Non resteremo con le mani in mano. Non staremo certo fermi davanti a coloro che vogliono vedere distrutta un’azienda pubblica». Nella notte di lunedì il presidente del consiglio Mario Monti aveva annunciato che il governo si occuperà della Rai «nei limiti delle sue competenze e nella sua qualità di azionista e regolatore, entro le scadenze che si stano avvicinando».
Se non interverranno decisioni straordinarie (commissariamenti o criteri di nomina nuovi per i vertici Rai), si dovranno seguire le regole della legge Gasparri. E anche se i numeri fra la “vecchia” maggioranza e il centrosinistra in Vigilanza sono pari (venti a venti), il centrodestra intende giocarsi la partita (come Verro dimostra).

da Europa Quotidiano 01.02.12

“Maccari-Casarin, la Rai va in pezzi”, di Fabrizia Bagozzi

Guerra a viale Mazzini su Tg1 e Tgr: gli ultimi sussulti di questo cda? Alla fine, dopo un cda Rai lungo e difficile, sono state confermate le previsioni della vigilia sulle controverse nomine del direttore del Tg1 e delle testate regionali della tv pubblica: Alberto Maccari rimane al Tg1 in proroga fino a fine dicembre e al Tgr va Alessandro Casarin, considerato molto vicino alla Lega. Con cinque voti a favore, quelli della resuscitata vecchia maggioranza Pdl-Lega e quattro contro, quelli dei consiglieri di area centrosinistra, van Straten e Rizzo Nervo – che si è dimesso –, dell’Udc De Laurentiis e, per la prima volta nella storia della Rai (almeno per il Tg1) del presidente Garimberti.
È andata dunque in scena una spaccatura netta sulle nomine che il direttore generale Lorenza Lei ha insistito a portare sul tavolo del piano nobile di viale Mazzini, a dispetto delle contrarietà e del dissenso esplicito e più volte ribadito oltre che dei consiglieri di area centrosinistra, anche del presidente della Rai Garimberti.
La doppietta Maccari al Tg1 e Casarin al Tgr – fortemente sostenuta dai falchi del Pdl nel tentativo di ricucire con la Lega in vista delle elezioni amministrative – era e rimane indigesta, nonostante le precisazioni del dg in commissione di vigilanza. Perché se anche Casarin segnala quello che Lei definisce «continuità aziendale» (essendo condirettore da tempo) e Maccari è prorogato con un contratto revocabile in qualunque momento senza oneri per la Rai, in una fase come questa la cosa più indicata era arrivare a una soluzione condivisa, sgombrando la strada a sospetti di accordi politici a destra. Senza forzature e divisioni insanabili, rese evidenti nello show down dal voto a favore dei soli consiglieri che fanno capo alla vecchia maggioranza (Pdl-Lega) e dalla contrarietà del presidente del consiglio di amministrazione.
Ma forzatura è stata, tanto più che, a rigore, la proroga di Maccari non sarebbe possibile, come ha spiegato nei giorni scorsi Rizzo Nervo: una delibera del cda che risale a due anni fa stabilisce infatti che non si possono affidare incarichi di responsabilità editoriali ai dirigenti andati in pensione, e senza possibilità di deroga. E tanto più che pendeva il caso Verro: il consigliere di amministrazione in quota Pdl, divenuto deputato subentrando al sindaco di Brescia che ha preferito la fascia tricolore a Montecitorio, ha votato in doppia carica. Solo ieri – proprio ieri – ha presentato alla camera le dimissioni da deputato. Montecitorio deciderà oggi, lui intanto fa sapere di preferire il cda Rai, anche se in scadenza.
La partita politica che fa da sfondo e su cui il centrosinistra si mette di traverso – e certo Maccari che rassicura il finto Bossi della Zanzara («sappia di poter contare su un amico») non aiuta a dissipare i sospetti – è un resuscitato accordo fra Pdl e Carroccio proiettato sulla Rai, mentre si prospetta un’importante tornata elettorale a livello locale. Con Casarin – vicino al Carroccio – alla direzione delle testate regionali, che al Nord hanno ascolti da record.
Dura la reazione del segretario Pd Bersani: «Non resteremo con le mani in mano. Non staremo certo fermi davanti a coloro che vogliono vedere distrutta un’azienda pubblica». Nella notte di lunedì il presidente del consiglio Mario Monti aveva annunciato che il governo si occuperà della Rai «nei limiti delle sue competenze e nella sua qualità di azionista e regolatore, entro le scadenze che si stano avvicinando».
Se non interverranno decisioni straordinarie (commissariamenti o criteri di nomina nuovi per i vertici Rai), si dovranno seguire le regole della legge Gasparri. E anche se i numeri fra la “vecchia” maggioranza e il centrosinistra in Vigilanza sono pari (venti a venti), il centrodestra intende giocarsi la partita (come Verro dimostra).

da Europa Quotidiano 01.02.12