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"Università, il problema non è la fuga dei cervelli ma l’incapacità di attrarli", di Francesco Benigno

Una circolazione sbilanciata dei talenti penalizza lo sviluppo del Paese. All’emigrazione dei ricercatori corrisponde un’immigrazione non qualificata

Da qualchetempo i giornali si occupano frequentemente del fenomeno della «fuga dei cervelli». Si indica così quella quota di giovani laureati che ha deciso di cercare una sistemazione professionale all’estero. Secondo dati dell’Aire, l’anagrafe degli italiani residenti all’estero, ogni anno 60mila giovani emigrano, e la metà di questi, circa 30mila, sono laureati. La motivazione di questo flusso è evidente: statistiche consolidate mostrano un basso tasso di occupazione giovanile in Italia, paragonabile a quello spagnolo e francese ma distante da quello tedesco o inglese; masoprattutto indicano che, mentre negli altri Paesi europei, col crescere dell’istruzione il livello di occupazione s’innalza, in Italia rimane basso, al di sotto dei livelli spagnoli e francesi. La riforma universitaria con l’introduzione del 3+2 non sembra aver portato l’effetto sperato, quello cioè di abbreviare i tempi di inserimento nel mercato del lavoro, ma pare averli allungati. Rispetto a questa preoccupante situazione, amplificata da storie emblematiche di ingiusta e talora sofferta emigrazione forzata, spesso tanto più clamorose quanto più qualificati sono i giovani che ne sono protagonisti, si levano da più parti voci che vorrebbero interventi governativi per il recupero di queste intelligenze. Il problema, si dice, non sta nel fatto che i giovani partano, ma che, una volta partiti, non tornano più; non restituiscono cioè al sistema- Paese quell’investimento finanziario ma anche culturale devoluto per la loro formazione. Negli ultimi mesi poi il tema della «fuga dei cervelli » è stato da alcuni mezzi di informazione frequentemente mescolato alla protesta dei cosiddetti «indignati », ai manifesti dei TQ (generazione dei trenta-quarantenni), e più in generale alla denuncia della degenerazione familistica, baronale e clientelare dell’università italiana. Ora, che l’Italia sia un Paese anagraficamente «vecchio», conservatore e straordinariamente poco disponibile ad accogliere le legittime aspirazioni dei giovani è innegabile, ma ragionare unicamente su questi presupposti non conduce lontano. Il problema non è tanto l’emigrazione dei giovani quanto una circolazione sbilanciata dei talenti, nella quale emigrano italiani qualificati mentre dall’altro lato giungono giovani immigrati stranieri con livelli d’istruzione meno elevati. Il problema consiste dunque meno nel recupero dei giovani italiani all’estero e più nella scarsa attrattività del sistema-Paese verso chi, giovane italiano o straniero, è alla ricerca di opportunità di occupazione a livelli medio-alti. Un esempio estremo. Il fatto che nella top-list dei primi venti scienziati italiani elaborata dalla Via (Virtual italian academy) solo una minoranza lavorino in Italia non è certo un dato positivo, ma in fondo è meno grave di un altro fatto assai meno sbandierato: e cioè che nei laboratori, istituti di ricerca e dipartimenti universitari italiani la presenza di ricercatori stranieri sia sporadica, e si sarebbe tentati di dire fortuita. Alcune scelte recenti testimoniano il mantenimento di attitudini ostili alla libera circolazione dei ricercatori. Nel recente provvedimento Gelmini (pomposamente definito «riforma ») grande cura è stata rivolta a consentire lo scivolamento degli attuali ricercatori verso le fasce superiori della docenza; minore attenzione si è prestata all’assunzione di giovani ricercatori: i nuovi posti da ricercatore a tempo determinato verranno gestiti da commissioni reclutate tra i professori della stessa università che chiama il posto. In un sistema universitario come il nostro che ha abbandonato istanze di autonomia per ricadere in un’ottica neo-centralistica, affidare a una cooptazione locale opaca (senza cioè che siano state fissate adeguate garanzie di trasparenza e di pubblicità) la selezione dei migliori delle nuove generazioni della ricerca italiana (e straniera) non è certo garanzia sufficiente che trionfi il merito. Insomma, occorre forse preoccuparsi meno della fuga dei cervelli e più delle condizioni necessarie per attrarli, i migliori cervelli, italiani o stranieri che siano.

Da L’Unità