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Pesaro anticipa la legge "Qui i figli di immigrati saranno cittadini onorari", di Jenner Meletti

E Napolitano: è un esempio da imitare. Il presidente della Provincia ha ideato l´iniziativa. “Grillo? Parla alla pancia, non al cervello”. Attestato ai 4.536 bambini nati negli ultimi dieci anni Con il Tricolore e la Costituzione

PESARO – Piange come un disperato, Marhio, nato 3 mesi fa. Aspetta la poppata, non gliene importa nulla di diventare «cittadino onorario» di questa città sul mare. Ma sarà invitato anche lui, assieme al papà e alla mamma romeni, alla festa che si terrà presto, forse al palazzo dello sport. A 4.536 bambine e bambini nati nel pesarese negli ultimi dieci anni verranno consegnati un «attestato» che dichiara la loro cittadinanza italiana, una bandiera, una copia della Costituzione e anche una maglietta della Nazionale di calcio. L´attestato non sarà purtroppo un documento ufficiale, perché quel «ius soli» che negli Stati Uniti e in Francia dà diritto di cittadinanza a chi viene alla luce in quelle terre, in Italia viene annullato dallo «ius sanguinis». Ma è un passo avanti, è la firma di un impegno. «Quando ho proposto questa iniziativa – dice Matteo Ricci, 37 anni, presidente della Provincia di Pesaro – ho utilizzato le stesse parole del Presidente: “Chi nasce in Italia è italiano”. E dal Quirinale adesso è arrivata una risposta che ci spinge ad andare avanti». «La vostra – questo il messaggio di Giorgio Napolitano – è una iniziativa di grande valore simbolico. C´è da augurarsi che questo esempio possa essere seguito anche da altre realtà territoriali».
Certe idee, come le piante, nascono solo se il terreno è quello giusto. «Mio nonno Luciano – racconta il presidente della Provincia – ha lavorato per otto anni nelle miniere di carbone del Belgio. Quasi tutta la periferia di Pesaro è stata costruita da emigranti partiti subito dopo la guerra per lavorare in Svizzera e in Germania e poi tornati a casa quando qui si è avviata l´industria del mobile. Operai che sabato e domenica diventavano muratori e pagavano pietre e cemento con i soldi guadagnati negli anni dell´emigrazione. Come i romeni, gli albanesi, i marocchini di oggi». Ci sono 34.700 residenti stranieri su 360.000 abitanti, in questa provincia. Impegnati alla Scavolini e alla Berloni e anche nell´edilizia. «Ma quest´ ultima è quasi ferma – dice Ricci – e tanti albanesi e romeni sono tornati a costruire case nella loro terra. Non è un caso che il Presidente abbia pronunciato quella frase così netta mentre stava aprendo la strada al nuovo governo. Dare la cittadinanza a chi nasce in Italia è una questione di civiltà – e con la nostra iniziativa faremo pressioni sul Parlamento – ma anche un segnale contro la crisi. Da questa si può uscire con più egoismo e solitudine oppure con più giustizia e solidarietà. Bisogna puntare sui valori, non solo sui numeri».
Si aspetta il ministro Andrea Riccardi, al grande incontro con i nuovi piccoli italiani. «L´altro giorno siamo stati assieme ai senegalesi, per un abbraccio dopo la strage di Firenze. Alla fine una bimba senegalese, avrà avuto cinque o sei anni, ha cantato “Fratelli d´Italia”, e conosceva tutte le parole. Meglio dei miei due figli, Camilla e Giovanni. Come puoi dire, a quella bambina, che non è italiana? Come può, un Beppe Grillo, negare il “ius soli” a un milione di bimbi che sono nati nel nostro Paese? E´ solo un populista che parla alla pancia degli italiani, non al cervello e al cuore».
Marhio non piange più, nella sua casa di via Agostini, vicino al mare. Di fronte a lui abita Jurghen – nome tedesco perché suo papà Ardian, partito dall´Albania, ha lavorato anche in Germania – che è nato a Pesaro, frequenta la quinta elementare e dice subito che l´idea della cittadinanza onoraria gli piace molto. «E´ una cosa giusta – dice pesando le parole come se scrivesse un tema a scuola – anche perché io sono italiano. E anche albanese. Ho fatto l´asilo, la materna, il prossimo anno comincerò le medie. Con i miei compagni parlo anche in dialetto, e nessuno mi ha mai detto “albanese” come fosse un insulto». Il papà e la mamma Valbona, operaio e aiuto cuoca, raccontano che Jurghen «faceva ridere» i nonni, quando d´estate tornava a Tirana. «Provava a parlare albanese e nessuno capiva». «Ma adesso sono più bravo. Ogni tanto guardo la televisione dell´Albania, e anche i dvd con i cartoni animati, così imparo nuove parole. E poi sono ancora giovane, imparo presto. Quando vado dai nonni, dopo un paio di settimane riesco a parlare quasi come gli altri, e non li faccio più ridere». Una bandierina con l´aquila nera su fondo rosso in cucina, una grappa albanese da offrire agli ospiti. «Ma noi in casa parliamo italiano – dicono Valbona e Ardian – perché questo è il nostro Paese. Nostra figlia più grande sta facendo l´università a Urbino». La cittadinanza per i figli dovrebbe essere «una cosa naturale». «Vorremmo che i nostri figli fossero considerati una ricchezza, non un problema. Andando a scuola con loro si potrebbero imparare tante lingue, che al giorno d´oggi sono così utili per trovare lavoro». Solo qualche volta, nell´appartamento di via Agostini, si ascoltano parole arrivate dall´altra parte dell´Adriatico. «Quando mi arrabbio con Jurghen, lo sgrido in albanese. “Riurtè, mjaft”, stai fermo, basta. E lui ride, fa finta di non capire».

da la Repubblica 26.1.12

"Grillo, cuore di destra", di Michele Prospero

Incontenibile slavina, alla caduta di Berlusconi è seguita la contestazione di Bossi. E dopo i fischi in piazza al leader leghista, è scoppiata la rivolta della rete contro le grossolane sparate di Grillo. Non corrono più tempi tranquilli per i capi che riducono la politica, da grande vicenda collettiva, a meschina faccenda privata, spesso coincidente con il loro capriccio.
Che il leader sia un rude capo territoriale o un comico che dimora nel virtuale spazio della rete, poco cambia: il re è ormai nudo e proprio dal suo pubblico di fedeli non trova più la scontata conferma della supremazia e quindi la reiterata disponibilità all’obbedienza.
In nome della rete celebrata come un luogo di libertà assoluta, in omaggio della partecipazione diretta attuata con scambi di mail, Grillo ha definito un inquietante processo politico di concentrazione assoluta del potere. Nel suo movimento personale, la potestà suprema risiede nel suo computer. Grazie a un centralismo computerizzato, il comico può decidere quello che vuole, può lanciare sfide a piacimento, può scagliare invettive alla cieca, può comminare scomuniche. Al movimento non resta che approvare la sortita imprevista o lanciare in rete timidi mormorii di disapprovazione o segnali più espliciti di scontento quando il comico l’ha combinata grossa. L’essenza del fenomeno è che il capo comico gestisce sempre lui i tempi, progetta come meglio crede le provocazioni pronte a rimbalzare dalla rete ai vecchi media.
Ammiccando il pubblico con una colorita fraseologia iperdemocratica, agitando un lessico infarcito di metafore orizzontali e spolverando i caldi miti di una costruzione sempre dal basso dell’agenda, Grillo ha in realtà allestito una macchina del tutto sregolata e leggera ma pur sempre impermeabile e poco trasparente. Con il miraggio della rete come veicolo della discussione infinita e della condivisione totale, il movimento si inaridisce nella vita quotidiana e approda nel meccani-
smo disarmante della assoluta delega in bianco alla persona. Il capo innalza così il proprio sbalzo d’umore a dottrina politica e chiude, nella sua imponderabile possibilità di deviare da un programma evanescente, una esperienza di politica che non garantisce apprendimento collettivo, che non dispone sanzioni verso scelte sbagliare, che non è in grado di imporre al capo sfuggente ed enigmatico degli impegni precisi, dei vincoli ravvicinati, degli atti politici gestiti con coerenza.
Sono evidenti, nel modello verticale e unidirezionale di conduzione del movimento, i tratti di una cultura populistica a sfondo autoritario che inneggia alla solitudine di un capo refrattario a convivere con regole, organi, mediazioni. L’immediatezza del capo populista, che si rapporta con il suo semplice corpo con il pubblico irrelato e sguarnito della fisicità dei luoghi di incontro, ha condotto stavolta Grillo a gettare la maschera. Il verbo ultrademocratico della rivolta contro la casta si colora delle tinte più accese della cultura politica reazionaria. Le parole insulse contro il diritto di cittadinanza a favore dei figli degli immigrati si spingono persino oltre le posizioni di una destra decente.
Nessun leader di destra in Europa si azzarderebbe a sostenere le ambizioni retrograde di Grillo. Il cancelliere Merkel ha sì annunciato il fallimento del multiculturalismo. Ma il suo governo non ha mai smesso di incoraggiare le politiche di integrazione e ha radunato in Parlamento 200 migranti per dire loro grazie in nome della Germania. Il presidente Sarkozy ha concesso ai migranti il diritto di voto amministrativo. Proprio su una materia che abbraccia i grandi principi etico-politici, Grillo assume invece le coordinate dei movimenti del populismo xenofobo (che esulta dinanzi alle cifre dei respingimenti e alle espulsioni collettive, agli accompagnamenti coattivi).
Il ricco comico ha un arido cuore di destra che pulsa non solo nella radicale venatura antipolitica del suo messaggio indirizzato contro la rappresentanza, ma anche nella profonda insensibilità culturale ed etica verso un tema, come quello della cittadinanza ai figli dei migranti, che abbraccia la dignità della persona umana. La retorica della rete aperta si chiude così nella cupa nostalgia dei solidi confini. Per Grillo si può navigare solo nella rete, non nel mondo reale dove non c’è posto per uno ius migrandi e tanto meno possono spalancarsi le porte dello status activae civitatis per i figli dell’errore. Per fortuna nella rete c’è ancora chi si indigna dinanzi a questa follia.

da L’Unità

"Se vuole l’alleanza non parli di inciucio", intervista a Pier Luigi Bersani di Maria Zegarelli

Impegno «Costruire un’alleanza dei progressisti aperta ai moderati». Su Vendola «Ha capito la nostra scelta, si confronti sui temi di oggi». Monti:Via libera alla mozione unitaria, premier più forte in Europa

«Anch’io vorrei mandare un messaggio». Pier Luigi Bersani entra nel suo ufficio a Montecitorio durante una pausa della discussione sulle mozioni per la politica europea, si siede sulla poltrona di cuoio scuro e inizia a parlare. «Adesso basta tirarmi per la giacca, meglio chiarire alcuni concetti». Il «messaggio» è per Antonio Di Pietro ma anche per Nichi Vendola, che oggi terranno insieme una conferenza stampa per rilanciare l’alleanza di centrosinistra e rispolverare un po’ la foto di Vasto. Segretario, Di Pietro sostiene che di fatto si sta creando una nuova alleanza. Quella del Pd con Pdl e Terzo Polo.
«Se non mi sbaglio quando si trattò di superare il governo Berlusconi e salvare l’Italia l’operazione che fu fatta fu sostenuta anche da Di Pietro e ben compresa da chi era fuori dal Parlamento, cioè Sel. L’alternativa non era quella di andare al voto, ma di andare avanti con Berlusconi fino al disastro. Per questo ho detto che non si poteva andare al voto sulle macerie».
Ma dopo quella fiducia l’Idv ha preso le distanze dal governo e accusa voi di votare qualunque provvedimento.
«Qui nessuno pretende che le forze di centrosinistra suonino ogni volta la stessa nota o che ci sia il pensiero unico, quello del Pd. Questa è una fase politica impegnativa per tutti, sia perché l’Italia è nei guai, sia perché dalle relazioni politiche che si determinano in questo passaggio può venire fuori un’ipotesi credibile di un centrosinistra di governo. Per questo è richiesto a tutti senso di responsabilità».
E invece?
«A Di Pietro lo dico amichevolmente, malgrado qualche volta si sia lasciato andare a termini come “inciucio”: sia chiaro, noi questo atteggiamento ad un alleato non lo consentiamo. Ciascuno si prenda le sue responsabilità per quello che dice. Aggiungo anche, e lo dico con il sorriso sulle labbra, che invece di tirare per la giacca me e lavarsene le mani, sarebbe meglio se si impegnasse anche lui in Parlamento. Se tutti dicessimo “voto solo quello che mi piace” saremmo al punto di partenza. Io accetto tutto, ma non le furbizie e all’Idv sottolineo che noi in Parlamento votiamo anche il loro documento sull’Europa».
Eppure su alcuni quotidiani la mozione unitaria è stata letta come un assaggio di grande coalizione.
«Se dico “l’Italia prima di tutto” intendo davvero che l’Italia viene prima di tutto. E se dico “alleanza dei progressisti aperta alle forze moderate” intendo dire esattamente questo. Un’alleanza di centrosinistra aperta anche alle forze civiche e ai moderati: questa è la nostra strategia di fondo per la ricostruzione del Paese. Dunque, sono gli altri a dover dire se ci stanno. Oggi siamo il più grande partito del Paese che, per senso di responsabilità verso l’Italia, non ha dato vita ad una nuova maggioranza, ma il proprio sostegno ad un governo di impegno nazionale».
Vendola le dice: subito l’alleanza e il cantiere del programma.
«A Vendola riconosco che ha compreso le ragioni della scelta del Pd e con questo spirito gli dico che sono disposto a riaprire tavoli programmatici ma sui temi di cui parliamo oggi, dal lavoro alle riforme. Il rapporto lo si avvia partendo da questo, dai temi che sono oggi sull’agenda dell’emergenza. Basta con i tatticismi, nessuno può pensare di prenderci alle spalle».
Bersani, i temi di oggi sono quelli più spinosi. Dall’ipotesi di cancellare la cassaintegrazione straordinaria all’articolo 18…
«Questi sono temi fuori corda, fuori luogo nel momento in cui si perdono migliaia di posti di lavoro».
Si riferisce al ministro Fornero? «Penso che non serva evocare l’articolo 18 e che la prospettiva di riordino del sistema degli ammortizzatori sociali non possa prescindere dalla drammatica crisi industriale che è in corso. Noi sosteniamo lealmente questo governo ma continueremo a dire la nostra sulle misure che vanno adottate. Rimarremo il partito del lavoro, dell’equità, della giustizia sociale e che combatte le rendite di posizione. Su questo fronte credo che il centrosinistra possa muoversi in modo collegato e Vendola ha mostrato un atteggiamento consapevole».
Secondo lei sull’equità questo governo ha corretto la linea?
«Sull’equità ci sono state alcune novità che non vanno sottovalutate, ma bisogna avere più coraggio. E bisogna dire con chiarezza che questo Paese non farà più manovre correttive ma soltanto manovre per la crescita. La cosa che dobbiamo chiedere al governo oggi è di rendersi conto che l’esigenza di riforme si deve muovere tenendo conto del contesto di emergenza sociale che c’è». Non teme che il Pd possa pagare un prezzo altissimo nel sostenere misure difficile da spiegare ai propri elettori? «So bene quanto sia difficile per il Pd, ma come potrebbe essere altrimenti? Questo è un momento difficile per tutti gli italiani, come potrebbe un partito come il nostro pensare “io speriamo che me la cavo”? Ma è in momenti come questo che un grande partito riformista non può perdere la bussola e per questo ho chiesto a tutti i democratici di tenere duro, di restare uniti, perché il 2012 sarà un anno difficile. Dico questo proprio mentre i sondaggi dicono che andiamo bene perché so che potrebbero essere momenti critici». Teme per la tenuta interna?
«Noi stiamo lavorando al nostro progetto, sono convinto che le scelte che abbiamo finora fatto alla fine saranno vincenti. Abbiamo una certa idea di democrazia e di leadership. Dopo Bersani ci sarà il Pd e sarà un grande partito solido».

da L’Unità

"Non vita quotidiana all'interno dei campi", di Gian Antonio Stella

L’oltraggioso contrasto tra le tavole imbandite dei carnefici e le mischie feroci tra gli affamati per contendersi il pane

«A l di là della strada lavora una draga. La benna, sospesa ai cavi, spalanca le mascelle dentate, si libra un attimo come esitante nella scelta, poi si avventa alla terra argillosa e morbida e azzanna vorace, mentre dalla cabina di comando sale uno sbuffo soddisfatto di fumo bianco e denso. Poi si rialza, fa un mezzo giro, vomita a tergo il boccone di cui è grave e ricomincia. Appoggiati alle nostre pale, noi stiamo a guardare affascinati. A ogni morso della benna, le bocche si socchiudono, i pomi d’Adamo danzano in su e poi in giù, miseramente visibili sotto la pelle moscia. Non riusciamo a svincolarci dallo spettacolo del pasto della draga».
Bastano queste righe tratte da Se questo è un uomo per avere un’idea di cosa significasse avere fame in un lager nazista. «Non appena il freddo, che per tutto l’inverno ci era parso l’unico nemico, è cessato, noi ci siamo accorti di avere fame» scrive Primo Levi: «Il lager è la fame: noi stessi siamo la fame, fame vivente». E racconta di un giovane viennese, Sigi, che «ha diciassette anni e ha più fame di tutti quantunque riceva ogni sera un po’ di zuppa da un suo protettore, verosimilmente non disinteressato». Il ragazzo, alla vista di quella benna che divora e mastica la terra, «racconta senza fine di non so che pranzo nuziale e ricorda, con genuino rimpianto, di non aver finito il terzo piatto di zuppa di fagioli». (…)
Avevano alle spalle secoli di fame, gli italiani avviati nei lager nazisti. Eppure mai si erano confrontati con quella fame feroce descritta da Primo Levi. Tanto più feroce perché del tutto estranea alle carestie e alle catastrofi «naturali». Ma legata esclusivamente ai capricci scellerati dei carnefici. E resa ancora più insopportabile dal quotidiano, straziante, oltraggioso contrasto con quanto quei carnefici avevano a pranzo e a cena sulle tavole loro.
La triestina Nerina De Walderstein, sopravvissuta ai lager di Auschwitz, Birkenau, Flossenbürg, Plauen, ha raccontato in Testimonianze dai lager, di Rai Educational, l’insulto di certe kapò polacche: «Erano peggio delle SS! Se c’è una cosa che detesto, che non sopporto, sono proprio le polacche! Perdonami, Polonia, ma è così! Tutte quelle che sono state là, hanno subito le angherie delle bloccove e dalle blocstube… La notte, loro mangiavano, bevevano, si divertivano… Le sentivamo mangiare e bere, mentre noi, quasi morte di fame, eravamo là a languire. E loro erano pasciute… Nessuna era magrolina: erano tutte tonde, forse anche troppo, perché sfiguravano con noi…».
I profumi degli spezzatini, delle minestre d’orzo, degli stinchi di maiale che venivano dagli alloggiamenti dei carnefici erano una tortura per chi tentava disperatamente di tirare avanti con una tazza di brodaglia o «quelle rape grattugiate, secche, che gettavano dentro in questa chibla di acqua bollente». Era una tortura mangiarle, quelle rape: «Perché erano come tanti aghi che mandavi giù, ti grattava la gola, tante volte piangevi… Prima di mangiare piangevi, poi mangiavi, perché sapevi che non c’era altro. Si mangiava quello che si trovava, però i nostri maiali mangiavano veramente meglio». E tutti lì, ad aspettare la «festa grande» della domenica: «Ti mettevi in fila, ti davano una patata, era festa… La tua festa della domenica: una patata con un pochino di margarina…».
Per questo il libro Padelle, non gavette di Fausto Carriero e Michele Morelli è un piccolo, delizioso miracolo. Perché quei due militari internati prima nel campo di concentramento di Leopoli e poi a Wietzendorf, nella Bassa Sassonia, riuscirono prodigiosamente a conservare, nelle condizioni più difficili (per quanto i due lager non fossero campi di sterminio e i carcerieri fossero probabilmente meno spietati che in altri mattatoi nazisti), una straordinaria vena ironica e autoironica. E il loro quaderno di ricette e memorie gastronomiche, con quelle elaborate leccornie dai nomi abissalmente lontani dalla grama vita quotidiana nelle baracche («Charlot di frutta», «Scorze d’arancio, limone e cedro caramellato», «Chantilly», «Chifel imbottiti»…) e accompagnati da quei teneri disegni che ricordano le illustrazioni dei vecchi sussidiari o di Giamburrasca, è un regalo prezioso. Che ci aiuta, grazie alla pubblicazione che avviene finalmente quasi settant’anni dopo per merito di Fausto Morelli, figlio di Michele, a capire come l’uomo, anche nei momenti più cupi, spaventosi, disperati, possa trovare in se stesso la forza di sopravvivere aggrappandosi alla fantasia, al sogno, all’ironia.
Certo, questa ironia, nelle condizioni bestiali di certi lager, a volte non era proprio possibile. Bruna Bianchi, nel libro Deportazione e memorie femminili, riprende una pagina di Aucune de nous ne reviendra dove l’autrice Charlotte Delbo «ricorda quando lei e le compagne, impietosite dall’aspetto degli uomini che si dirigevano al lavoro in colonna, decisero di raccogliere il pane che le ammalate non si lasciavano persuadere a mangiare e di lanciarlo agli uomini al di là dei reticolati. “È subito mischia. Afferrano il pane, se lo contendono, se lo strappano. Hanno occhi da lupo. Due di loro rotolano nel fossato e il pane sfugge loro dalle mani. Li guardiamo battersi e piangiamo. La SS urla, aizza il cane contro di loro. La colonna si ricompone, riprende la marcia. Sinistra. Due. Tre. Non hanno rivolto la testa verso di noi”».
Lo stesso Elie Wiesel, che pure non difetta di quella dote straordinaria degli ebrei che è proprio l’ironia, ricorda ne La notte la sua liberazione solo con parole crude: «Il nostro primo gesto di uomini liberi fu quello di gettarci sulle vettovaglie. Non pensavamo che a quello, né alla vendetta né ai parenti: solo al pane…» (…).
Sì, il meraviglioso «gioco» di Carriero e Morelli in certi lager non sarebbe stato possibile. Appena c’era un piccolo pertugio di umanità nel quale infilarsi, però, erano diversi i prigionieri che ci si infilavano. Lo testimoniano, tra le altre, le memorie di Karla Frenkel, un’ebrea tedesca che riuscì a sopravvivere ad Auschwitz e Bergen Belsen: «Il nostro accompagnatore fisso era la fame e il nostro patrimonio la nostra “scodella”, noi la tenevamo sempre sotto il vestito, stretta al corpo, senza di essa eravamo perdute, perché chi non aveva una “scodella” non poteva ricevere la sua “zuppa” ed era così condannata alla morte per fame… Due donne avevano una mania, cucinavano sempre, confrontavano ricette e addirittura litigavano se una “voleva cucinare in modo diverso”, a volte intervenivano altre che avevano migliori versioni o non erano d’accordo su come questa o quella “voleva cucinare”…». (…)
Lo conferma ne Le memorie dei sopravvissuti Myrna Goldenberg: «Le discussioni sulle ricette richiamavano alla mente delle donne la vita precedente, quando avevano una loro posizione in famiglia e nella comunità… Ma contribuivano anche a ricordare alle donne quante risorse avessero a disposizione per assistere gli altri, come casalinghe e cuoche fantasiose. Condividere i ricordi riaffermava il senso dell’esistenza di una comunità e scambiarsi le ricette in un contesto in cui l’affamamento era pianificato aveva quindi paradossalmente un effetto terapeutico, se non altro per il lungo tempo che le discussioni occupavano». Quello era il punto: parlare di manicaretti e ricette «aveva un forte effetto psicologico, poiché rappresentava un impegno per il futuro».

Corriere della Sera 26.1.12

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“Online la lista degli ebrei finiti nei lager”, di Antonio Carioti

S ono online da oggi, all’indirizzo www.nomidellashoah.it. Adulti, anziani e bambini, maschi e femmine. Sono i nomi e i dati anagrafici dei circa 7.200 ebrei italiani che vennero deportati dai nazisti durante l’occupazione tedesca dell’Italia tra il 1943 e il 1945.
In grande maggioranza perirono nei lager, meno di un migliaio riuscirono a salvarsi: «A differenza di quanto hanno fatto siti analoghi realizzati in altri Paesi (Israele, Francia e Olanda), abbiamo deciso di mettere sul Web anche i dati dei sopravvissuti, perché furono comunque perseguitati e deportati» precisa Liliana Picciotto, autrice del Libro della Memoria (Mursia) che costituisce la base da cui è partita questa iniziativa del Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec) per il giorno che celebra l’apertura dei cancelli di Auschwitz da parte dei sovietici, il 27 gennaio 1945. Mancano al momento gli ebrei dell’isola greca di Rodi (all’epoca possedimento italiano), che furono deportati in massa: sono altri 2.000 nomi che dovrebbero aggiungersi nel corso del 2012: «In agosto siamo andati a Rodi e abbiamo raccolto i dati: si tratta solo di avere il tempo di elaborarli».
Sempre quest’anno l’elenco delle vittime italiane sarà consegnato, nel corso di una cerimonia ufficiale, al sacrario israeliano dell’Olocausto, dove è stato allestito, all’interno del sito www.yadvashem.org, il Database of the Shoah Names Victims, in cui si possono già consultare i dati di circa tre milioni di persone sterminate.
Il sito italiano si apre con una schermata di circa ottanta nomi, scritti in corsivo: «È il nostro omaggio alle vittime — spiega Liliana Picciotto — una sorta di monumento digitale. Ogni giorno la homepage cambierà, con nuovi nominativi in ordine alfabetico, fino a completare l’elenco. Poi si ricomincerà da capo. Invece alla maschera di ricerca per trovare i singoli individui abbiamo dato una forma sghemba, in modo da esprimere il senso di disagio che si prova di fronte a un crimine così immenso: c’è anche la copertina del Libro della Memoria, come segno di riconoscimento nei confronti dell’editore Mursia, che si prese molti anni fa l’impegno di pubblicare il mio lavoro».
Di ogni vittima si trovano la data, il coniuge, il luogo d’arresto e quello di deportazione. Per una parte è disponibile anche la fotografia. «Il sito — precisa Liliana Picciotto — non è rivolto soltanto agli studiosi, che potranno facilmente accedere ai nostri dati da ogni parte del mondo, ma anche ai parenti dei deportati, nella speranza che possano fornire ulteriori notizie sui loro cari e magari foto di famiglia in cui siano effigiati, per arricchire la documentazione e dare ancora di più il senso di quella spaventosa tragedia».

Corriere della Sera 26.1.12

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“Mauthausen. Briciole di pane per farci sgozzare”, di Silvia Truzzi
Gianfranco Maris, deportato nel ’44: “Dite ai giovani cos’era il nazismo”

In piazza Partigiani d’Italia, su un tram diretto nei pressi di via Montenapoleone, a pagina 83 di un libro bianco si legge: “Ho visto nella mia baracca, che si andava svuotando perché tutti stavano uscendo per andare alle docce, un compagno deportato, che non conosco, di cui non so neanche la nazionalità, mentre nascondeva nel suo giaciglio un grosso pezzo di pane. È stato in quel momento, quando ho visto il pane, che la fame mi si è presentata come idea. Un’idea che non mi abbandona, che continua a seguirmi nel buio che scende mentre sto andando verso le docce”. Per ogni pidocchio cinque bastonate (Mondadori, 126 pagg. – 17,50 euro, a cura di Mi-chele Brambilla) è la storia di una deportazione, andata e ritorno dalle tenebre dell’umanità. A Mauthausen, Gianfranco Maris c’è arrivato il 7 agosto del ’44: oggi ha 91 anni, un sorriso per nulla incline alla resa e una memoria senza indulgenze né lacrime. Presidente nazionale dell’Aned (Associazione nazionale ex deportati politici) dal ’78, senatore dal ’63 al ’72 poi membro del Csm, comunista da quando aveva 17 anni, avvocato penalista, riceve ancora nel suo studio.
Perché non ha rubato quel pezzo di pane?
Vede, organisieren è la parola tedesca che gli stessi nazisti diffondevano. Ti rubavano una cosa, tu lo dicevi al kapò e ti sentivi rispondere: “Organisieren, organisieren“. La legge del campo era: ti hanno rubato gli zoccoli, rubali a qualcun altro. Che a sua volta li ruberà. Quel giorno ero sconvolto dalla fame: l’organisieren diventa l’idea che mi domina. All’ultimo momento mi rendo conto che rubando venivo ricondotto alla logica del torturatore. E dico no. Ricordo che tremavo, tremavo per aver pensato che proprio io avrei potuto “organizzare”. Non c’era atto dei tedeschi che non fosse finalizzato alla distruzione dell’uomo.
A cosa pensa?
Al pane, sempre. Ce lo portavano in filoni da un chilo. Un giorno era per otto persone, un giorno per 12: è arrivato a essere per 24. Ce lo davano intero: dovevamo dividerlo noi. Volevano che noi ci sgozzassimo per una briciola. Le briciole erano vitali. (L’avvocato fa rabbiosamente il gesto di raccogliere le briciole con le dita).
E come facevate?
Avevamo fabbricato un bilancino e un coltello. Noi non volevamo diventare nemici. Il pane aveva un significato morale.
Ha mai cercato negli occhi delle Ss un motivo, una spiegazione?
Avevo intuito che se ti mettevi dalla parte della vittima, non avevi scampo. Era impossibile capire tanta ferocia. Lì o eri vivo lavorando o eri morto. I sistemi per sopravvivere li trovavi facendo funzionare il cervello. Tutti quelli che sono stati uccisi, prima di perdere le forze avevano smarrito la lucidità. Quando noi eravamo inquadrati per l’appello i tedeschi fumavano. E poi buttavano la cicca. Allora i prigionieri vicini si buttavano per terra per raccogliere le cicche e fare una boccata. Io li rimproveravo: non volevo che si abbassassero, proprio letteralmente, a raccogliere i loro avanzi.
È stata la disciplina militare a salvarle la vita?
È stata la ragione. Io ho cominciato subito a chiedermi perché ci facevano fare certe cose. Per esempio quando siamo arrivati al campo siamo stati per 15 giorni nudi con un cappello in testa: ci facevano ripetere ossessivamente il gesto di levare e mettere il cappello. Ci volevano ridurre a un’obbedienza meccanica. In cava io lavoravo con il professor Cuneo: un uomo debole nel corpo, ma di cultura formidabile. Portare le pietre con lui era faticoso, ma importantissimo. Ci faceva lezioni sui processi formativi del colonialismo francese o sulla Restaurazione del 1814. Poi avevo organizzato che il giro dopo lo facevo con un altro e gli riportavo la lezione. E la catena continuava. Gli altri, nei momenti di pausa, dicevano: “Mi ricordo gli agnolotti di mia madre”. Ecco, quelli erano destinati alla morte.
Scrive di non essere stato felice il giorno della Liberazione. Perché?
Il 5 maggio a Mauthausen arrivò una camionetta. Esplose un entusiasmo delirante. Dalla torretta vedevo i miei compagni festeggiare e pensavo: sì, siamo salvi. Ma quanti di noi sono morti? Sì, siamo vivi. Ma che cosa abbiamo pagato? Mi vennero in mente alcuni versi che Ungaretti scrisse sull’Isonzo durante la Prima guerra mondiale: “È il mio cuore il paese più straziato”.
Cosa succederà quando l’ultimo testimone sarà morto?
Un’associazione di ex deporta-ti a un certo punto scompare: per questo ho chiesto e ottenuto di creare, all’interno dell’Aned, una fondazione che raccolga e metta a disposizione gli archivi, senza cui il negazionismo sarebbe facile, facilissimo. Io non voglio che si perda la coscienza di cos’è stato il fascismo. La memoria oggi è solo la rievocazione sentimentale delle sofferenze. Non basta. Domani, come accade sempre nel Giorno della memoria, gli studenti andranno ad Auschwitz, vedranno le baracche, i forni, i visi dei morti. Escono e non sanno cos’è stato il fascismo, cos’è stato il nazismo.
Sa di non aver mai pronunciato la parola dolore?
(Silenzio e silenzio ancora. Gli occhi di Gianfranco Maris sono attraversati da un lampo disperatamente tempestoso). È vero. Io ero in guerra, contro un nemico che era nel mio cuore. Pensavo: devo restare vivo per ammazzarli dopo.

da il Fatto 26.1.12

"Il valore della laurea non è tutto", di Luciano Modica

Negli ultimi anni pressoché ogni opinionista o politico à la page ha caldeggiato l’abrogazione del valore legale della laurea come panacea di tutti i mali del sistema universitario, in genere rifacendosi ad una delle “prediche inutili” di Einaudi o a qualche modello straniero più o meno frainteso. Persino professori politicamente agli antipodi, come Francesco Giavazzi e Margherita Hack, sono tra i firmatari di un recente appello per abolire il valore legale dei titoli universitari. Inutilmente analisi rigorose – tra cui quelle di Sabino Cassese, e di Giovanni Cordini, del Servizio studi del senato – hanno segnalato la complessità del problema.
Inutilmente tutti coloro che si intendono davvero di università hanno espresso perplessità. L’abolizione del valore legale è rimasta un must del dibattito pubblico. Opporvisi, o anche solo chiedere ai sostenitori di indicare quali norme precise si intendesse abrogare, significava essere immediatamente confinati nel recinto degli arretrati difensori dello status quo. Tra le novità del governo Monti c’è quella di un approccio a questo tema molto più concreto e cosciente dei problemi sottesi, almeno a giudicare dalle anticipazioni di stampa che si spera siano confermate dai provvedimenti in corso di stesura. Proviamo a capirne i dettagli, cui certamente sono interessati una moltitudine di studenti italiani.
Quando si parla di valore legale della laurea, si allude contemporaneamente a due aspetti. Il primo è che, in Italia come in Europa, l’istruzione universitaria è considerata un bene pubblico e una pubblica responsabilità (deliberazione del Consiglio d’Europa) cosicché l’istituzione di un’università, pubblica o privata che sia, o di un corso di laurea dev’essere autorizzata dallo stato. È appunto l’autorizzazione “a rilasciare titoli aventi valore legale”. Sono davvero pochi gli italiani che vorrebbero vedere abrogato quest’aspetto, consentendo quindi che chiunque possa istituire un’università e conferire lauree quasi fosse una comune attività commerciale.
Basti ricordare il recente caso del ritiro a furor di popolo dell’autorizzazione ad istituire un’università privata che prendeva il nome dal suo proprietario ed era ubicata in una palazzina di sua proprietà nella piccola cittadina di residenza. Si noti peraltro che il regime autorizzativo è presente in forme diverse in tutti i paesi dell’Unione europea e una sua abrogazione nel nostro rischierebbe di porci fuori dall’Area Europea dell’Istruzione Superiore (Ehea).
Il secondo aspetto è collegato alla valutazione della laurea come titolo di accesso alla pubblica amministrazione e alle professioni regolamentate. Si osserva giustamente che considerare equivalenti lauree di ben diverso contenuto formativo effettivo costituisce un’ingiustizia culturale e sociale.
Come si può rimediare? Non certo, come talora si sente sostenere, costruendo una graduatoria di università e assegnando valori decrescenti alle lauree da loro conferite in base al posto occupato in graduatoria. Innanzitutto perché questa soluzione definisce un valore legale ancora maggiore di quello che si vorrebbe abolire. Per intendersi, se l’università A precede l’università B nella graduatoria, il peggiore dei laureati di A risulterebbe “legalmente” preferito al migliore dei laureati di B! Né si potrebbe consentire che ogni pubblica amministrazione definisca la sua propria graduatoria di valore tra le università, col pericolo tutt’altro che astratto che scattino i peggiori localismi. Si tratterebbe comunque di soluzioni di stampo centralistico che si muovono in direzione opposta alla valorizzazione del merito personale, questa sì liberale, che tutti dicono di voler incentivare.
Occorre invece intervenire per eliminare subito alcuni aspetti perversi del valore legale, in base ad un solido principio: la laurea ovunque conseguita costituisca un titolo di accesso ma ogni altro aspetto di merito sia accertato con un esame a ciascun candidato per accertare ciò che sa e che sa fare in relazione alla posizione che andrebbe a ricoprire. La competizione tra le università scatta veramente e funziona positivamente solo quando si verifica attentamente e si premia la bravura dei rispettivi laureati nel mondo del lavoro, non quando si approntano tabelle in base a complicati e largamente arbitrari parametri quantitativi generali.
Inoltre, una volta garantite eguali opportunità di partenza mediante un solido e ampio sistema di diritto allo studio, la valutazione del merito personale dei laureati è l’unico vero motore dell’ascensore sociale. In concreto si dovrebbe abolire ogni valutazione automatica dei voti universitari, troppo diversi da sede a sede. Si dovrebbe ampliare il ventaglio dei titoli equivalenti che danno accesso ad un concorso pubblico affinché non si instaurino vere e proprie riserve corporative a favore di quello o quell’altro tipo di laurea. Si dovrebbe stabilire che nessuna progressione di carriera nella pubblica amministrazione può dipendere esclusivamente dal possesso di una laurea quale che sia. Sono interventi di cui si parla da molto tempo: una proposta di “affievolimento” del valore legale è contenuta in un documento della Conferenza dei Rettori del 1995; le classi di equivalenza del valore legale di lauree differenti sono contenute nel decreto ministeriale del 1999 che ha introdotto la nuova architettura europea degli studi universitari, il cosiddetto 3+2. E sono proprio gli interventi di cui il ministro Profumo ha fornito anticipazioni.
Da molti anni sono sul tavolo dei ministri competenti senza che nessuno sia mai riuscito a realizzarli. Speriamo che anche in questo caso sia la volta buona.

da www.europaquotidiano.it

«I media non sanno leggere il Pd. La realtà è che dà fastidio», di Chiara Geloni

Perché il Pd non piace ai giornali? Alfredo Reichlin ha posto ieri il tema con la solita brutale lucidità: sta diventando un problema di democrazia, non di giornalismo. Non si tratta di recriminare, ma di constatare: il contrasto tra la realtà del Pd e la narrazione mediatica sul Pd comincia a essere un fenomeno su cui è difficile soprassedere. Parliamo di quello che da diversi mesi è stabilmente il primo partito italiano. Che ha visto uscire dalla scena il suo principale e ormai storico avversario, e oggi fronteggia un centrodestra sbandato e in difficoltà. Che ha vinto le ultime tornate elettorali. Il cui elettorato mostra di capire la scelta difficile e responsabile di sostenere un governo di emergenza. Fin qui la realtà, poi c’è appunto la narrazione.

Un contrasto paradossalmente mai così lampante come nell’intervista a un direttore naturaliter democratico quale quello di Repubblica, qualche sera fa in tv, e per giunta in uno spazio altrettanto naturaliter democratico come il salotto di Fabio Fazio su Rai 3. Eppure, salvo una bella difesa della famosa “foto della birra” («Preferireste che i discorsi glieli scrivesse qualcun altro? Che si facesse fotografare circondato da nani e ballerine?»), peraltro stoppata sul nascere da Fazio con insolita determinazione (e su cui il sito Repubblica si era però prodotto in un commento di tono assai diverso), l’atteggiamento di Ezio Mauro verso il Pd è emblematico. Tutto un darsi di gomito, quello tra lui e il conduttore. Domanda: «Nel Pd naturalmente su questo ci sono posizioni diverse». Risposta: «L’impressione è che non sarebbero d’accordo neanche se gli chiedessimo se oggi è domenica». Nessuna indulgenza, nessuno sforzo di capire e far capire, nessun rispetto per un partito che ha già dimostrato molte volte che al momento di decidere sa come fare, e che i suoi organismi democratici funzionano: il Pd è diviso, sbandato e senza linea, ecco perché l’assemblea non ha votato l’odg sulle primarie; almeno questo devono aver capito i telespettatori. Niente viene concesso al Pd, nemmeno se i fatti gli danno ragione: se, per posizionare Repubblica sul governo Monti, Mauro usa quasi le stesse parole del segretario del Pd, «non sosteniamo un governo, noi sosteniamo l’Italia», guai comunque a citarlo o a riconoscergli di aver agito ragionando nello stesso modo: «La strada ce l’ha indicata Napolitano». Perché denigrare sempre il Pd non serve, a volte basta rimuoverlo.

Lo ha scritto bene ieri l’Unità: quello della «prima volta che si fanno le liberalizzazioni in Italia» è già diventato un classico della narrazione politica, roba da far rivoltare nell’archivio le prime pagine di Repubblica e Corriere nei giorni delle lenzuolate di Prodi e Bersani. Senza nulla togliere alle liberalizzazioni di Monti, non serve essere astiosi per dichiararsi stupefatti da certe dimenticanze o dietrologie come quelle che farebbero di Bersani il capo di un’improbabile lobby dei parafarmacisti (contrapposta a quei poveri descamisados dei farmacisti titolari, immaginiamo). E non mancano altre sorprendenti letture: «i partiti» che immancabilmente «frenano le riforme», col Pd sempre nello stesso mucchio del Pdl, anche quando tira esattamente nella direzione opposta. I critici televisivi in cattedra a spiegare che gli italiani non vogliono leader dalla comunicazione travolgente ma ai politici chiedono sobrietà e competenza, e sono gli stessi che sfottevano il Pd e il suo segretario fino a una settimana prima esattamente per il motivo opposto.

Senza polemica, davvero: c’è da interrogarsi su quanto effettivamente il sistema dei giornali e degli opinion maker sia tecnicamente in grado di «leggere» il Pd. Prendiamo la vicenda della foto della birra: uno scatto fatto per prendere in giro il segretario beccato in un momento “da sfigato”, pubblicato e commentato dai siti dei giornali con la stessa intenzione, che sui social network diventa in pochi minuti un’icona del politico normale, che finisce per suscitare un’ondata di entusiasmo e di affetto tra i militanti. E i manifesti «ti presento i miei», la famosa “campagna flop” per il tesseramento, iniziata tra frizzi e lazzi, anche perché inciampata in un episodio di affissioni abusive (solo a Roma)? Qualcuno si è accorto che è partita la gara a photoshopparsi nel manifesto, che c’è un’ondata di testimonial volontari che ci stanno mettendo la faccia senza che nessuno gliel’abbia chiesto? Quanto capiscono i media del Pd? Di com’è fatto, di come funziona, di cos’è il Pd?

Sarebbe interessante parlarne davvero, tra addetti ai lavori e magari non solo. Evitando banalità però, e risposte tautologiche del tipo: «È il Pd che non sa comunicare». I problemi di comunicazione non sono quasi mai problemi di comunicazione: in politica, sono problemi politici. Può darsi che in parte siano dentro il Pd: troppe voci, troppa fatica a decidere, troppo poca capacità “egemonica”? Forse. Eppure il dubbio che qualche problema ce l’abbia anche chi guarda il Pd cresce ogni giorno di più. Problema tecnico, di incapacità? Difficile che tutti i giornalisti siano stupidi, almeno quanto è difficile che tutti i comunicatori del Pd siano stupidi: è più probabile che il problema sia politico. Dà fastidio, il Pd? E perché? Forse perché è un partito, l’unico in Italia oggi che può definirsi tale, con regole democratiche sue proprie, con un dibattito interno che si svolge alla luce del sole e che non è puro scontro per il potere, con una sua solidità e una sua lettura delle cose oltre il day by day e le ondate emotivo mediatiche? E se è questo il problema, non sarebbe più onesto dichiararlo, e dire che si ha in mente una politica senza partiti e in balia delle ondate mediatiche, un’Italia senza corpi intermedi, una società di individui, senza politica e senza partecipazione, senza gente che ci mette la faccia e che si sente protagonista in un collettivo? Se la battaglia fosse dichiarata, e fosse su questo, sarebbe bello combatterla.

da www.unita.it

"Avranno la pensione solo gli «esodati» 2011. Rincarano le sigarette", di Bianca Di Giovanni

Milleproroghe: il no della Fornero alla vecchia copertura esclude migliaia di persone senza lavoro. Oggi la fiducia sul provvedimento. Manifesti, salta la sanatoria per l’affissione abusiva dei partiti

Finale con sorpresa (negativa) sul milleproroghe. I lavoratori che dovevano essere «salvati» dai vincoli stretti della riforma Fornero sulle pensioni potevano essere molti di più,ma una nuova formulazione introdotta dal governo all’ultimo minuto riduce la platea. Si tratta dell’articolo che riguarda i lavoratori in mobilità o che hanno stipulato accordi di esodo, individuali e collettivi, e che rischiavano di ritrovarsi fuori da tutto: lavoro e pensioni. Il provvedimento ne salva alcuni, coprendo le spese con l’aumento delle accise dei tabacchi, e non più con l’aumento dei contributi degli autonomi come previsto in origine (lo stop è arrivato dalla ministra Elsa Fornero). Nella stesura finale del testo è stato anche «cassato» il condono sui manifesti abusivi, si stanziano 150 milioni per gli esuli italiani cacciati da Gheddafi (emendamento Pdl su cui il governo è andato sotto), resta il prolungamento a fine 2011 della sanatoria Tremonti sulle liti pendenti. Il governo ha posto la fiducia, che sarà votata oggi. Martedì arriverà l’ok definitivo. Ma già si sa che il senato modificherà il testo su alcuni punti segnalati ieri dalla commissione. Il testo ha subito ieri un secondo passaggio in commissione, proprio per dar seguito alla richiesta di modificare la copertura dei lavoratori cosiddetti «esodati». Durante il nuovo esame si è ottenuto di far rientrae nella platea dei «salvati» tutti i lavoratori espulsi fino al 31 dicembre scorso, operazione che include, tra gli altri, alcuni lavoratori delle Poste, quelli Fincantieri e Whirpool Un buon risultato. Purtroppo, tuttavia, non si parla più di tutti i lavoratori che hanno stipulato accordi, ma solo di quelli che hanno avuto una «risoluzione del rapporto di lavoro». Insomma, chi ha accettato di uscire, ma sta ancora lavorando, non è salvo: rischia di rimanere senza lavoro e senza pensione. SOLUZIONI «Al Senato bisognerà trovare una soluzione per tutti i lavoratori esodati allargando la platea – dichiara Pier Paolo Baretta, che aveva presentato la formulazione “allargata” del testo – L’emendamento originario era scritto in modo tale da salvaguardare gli “esodat” e i “precoci” (chi ha iniziato a lavorare molto presto, ndr). Ora la platea non è salvata completamente ». «Inaccettabile», attacca Vera Lamonica della Cgil. In ogni caso è un mezzo passo avanti rispetto alla prima stesura del decreto, un passo indietro rispetto alle modifiche proposte dal Pd. Anche dal Pdl «piovono» richieste di modifica. Giuliano Cazzola chiede di eliminare le penalizzazioni per i precoci che escono prima dei 62 anni. Saranno molti i nodi da sciogliere a Palazzo Madama. Il ministro Piero Giarda annuncia che «il governo si riserverà di svolgere i dovuti approfondimenti sui profili di copertura finanziaria del testo licenziato dalle commissioni ». Evidentemente l’aumento delle accise dei tabacchi (dovrà rendere 15 milioni nel 2013) è ancora in bilico,dopo che i tabaccai hanno alzato la voce in segno di protesta. Altra lacuna sulla questione pensioni riguarda i lavoratori della scuola. «Occorre far slittare l’entrata in vigore delle norme Fornero al 31 agosto 2012 – spiega Manuela Ghizzoni (Pd) – considerato il particolare tipo di attività di questo settore». Anche su questo si discuterà a Palazzo Madama. Con la fiducia salta anche l’emendamento soppressivo del Pd sulla proroga della sanatoria fiscale sulle liti pendenti. La sanatoria era stata introdotta dalla manovra di luglio, ma si fermava alle liti aperte entro il 31 maggio. Questo provvedimento prolunga l’efficacia del «condono» al 31 dicembre del 2011, garantendo sostanziosi «sconti» a chi ha un contenzioso aperto con il fisco. «Ci riproveremo in Senato anche su questo – aggiunge Baretta – Abbiamo posto il problema al momento della discussione sul condono dei manifesti abusivi, chiedendo di cassare anche questa proroga, ma non siamo stati ascoltati ».

da L’Unità