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"Contratti unici e capitale umano", di Chiara Saraceno

La riduzione dei circa 40 tipi diversi di contratto di lavoro legalmente possibili oggi in Italia, e l´introduzione di un contratto unico con tutele progressive, è sicuramente una proposta attraente dal punto di vista della civilizzazione dei rapporti di lavoro e della riduzione delle disuguaglianze tra lavoratori. Non è affatto sicuro che riduca la temporaneità di fatto dei contratti, che è uno degli obiettivi espliciti dei proponenti.
È vero, infatti, che il contratto unico sarebbe a tempo indeterminato. Ma in cambio di un periodo di prova di fatto allungato fino a tre anni. Durante questo periodo, secondo le proposte in circolazione, il lavoratore può essere licenziato senza vincoli di alcun tipo, salvo quelli che puniscono il comportamento discriminatorio da parte del datore di lavoro. In caso di licenziamento con motivazioni diverse dalla giusta causa, il datore di lavoro è tenuto a pagare un indennizzo, pari a 15 giorni di stipendio ogni trimestre lavorato, secondo la proposta di Boeri e Garibaldi ripresa nel disegno di legge Nerozzi e messa ufficialmente sul tavolo della trattativa. Al lavoratore licenziato senza giusta causa allo scadere dei tre anni spetterebbe un´indennità pari a sei mesi di stipendio. Questo obbligo di indennizzo, oltre ad offrire un cuscinetto di protezione per il lavoratore che perde il lavoro e il reddito, dovrebbe costituire un deterrente ai licenziamenti, divenuti costosi per il datore di lavoro. La proposta prevede anche l´impossibilità di ricorrere al trucco, molto utilizzato da diversi imprenditori, di licenziare e riassumere, per impedire sia la maturazione dei tre anni, sia di raggiungere il massimo dell´indennità. Ad ogni riassunzione si parte dal livello di anzianità di servizio raggiunto prima del licenziamento.
In un Paese con una classe imprenditoriale matura, che investe nella propria forza lavoro e che considera uno spreco di risorse un turn over troppo accentuato della propria forza lavoro, questo modello contrattuale apparirebbe ragionevole ed equilibrato. Le aziende, avendo un periodo di prova lungo in cui valutare, ma anche formare, chi hanno assunto, a meno che proprio non ne abbiano più bisogno per motivi economici e di mercato, se li terrebbero per non vanificare l´investimento fatto. Proprio i comportamenti delle imprese di questi anni inducono invece ad un po´ di pessimismo. Si pensi all´uso sfrenato che è stato fatto di ogni opportunità di utilizzo usa e getta della forza lavoro, anche di quella più qualificata, alla rincorsa che c´è stata alle forme contrattuali più precarie, al punto che in alcune zone oggi non si fa più neppure il contratto a tempo determinato, o stagionale, ma si utilizzano i buoni lavoro, che non richiedono nessun contratto. Il rischio è che i contratti unici a tempo indeterminato vengano utilizzati invece come contratti a tempo determinatissimo, cortissimo, con un turn over ancora maggiore di quello cui abbiamo assistito negli ultimi anni: invece di rinnovare brevi contratti a termine alle stesse persone faranno contratti unici che dureranno poco a persone sempre diverse.
Questo pessimismo non deve indurre ad abbandonare la strada del contratto unico. Piuttosto dovrebbe suggerire la necessità di introdurre di vincolo al rapporto tra numero di contratti rescissi e avviati nell´arco di un anno, oltre a qualche controllo su iniziative ben note di imprenditoria creativa, quali la scomposizione di una società in società diverse, in modo che i lavoratori licenziati da una possano essere riassunti da un´altra, figliata dalla prima, interrompendo ogni vincolo di continuità. È già successo per fruire di misure di fiscalità di vantaggio o di incentivi. Può succedere di nuovo per aggirare i vincoli del contratto unico. Se la creatività della classe imprenditoriale italiana si applicasse ai prodotti e ai processi produttivi con altrettanta intensità di quella sfoggiata nell´utilizzare le possibilità offerte dai contratti di lavoro per non investire nel capitale umano, forse avremmo minori problemi di competitività in Europa e nel mondo.

da La Repubblica del 23 gennaio 2012

"Giornata della memoria. Una tazza di tè con gli ultimi sopravvissuti della Shoah", di Enrico Franceschini

Sembra un centro anziani come tanti. Ma Eva, David, Bella e gli altri trecento soci dell´Holocaust Survivors di Londra in comune non hanno soltanto l´età. Turchi, ungheresi, polacchi, sono ebrei passati per i campi di sterminio. E qui con fatica hanno imparato a non vergognarsi di essere stati salvati
I nostri racconti. Nessuno voleva sentire la nostra esperienza. Quando raccontavo dei campi, la gente si ritraeva spaventata. Ma forse era vergogna.
Perché non io? Ho perso la mia migliore amica che è stata catturata dalla Gestapo e spedita a Auschwitz. Lei è morta io sono sopravvissuta Perché lei e non io?
Avevo due fratelli gemelli Il dottor Mengele li usò per i suoi folli esperimenti Mio fratello divideva il letto con un nanetto del circo, anche lui una cavia
Credi in te stesso Come ho fatto a resistere? Devi credere in te, dicevo Sopravviverò, gridavo silenziosamente. E sono sopravvissuto. Ma tanti cedevano e sono morti

LONDRA «Io mi dicevo: sopravviverò. Sopravviverò! E sono sopravvissuto. Ma tanti accanto a me si lasciavano vincere dalla fame, dal freddo, dal dolore, e dicevano: moriremo. E sono morti». Isaac mi stringe il braccio, mentre ricorda, poi d´improvviso gli vengono gli occhi lucidi. «Scusi», dice, asciugandosi le lacrime con il dorso della mano. «Anche i miei genitori sono morti nei campi. Ho dato a mio figlio il nome di mio padre, a mia figlia quello di mia madre. È importante per noi. È importante ricordare». Stringe più forte il mio braccio, e continua a piangere.
S´avvicina il Giorno della Memoria, la giornata della rimembranza dell´Olocausto, quando Israele e gli ebrei di tutto il mondo e tutto il mondo civile commemorano la pagina più nera del Novecento, forse la più atroce nella storia umana. Ci sono tanti modi per evocarla. Uno è venire in quello che sembra un normale centro per anziani, in un quartiere della Londra nord, dove tanti nonnini e nonnine si ritrovano a seguire lezioni di cucina e danza, a giocare a carte e cantare, a guardare vecchi film e conversare, a pranzare e a prendere il tè. Scherzano, ridono, hanno l´aria di divertirsi. Ma non è un centro per anziani come gli altri, perché ognuno dei suoi trecento soci ha un segreto in comune: è un sopravvissuto ai campi di sterminio, al progetto nazista di cancellare un intero popolo dalla faccia della Terra. Si muovono con delicatezza, come preoccupati di andare in pezzi, qualcuno con le stampelle, hanno volti pieni di rughe, schiene curvate dagli anni (quasi cento per il più longevo, quasi settanta per la più giovane), ma occhi che brillano. Sono quelli che lo storico israeliano Tom Segev, con un´espressione poetica e agghiacciante, definì «il settimo milione»: gli ultimi rimasti nell´Europa del 1945, i superstiti al genocidio ebraico. Sediamoci a tavola con loro, per qualche ora. Ascoltiamo le loro storie. Prendiamo un tè con la Shoah.
L´Holocaust Survivors Centre di Hendon, una manciata di chilometri da Buckingham Palace, è l´unico centro di questo genere esistente al di fuori dello Stato ebraico. Funziona con i finanziamenti di Jewish Care, la maggiore organizzazione di beneficenza ebraica nel Regno Unito. Aprì una ventina d´anni or sono, per rispondere alle esigenze del gran numero di sopravvissuti dei lager hitleriani che vivono da queste parti. È diventato un modello per reintegrare anche altri rifugiati, altre vittime: compreso un gruppo di musulmani bosniaci, accolti di recente. È in un´anonima palazzina di mattoni: nulla, non un cartello, non un campanello, indica da fuori di cosa si tratta. Riservatezza, precauzione, bisogno di sicurezza, un po´ di tutto questo: comprensibilmente, la mia guida chiede che io presenti passaporto e tessera stampa, prima di entrare. Un po´, mi sembra di essere tornato a vivere in Israele, di sentire lo stesso senso di minaccia incombente, di accerchiamento. «L´Olocausto lascia un segno indelebile, anche quando uno non ci pensa più», spiega Judith Hassan, fondatrice del Centro. «Un trasloco, qualsiasi cambiamento, può risvegliare incubi che uno credeva di avere sepolto». Il Survivors Centre offre assistenza, terapia, il supporto di una seconda famiglia, oltre a quella che molti di loro hanno, talvolta anche folta. Ma figli e nipoti non vengono dalla Shoah. Gli arzilli vecchietti con cui prendo il tè, sì. Tra loro, si capiscono al volo. Un segreto li unisce.
«All´inizio nessuno voleva sentire parlare della nostra esperienza», dice Bella, ebrea polacca. «Quando raccontavo che ero stata nei campi, la gente si ritraeva, come spaventata. Ma forse non era paura, era vergogna: vedere noi sopravvissuti significava confrontare l´idea che l´uomo ha potuto fare questo a un altro uomo, ammettere di che cosa è stata capace la nostra specie. E dunque provare vergogna per se stessi. Perciò preferivano non ascoltarci, girare la testa dall´altra parte. E anche noi ci vergognavamo quasi di essere vivi, come di avere partecipato a qualcosa di mostruoso, sia pure nella parte delle vittime».
A volte erano loro stessi a non volerne parlare. «La mia vita fino al 1945 è stata una fuga senza fine», racconta Eva, ebrea turca. «Dalla Germania sono scappata in Belgio, dal Belgio alla Francia, dalla Francia alla Svizzera e di nuovo alla Francia. Ho militato nella Resistenza, fabbricavo documenti falsi. Sono stata arrestata tre volte e due volte sono scappata. Ho perso la mia migliore amica perché un giorno abbiamo tirato a sorte, lei ha preso una strada, io un´altra, lei è stata catturata dalla Gestapo e spedita subito ad Auschwitz, io sono riuscita a rifugiarmi in un convento di suore cattoliche. Lei è morta, io sono sopravvissuta. Perché lei e non io? Continuo a chiedermelo anche ora. Le suore ci facevano pregare tanto, ma quando la Gestapo venne a cercarmi perfino in convento fecero vestire da suora anche me, mi fecero cantare con loro l´Ave Maria davanti all´altare e mi salvarono. Sapevo che la Gestapo sarebbe tornata, fuggii anche da lì e infine mi presero. Quando i russi ci hanno liberati, mi sono ricongiunta con il mio fidanzato: lui era stato a Birkenau, era sopravvissuto perfino in quell´inferno. Era sopravvissuto per rivedermi, questo lo aveva tenuto in vita e fatto resistere. Così mi disse. E più tardi, la notte prima di sposarci, annunciò: stanotte ti racconto tutto quello che mi è accaduto laggiù, poi non ne parlerò più, mai più. E così ha fatto, fino al giorno della sua morte».
David, ebreo ungherese, invece parla: «Quando i tedeschi occuparono il mio paese, la mia famiglia perse tutto e ci rifugiammo nel ghetto. Poi vennero a prenderci anche lì e ci portarono via. Io ero forte, fui spedito in un campo di lavoro vicino al fronte russo, da cui ci ritirammo un po´ per volta fino a Berlino. Mia madre finì ad Auschwitz e non ne è uscita viva. Ma avevo due fratelli gemelli più piccoli, un maschio e una femmina, e a loro si interessò il dottor Mengele per i suoi folli studi e i suoi esperimenti, perciò furono trattati un po´ meglio degli altri e sopravvissero. Li ho reincontrati dopo la guerra, mio fratello mi ha raccontato che divideva il letto con un nano, un nanetto del circo, anche lui cavia per la curiosità di Mengele: era stato lui a salvarlo, portandogli sempre qualcosa extra da mangiare».
Anche Isaac, ebreo rumeno, era un ragazzo forte, si capisce pure adesso che ha più di ottant´anni. Lo rinchiusero in un campo di lavoro in Germania. «Al mattino una tazza di caffè acquoso, per pranzo un pezzo di pane e un´orrenda zuppa, ma io sbafavo tutto in una volta, senza mettere niente da parte, per il timore che la mia razione andasse perduta o rubata: dentro lo stomaco almeno era al sicuro. Non era un campo di sterminio con i forni per ridurci in cenere, ma se ti ammalavi o diminuivi il ritmo di lavoro, il giorno dopo sparivi e non tornavi più. Come ho fatto a resistere? Devi credere in te, mi dicevo. Sopravviverò, mi dicevo. Io sopravviverò! Lo gridavo silenziosamente a me stesso. Sopravviverò, sopravviverò. E sono sopravvissuto. Ma tanti altri cedevano alla fame, al freddo, al dolore, allo sconforto e dicevano, qui moriremo, se non oggi domani, e sono morti. Non bisogna mai arrendersi». Asciuga le lacrime. Si scusa per essersi commosso. Mi stringe il braccio, poi lo carezza, dolcemente. «Verso la fine della prigionia, i russi e gli americani bombardavano il campo tre volte al giorno, suonava l´allarme, i tedeschi scappavano come topi nei rifugi, e noi prigionieri uscivamo all´aperto, momentaneamente liberi, io guardavo il cielo, vedevo le sagome dei bombardieri, respiravo la libertà. Sopravviverò, mi dicevo, ebbene sono sopravvissuto. Nel ´48 sono arrivato dopo un´odissea in Palestina, ho combattuto nella guerra d´indipendenza per Israele, sono stato ferito, decorato al valore, ecco, vede qui il segno del proiettile? Da giovane non ero religioso, ma poi a Tel Aviv ho cominciato ad andare in sinagoga ogni sabato, e lo faccio ancora. Non perché io sia un credente, non ci vado per pregare, ci vado per onorare la nostra tradizione. Ci vado per ricordare, capisce cosa intendo?».
Ci alziamo in piedi, ci abbracciamo, ci diciamo shalom. Ho preso un tè con i sopravvissuti della Shoah, le interviste sono finite, e adesso torno in ufficio a scrivere. Loro restano qui, ciascuno con i propri fantasmi.

da La Repubblica 22.1.12

"Europa e Italia, non sprecate la bonaccia", di Giuliano Amato

«Se convinceremo i mercati, la strada per le nostre misure sarà più facile anche in Parlamento». Così – a quanto si legge – avrebbe detto Mario Monti al termine del Consiglio dei ministri che ha approvato le liberalizzazioni. Io non so se i leaders politici, gelosi delle proprie prerogative e quindi della propria autonomia dagli agenti finanziari, apprezzeranno un commento del genere.

So per certo che esso dimostra quanto Monti abbia chiari i termini della partita nella quale l’Italia e l’Europa si stanno ormai giocando la sopravvivenza stessa dell’euro.
Metterla così può sembrare inutilmente allarmistico al termine di una settimana apertasi sotto gli infausti presagi suscitati dal declassamento di tre quarti dell’Eurozona da parte di Standards & Poor e conclusasi invece con le Borse in salita, gli spread (e in particolare i nostri) in discesa e, appunto, un pacchetto italiano di liberalizzazioni certo parziale, ma comunque sufficiente a dimostrare che i compiti a casa li prendiamo sul serio. Insomma, la fiducia sta tornando, i compratori che avevamo perso per i nostri titoli stanno cominciando a riavvicinarsi e dunque – si potrebbe concludere – il tempo dell’allarme è finito.

Ecco, è proprio questa la conclusione da non trarre e farlo dimostrerebbe una grave e pericolosa incomprensione di ciò che sta accadendo intorno a noi e che proprio in questi giorni di bonaccia ci viene spiegato da chi frequenta i mercati e sente quindi gli operatori internazionali e gli analisti che concorrono a formare i loro convincimenti e le loro aspettative.
È vero, la bonaccia c’è, perché è finita in Europa la stagione degli annunci sussultori e spesso estemporanei dei nostri due leaders maggiori (quante volte i tassi sono aumentati a seguito delle loro conferenze stampa!), la Bce ha dato robusti segnali di contrasto della crisi di liquidità che era già in atto e ci si è messi a lavorare concretamente su nuovi assetti comuni dai contorni ormai relativamente definiti. Quanto all’Italia c’è stato un cambio di governo seguito da un nuovo fervore di misure ferme e innovative.

Attenzione però. Intanto è una bonaccia relativa, perché lo spread sui nostri decennali è certo meglio a 430 che non a 530, ma è ancora ben lontano dai livelli che venivano ritenuti sicuri quando cominciò mesi addietro la sua drammatica corsa al rialzo. Ricordo che quando superò quota 200, diceva (giustamente) il Tesoro italiano che era urgente riportarlo al più presto sotto di essa, perché solo così i nostri piani di rientro dal debito totale sarebbero stati sostenibili nel lungo periodo. Ma soprattutto (e il nostro spread è esso stesso un segnale in questo senso) si tratta di una bonaccia temporanea ed è in tale temporaneità la bomba a orologeria che gli umori raccolti nei mercati ci mettono inesorabilmente davanti.

Come ho già ricordato altre volte, i mercati ci hanno messo molto, prima di accorgersi della fragilità dell’impalcatura comune su cui si reggeva l’euro, tant’è vero che per diversi anni hanno attribuito lo stesso (o quasi) merito di credito a tutti gli Stati europei protetti dallo scudo della moneta comune.

Poi, quando la grande crisi finanziaria del 2007-2008 ha messo a nudo, e in parte accentuato, le divergenze fra di essi, i mercati hanno cominciato a prenderne atto ed è emerso a quel punto che dietro un unico scudo si muovevano eserciti diversi e che i più forti erano molto restii a sostenere i più deboli, lasciati fondamentalmente ciascuno alle proprie difese.
Avremmo dovuto pensarci fin dall’inizio a preparare strumenti comuni per fronteggiare le difficoltà, ma non lo avevamo fatto e quando le difficoltà sono davvero arrivate, è cominciata una affannosa ricerca di rimedi, sempre al di sotto delle necessità, perché sempre alle prese con le resistenze nazionali che, con buoni e a volte con cattivi motivi, ciascuno ha ritenuto di opporre. È iniziata così una corsa impari, e forse inattesa. Da una parte i mercati che, valutando la sostenibilità dei debiti sovrani, guardano al lungo termine e sottolineano la necessità di una maggiore integrazione affinché tale sostenibilità vi sia.

Dall’altra le leadership politiche nazionali ed europee che, premute dalle ragioni a breve termine delle loro constituencies, verso quella maggiore integrazione ci vanno a pezzi e a bocconi. Insomma, se è vero che la vista corta (come la definiva Tommaso Padoa Schioppa) la politica l’ha imparata dalla finanza, sembra oggi averne conquistato il primato.
Ora però, a giudizio dei mercati, a qualcosa stiamo finalmente arrivando. L’accordo che la Germania ha voluto per imporre la disciplina fiscale a tutti gli Stati dell’Eurozona sino a garantirla con sanzioni automatiche comuni non sarà l’ideale, ma è un primo segno concreto di integrazione dei bilanci. Accanto ad esso, inoltre, si prepara in modo da renderla imminente l’entrata in funzione del Meccanismo Europeo di Stabilità, che meglio dell’attuale e temporaneo fondo salva Stati potrà assolvere ai suoi stessi compiti.

Certo, il nuovo fondo avrà bisogno di maggiori risorse di quelle previste al momento, mentre il capitolo della crescita è tutto da affrontare. Ma ci si rende conto che, per la Germania, è pregiudiziale chiudere con certezza i termini dell’accordo prima di affrontare il resto, mentre si constata che paesi critici come la Spagna e l’Italia si sono messi sulla strada giusta.
Ecco trovate, allora, le ragioni della bonaccia, ma anche quelle della sua temporaneità. Hanno capito tutti che il tempo degli annunci è finito e che finalmente stiamo passando ai fatti, ma quelle adottate da ciascuno di noi devono essere misure e non mezze misure, mentre i passi che facciamo insieme devono portarci a una integrazione solida e non fermarsi a metà strada. Se non fosse così – si dice – la tenuta a lungo termine di alcuni di noi e dell’eurozona nel suo insieme continuerebbe ad essere poco credibile e allora tant’è prenderne atto prima di arrivarci. Di qui il monito, che mi risulta essere giunto da più parti in termini espliciti: in mezzo al guado non intendiamo starci, o risanate davvero le economie e le finanze pubbliche malate e date all’eurozona l’integrazione di cui ha bisogno, oppure l’euro non sarà più ritenuto affidabile e vi ritroverete con i frammenti di ritornanti monete nazionali.

Mario Monti, allora, ha perfettamente ragione. Può essere sgradevole farsi guidare dagli orientamenti dei mercati e personalmente al beneficio d’inventario non rinuncerei mai. Ma in questo momento sono loro a spingerci alla lungimiranza che ci serve per uscire dai nostri guai. È bene allora che la nostra politica nazionale non riduca a mezze misure riforme governative che già sono parziali. E che la politica europea si renda conto fino in fondo che euro e integrazione, caparbiamente sconnessi per un decennio, sono in realtà le due facce di una stessa moneta.

da www.ilsole24ore.it

"Università, il problema non è la fuga dei cervelli ma l’incapacità di attrarli", di Francesco Benigno

Una circolazione sbilanciata dei talenti penalizza lo sviluppo del Paese. All’emigrazione dei ricercatori corrisponde un’immigrazione non qualificata

Da qualchetempo i giornali si occupano frequentemente del fenomeno della «fuga dei cervelli». Si indica così quella quota di giovani laureati che ha deciso di cercare una sistemazione professionale all’estero. Secondo dati dell’Aire, l’anagrafe degli italiani residenti all’estero, ogni anno 60mila giovani emigrano, e la metà di questi, circa 30mila, sono laureati. La motivazione di questo flusso è evidente: statistiche consolidate mostrano un basso tasso di occupazione giovanile in Italia, paragonabile a quello spagnolo e francese ma distante da quello tedesco o inglese; masoprattutto indicano che, mentre negli altri Paesi europei, col crescere dell’istruzione il livello di occupazione s’innalza, in Italia rimane basso, al di sotto dei livelli spagnoli e francesi. La riforma universitaria con l’introduzione del 3+2 non sembra aver portato l’effetto sperato, quello cioè di abbreviare i tempi di inserimento nel mercato del lavoro, ma pare averli allungati. Rispetto a questa preoccupante situazione, amplificata da storie emblematiche di ingiusta e talora sofferta emigrazione forzata, spesso tanto più clamorose quanto più qualificati sono i giovani che ne sono protagonisti, si levano da più parti voci che vorrebbero interventi governativi per il recupero di queste intelligenze. Il problema, si dice, non sta nel fatto che i giovani partano, ma che, una volta partiti, non tornano più; non restituiscono cioè al sistema- Paese quell’investimento finanziario ma anche culturale devoluto per la loro formazione. Negli ultimi mesi poi il tema della «fuga dei cervelli » è stato da alcuni mezzi di informazione frequentemente mescolato alla protesta dei cosiddetti «indignati », ai manifesti dei TQ (generazione dei trenta-quarantenni), e più in generale alla denuncia della degenerazione familistica, baronale e clientelare dell’università italiana. Ora, che l’Italia sia un Paese anagraficamente «vecchio», conservatore e straordinariamente poco disponibile ad accogliere le legittime aspirazioni dei giovani è innegabile, ma ragionare unicamente su questi presupposti non conduce lontano. Il problema non è tanto l’emigrazione dei giovani quanto una circolazione sbilanciata dei talenti, nella quale emigrano italiani qualificati mentre dall’altro lato giungono giovani immigrati stranieri con livelli d’istruzione meno elevati. Il problema consiste dunque meno nel recupero dei giovani italiani all’estero e più nella scarsa attrattività del sistema-Paese verso chi, giovane italiano o straniero, è alla ricerca di opportunità di occupazione a livelli medio-alti. Un esempio estremo. Il fatto che nella top-list dei primi venti scienziati italiani elaborata dalla Via (Virtual italian academy) solo una minoranza lavorino in Italia non è certo un dato positivo, ma in fondo è meno grave di un altro fatto assai meno sbandierato: e cioè che nei laboratori, istituti di ricerca e dipartimenti universitari italiani la presenza di ricercatori stranieri sia sporadica, e si sarebbe tentati di dire fortuita. Alcune scelte recenti testimoniano il mantenimento di attitudini ostili alla libera circolazione dei ricercatori. Nel recente provvedimento Gelmini (pomposamente definito «riforma ») grande cura è stata rivolta a consentire lo scivolamento degli attuali ricercatori verso le fasce superiori della docenza; minore attenzione si è prestata all’assunzione di giovani ricercatori: i nuovi posti da ricercatore a tempo determinato verranno gestiti da commissioni reclutate tra i professori della stessa università che chiama il posto. In un sistema universitario come il nostro che ha abbandonato istanze di autonomia per ricadere in un’ottica neo-centralistica, affidare a una cooptazione locale opaca (senza cioè che siano state fissate adeguate garanzie di trasparenza e di pubblicità) la selezione dei migliori delle nuove generazioni della ricerca italiana (e straniera) non è certo garanzia sufficiente che trionfi il merito. Insomma, occorre forse preoccuparsi meno della fuga dei cervelli e più delle condizioni necessarie per attrarli, i migliori cervelli, italiani o stranieri che siano.

Da L’Unità

"Chi l'ha fatta franca. Banche, Autostrade…", di Sergio Rizzo

Banche, autostrade, treni, gas e benzina. Le attese «tradite» dalle liberalizzazioni

Mario Monti si è presentato dichiarando guerra a privilegi delle corporazioni e rendite monopolistiche. E sarebbe ingiusto ripetere oggi quanto ha detto venerdì Silvio Berlusconi uscendo dall’aula dove si celebrava il processo Mills: «La cura non ha dato risultati». Perché nel decreto liberalizzazioni ci sono alcune novità coraggiose. Addirittura rivoluzionarie rispetto all’apatico immobilismo del precedente governo del Cavaliere: tanto convinto del fallimento del suo successore da aspettarsi ora addirittura «di essere richiamato». Parole sue, naturalmente…
Ma sarebbe ingiusto anche non sottolineare le tante retromarce fatte rispetto alle attese che la cosiddetta «fase due» aveva generato. Confermando la sensazione che gli oligopoli siano riusciti anche in questo caso a limitare i danni.
Molti avevano sperato, per esempio, in un intervento molto profondo per liberalizzare il settore dei trasporti. Si è scoperto invece che la separazione fra la società che gestisce i binari dei treni (Rete ferroviaria italiana) e quella che fa marciare locomotive e vagoni (Trenitalia) non era stata mai messa all’ordine del giorno. Potenza delle Ferrovie… Ancora. Dal 1995 si attendeva la nascita di un’autorità indipendente per i trasporti e ora finalmente arriverà: evviva. Anche se il parto si è presentato subito difficile, come dimostra la decisione di affidarne i compiti, in una fase transitoria, a un’authority già esistente. Quale? L’Autorità per l’energia elettrica e il gas. Ma che c’entrano i binari e le autostrade con il petrolio e i pannelli solari? È appunto quello che si sono chiesti gli esperti dell’Istituto Bruno Leoni, sottolineando che «i due settori sono molto diversi e, quindi, richiedono professionalità ed esperienze differenti». Non basta: «Così facendo», afferma la loro analisi, «si andrebbero ad annacquare le competenze dei commissari che, nel momento in cui le decisioni sono prese dal collegio, dovrebbero sapere un po’ di energia, un po’ di trasporti, andando a disperdere conoscenze settoriali peculiari alla materia di riferimento e necessarie. Il rischio è che, dovendo sapere un po’ di tutto, arrivino a prendere decisioni poco informate, poco specifiche e, quindi, poco adatte ed efficaci. Tale pericolo, poi, crescerebbe con l’aumentare delle dimensioni dell’autorità: mettere insieme ambiti così grandi, infatti, significa creare un mostro burocratico poco snello nelle procedure e, quindi, poco incisivo nelle decisioni».
Certo, si tratta di una scelta transitoria. Ma nel Paese dove tutto è transitorio e i tempi non sono mai certi, questo non è affatto una circostanza rassicurante. Soprattutto considerando il formidabile peso lobbistico dei monopoli. Di cui si è avuta una dimostrazione concreta nel decreto.
A chi ci si riferisce? Alle potentissime concessionarie autostradali riunite nell’Aiscat presieduta da Fabrizio Palenzona, nemmeno sfiorate dal provvedimento sulle liberalizzazioni.
Esiste un metodo internazionale per fissare le tariffe dei servizi pubblici, conosciuto con il termine inglese di «price cap». Basandosi sul parametro base della produttività, provoca generalmente una riduzione dei pedaggi, eliminando la quota di profitto ingiustificato derivante dal monopolio. In Italia però non viene applicato, nonostante la società Autostrade sia privatizzata da dodici anni. Durante tutto questo periodo le tariffe non sono mai diminuite e il principale concessionario ha realizzato profitti crescenti.
Il decreto liberalizzazioni introduce finalmente il «price cap» anche per il calcolo dei pedaggi autostradali. Ma con un particolare non trascurabile: varrà soltanto per le nuove concessioni. Le attuali sono salve. E considerando che quella della società Autostrade scade nel 2038…
Anche le banche sono state appena sfiorate dalla temutissima «fase due» del governo di Mario Monti, se si eccettua l’imposizione di un tetto alle commissioni sui prelievi al bancomat e l’obbligo per gli sportelli che propongono alla clientela polizze assicurative di presentare anche almeno un’offerta di una compagnia concorrente.
E i petrolieri? Salvi anche loro: fulminei nel rincarare i carburanti quando i prezzi internazionali o le tasse aumentano, lentissimi nel tagliare i listini se le quotazioni internazionali scendono. Con il risultato di avere margini di profitto non sempre giustificati. Eppure erano quelli che secondo le previsioni avrebbero potuto subire la mazzata più pesante. In che modo? Consentendo ai benzinai di rifornirsi dal migliore offerente. Una disposizione scioccante, che è però prontamente evaporata. Ne potranno usufruire soltanto i benzinai che sono proprietari della pompa: 500 su 25 mila, il 2% del totale.
L’Eni non è riuscita invece a evitare lo scorporo di Snam Rete gas, la società dei gasdotti. Una operazione che viene considerata dagli esperti decisiva per arrivare a una vera liberalizzazione nel settore energetico. Ma chi pensa che sia come girare un interruttore sbaglia di grosso. Le modalità dello scorporo verranno stabilite con un decreto della presidenza del Consiglio dei ministri entro centottanta giorni. E in sei mesi possono succedere molte cose.
Per il resto, ha prevalso la logica del compromesso. Inevitabile per un governo tecnico che deve cercare i voti del Parlamento per portare a casa il risultato.

dal Corriere della Sera del 22 gennaio 2012

"Chi ha detto che il servizio pubblico è per pochi?", di Piero Angela

Ho letto l’intervento di Giorgio Gori pubblicato l’altro ieri dal Corriere con il titolo «Una Rai con il canone, una con gli spot». Una breve considerazione. Ritengo che trasformare Rai 1 e Rai 2 in reti alimentate dalla sola pubblicità e delegare il ruolo di servizio pubblico a Rai 3 (sia pure con una coroncina di reti specialistiche digitali) significherebbe affondare il ruolo che la Rai, intesa come servizio pubblico, dovrebbe svolgere.

Essendo l’unica rete pubblica rimasta, a quel punto Rai 3 potrebbe correre il rischio, come di regola avviene in Italia, di dover rappresentare «culturalmente» l’arco costituzionale (con tematiche, trattazioni, autori, dirigenti di varie «aree»?), e magari anche di diventare il terminale di tanti eventi «doverosi» (mostre, manifestazioni, premi letterari), e non potrebbe certo ignorare il teatro, i concerti, la lirica e altro.
Ma supponiamo che le cose funzionino bene, che la rete trovi una sua indipendenza, e che i programmi siano di qualità grazie agli autori e registi molto bravi che esistono in Rai. Ci sono due esempi di ottime reti pubbliche: la franco-tedesca Arte e l’americana Pbs (spesso anche noi abbiamo utilizzato dei loro eccellenti documentari): ma entrambe hanno un ascolto che oscilla tra il 2 e il 3 per cento. In Italia Tele+3, che operava in chiaro e gratuitamente, venne chiusa per mancanza di telespettatori. Anche Current Tv, la rete collegata ad Al Gore, è stata recentemente spenta. I superstiti canali specialistici su Sky hanno ascolti di poche decine di migliaia di persone (a volte molto meno). Il problema non sta tanto nella validità dei singoli programmi (che magari trasmessi su una rete generalista sarebbero seguiti) ma è la «gabbia» in cui finiscono che decreta il loro esilio e la difficoltà di arrivare a un grande pubblico.
A questo punto potrebbe sorgere un’obiezione: perché mai tutti dovrebbero essere obbligati a pagare il canone per una rete destinata a una minoranza, che è già colta e certamente non indigente? Non sarebbe un po’ come togliere i soldi dalle tasche dei poveri e metterli in quelle dei ricchi?
Ultimo punto. Il risultato finale sarebbe probabilmente quello di dirottare, di fatto, la grande platea del pubblico sulle reti di intrattenimento, cioè di allontanare proprio quel pubblico che avrebbe maggiormente bisogno di «imbattersi» in programmi di conoscenza.
Si dice spesso che il livello di sviluppo economico di un Paese si misura con il suo grado di sviluppo educativo e culturale. Noi come stiamo? Secondo una recente indagine internazionale il 71 per cento degli italiani, dal punto di vista delle conoscenze di base, non arriva neppure al livello di «mediocrità»! Su cinquanta milioni di italiani solo quattro milioni leggono libri. Per la maggior parte dei nostri concittadini, l’unico aggancio culturale con il loro tempo è la televisione.
Oggi la conoscenza è uno dei beni più preziosi. Tra l’altro è proprio il software a fare la differenza nello sviluppo delle nazioni. Una società che vuole confrontarsi con un mondo in rapida trasformazione deve riuscire a coinvolgere i suoi cittadini nella comprensione di ciò che sta avvenendo.
I programmi televisivi potrebbero fare molto per aiutare la crescita del nostro Paese. Ma a condizione di renderli visibili.

dal Corriere della Sera del 22 gennaio 2012

"La battaglia per l'Europa", di Nadia Urbinati

L´Europa sta attraversando un dei periodi più duri e complessi dalla fine della Seconda guerra mondiale. Le speranze e le attese per un futuro del continente guidato da un senso collettivo di responsabile condivisione di beni e diritti stanno paurosamente declinando. L´Europa ha cercato di essere una patria umana e libera per milioni.
E ha dimostrato di poterlo essere quando, e fino a quando, la politica democratica è stata la sua dimensione effettuale. Rischia di diventare un´esperienza di cui parlare al passato. Nel presente è già un incubo per chi vuole ancora difenderla, poiché la sua salvezza sembra costare troppo, un prezzo che è sempre più alto e che, soprattutto, appare sempre meno giustificato ai molti che si stanno impoverendo ogni giorno di più. Per che cosa pagare così tanto? La democrazia è stata la sfida che l´Europa del dopoguerra aveva voluto affrontare unendosi. La sua è stata una storia di successo. Oggi, paradossalmente, sembra che la salvezza di questa unione metta a repentaglio la democrazia.
Chi ci guadagna dalla distruzione della speranza degli europei in una patria comune? L´attacco delle agenzie private di rating fa nascere il timore fondato che l´Europa sia invisa ai mercati finanziari; che a non volerla siano coloro che sanno di avere nelle loro mani l´arma della sua sopravvivenza: il credito. L´Unione per meglio regolare il capitalismo, per metterlo al servizio dei cittadini democratici, del benessere nella libertà: questa è stata l´ambizione, il sogno coltivato dal nostro continente per più di mezzo secolo. Quel sogno non piace, né piace questa nostra ambizione a voler governare l´economia. A non piacere è in effetti proprio la politica, quell´arte tutta umana di creare ordini normativi per poter consentire a tutti di vivere come uguali in dignità, combattendo i poteri dispotici e assoluti, quali che siano; rendendo la forza soggetta al diritto, e inducendo l´interesse privato a cercare compromessi con quello pubblico. Se nel passato i poteri incontestabili erano quello religioso prima e poi quello militare, oggi il potere che preme per un dominio assoluto è quello finanziario. Quella che stiamo vivendo è la terza fase della storia della libertà; e sappiamo quante cadute e quanti arretramenti le due precedenti sono costate.
Si è scritto in questi giorni che l´America finanziaria sta mettendo sotto scacco l´Europa, che oltreoceano sta l´armata fatale. La situazione politica ed economica del Nord America, degli Stati Uniti in modo particolare, è certamente diversa da quella europea, anche perché lì la direzione politica esiste, ha sovranità ed è molto temuta dai despoti della finanza quando decide di imporre regole e reprimere le scelte speculative “criminose”. Tuttavia, le tensioni fortissime tra il presidente statunitense e il Congresso, proprio sulle politiche sociali ed economiche, fa pensare che anche gli Stati Uniti stiano attraversando una crisi epocale; una crisi che la debolezza dell´Europa potrà solo accelerare e accrescere. Sarebbe un grave errore pensare che il bene di Washington passi per la caduta di Bruxelles. È vero che nei momenti di grave necessità la solidarietà tra potenziali competitori di uno stesso bene si fa diafana. Ma non è meno vero che il senso dell´utile dovrebbe spingere a guardare oltre l´ombra del proprio naso, se vuole essere utile ragionevole e a lungo termine.
La crisi dell´Europa è un segno evidente del fatto che quella che si gioca è una lotta aperta tra democrazia e tecnofinanza, tra un potere politico pubblico e un potere privato e invisibile, un potere, per giunta, che si è alimentato di quella stessa libertà economica per mezzo della quale (e per proteggere la quale) la democrazia moderna è sorta e si è consolidata. Oggi un pezzo importante della dimensione economica si fa ostacolo di altre libertà: quella politica e quella civile. A rimetterci non sarà solo la democrazia già consolidata, ma anche quella in costruzione, come in Cina e in altre zone dell´Est asiatico dove le rivendicazioni per i diritti stanno aprendo importanti spazi di libertà. La sfida che il potere tecnofinanziario globale ha lanciato richiederebbe un´azione straordinaria e intelligente della politica globale, da parte di tutti coloro che ancora vogliono credere che oltre le piazze finanziarie ci sia una società di liberi e uguali che reclama la propria autonomia di decisione. La battaglia per l´Europa è una battaglia per la politica, per questo è una battaglia di libertà.

da La Repubblica del 22 gennaio 2012