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«Assunzioni e contratti ai giovani ricercatori per rilanciare l’università», di Mariagrazia Gerina

C’è chi va avanti con contratti Co. co.co., chi continua a mettere insieme borse di studio. Precari della conoscenza. Lavoratori in via d’estinzione. Decine di migliaia di ricercatori precari, almeno cinquantamila solo nelle università, che non hanno davanti a sé nulla. Neppure la prospettiva di un contratto a tempo determinato, che arrivi in un tempo ragionevole. E negli enti di ricerca non va meglio. Su 18mila ricercatori, 12mila sono precari. Ei vincoli per procedere alle assunzioni sono talmente tanti che impediscono di tradurre in contratti anche i pochi soldi che ci sarebbero in cassa. È da qui, secondo la Flc Cgil, che il governo Monti dovrebbe ripartire. Altro che abolizione del valore legale del titolo di studio. «Contratti per i giovani ricercatori precari», scandisce il segretario nazionale, Domenico Pantaleo. Trentamila ricercatori da assumere nei prossimi cinque anni, con contratto a tempo determinato,ma con risorse già accantonate per la stabilizzazione. Altri 20mila posti per nuovi professori associati. In tutto cinquantamila contratti da qui ai prossimi cinque anni. Questi sono – secondo la Flc Cgil – i numeri per ridare prospettiva all’università. «Fin qui abbiamo sentito tante dichiarazioni anche contraddittorie ma un’inversione di tendenza nelle politiche concrete non l’abbiamo vista ancora», osserva Pantaleo, che minaccia una mobilitazione massiccia se il governo mostrerà di voler andare avanti sull’abolizione del valore legale del titolo di studio, e scandisce invece gli imperativi su cui intende aprire il confronto: cancellare i tagli al fondo di finanziamento ordinario delle università, accantonare i prestiti d’onore e prevedere un finanziamento straordinario per il diritto allo studio, stanziare un miliardo in cinque anni per salvare gli enti di ricerca. «Senza investimenti non si va da nessuna parte», avverte il segretario della Flc Cgil, snocciolando i numeri di una emergenza non solo generazionale: «In Italia il numero di ricercatori è tra i più bassi d’Europa». Ce ne sono 3,8 ogni mille lavoratori, mentre la media europea è di 6,4 – quasi il doppio. E invece di invertire la tendenza, docenti e ricercatori sono in continua diminuire: erano 62.700, oggi, effetto della legge 133 e della riforma Gelmini, sono già scesi a 56mila e nel 2018, secondo le proiezioni, saranno appena 44mila. «Ne servono almeno il doppio se si vuole rispondere a una domanda sociale di sapere e non si vuole invece tornare a una università di elite, come era prima del ‘68», avverte Francesco Sinopoli, responsabile Università e Ricerca. Lo sanno bene i dipartimenti che nel frattempo, in attesa di capire quale dei due modelli prevarrà, se il ritorno al passato o quello che punta verso standard europei, «si ritrovano a utilizzare le forme più spinte di precariato per aggirare l’assenza di un processo lineare di reclutamento », denuncia Pantaleo.
I NUMERI DEL 2011 Quello individuato dalla riforma Gelmini, di certo, non ha funzionato. Nel 2011 in tutta Italia poco più di 200 ricercatori hanno ottenuto un contratto a tempo determinato e appena per tre il contratto di tipo B, con risorse accantonate per la stabilizzazione. Mentre la abilitazione scientifica nazionale che doveva rappresentare per i ricercatori il traguardo finale è ancora in alto mare. «Bisogna fare i conti con questo fallimento e in attesa che si definiscano i criteri per la abilitazione nazionale bisogna individuare gli strumenti transitori e le risorse per sbloccare il reclutamento », spiega Sinopoli. Secondo i calcoli della Flc Cgil ci vorrebbe 1 miliardo e mezzo, anzi, poco più della metà, considerando le risorse già spese in contratti precari, per stabilizzare 50mila precari nell’università e altri 20mila negli enti di ricerca. «Aprire il confronto su questi temi – avverte Pantaleo – è fondamentale anche per dare risposte a chi vuole trasformare il disagio sociale in pura violenza».

L’Unità 31.01.12

"Se il sindacato intonasse la Marsigliese", di Eugenio Scalfari

Mi aspettavo una risposta di Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, al mio articolo di domenica che si apriva con una lunga citazione da un´intervista che Luciano Lama ci dette nel gennaio del 1978. Me l´aspettavo e la ringrazio vivamente di avercela inviata. Avevo anche deciso che non l´avrei commentata poiché speravo che – pure ribadendo i punti di vista del sindacato da far valere al tavolo del negoziato con il governo – avrebbe dimostrato d´aver capito quale sia la situazione attuale nella quale si trova l´economia dell´Italia, dell´Europa e di tutto l´Occidente.
L´intervista con Lama da me citata poteva essere di grande insegnamento: un dirigente sindacale metteva l´interesse generale al di sopra del pur legittimo “particulare” e faceva diventare il sindacato un protagonista attraverso una politica di sacrifici che andavano dalla licenziabilità alla moderazione sindacale, alla riduzione della cassa integrazione, con la principale finalità di far diminuire la disoccupazione e aprire l´occupazione alle nuove leve giovanili.
Purtroppo non ho trovato, nella risposta della Camusso, l´intelligenza politica che in altre recenti circostanze aveva dimostrato. È possibile che la sua rigidità su tutti i piani della discussione sia una tattica negoziale, ma temo di no. La Camusso sa che il governo tenterà di arrivare a un accordo, ma se la controparte sindacale dicesse no su tutti i punti, andrà avanti comunque perché la riforma del mercato del lavoro è un tassello essenziale del mosaico che il governo sta componendo. Ogni tattica negoziale è quindi inutile, il tempo a disposizione è limitato, la crisi e la recessione sono ancora tutt´altro che domate. Non di tattica sindacalese c´è bisogno, ma di strategia politica e realistica. Perciò risponderò alla lettera del segretario della Cgil; servirà almeno a chiarire alcuni aspetti del problema che mi sembra siano sfuggiti alla sua attenzione. La Camusso sostiene che l´elemento dominante della crisi sta nell´occupazione precaria e nella disoccupazione.
Che il precariato sia un fenomeno deprecabile che va affrontato con energia e priorità è una verità ammessa da tutti. Il governo Prodi del 2007 lo poneva al primo posto del suo programma, anche se non riuscì a ottenere alcun risultato: era un governo con due voti di maggioranza e poteva far ben poco. Ma il governo Prodi del 1996, che aveva ben altra forza politica, fu quello che introdusse la flessibilità del lavoro con i provvedimenti caldeggiati dal ministro Treu.
Dunque il precariato è un male, la flessibilità un bene in un´economia aperta e globalizzata. Il Lama del ´78 già lo diceva a chiare lettere, era uno dei punti essenziali dell´intervista da me citata.
Il precariato non si sconfigge abolendo la flessibilità perché la flessibilità, se è ben strutturata attraverso una riforma dei contratti, rappresenta l´alternativa al precariato. La Camusso dovrebbe saperlo e aprirsi a questo discorso, non arroccarsi.
Ma se è vero che il precariato è un male (ed è certamente vero) non è invece vero che il precariato sia la causa della crisi. Qui la Camusso sbaglia radicalmente. Il precariato e la disoccupazione sono gli effetti della crisi insieme alla recessione e alla “stagflation”, ma le cause sono del tutto diverse.
Le cause sono l´esplosione del debito, la finanziarizzazione dell´economia.
L´emergere di nuovi attori nell´economia mondiale e la legge dei vasi comunicanti che la globalizzazione ha reso effettiva.
Dice la Camusso che il mondo attuale è molto cambiato rispetto a quello di Lama. L´ho detto anch´io domenica scorsa e del resto è ovvio che sia cambiato, ma in che modo è cambiato? Nella divisione internazionale del lavoro, nell´inesistenza dei diritti sindacali nei Paesi nostri concorrenti, nell´inesistenza dei diritti di cittadinanza in quegli stessi Paesi, nella povertà di milioni e milioni di persone nell´Africa centrale e settentrionale, decisi ad affrontare la morte pur di sbarcare sulle sponde mediterranee dell´Europa opulenta.
I lavoratori e le imprese europee (e italiane) debbono fronteggiare le esportazioni cinesi, coreane, indonesiane, prodotte a costi molto più bassi dei nostri e non si tratta più di pigiamini di seta o di chincaglieria di varia amenità, ma di alte tecnologie dove l´invenzione si accoppia con bassissimi costi della manodopera. Come si impedisce in un´economia aperta una concorrenza di questa natura? Con i dazi? La Camusso pensa di blindare l´Europa (e l´Italia) con una impenetrabile cinta di protezionismo? E come pensa che quei Paesi reagirebbero se non rispondendo in egual modo alle nostre esportazioni? Come pensa di fermare la de-localizzazione delle imprese italiane che hanno convenienza a portare all´estero interi settori delle loro lavorazioni? L´esempio di Marchionne non insegna nulla? Vuole la Camusso generalizzare al sistema Italia la politica ideologico-sindacale della Fiom?
Difendere i diritti sindacali è sacrosanto, dare battaglia per i diritti di rappresentanza anche ai sindacati che non hanno firmato i contratti è più che giusto, ma chiudere gli occhi di fronte alla realtà è una sciagura.
Quanto al debito, è un dato di fatto che i suoi nodi vengano inevitabilmente al pettine dopo una o due generazioni ed è quanto sta accadendo. La recessione – come il precariato – non è causa della crisi ma effetto. Se la fiducia scompare non è colpa della speculazione. La speculazione, gentile Susanna, gioca indifferentemente al rialzo come al ribasso. Se scompare la fiducia gioca al ribasso e finché la fiducia non torna il ribasso ha la meglio.
Il ribasso ha come effetto un costo del debito insostenibile. Lei, cara Camusso, sostiene che i lavoratori hanno già dato. E le famiglie che hanno investito in titoli del debito pubblico italiano come pensa che stiano? Il 17 per cento di quel debito pubblico è posseduto da privati cittadini italiani, il 40 per cento da banche italiane. Lei pensa che con queste cifre si possa scherzare?
Nel 1978, quando Lama proponeva ai lavoratori una politica di austerità e sacrifici, la situazione era certamente diversa; allora la Cina e le “tigri asiatiche” erano ancora addormentate. L´economia italiana non aveva problemi di questa portata. Eppure Lama riteneva che solo con una politica di sacrifici la classe operaia poteva aspirare alla guida morale e politica della società italiana.
Oggi si tratta di salvare il salvabile e di far valere il principio dei vasi comunicanti anche all´interno della nostra società.
Concordo pienamente con Lei, cara Camusso, sulla necessità di combattere le disuguaglianze. Questo nostro giornale ha fatto di questo tema uno dei punti essenziali del nostro discorso con la pubblica opinione. Libertà ed eguaglianza.
Con cautela. La libertà ha bisogno di regole, l´eguaglianza significa aprire al merito a pari condizioni di partenza.
Questa è la società aperta, con un fisco che redistribuisca il benessere con equità. Ma produrre benessere oggi è più difficile di prima e la libertà è l´altro principio fondamentale affinché il benessere sia prodotto.
Personalmente non mi sono mai commosso quando sentivo cantare Bandiera rossa, ma quando ascoltavo la Marsigliese, allora sì, sentivo qualcosa che si agitava nel mio animo.
Fu l´inno che celebrava i tre grandi principi dell´Europa moderna: libertà, eguaglianza, fraternità. Se il sindacato dei lavoratori li facesse propri, potrebbe ancora ridiventare (lo fu per molti anni) il protagonista della nuova modernità sapendo però che non si tratta d´un protagonismo indolore.
Lei parla d´una dose massiccia di intervento pubblico in economia. Ci vuole sicuramente l´intervento pubblico ma non è mai a costo zero. Bisogna che ci siano risorse. Bisogna che ci siano anche per una nuova ed efficiente architettura degli ammortizzatori sociali. La lotta all´evasione può dare risorse e può far diminuire la pressione fiscale. Le altre risorse possono derivare dalla lotta agli sprechi e ai privilegi. Questo governo è impegnato al raggiungimento di questi obiettivi. La riforma del mercato del lavoro fa parte di questa strategia e non può esser fatta se non col vostro aiuto che, a mio modo di vedere, può esser dato con l´intento di farvi carico dell´interesse generale entro il quale la coesione sociale e il rispetto dei diritti dei lavoratori sono legittimi obiettivi.
“No taxation without representation” ma “no representation without taxation”. Non è una metafora ma la realtà e scacciare dalla porta la realtà è impossibile perché rientrerà inevitabilmente dalla finestra. Luciano Lama questo l´aveva capito.

La Repubblica 31.01.12

"Il ministro Ornaghi ascolti i tre saggi", di Mario Pirani

Non posso nascondere un personale disagio nel tornare ad occuparmi delle nefaste devastazioni eoliche, programmate a fini speculativi con assoluta noncuranza per le conseguenze apportate al paesaggio, ai beni artistici, al patrimonio naturale. Quando ne scrivo sono in preda al dilemma se mi trovo ad annoiare ancora una volta i lettori con argomenti inevitabilmente ripetitivi o se è mio dovere dar retta a quanti, impegnati nella difesa di luoghi cari per la loro unicità, mi chiedono di non essere lasciati soli e inascoltati in una battaglia ricca di civile consenso quanto costellata di sconfitte immeritate. Prevalgono spesso, infatti, gli interessi del denaro, assicurato dagli incentivi, i profitti di gruppi internazionali o peggio, come più volte provato, destinati alla criminalità organizzata e alle tangenti politico clientelari.
Ora è tornato all´ordine del giorno al centro del Molise il destino della città romana di Sepino e della vicina Pietrabbondante col suo splendido anfiteatro italico. La zona è attraversata dal più noto degli antichi tratturi, le secolari vie d´erba per la transumanza degli armenti, che da Pescasseroli alle falde della Maiella porta fino a Mandela nelle Puglie. Al centro degli incroci sorge il complesso di Saepinum con l´antico teatro, il foro, la basilica, le mura e le vecchie porte che contengono una pregevole architettura abitativa con manufatti che arrivano al ´700. Poi nei dintorni lungo le pendici della conca e la valle del Tammaro si diramano antichi percorsi, templi italici, poderose fortificazioni sannitiche dalle mura megalitiche, e ancora ville romane e quattro centri storici di impianto medievale.
Le ragioni della salvaguardia hanno prevalso per secoli anche per l´isolamento della zona. Fino a quando nel 2005 si affacciò lungo il crinale che chiude la Conca, il progetto di una società, non nota ai più, la Essebiesse Power, che richiese di innalzare lungo tre chilometri 16 torri alte, compresa la base, 150 metri, come la cupola di San Pietro. Uno scempio pauroso che suscitò proteste unanimi e condanne dei Beni culturali e della Corte dei Conti. Viceversa il Consiglio di Stato ha ripetutamente affermato – l´ultima volta a dicembre – la ragione prevalente – sulla scia della legislazione edilizia – della società eolica, detentrice di un permesso di costruzione anteriore temporalmente ai vincoli imposti dai Beni culturali. Prima che la devastazione abbia inizio la popolazione del luogo, tutti i vescovi della Regione, le organizzazioni ambientaliste con in testa Italia Nostra hanno richiesto al ministero dei Beni culturali di intervenire in extremis con un provvedimento che obblighi alla salvezza di Sepino-Pietrabbondante, agganciato alle leggi per la salvezza dell´Italia che il governo Monti sta via via proponendo al Parlamento.
Da ultimo tre fra i più eminenti storici dell´arte, Adriano La Regina, Antonio Paolucci, Salvatore Settis hanno rivolto il seguente appello personale al ministro per i Beni culturali, Vincenzo Ornaghi di cui riporto il brano centrale: “Giganteschi impianti eolici previsti a ridosso delle principali località archeologiche del Molise, la città romana di Sepino e il santuario italico di Pietrabbondante, potrebbero snaturare i caratteri storici e svilirne irrimediabilmente il paesaggio. Il pericolo sembra ormai inevitabile per Sepino, ove stanno per essere installate sedici torri alte centotrenta metri nonostante la ferma opposizione della locale direzione del ministero dei Beni culturali, del Comune e di un vasto schieramento dell´opinione pubblica. Espletata inutilmente ogni ordinaria procedura amministrativa per garantire la tutela di questi luoghi, appare auspicabile l´approvazione di una speciale norma di legge, già adottata per Paestum, per i Sassi di Matera e per i Colli euganei. I due complessi monumentali ora minacciati costituiscono importanti risorse culturali per l´Italia, le principali per il Molise, e la loro importanza va anche oltre i rilevanti aspetti di ordine storico”.

da la Repubblica

"L'Agenzia spaziale italiana e il tour (inutile) da 1,1 milioni", di Sergio Rizzo

Viaggio negli Usa per il lancio di un satellite. Mai avvenuto

A Enrico Saggese la sorpresa di Natale l’hanno fatta le Fiamme Gialle. Il 19 dicembre scorso due marescialli della Guardia di finanza si sono presentati all’Agenzia spaziale italiana (Asi) per prelevare la documentazione relativa a un viaggio organizzato due anni prima a spese delle casse pubbliche, per far assistere 33 persone al lancio di un satellite dalla base di Vandenberg in California. Una spedizione durata nove giorni alla quale avevano partecipato, oltre al personale dell’Agenzia, anche militari, politici e congiunti, che aveva già fatto parlare di sé per i costi: un milione centomila euro. Ovvero, più di 30 mila euro a testa. Un conto astronomico, che comprende anche la fattura di una società specializzata nell’«assistenza all’organizzazione di manifestazioni pubbliche», la 9pm srl dell’americano James Victor Pallas, incaricata di studiare la logistica del viaggio: 116 mila euro.
Sulla vicenda erano piovute in Parlamento un paio di interrogazioni. E anche il collegio sindacale dell’Agenzia aveva sollevato il problema, investendo della faccenda la procura della Corte dei conti. Che ora vuole vederci chiaro: dai costi degli alberghi e dei ristoranti fino ai nomi, finora rigorosamente top secret, di chi era stato invitato a partecipare a un evento che non si è nemmeno tenuto. Già, perché per ironia della sorte il lancio del satellite venne anche rimandato.
Ma la grana del viaggio in California, tuttavia, non è nemmeno l’unica, per l’attuale presidente dell’Asi. Amicissimo del senatore pidiellino Maurizio Gasparri, Saggese viene nominato commissario dell’Agenzia dall’ex ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini nel 2008, dopo aver fatto sloggiare senza troppi complimenti il suo predecessore. È l’astrofisico Giovanni Bignami, che era stato collocato lì dal centrosinistra e si candiderà poi senza fortuna alle elezioni europee con il Pd. L’estromissione non gli va giù e un anno dopo accusa: «Il piano spaziale nazionale lo sta scrivendo la Finmeccanica».
Saggese arriva proprio da lì. Quando il governo Berlusconi lo mette a capo dell’Asi, l’ingegnere amico di Gasparri è assistente per lo spazio di Pierfrancesco Guarguaglini. E questo non è forse un dettaglio, considerando che Finmeccanica è uno dei principali destinatari dei fondi statali (più di mezzo miliardo di euro) gestiti dall’Agenzia. Come forse non è un dettaglio che Saggese, fino a qualche anno prima, fosse azionista della Space engineering, azienda che in tre anni ha avuto dall’Asi contratti per qualche milione. Ma, com’è noto, in Italia non si bada a queste piccolezze.
A conferma di ciò, il commissario arriva all’Agenzia spaziale con un plotone di fedelissimi, distaccati dalla Finmeccanica: costano 550 mila euro l’anno. Tuttavia il problema non è tanto il costo, quanto il fatto che a loro spetta il compito di assumere decisioni su iniziative proposte da concorrenti della loro azienda. Ma anche su questo si sorvola. E il 10 settembre del 2009, dopo un anno di commissariamento, Saggese viene nominato presidente di un consiglio di amministrazione nel quale si trova un posto anche per l’immancabile politico trombato alle ultime elezioni perché era troppo indietro nella lista: solo ventesimo. Si chiama Marco Airaghi, è stato deputato di An ed è amico nonché consigliere per le attività aerospaziali del ministro della Difesa Ignazio La Russa che lo ha messo a fare il direttore generale di Agenzia industrie difesa. Come non bastasse, Saggese lo fa pure presidente della società controllata Asitel.
È il 15 luglio del 2011, e proprio in quei giorni si sta svolgendo un maschio confronto, a colpi di letteracce, fra i vertici dell’Agenzia e il ministero dell’Economia. Il motivo? Proprio a ridosso di quel famoso viaggio ha fatto visita all’Agenzia un ispettore mandato dal Ragioniere generale dello Stato Mario Canzio. L’ispezione è stata chiesta dal capo dei revisori dell’Asi, che è uomo della Ragioneria. Nella gestione di Saggese ci sono fatti che non lo convincono, e il rapporto dell’ispettore lo confermano in pieno. Vengono scoperte «irregolarità nell’inquadramento» dei comandati (44 in tre anni), «illegittimità varie in materia di contratti a tempo determinato», consulenze a dir poco discutibili. Qualche caso? C’è un maresciallo della capitaneria che viene nominato dirigente. E un consigliere parlamentare, tale Antonio Menè, distaccato dalla Camera che continua a pagargli uno stipendio da 18 mila euro lordi al mese, e prende dall’Asi, come dirigente, altri 63 mila euro l’anno. Salta poi fuori una consulenza di 15.600 euro affidata alla compagna di uno dei fedelissimi di Saggese, per «il servizio di supporto psicologico al personale dell’ente»: nientemeno. E un incarico da 20 mila euro per un «inutile studio del mercato editoriale», lo definisce l’ispettore. Ma il massimo è la consulenza legale assegnata all’avvocato dello Stato Pierluigi Di Palma, conferitagli nel 2004, dunque prima dell’arrivo di Saggese, ma poi rinnovata ogni anno per sette anni. Di Palma è stato direttore generale dell’Enac ed è vice segretario generale della Difesa, nominato da La Russa: anche sua moglie Sveva Iacovoni, in forza al ministero delle Infrastrutture di Altero Matteoli, è distaccata all’Asi. Il rapporto dell’ispettore, nella parte che lo riguarda, ci lascia senza parole: «In occasione della richiesta da parte dell’ente di pareri su varie problematiche all’avvocatura dello Stato, si è constatato che… l’avvocato, quale consulente dell’ente, formulava la richiesta di parere e, in veste di avvocato dello Stato, rispondeva al quesito da lui stesso prospettato».

da il Corriere della Sera

"Gli italiani di lotta e di governo", di Ilvo Diamanti

Gran parte dei cittadini teme la caduta dell´esecutivo per paura di “tornare indietro”. Il centro-destra e il centro-sinistra soffrono entrambi di una crisi di rappresentanza

Viviamo strani tempi. Come, d´altronde, il governo Monti (secondo la definizione dello stesso premier). Tempi instabili e sussultori. Una settimana dopo l´altra, un giorno dopo l´altro: protestano tutti.
Tassisti e camionisti, avvocati e farmacisti, benzinai e giornalai, operai e notai. Protestano i Padani e i Forconi. Oltre ai No-Tav. Gli stessi “professori” – e gli studenti – non apprezzano il ridimensionamento dei titoli di studio – e delle lauree. Tutte, non solo quelle conseguite dagli “sfigati”, per usare l´eufemismo del viceministro Martone.
Non sorprende, quindi, che la maggioranza degli italiani sia d´accordo con le manifestazioni e gli scioperi contro i provvedimenti del governo e le liberalizzazioni. Oltre il 56%, secondo il sondaggio condotto da Demos (per Unipolis) nei giorni scorsi. Tuttavia, solo una frazione della popolazione (circa il 5%) afferma di avervi partecipato, mentre si dice disposta a parteciparvi una componente, comunque, molto limitata (13%). D´altra parte, in questo strano Paese, il governo ottiene un consenso largo quanto le proteste contro le sue politiche. Anzi, un po´ più ampio, visto che quasi il 58% degli italiani (intervistati da Demos per Unipolis) giudica positivamente l´azione del governo Monti (con un voto da 6 a 10). Non solo, ma le liberalizzazioni, nonostante le proteste, continuano ad essere apprezzate dalla maggioranza assoluta della popolazione (secondo l´IPSOS).
Le “ragioni” di atteggiamenti così contrastanti sono diverse ma, perlopiù, molto “ragionevoli”.
1. La prima richiama la profonda diversità delle categorie coinvolte dai provvedimenti, che, non a caso, sono valutate in modo differente dai cittadini (come hanno segnalato i sondaggi IPSOS). L´indulgenza verso la protesta dei camionisti e dei tassisti, in particolare, risulta molto superiore rispetto a quella espressa verso i notai, gli avvocati e i farmacisti. Perché si tratta di figure sociali ritenute “popolari”, che svolgono attività usuranti.
2. La seconda ragione è stata espressa, con chiarezza, dallo stesso Monti nei giorni scorsi, quando ha osservato che «per decenni si è coltivato e rispettato più l´interesse delle singole categorie che l´interesse generale». Anche se questo duplice sentimento attraversa tutti. Così, l´attenzione all´interesse generale ci fa apprezzare Monti e le politiche del governo, comprese le liberalizzazioni. Ma l´interesse di categoria ci spinge a reagire con insofferenza. Visto che tutti – o, almeno, molti – sono (siamo): tassisti, notai, avvocati, pensionati, avvocati, benzinai, commercianti, camionisti, professori, ecc. (Senza trascurare le differenze sociali, di reddito, posizione, fatica fra queste professioni.) Intendo dire che dentro di noi convivono e confliggono diversi interessi e diverse condizioni. Che dividono l´identità civica e quella di categoria.
3. Da ciò il dualismo di sentimenti che coabitano in noi. Da un lato, il consenso – di proporzioni larghe – verso Monti e verso il governo. Dall´altro, il peso, altrettanto esteso, del dissenso e delle proteste verso le politiche governative. Perché gran parte dei cittadini si rende conto che molte scelte di Monti sono obbligate e necessarie. Anche se criticabili e migliorabili. E gran parte dei cittadini, inoltre, teme la caduta del governo. Non solo per paura di “tornare indietro”. Al passato politico che incombe, come una minaccia. Ma perché si rischierebbero la ripresa delle guerre politiche e del conflitto sociale. Tuttavia, ciò non impedisce agli specifici interessi e alle specifiche rivendicazioni – sociali, economiche e locali – di emergere ed esprimersi. In modo talora acceso.
4. C´è, infine, una ragione più generale. Meno evidente e meno evocata, nel dibattito pubblico. Ma forse la più pericolosa – a mio parere. Perché riguarda – e mette in discussione – la nostra stessa democrazia. Se oggi si assiste al proliferare di conflitti e di proteste puntiformi e senza soluzione è anche – soprattutto – perché tra la società, gli interessi e il governo – lo Stato – c´è il vuoto. Non c´è rappresentanza, ma neppure “composizione” e “aggregazione” delle domande e degli interessi. Un mestiere che spetta alle grandi organizzazioni economiche, ma, soprattutto e in primo luogo, ai partiti. I quali hanno “delegato” a Monti i compiti che essi non si sentono in grado di affrontare, anche – forse soprattutto – per timore delle conseguenze elettorali.
Un problema che lacera il centrodestra – particolarmente sensibile al richiamo degli interessi dei lavoratori autonomi e delle professioni. Ma che inquieta anche il centrosinistra, in difficoltà ad affrontare i temi della mobilità (del lavoro). Non è un caso che gli unici soggetti ad agire apertamente sulla scena politica, oggi, siano coloro che “moltiplicano” e amplificano le proteste di categoria, invece di ri-comporle. La Lega, in primo luogo. Ma anche l´IdV e Sel, per quanto in modo reticente.
Ne esce il quadro – in frantumi – di una “democrazia immediata” (per riprendere la definizione del marchese di Condorcet, nella Francia rivoluzionaria del Settecento). In duplice senso. A) Perché ogni domanda e ogni spinta sociale si rovescia “immediatamente” sulla scena pubblica. Visto che non solo i media tradizionali (per prima la Tv), ma Internet, i cellulari e i palmari, FB e Twitter danno visibilità e rilevanza “immediata” a ogni rivendicazione e a ogni protesta. Mentre ogni rivendicazione e ogni protesta può, comunque, produrre conseguenze pesanti a livello pubblico e sociale, quando sia in grado di interrompere la comunicazione e la mobilità – strade, autostrade, città, aerei, ferrovie. B) Ma questa democrazia appare, d´altronde, im-mediata, in quanto priva di “mediazioni” e di “mediazione”. Per il deficit di rappresentanza politica espresso dai partiti. Per la tendenza e la tentazione di affidare l´unica forma di mediazione ai “media”.
Questa democrazia im-mediata e iper-mediata (dai media), al tempo stesso, può, forse, piacere a coloro che celebrano l´antipolitica e auspicano la morte della politica, dei politici e dei partiti. Ma rischia di compromettere le sorti della democrazia rappresentativa.

da la Repubblica