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«Quei ragazzi sono italiani. Con che coraggio si dice no?», Intervista a Graziano Delrio di Natalia Lombardo

Il presidente dell’Anci e la cittadinanza agli immigrati nati nel nostro Paese: «C’è una forte azione dal basso, il Parlamento dia subito una risposta»

Il Parlamento guardi in faccia questi giovani e dica loro “voi non siete italiani”, così come gli uomini dovevano dire in faccia alle donne, “voi non votate” ».
Graziano Delrio, sindaco di Reggio Emilia alle prese con il terremoto, presidente dell’Anci, è anche presidente del comitato promotore «L’Italia sono anch’io» per la legge sulla cittadinanza italiana ai figli di immigrati nati nel nostro Paese.

Sta crescendo un fronte trasversale, ci sono tante proposte di legge, pensa che il Parlamento le recepirà? «Esiste un’azione forte dal basso di tante associazioni che chiedono al Parlamento di avere più coraggio e guardare in faccia la realtà: quasi un milione di giovani che si sentono a tutti gli effetti italiani».

Di quale fascia di età parla? «Da zero ai diciotto anni, parlo sia di chi è nato qua che di chi è arrivato da piccolo e ha concluso due cicli di studi. Bambini a tutti gli effetti italiani, parlano e studiano nella nostra lingua, vivono l’Italia come loro patria, invece a diciotto anni verranno trattati come stranieri. Noi produciamo stranieri con questa legislazione. Ma ora il tempo della paura iniziale, comprensibile per un’immigrazione rapida con un impatto forte, è finito, si deve fare un passo in avanti come in tutti i paesi europei. E affrontare il tema dell’immigrazione come “il tema” del Terzo Millennio».

Come comitato promotore cosa farete? «Abbiamo messo insieme le anime più diverse, dalla Cgil all’Ugl, l’Arci e il centro studi gesuiti. Abbiamo raccolto 50mila firme per la proposta di legge popolari con banchetti in tutta Italia, trovando gli italiani più disponibili di quanto non si dica. Ora dobbiamo certificarle, poi depositeremo le proposte di legge in Parlamento; a febbraio chiederemo ai presidenti della Camera e del Senato e ai capigruppo di avviare un iter e un calendario per discuterle ».

Ci sarà la forza per mandarla avanti, secondo lei? «Credo che in Parlamento adesso ci siano le condizioni ideali per fare questo passo: sono caduti quelle paure e quei ricatti politici di chi minacciava di far cadere il governo».

Sono caduti del tutto? «Be’, con un governo concentrato sul fare dovrebbe esserci un Parlamento concentrato sul fare. E questo può fare in modo che la legislazione determini uno scatto di civiltà, riconosca diritti che ci sono già, e aiuto anche a far meglio i propri doveri. Perché chi è in grado di sentirsi cittadino può dare un contributo maggiore al proprio Paese».

La formula è quella dello ius soli. «Sì. Certo non siamo favorevoli al fatto che uno venga qui a partorire e diventi automaticamente cittadino italiano, non è questo il tema. Ma se nasce un bambino da genitori già legalmente soggiornanti in Italia, quindi da almeno cinque o sei anni, a questo bambino deve essere riconosciuta la cittadinanza. Oppure può avvenire dopo che ha concluso i primi due cicli di studi. Sarà il Parlamento a decidere, ma intanto deve guardare in faccia questi giovani, che io sento cantare l’Inno Nazionale, e dire loro “voi non siete italiani”. Come gli uomini dovevano dire alle donne “tu non hai il diritto di votare”, facile dirlo tra uomini, più difficile dirlo alle mogli. Per fortuna oggi c’è un’ampia sensibilità, grazie al presidente della Repubblica, al presidente della Camera, i partiti possono riconquistare molta credibilità se affrontano questi temi».

Come giudica le posizioni di Grillo? «Grillo ha fatto una lettura da politichese, “questo serve alla Lega… questo alla sinistra buonista…”. Questa legge non serve né a far aumentare il razzismo, né a farlo diminuire. E il buonismo non c’entra. È una scelta di migliore coesione della società e di qualità della vita anche nostra. Perché quando abbiamo concesso diritti non ci abbiamo mai rimesso ».

Il governo non ha tolto l’aumento della tassa per il permesso di soggiorno. Pesano i ricatti della Lega, con il Pdl che non vuole rompere del tutto? «Non so, ma non c’è peggior politica idi quella degli annunci. Una volta che si è detto sarebbe utile farlo; non dico che non debbano pagare, ma senza sovrattasse, un immigrato non deve sentirsi in colpa perché chiede il permesso di soggiorno».

Lei parla come se vivesse molto da vicino le storie di questi ragazzi. «Sì, tutti i sindaci le conoscono. Ho davanti agli occhi storie di ragazzine nate in Italia da genitori marocchini o ucraini che prendono nove in italiano e mi dicono “la maestra è stupita, perché, io cos’ho di diverso dai miei compagni italiani?” Mi scrivono tantissime lettere: ragazze bravissime in ginnastica, atlete quindicenni, che non possono essere scritturate da società professionistiche perché non hanno la cittadinanza. Ecco, il Parlamento dovrebbe avere davanti queste storie commoventi, più che i calcoli politici».

da L’Unità

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“La cittadinanza non basta”, di Giovanna Zincone

Una classe politica oberata da pesanti e spinose decisioni da prendere ha un gran bisogno di proposte ragionevoli, che la aiutino ad alleggerire il carico. In questi giorni ne arriva una. L’idea di Sartori di introdurre un tipo di permesso che sia inclusivo dei figli e non obblighi gli immigrati a continui rinnovi è ottima. Lo è anche perché ha un costo decisionale pari a zero: quello che suggerisce c’è già. La carta di soggiorno permanente per lungo-residenti è uno strumento di cui si sono dotati con tempi e modi diversi tutti i paesi dell’Unione Europea.

E direttive dell’Unione hanno introdotto un permesso di soggiorno comunitario per i lungo-residenti negli Stati membri, che rende anche più facile la circolazione da un Paese all’altro. La carta di soggiorno per lungo residenti è uno strumento valido e convincente, ma può sostituire l’accesso alla cittadinanza dei figli nati o arrivati molto piccoli in Italia? Non credo, e le ragioni addotte contro i potenziali piccoli nuovi cittadini non mi convincono.

Il primo argomento contrario segnala il rischio che questi bambini, in particolare quella gran parte costituita da musulmani, non si integrino mai. Divenuti maggiorenni, visto che avrebbero diritto al voto, potrebbero dar vita a sovversivi partiti islamisti. Questa tesi non regge alla luce dei fatti. La maggioranza degli immigrati in Italia viene da Paesi di matrice cristiana e, a causa dell’aumento relativo dei flussi dall’Europa dell’Est rispetto al Nord Africa, la componente non musulmana è in aumento.

Ma anche guardando a un ipotetico incremento di flussi legato all’instabilità sull’altra sponda del Mediterraneo, lo spettro di gruppi politici islamici non incombe. Da anni altri Paesi europei ospitano forti minoranze musulmane, ma salvo casi marginali e politicamente irrilevanti, di partiti islamici proprio non si trova traccia. Il primo partito islamico che si è presentato in Spagna nelle elezioni locali del 2011 non ha suscitato grandi consensi. Inoltre, osservazione più rilevante, l’equazione «musulmano uguale integralista» è irrealistica.

Le ricerche empiriche sulle opinioni religiose e politiche di chi viene da Paesi di cultura islamica presenta un quadro molto variegato, nel quale sostanzialmente dominano atteggiamenti pacifici. Non solo, a volte individui che arrivano piuttosto apatici sotto il profilo religioso si trasformano in convinti aderenti alla comunità musulmana e, in casi estremi, alle sue frange più pericolose, proprio come reazione alla condizione di emarginazione sociale e culturale che devono affrontare. Mettere un silenziatore ai giudizi sprezzanti contro gli immigrati in genere, e contro quelli che vengono da Paesi musulmani in particolare, oltre a costituire un richiamo alla moderazione e a un minimo di buone maniere nella comunicazione pubblica, potrebbe rivelarsi un’utile strategia di supporto all’integrazione.

Un altro punto mi convince poco nelle argomentazioni usate contro riforme liberali della cittadinanza, e cioè che in assenza di cittadinanza è facile espellere i cattivi stranieri. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha accettato diversi ricorsi contro l’espulsione di lungo-residenti che avevano commesso reati anche di un certo peso; in particolare hanno avuto successo i ricorsi da parte di immigrati arrivati da bambini. Gli immigrati non sono mobili Ikea che puoi restituire se non funzionano a dovere. Non è semplice rimandare nel Paese di origine dei genitori o dei nonni un ragazzo che non conosce la lingua dei suoi antenati, che è ormai estraneo a quella cultura lontana, alle abitudini di luoghi dove è stato poco o nulla. Ormai, piaccia o non piaccia, quel ragazzo è diventato un membro del Paese in cui è vissuto: di fatto se non di diritto è diventato un cittadino, purtroppo un cattivo cittadino.

Persino le garanzie Ikea valgono solo per un certo numero di anni, e solo se il prodotto è stato trattato come si deve. L’obiettivo è piuttosto far sì che gli immigrati diventino buoni cittadini, trattandoli come si deve. Non credo che rendere meno difficile l’accesso alla cittadinanza dei bambini stranieri costituisca l’unico elemento di un buon trattamento, non credo sia una misura sufficiente per una loro buona integrazione, ma almeno aiuta a non provocare un numero ancor più alto di integrazioni fallite. Può darsi che si tratti di un abbaglio collettivo, ma tutte le democrazie prevedono percorsi semplificati per i nati sul territorio, e sebbene la nostra legislazione sia più restrittiva delle altre, persino il figlio di stranieri nato in Italia può chiedere la cittadinanza a 18 anni più facilmente dei genitori che volessero ottenerla in base alla durata della loro residenza.

Ma se non convincono le motivazioni di chi, in materia di cittadinanza, non vuol concedere nulla, suscitano dubbi anche quelle di chi vuol dare tutto e subito. Quest’ultima è la posizione dei promotori del referendum di iniziativa popolare: la loro legge attribuirebbe la cittadinanza ai figli di immigrati che hanno un soggiorno regolare anche solo da un anno. Mi sembra poco per stabilire se quella famiglia con il suo bambino vorrà davvero vivere nel nostro Paese, né mi sembra in grado di far quagliare intorno a sé una maggioranza parlamentare. C’è spazio però per soluzioni bipartisan intermedie, già emerse, che collegano la concessione della cittadinanza a un ragionevole tempo di soggiorno regolare dei genitori o del bambino stesso.

Ho sostenuto prima che facilitare l’accesso alla cittadinanza può aiutare a integrare, pur se non è l’unica determinante. Sono molti i fattori che incidono sui processi di integrazione: l’istruzione, l’apertura del mercato del lavoro, la congiuntura economica. Non sappiamo quale sia il peso specifico della cittadinanza in questo processo, perciò è difficile elaborare in questo campo quella linea di azione che Weber predilige e definisce «razionale allo scopo», cioè orientata a valutare i mezzi e la loro capacità di ottenere risultati. Ma è anche impossibile in questa materia evitare di agire con un orientamento ai valori, un comportamento pubblico in cui Weber, come Sartori, vede a ragione rischi di derive ideologiche.

A mio avviso, però, in certi ambiti la coerenza ai valori è un ingrediente non solo inevitabile, ma salutare, purché la si coniughi con la razionalità strumentale, la ricerca di mezzi adeguati. Dagli orientamenti rispetto alla riforma della cittadinanza in Italia traspaiono valori di fondo, atteggiamenti emotivi distanti: una maggiore simpatia o antipatia per gli immigrati, una maggiore fiducia o sfiducia rispetto a sistemi politici e sociali aperti.

Come suggerisce Weber esplicito i miei valori: confesso di appartenere al secondo gruppo. Ma non dimentichiamo la buona, vecchia, prudente razionalità strumentale. Simpatizzare per gli immigrati, auspicare una società aperta non basta, se non si individuano soluzioni capaci sia di ottenere i consensi politici necessari nell’immediato, sia di funzionare bene per il futuro. Non basta essere puri come colombe se non si è anche astuti come serpenti.

da La Stampa

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“Il governo ritiri la tassa sugli immigrati”, di Pietro Spataro

«Una cosa che non ho capito bene è cosa sono io però. Per esempio io ho i miei genitori che sono nati in Tunisia e io sono nato però in Italia: allora quale è la mia patria?». È la domanda che angoscia Daniel, un bambino di 11 anni che va a scuola a Reggio Emilia e la cui testimonianza è stata raccolta dal maestro-scrittore Giuseppe Caliceti in un bellissimo libro («Italiani, per esempio») che dovrebbe essere letto da tutti coloro, i parlamentari innanzitutto, che in questi giorni
stanno contrastando la sacrosanta proposta di concedere la cittadinanza italiana ai figli di immigrati che sono nati in Italia. È una semplice idea di buon senso, una scelta di civiltà. Eppure il Pdl, oltre ovviamente la Lega, si stanno scatenando. Alcuni addirittura minacciano di far cadere il governo nel caso una legge del genere venga approvata. A loro si è unito un comico populista che ha fatto infuriare il web in questi giorni.
La battaglia per riconoscere questo legittimo diritto però non si ferma con i ricatti. Lanciata da una serie di associazioni guidate dal presidente dell’Anci Graziano Delrio con lo slogan «l’Italia sono anch’io» è fortemente voluta dal Pd (Bersani l’ha ribadito con decisione in un suo intervento alla Camera un paio di mesi fa). La sollecitazione è stata raccolta anche dal presidente Napolitano: negare la cittadinanza a questi bambini è «un’autentica follia, un’assurdità». Fini è d’accordo con lui. C’è insomma una parte consistente del mondo politico, istituzionale e civile che vuole cambiare.
In giro per l’Italia ci sono un milione di bambini in questa assurda condizione di minorità civile. Vanno a scuola insieme ai nostri figli, giocano con loro, guardano la nostra tv, frequentano i nostri cinema, parlano la nostra stessa lingua e i nostri stessi dialetti. Si sentono e sono a tutti gli effetti figli d’Italia come tutti noi. Ma la legislazione
oggi in vigore prevede che possano diventare davvero italiani solo se prima i loro genitori diventano cittadini italiani (e i tempi come sono lunghissimi) oppure quando avranno compiuto diciotto anni. Bisogna usare altri argomenti per far capire che c’è qualcosa di vergognoso in questa trafila burocratica che esclude e discrimina?
È per questa ragione che la decisione del governo Monti di confermare la tassa per il permesso di soggiorno, voluta da Bossi e Tremonti, ci è parsa sbagliata. Nel governo, oltre a personalità con una cultura liberale dell’integrazione e dei diritti civili, ci sono ministri che hanno anche una sensibilità particolare verso questo tema. È il caso di Andrea Riccardi, fondatore di Sant’Egidio che ha ripetuto più volte che sull’immigrazione occorre uscire dalla «fase emergenziale».
Però, oggi in Italia senza cittadinanza ci vuole il permesso di soggiorno. E il permesso di soggiorno (anche per i bambini) da domani costerà molto caro: da 80 a 200 euro in più rispetto ai 57 che oggi si spendono per bolli e imposte. Dice il governo: non c’era copertura finanziaria per eliminare quella norma. La copertura finanziaria andava trovata. Anzi, diciamo che va trovata: perché ci auguriamo che Monti e i suoi ministri sentano il dovere di riparare a questo doppio torto. Così come speriamo che tutti i partiti in Parlamento abbiano la necessaria forza morale per riconoscere il legittimo diritto di questi bambini italiani.
Noi non ci fermiamo: l’Unità sosterrà ogni iniziativa utile a fare approvare rapidamente la legge. I nostri lettori possono darci una mano mandando la loro adesione e i loro commenti sul nostro sito (www.unita.it) o su twitter usando l’hashtag #figliditalia.

da l’Unità del 29.1.12

"Più disuguaglianza se tramonta il lavoro", di Massimo Mucchetti

La questione della disuguaglianza dei redditi affiora, s’inabissa e riaffiora come un fiume carsico. Quando la Banca d’Italia ne dà l’aggiornamento statistico, diventa un’emergenza. Quando invece la Banca centrale europea invoca la riforma del mercato del lavoro, e il governo cerca di obbedire, il lamento sulle disuguaglianze cede il passo all’invocazione efficientista della flessibilità, benché fin dai primi Anni 90 alle riforme della contrattazione si sia accompagnata la stagnazione dei salari. Leggi…

"Una lettera per la Camusso che viene da lontano", di Eugenio Scalfari

“Quando il sindacato mette al primo posto del suo programma la disoccupazione vuol dire che si è reso conto che il problema è angoscioso e tragico e che ad esso debbono essere sacrificati tutti gli altri obiettivi. Per esempio quello, peraltro pienamente legittimo per il movimento sindacale, di migliorare le condizioni degli operai occupati. Ebbene, se vogliono esser coerenti con l´obiettivo di far diminuire la disoccupazione, è chiaro che il miglioramento delle condizioni degli operai occupati passa in seconda linea.
La politica salariale nei prossimi anni dovrà essere molto contenuta e il meccanismo della cassa integrazione dovrà esser rivisto da cima a fondo. Non possiamo più obbligare le aziende a trattenere un numero di lavoratori che supera le loro possibilità produttive, né possiamo continuare a pretendere che la cassa integrazione assista in via permanente i lavoratori eccedenti. La cassa può assistere i lavoratori per un anno e non oltre salvo casi eccezionalissimi che debbono essere esaminati dalle commissioni regionali di collocamento. Insomma, mobilità effettiva della manodopera e fine del sistema del lavoro assistito in permanenza. Si tratta d´una svolta di fondo. Dal 1969 in poi il sindacato ha puntato le sue carte sulla rigidità della forza-lavoro, ma ora ci siamo resi conto che un sistema economico aperto non sopporta variabili indipendenti. I capitalisti sostengono che il profitto è una variabile indipendente. I lavoratori e il sindacato, quasi per ritorsione, hanno sostenuto che il salario e la forza-lavoro sono variabili indipendenti. Sono sciocchezze perché in un´economia aperta le variabili sono tutte dipendenti una dall´altra. Se il livello salariale è troppo elevato rispetto alla produttività, il livello dell´occupazione tenderà a scendere e la disoccupazione aumenterà perché le nuove leve giovani non troveranno sbocco. Naturalmente non possiamo abbandonare i licenziati al loro destino. Il salto che si fa ammettendo il principio del licenziamento degli esuberi e limitando l´assistenza della cassa integrazione a un anno è enorme ed è interesse generale quello di non rendere drammatica ed esplosiva questa situazione sociale. Perciò dobbiamo tutelare con precedenza assoluta i lavoratori licenziati. Alla base di tutto però c´è il problema dello sviluppo. Se l´economia ristagna o retrocede la situazione sociale può diventare insostenibile. La sola soluzione è la ripresa dello sviluppo.
Quando si deve rinunciare al proprio “particulare” in vista di obiettivi nobili ma che in concreto impongono sacrifici, ci vuole una dose molto elevata di coscienza politica e di classe. Si è parlato molto, da parte della borghesia italiana, del guaio che in Italia ci sia un sindacato di classe. Ebbene, se non ci fosse un´alta coscienza di classe, discorsi come questo sarebbero improponibili. Abbiamo detto che la soluzione delle presenti difficoltà e il riassorbimento della disoccupazione sta tutto nell´avviare un´intensa fase di sviluppo. Per collaborare a questo obiettivo noi chiamiamo la classe operaia ad un programma di sacrifici, ad un grande programma di solidarietà nazionale. Naturalmente tutte le categorie e tutti i gruppi sociali debbono fare altrettanto. Se questo programma non dovesse passare vorrebbe dire che avrebbero vinto gli egoismi di settore e non ci sarebbe più speranza per questo Paese.”

Debbo a questo punto avvertire i lettori che il testo che hanno fin qui letto non l´ho scritto io e tanto meno il ministro Elsa Fornero, anche se probabilmente ne condivide la sostanza.
Si tratta invece d´una lunga intervista da me scritta praticamente sotto dettatura di Luciano Lama, allora segretario generale della Cgil. Era il gennaio del 1978, un anno di gravi turbolenze economiche e sociali, che culminò tragicamente pochi mesi dopo col rapimento di Aldo Moro e poi con la sua esecuzione ad opera delle Brigate rosse.
Lama parlava in quell´intervista a nome della Federazione sindacale che vedeva uniti con la Cgil anche la Cisl, allora guidata da Carniti, e la Uil presieduta da Benvenuto. Il segretario generale aggiunto della Cgil era il socialista Ottaviano del Turco, tutto il ventaglio sindacale era dunque rappresentato dalle parole di Lama.
Quella stessa Federazione fu poi l´elemento fondamentale della lotta al terrorismo che trovò nelle fabbriche e nella classe operaia il più fermo baluardo contro le Br da un lato e contro lo stragismo di destra e dei “servizi deviati” che facevano capo a Gladio e alla P2.
Le contropartite che Lama e tutto il sindacalismo operaio chiedevano erano due, una economica e l´altra politica.
Chiedevano, e nell´intervista è detto con estrema chiarezza, una politica di sviluppo e di piena occupazione e chiedevano anche che il sindacato potesse dire la sua sui temi della politica economica, la politica degli investimenti e quella della distribuzione del reddito, cioè della politica fiscale.
Le linee di questo programma erano chiare fin da allora e furono perseguite negli anni successivi come risultò anche dalle interviste che ebbi con Lama nel 1980, nell´82 e nell´84. Eravamo diventati amici e con me si apriva con grande sincerità, ma ne parlava anche in interventi pubblici e nelle sedi confederali. Nell´84 la Federazione si ruppe. D´altra parte la mitica classe operaia si stava rapidamente sfaldando sotto l´urto delle nuove tecnologie produttive e dell´economia globalizzata e finanziarizzata.
Tanto più è apprezzabile oggi il tentativo che Susanna Camusso sta perseguendo – già iniziato a suo tempo da Guglielmo Epifani – di fare del sindacato un interlocutore essenziale del governo.
Il governo Monti persegue una linea riformista e innovatrice, che trae dall´emergenza la sua investitura ma se ne vale per cambiare i connotati della società italiana, ingessata da molti anni dalle corporazioni, dai conflitti d´interesse a tutti i livelli, dalla partitocrazia prima e dal berlusconismo poi.
L´emergenza economica impone al governo gravissimi compiti che producono una diffusa impopolarità e crescenti resistenze. In questa situazione un sindacato forte è l´interlocutore indispensabile a condizione che sia capace di darsi un programma nazionale (come Lama aveva detto nell´intervista sopracitata) che anteponga l´interesse generale del Paese al “particulare” delle singole categorie.
Perciò l´intervista di Lama dovrebbe essere riletta nel suo testo integrale dalla Camusso, da Bonanni e da Angeletti, perché è del sindacalismo operaio che si parla e del suo compito d´interprete delle esigenze dei lavoratori e dei pensionati ma anche del bene comune.
Naturalmente la situazione del 2012 non è quella del 1978.
Sono cambiati gli elementi strutturali dell´economia e della politica; è cambiata la divisione internazionale del lavoro; è cambiato il capitalismo, si sono decomposte le classi, è affondato il comunismo reale. Quello che dovrebbe essere recuperato nella sua integrità è lo spirito della democrazia formale e sostanziale che si basa soprattutto su un principio: la sovranità del popolo è proporzionale ai sacrifici che gli interessi particolari sono chiamati a compiere in favore del bene comune. «No taxation without representation», questo fu il motto della nascente democrazia liberale inglese del diciottesimo secolo e questo dovrebbe essere anche il criterio d´una società come la nostra dove l´85 per cento delle imposte personali gravano sui lavoratori dipendenti e sui pensionati, dove il salario reale è eroso dal costo della vita in costante aumento e dove la ricchezza sfugge in gran parte al fisco.
Sono 280 i miliardi che evadono secondo le stime dell´Agenzia delle entrate, e 120 i tributi non pagati.
I principali interessati al rinnovamento del Paese – ma meglio sarebbe dire alla rifondazione dello Stato – sono dunque i lavoratori dipendenti e i pensionati. Se saranno lungimiranti; se anteporranno l´interesse nazionale a quello particolare e quello dei figli a quello dei padri.
Naturalmente ottenendo le dovute garanzie tra le quali quella che una volta tanto alle parole corrispondano i fatti e che l´equità impedisca la macelleria sociale.

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La Cgil, ma anche la Cisl e la Uil, vogliono che l´agenda non sia scritta dal governo ma dai sindacati. Questa richiesta presuppone una forza che in questa situazione il sindacato non ha. Forse l´avrebbe se la crisi riguardasse soltanto l´Italia, ma riguarda il mondo intero, riguarda l´Europa e in generale i paesi di antica opulenza che sono costretti a confrontare i loro costi di produzione con quelli infinitamente più bassi dei Paesi di nuova ricchezza, i diritti sindacali con quelli di fatto inesistenti dei Paesi poveri, i diritti di cittadinanza con quelli anch´essi inesistenti dell´immensa platea dei migranti.
Ecco perché l´agenda dei problemi, delle domande, delle richieste, non può essere scritta né dai sindacati né dai governi: è scritta dall´emergenza e dalla necessità di farvi fronte.
Noi siamo uno spicchio della crisi. Abbiamo fatto il dover nostro e il nostro interesse con la manovra sul rigore dei conti appesantiti da una mole di debito. Adesso è il momento della crescita e dello sviluppo. Non dipende solo da noi, lo sviluppo dell´economia italiana. Dipende dall´Europa ed ha del miracoloso il prestigio che il governo Monti ha recuperato dopo la decennale dissipazione berlusconiana.
La crescita dipende in larga misura dalla produttività e dalla competitività del sistema Italia. Sono state entrambe imbrigliate dalle lobbies ma la produttività dipende da tre elementi: il costo di produzione (che è cosa diversa dal salario), la flessibilità del mercato del lavoro, la capacità imprenditoriale.
Il sindacato può e deve favorire la flessibilità del lavoro in entrata e in uscita. Se farà propria la politica sindacale di Lama che la portò avanti tenacemente per otto anni, avrà fatto il dover suo.
La riforma della cassa integrazione è uno dei tasselli. Non piace alla Camusso e neppure alla Marcegaglia ed è evidente il perché. Infatti non potrà essere adottata se simultaneamente non sarà rinnovato e potenziato il sistema degli ammortizzatori sociali. In mancanza di questo il sindacato ha ragione di dire no per evitare quella macelleria che farebbe esplodere una crisi sociale estremamente pericolosa. Ma in presenza d´un meccanismo di protezione efficiente e robusto il sindacato dovrebbe farlo proprio e accettare la riforma della cassa integrazione.
Questi sono i termini del problema se il sindacato vorrà riassumere il ruolo di protagonista. Altrimenti decadrà al rango di lobby come l´avrebbe voluto e ancora lo vorrebbe l´ex ministro del Lavoro Sacconi. A Camusso, Bonanni e Angeletti la scelta.

da La Repubblica del 29 gennaio 2012

"Equità e convivenza", di Enzo Bianchi

Dopo un ventennio in cui è stata bandita quasi fosse un’istanza utopica se non un intralcio all’opulenza oggi, sopraggiunta la crisi con un significativo aumento delle sue vittime, si invoca l’equità e se ne afferma la necessità, ci si appella alla giustizia e all’uguaglianza, salvo ribellarvisi quando queste chiedono sacrifici a tutti e non solo «agli altri». Ci rendiamo conto della barbarie che abbiamo voluto accogliere, dello scadimento cui abbiamo abbandonato tanti valori necessari alla semplice convivenza civile? Leggi…

"Benvenuto al Nord, il Pd senza complessi", di Giovanni Cocconi

Con la crisi del forzaleghismo la questione settentrionale ha cambiato di segno.
Ma esiste ancora la questione settentrionale? Sono successe troppe cose al Nord (e non solo) per non pensare che il tema più dibattuto degli ultimi vent’anni forse oggi è cambiato di segno. Il trionfo del centrosinistra a Milano, la fine del berlusconismo, la crisi interna alla Lega, il logoramento del potere formigoniano, lo stop alla riforma federalista. Tutti elementi che contribuiscono a ridefinire una questione che il Pd ha sempre vissuto come una ferita aperta.
«Al Nord non si tocca palla» era il tormentone che si sentiva ripetere dopo ogni tornata elettorale. È ancora così oppure il Nord è tornato contendibile? «Una questione è Milano e la Lombardia del Sud, un’altra la fascia pedemontana dove Pdl e Lega sono ancora molto forti» avverte Alessandro Alfieri, vicesegretario regionale del Pd che, insieme a Pippo Civati, ha radunato oggi [ieri, n.d.r.] a Varese politici ed esperti in un convegno dal titolo “Giù al Nord, tra secessione e recessione”, al quale prenderanno parte, tra gli altri, Sergio Chiamparino, Marco Stradiotto, Maurizio Martina, Giorgio Gori (neotesserato del Pd di Bergamo, al suo debutto politico dopo la Leopolda2 di Firenze) e il leghista “pentito” Alessandro Cé.
Nel Pd, va detto subito, non si dà tanto credito alle minacce di strappo di Bossi.
Alle amministrative, è opinione di tutti, il centrodestra si presenterà unito quasi ovunque. Ma certo il blocco sociale espresso dal forzaleghismo nordista negli ultimi vent’anni non è più così compatto, come hanno dimostrato anche le ultime elezioni amministrative. «Eppure la questione settentrionale è ancora tutta lì, irrisolta: – continua Alfieri – nel senso che i nostri imprenditori quando vanno all’estero pagano un prezzo più alto dei concorrenti in termini di servizi, infrastrutture, tasse. Non c’è dubbio che la fiducia di imprese e partite Iva nei loro partiti politici di riferimento tradizionali oggi è in crisi, la situazione è più fluida che in passato ma proprio per questo il Pd non deve abbassare la guardia». Per esempio sul federalismo cosa dovrebbe fare? «Non bloccare la riforma già avviata ma certo farle il tagliando, completandola con i costi standard e il codice delle autonomie. E sul patto di stabilità dobbiamo insistere perché certe spese per investimenti non vengano conteggiate».
«In passato troppe volte abbiamo dato per scontate cose che non lo erano» è l’opinione di Laura Puppato, capogruppo del Pd in Veneto, anche lei presente a Varese. «Come dimostra anche l’ultima ricerca della Fondazione Nordest oggi il cittadino veneto vive una frustrazione profonda: il cittadino veneto non si sente percepito dal resto d’Italia quale è, un lavoratore aperto al mondo e agli altri. Inoltre la recessione ha messo in crisi certezze profonde sul benessere e la ricchezza e incrinato la fiducia nello schieramento politico che ha guidato il Veneto in tutti questi anni». Nella funzione di rappresentanza a Roma degli interessi del Nord la Lega ha fallito ma attenti a cantare vittoria.
«Il federalismo è stato vissuto in questi anni come una difesa degli interessi del territorio rispetto all’inefficienza, la partitocrazia, il clientelismo romano, un modo per trattenere una parte della ricchezza là dove viene prodotta (il Nord rappresenta il 55 per cento del Pil nazionale, ndr). La Lega non ha portato a casa nulla e mi azzardo a dire che se il governo Monti non fallirà il Carroccio precipiterà al 5 per cento. Oggi il nostro compito non è di espropriare la Lega della bandiera federalista ma di riappropriarcene».

da www.europaquotidiano.it

"L'ultima "porcata" forzaleghista", di Curzio Maltese

Buttati fuori dal governo e dai vertici europei per manifesta incapacità, i partiti della vecchia maggioranza, Pdl e Lega, continuano a spadroneggiare in viale Mazzini e a spartirsi la mangiatoia Rai.
Il dg Lorenza Lei, piazzata da Berlusconi, ha appena approvato una nuova ondata di nomine, fra le quali la conferma del pensionato Alberto Maccari alla guida dell´agonizzante Tg1 e la nomina di Alessandro Casarin, in quota Carroccio, ai notiziari regionali.
Una bella porcata, per dirla alla leghista. Nel merito e nel metodo, sono scelte vergognose.
Maccari è l´unica soluzione accettata da Berlusconi, dopo l´inevitabile rimozione dell´indifendibile Minzolini. Finora ha fatto un notiziario né brutto né bello: inutile. Soprattutto a risollevare gli ascolti del telegiornalone, che seguitano a far perdere decine e centinaia di milioni alla rete ammiraglia.
Casarin è noto per le simpatie bossiane e per poco altro, almeno dal punto di vista professionale, ma andrà a dirigere la più folta redazione d´Italia, con un potere notevole di condizionamento in vista delle prossime elezioni. Dobbiamo rassegnarci dunque ad ampi servizi di coperture sulle imprese dei caporioni leghisti alla festa dello gnocco fritto.
A parte questo, il metodo applicato alla più popolare delle aziende pubbliche è terrificante. Nel momento in cui il governo chiede sacrifici ai giovani lavoratori, compresi i precari Rai, sbandierando equità e trasparenza, si procede alla solita lercia spartizione di poltrone del servizio pubblico, alla fiera del raccomandato di partito e al ripescaggio di un pensionato per dirigere il più importante giornale del Paese. Per giunta, in un momento di grave crisi per l´azienda di servizio pubblico, che rischia il commissariamento. Come ammettere che i conti devono tornare per tutti, ma non per il giocattolo preferito dai partiti.
È sbalorditivo che il governo Monti non capisca il valore simbolico negativo del blitz di Lorenza Lei. Si pensa di rivoluzionare il rapporto degli italiani col fisco, di scompaginare gli assetti corporativi e riformare la burocrazia. E poi non si batte ciglio davanti all´ennesima indecente lottizzazione della Rai?
Ma se si vuole davvero combattere i mali della società e della democrazia italiane, bisognerebbe comprendere che la lottizzazione Rai non è meno anomala e devastante di quanto non lo sia l´evasione fiscale, l´intangibilità delle caste, l´ottusità della burocrazia, la rigidità del mercato del lavoro. Tutto fa parte dello stesso meccanismo che ci sta allontanando sempre di più dall´Europa per avviarci a una deriva sudamericana.
Non c´è altro tempo da perdere. Il governo può intervenire subito, senza aspettare i tempi della scadenza del consiglio d´amministrazione, per approvare una riforma che tolga ai partiti la mangiatoia della Rai e riconsegni il servizio pubblico televisivo ai cittadini che lo mantengono con il canone e le tasse. I partiti, tutti, l´hanno promesso mille volte, ma non l´hanno mai fatto e mai lo faranno. Anche in questo caso, se non ora, quando?

da La Repubblica del 29 gennaio 2012