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"La neoplebe", di Massimiliano Panarari

Uno spettro si sta aggirando per l’Italia, dal profilo non molto nitido, ma dalle azioni concretissime. Quello di un nuovo soggetto sociale, di non facile definizione e composto di figure e ceti differenti; e, d’altronde, se ci si pensa, non c’è neppure da stupirsene in questi nostri tempi che ci hanno largamente abituati alla frammentarietà. Un soggetto postmoderno, dunque, ma intorno al quale si respira una sensazione, sebbene rivista e corretta, di déjà vu che affonda le radici in tanti episodi che hanno punteggiato la storia dell’Italia premoderna.
Proviamo a dargli un nome, beninteso, senza alcun intento snobistico, ma in un’accezione quanto più sociologica possibile. Possiamo chiamarla neoplebe o, fors’anche neoproletariato, il quale, alle braccia della prole, sostituisce, quale strumento di lavoro e simbolo di rivendicazione, il taxi o il forcone. Soggetti sempre liquidi, dunque, ma che nulla hanno a che fare con i cosiddetti lavoratori cognitari, i neoproletari dell’età digitale che operano, sottopagati, nell’economia della conoscenza. In questo caso, invece, dai tassinari romani e napoletani al movimento siciliano dei forconi (che mette assieme agricoltori, camionisti e pescatori) siamo decisamente dalle parti della old economy, e di esponenti di un’economia molto tradizionale che si agitano e protestano (in maniera assai muscolare) sentendosi minacciati da quelle liberalizzazioni che costituiscono uno dei motori della crescita e dello sviluppo nelle nazioni moderne. E il nostro paese, infatti, che sottoposto alla cartina al tornasole dell’idealtipo liberaldemocratico, non risulta esattamente un paese normale, vanta una lunga tradizione di ribellismo plebeo e di jacqueries esplose in occasione di svolte senza ritorno dell’economia del passato.
Così accadde, in quel Medioevo che ricorre spesso nel dibattito culturale e politico contemporaneo sotto vesti postmoderne, con rivolte urbane come il tumulto dei follatori nella Bologna di fine Duecento e quello dei Ciompi nella Firenze della seconda metà del Trecento (gli uni e gli altri salariati del ciclo della lana posizionati al fondo della gerarchia sociale). E ancora, passando all’età moderna e miscelando opposizione politica e motivazioni economiche, con il pescivendolo Masaniello alla testa della rivolta dei “lazzaroni” e del popolo napoletano di metà Seicento e con le insurrezioni ottocentesche e primo-novecentesche nelle campagne romagnole contro gli agrari e le dure modificazioni da loro imposte nell’organizzazione del lavoro.
Il minimo comun denominatore di questo ribellismo plebeo (naturalmente non soltanto italiano) va quindi ricondotto a una resistenza reattiva e immediata all’affermazione di forme di economia capitalistiche. Quello che, mutatis mutandis, accade anche nelle piazze di queste ore, nelle quali, come spesso avviene da noi, si mescolano fenomeni di natura diversa, tra corporativismo, scomposti e aggressivi furbetti del quartierino (o su quattro ruote), populismo variamente assortito, ma anche legittimo timore di un ulteriore impoverimento da parte di alcune fasce sociali già penalizzate dalla globalizzazione, a cui vari pezzi di sinistra sociale (dalla Cgil a Vendola) o catodica (Santoro) si propongono infatti di dare voce.
A ben guardarci, dunque, all’interno di quel composito arcipelago che possiamo definire “neoplebe”, cementato dalla difesa dello status quo per evitare il peggioramento delle proprie condizioni di vita, c’è tutto e il suo contrario. Una buona ragione per affinare gli strumenti di analisi e provare a scandagliarlo senza troppa sufficienza, anche se non difetta certamente di “brutti, sporchi e cattivi”.

da www.europaquotidiano.it

"Il delirio liberista", di Paolo Bonaretti

Tra le patologie che si diffondono in questo periodo di crisi, vi è la singolare attitudine di una falsa sinistra, in realtà ultraliberista, a farsi paladina delle peggiori ricette della destra neothatcheriana e reaganiana, sepolte da oltre un ventennio perché drammaticamente fallite.
Proprio di questo fallimento, peraltro, stiamo oggi vivendo la fase più acuta e le conseguenze più nefaste. Il conato ideologico di Alessandro De Nicola su Repubblica di ieri, in forma di peana delle privatizzazioni (anzi di intimazione a vendere tutte le più importanti imprese di proprietà pubblica), appartiene a pieno titolo a questa patologia.
Nessuna persona dotata di raziocinio e in buona fede può in questi giorni proporre una campagna di privatizzazioni forzate di una parte così significativa dell’apparato finanziario e industriale strategico del Paese. L’Italia sta con fatica riconquistando un peso e un ruolo in Europa e nel mondo, e l’economia italiana ha bisogno di grandi imprese nazionali capaci di stare sui grandi scenari globali, capaci di trainare politiche industriali, per l’energia, le infrastrutture, l’innovazione tecnologica. Eni, Finmeccanica, Fintecna costituiscono punti fermi su cui appoggiare una strategia di rilancio industriale del Paese, sono tra le aziende che sviluppano la maggior intensità di ricerca, assorbono grandi numeri di capitale umano ad alta qualificazione, partecipano ai grandi programmi di ricerca e di infrastrutture a livello europeo ed internazionale. Costituiscono in sintesi uno strumento essenziale per la capacità negoziale e di crescita del Paese a livello globale.
Mettere oggi in stallo, e dunque in crisi prospettive e governance, queste imprese, semplicemente per fare cassa, costituisce un rischio sistemico inaccettabile. Che poi le privatizzazioni generino in sé efficienza è tutto da dimostrare: esistono aziende pubbliche efficienti e ben governate ed esistono aziende private inefficienti e viceversa. L’idea che la tipologia della proprietà determini in automatico la qualità dell’impresa è infondata, specie in mercati complessi dove si giocano interessi strategici nazionali. Fortunatamente il presidente Monti sa ben distinguere tra liberalizzazioni e concorrenza da un lato e privatizzazioni e ideologia mercatista dall’altro. Oggi la reputazione, la credibilità del Paese (finanche lo spread!) dipendono dalla dimostrazione della nostra capacità di crescere, di generare e distribuire ricchezza. In questo quadro le politiche economiche e industriali debbono dare quadri stabili di riferimento, puntando sulle grandi imprese nazionali come fattore di accelerazione della crescita e dell’innovazione anche del nostro sistema di piccole e medie imprese.
La privatizzazione forzata del sistema delle utilities frenerebbe invece la crescita costante e graduale di sistemi locali di imprese nel campo delle tecnologie e dei servizi energetico-ambientali e metterebbe in ginocchio la finanza locale, già fortemente colpita, mettendo in crisi il livello dei servizi alle famiglie e in definitiva la coesione sociale. Sulla privatizzazione selvaggia e senza regole dei sistemi di trasporto, il disastro del caso inglese si erge di fronte a noi, monito imperituro.
Quanto poi all’idea che tutto questo sistema di imprese in mano privata generi sviluppo ed efficienza, e addirittura aumenti di stipendi dei dipendenti (sic!), attraverso la salvifica virtù della mano invisibile del mercato è palesemente senza fondamento. Del resto deve trattarsi della medesima mano che in tutti questi anni, visti gli effetti nefasti e distorsivi, deve essere rimasta in tasca, presumibilmente dedita a pratiche onanistiche, con evidenti effetti di cecità ideologica in alcuni economisti liberisti.
Oggi abbiamo bisogno di sostenere la ricerca, lo sviluppo di economia sostenibile, l’innovazione, l’internazionalizzazione. Strutture come Cassa Depositi e Prestiti, Sace e altri (che De Nicola invece invita a vendere) sono essenziali oggi per sostenere politiche di incentivazione dei programmi e lo sviluppo di strumenti finanziari innovativi
(e già in parte lo fanno).

da l’Unità 21.1.12

Bersani: "Con Monti senza se, senza ma e senza tacere le nostre idee"

“Costruiamo la politica del domani trasmettendo fiducia e solidarietà”. Replica conclusiva del segretario Pier Luigi Bersani, all’Assemblea Nazionale del PD.

La replica del Segretario del PD Pier Luigi Bersani, ha concluso i lavori dell’Assemblea Nazionale del Partito, facendo una sintesi degli elementi emersi nei dibattiti in plenaria. (Leggi la relazione di apertura dei lavori)

Bersani ha ricordato, introducendo il suo intervento, l’anniversario della morte di Enrico Micheli, definito dal Segretario ‘un pilastro autentico delle politiche del centrosinistra, un democratico ante litteram’.

“Questa è stata una bella discussione – ha commentato Bersani – perché quando non ci sono posizionamenti, siamo un gruppo dirigente che si ascolta. È stata un’Assemblea sobria senza lazzi, frizzi e cotillons, perché in questo luogo si discute per cercare di dare la strada giusta ad un grande Partito quale è il nostro. Ieri c’è stata una raffigurazione del protagonismo e comprensione dei grandi temi europei. E in questo senso il nostro Partito possiede la tematica europea più di altri, nel panorama politico”.

Secondo il Segretario però “la domanda che è rimasta inevasa nella discussione di ieri è: perché l’ Europa è andata nell’epicentro della crisi? Dopo l’urto della crisi mondiale – secondo Bersani – si è scoperto che l’Europa non aveva le risorse per agire, e questo perché? Per istituzioni non coerenti, come diceva Gualtieri?”

Il Segretario si è dichiarato d’accordo con questa interpretazione: “C’è un deficit politico in Europa, non ci sono risorse politiche sufficienti. La globalizzazione mondiale, mentre in altri Paesi dell’America Latina ad esempio ha dato una spinta positiva, in Europa ha dato una frustrata micidiale al modello sociale europeo, trapelando una forte carenza di welfare strutturato, una tutela alta del lavoro. Questo è stato scompaginato. Inoltre – ha evidenziato il Segretario – la difesa della frustata, ogni Paese europeo se l’è fatta a casa sua, senza riconoscere nell’Europa un luogo dove si potessero difendere dei diritti acquisiti”.

“Mentre costruiamo la piattaforma europea il tema di fondo è come rifacciamo il nuovo modello di welfare. Noi come PD dobbiamo dare una mano a garantire i meccanismi di crescita tutelando lavoro e o mettendoli in equilibrio il sistema. Tutto in una dimensione europea altrimenti facciamo fatica ad uscire dalla crisi.

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Noi siamo a sostegno del governo senza se, senza ma e senza tacere le nostre idee. Più chiaro di così non si può. Siamo stati limpidi chiari e coerenti e diremo la nostra a fin di bene.

Sulle liberalizzazioni siamo entusiasti che sia un governo che sta 8 ore su un pacchetto largo di manovre che abbracciano un universo vastissimo e non 9 minuti e mezzo come il precedente governo. Proporremo in Parlamento di fare di più con emendamenti precisi.

Lavoreremo per incalzare il governo e vorremmo che non si tentasse a riscrivere la storia o a inventare le notizie. Chi ha fatto le liberalizzazioni qualche hanno fa? Sull’Enel, per la telefonia, per le banche? Lo abbiamo fatto noi con una politica coraggiosa a discapito di una destra che ha fatto solo marce indietro. Noi abbiamo il diritto di parlare!”

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Pugno di ferro contro i blocchi in Sicilia: “Capiamo il disagio, il problema, c’è stata una prima adesione anche della popolazione a una protesta che è parsa spontanea”, ha spiegato il segretario. “Ma adesso in molte zone della Sicilia un anziano che scende a fare la spesa non trova niente, ci sono blocchi e intimidazioni”, ha ricordato. Dunque, in vista dell’incontro di mercoledi’ del presidente Raffaele Lombardo con il premier Mario Monti, “o fermano il blocco o se non sbloccano si chiamano i prefetti”, ha ammonito.

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“La preoccupazione non deve diventare paura, lo ribadiamo. Bisogna esserci e senza paura. Il paese deve percepire che c’è un governo che c’è affronta le difficoltà. Mettiamoci dentro anche il calore della solidarietà. Dopo l’incompetenze e le bugie che ci hanno dato negli ultimi tre anni è bellissimo che finalmente si parla di come affrontare i problemi seriamente.

Noi siamo nel Paese. Ci fermano per strada e ci chiedono risposte. Noi siamo effettivamente a disposizione di chi ci ferma per strada. La porta della nostra casa è solida, noi garantiamo grande impegno e responsabilità.

Ci siamo rafforzati ma abbiamo davanti problemi più importanti su come è messo il paese. Basta con gli umori pessimistici, trasmettiamo solidarietà e unità. Nel panorama storico, non siamo solo un partito: noi siamo una certa idea di democrazia per il nostro paese. Stiamo testardamente portando avanti un modo d’essere di partito perché abbiamo in mente un modo d’essere di democrazia e di politica costruita sul collettivo e fuori da modelli populisti. Abbiamo un mestiere che nessun altro può fare. Come gruppi dirigenti dobbiamo trasmettere fiducia e solidarietà. Solidarietà significa sentirsi definitivamente un partito. Andiamo avanti”.

da www.partitodemocratico.it, articolo di Andrea Draghetti e Maria Antonella Procopio

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“Bersani: «Noi ci siamo e ci saremo per costruire la nostra alternativa»”, di Mariantonietta Colimberti

Il leader all’Assemblea del Pd: cambiare la legge elettorale, e col Porcellum faremmo le primarie

Un’assemblea dovuta ma densa di contenuti, quella che si è aperta ieri alla Nuova Fiera di Roma con il pomeriggio dedicato all’Europa e che continuerà oggi con la mattinata sull’Italia. Eppure mai come in questa fase le due tematiche sono apparse fortemente intrecciate, indissolubili. Perché il legame tra la realtà sovranazionale e quella nazionale è diventato prioritario in tutta l’Unione europea e tanto più nei paesi dove la crisi morde di più, e perché il passaggio dal governo Berlusconi al governo Monti ha avuto – ed ha – una connotazione di necessità e urgenza segnata dall’Europa.
È questa la prima lettura che l’evento suggerisce; l’altra, non disgiunta da questa, è il bisogno, sentito da Pier Luigi Bersani e dallo stato maggiore del partito, ma anche dai membri dell’assemblea, di capire ed esplicitare cosa il Pd dovrà fare nell’anno che verrà, visto che questo è l’orizzonte che si è dato e che Bersani ha ribadito anche ieri.
Partendo dalla realtà, che è una realtà difficile. La preoccupazione per la crisi economica e per le misure che il governo ha adottato è presente nei filmati che scorrono sul grande schermo sopra al palco, prima che l’assemblea abbia inizio con l’inno di Mameli, come ormai è consuetudine: persone anziane alle prese con la riforma pensionistica, lavoratori in mobilità angosciati per il futuro. Le loro immagini si alternano a quelle di altre persone comuni, di età e professioni diverse, scelte per la campagna del tesseramento 2012: “Ti presento i miei”.
Un frame ripreso dalla presidente Rosy Bindi, che in apertura del suo intervento “presenta” lo stato maggiore del partito sul palco – Bersani, Letta, Sereni, Franceschini, Sassoli, Scalfarotto e Finocchiaro – quasi per ribadire un’identità e dissipare gli equivoci; mentre rivendica il ruolo svolto dal Pd per arrivare alla sostituzione del governo Berlusconi, assicura il sostegno leale al governo Monti, ma chiarisce: «Noi siamo qui ma non siamo questo, noi non siamo il governo Monti. Noi lavoriamo per l’alternativa!».
E a Casini manda a dire: «Non sarà questa la maggioranza che sosterrà il prossimo governo. Vinceremo le elezioni noi». «L’Italia innanzitutto. Uscire dall’emergenza, preparare la ricostruzione », slogan dell’assemblea, è il filo conduttore dell’intervento di Bersani. Ricorda, il segretario, «come siamo arrivati sin qui», contro i tentativi di «chi sta tentando di riscrivere la storia e cronaca recenti». Spiegando il senso politico del passaggio avvenuto e delle scelte compiute, vuole fugare i dubbi di quanti dicono che la politica è stata messa da parte. «Non è così – dice Bersani – noi ci saremo». Parla di una «manovra pesante da correggere » in Italia, di liberalizzazioni che appaiono un po’ troppo timide e di dialogo sociale sulla riforma del mercato del lavoro, ma parla anche della piattaforma da costruire in Europa: «È aperta una partita drammatica e non si può affidarla solo a Bruxelles».
Sulla legge elettorale, la priorità è cambiare il Porcellum, ma se questo si rivelasse impraticabile, dà «per assunto» che i candidati saranno scelti con le primarie. Infine, il partito e le alleanze: la proposta resta quella di «un patto di legislatura fra forze progressiste e moderate», ma «nessuno potrà pensare di prendere alle spalle il Pd in un passaggio delicatissimo del paese, perché tutto poi torni semplicemente come prima». Di Pietro, e forse non solo lui, è avvertito. L’appello conclusivo è rivolto in casa: «Non passiamo il tempo a guardarci dal lato dei difetti. L’Italia ha davvero bisogno di noi». Poi, il dibattito non scontato sull’Europa con ampia relazione di Lapo Pistelli e conclusioni di Massimo D’Alema. Oggi l’Italia, con gli altri big, e forse sulla natura e l’orizzonte del governo Monti si ascolteranno voci e sensibilità diverse.

da www.europaquotidiana.it

"I forconi e la bandiera", di Mila Spicola

A tre anni mi avventurai su un cornicione, la finestra del bagno era aperta e uscii, abitavamo al terzo piano. Fu un falegname a “salvarmi”, aveva il laboratorio al piano terra. Sangue freddo, citofonò a mia madre «non si allarmi, chiami subito i vigili del fuoco, si affacci dalla finestra del bagno e non urli, sennò la spaventa». Mia madre e quell’uomo riuscirono a tenermi ferma con calma, cautela e sottovoce. Fino a quando, in silenzio, arrivarono i pompieri. Spero di riuscire a trovare la stessa chiave efficace per dire alcune cose. Con cautela, sottovoce ma con tono fermo. Per non provocare reazioni inconsulte ma solo riflessioni pacate. A Palermo alcuni studenti, aderenti per solidarietà alla manifestazione dei forconi, ieri mattina hanno bruciato la bandiera italiana in segno di protesta «contro lo Stato che affama la gente». Nel bene e nel male mi sento di stare con loro ma solo per dire, con cautela, calma e fermezza: «Ragazzi state sbagliando». Ci sono tutte le ragioni perché uno studente siciliano oggi protesti. Tutte: il nodo è trovare i modi e le direzioni. Negli ultimi anni molti hanno protestato per tanti motivi ma, nulla togliendo alle motivazioni valide di altre rivendicazioni, ritengo che solo il movimento studentesco abbia avuto i caratteri di autonomia, libertà e verità, checché ne pensi chi li abbia accusati di “ideologismo politico”. Ben venga l’ideologia quando si tratta di difendere diritti offesi o istituzioni maltrattate quale sono stati l’istruzione e la scuola. Oggi mi è sembrato invece che fini, mezzi e ragioni si siano confusi in modo poco condivisibile. Cosa vuol dire bruciare la bandiera? Vuol dire disconoscere alcuni fondamentali della democrazia di questo Paese, oppure peggio, conoscerli e calpestarli. Vuol dire confondere le azioni dei governi, temporanei, con l’essenza dello Stato, stabile e garanzia indiscussa dell’identità della nostra nazione. Stato come espressione di coesione sociale, di comunità, di nazione, di storia individuale e collettiva da difendere anche con la morte. Ne sono consapevoli quei ragazzi? Immagino siano stati solo alcuni tra loro. Ma giusto per sapere se hanno chiare, gli altri, le ricadute dei gesti, specie quando si scagliano contro simboli molto ma molto seri. Art. 12 della Costituzione Italiana: la nostra bandiera. Si trova tra i principali articoli della Carta, quelli che riguardano diritti e doveri dei cittadini. Non uno di quei diritti e di quei doveri può essere leso, nemmeno in nome della difesa di un altro diritto. Il diritto al lavoro così come il diritto alla cultura camminano insieme al dovere di onorare Stato e Istituzioni. Sì, lo so, il vero nodo di questi ragazzi è che nessuno si è preso carico di difendere i loro diritti. Non lo hanno fatto pienamente i governi che si sono avvicendati e non lo hanno fatto i luoghi deputati da quella stessa carta ad essere luogo di “espressione dell’attività politico democratica” cioè i partiti, sempre più ammalati al loro interno da “regole” non dichiarate di cooptazione, esclusione, organizzazione che spesso poco hanno a che fare con gli aneliti di espressione libera e democratica e molto hanno a che fare con la guerra tra bande interna. Ciò accade in Sicilia almeno. Persino la protesta dei forconi, di per sé, nelle ragioni e nelle motivazioni, sacrosanta, se ne macchia e diventa poco comprensibile quando la sostanza si colora di tali forme. Quando si esprime urlando e con atti di prepotenza, quando si ritorce, nelle ricadute, solo sulle persone comuni e non sui diretti responsabili. E allora allo stesso modo è il caso di scegliere non solo altri rappresentanti ma anche altre istanze: non individuali o di parte, ma collettive e democratiche. Posare i forconi e levare le penne, come anche i pensieri e le parole, in modo sano e giusto, in virtù di bene comune e collettività, nel segreto dell’urna se non si ha il coraggio di dichiararlo anche fuori. Io dico a questi ragazzi: state attenti e cauti, il cornicione delle regole democratiche, del senso dello Stato è altissimo e impervio e voi siete lì lì per cadere. Certo, si può dire che avete dovuto salir fin lassù per farvi ascoltare, ma non esiste ragione per buttarsi giù. Nessuna ragione. C’è chi ci ha perso la vita col viso aperto nel difenderlo quel cornicione, quello Stato e quelle Istituzioni. La bandiera ne reca memoria, sangue e speranza.

da L’Unità

"Missioni all’estero, si cambia passo", di Federica Mogherini

Tradizionalmente, sul tema della partecipazione italiana alle missioni internazionali si esibisce la continuità. Quasi che restare saldi nel solco tracciato da chi “c’era prima” fosse di per sé un valore. Forse perché questo è stato, finora, l’unico modo per evocare un consenso trasversale, bipartisan. Ma oggi, con un governo che non ha radici nei partiti ed un inedito sostegno parlamentare – trasversale per nascita, libero negli orientamenti per aspirazione – proclamare la continuità non serve più.
E così, al netto di qualche arrampicata sugli specchi che tenta Frattini (in preda ad un’imbarazzante crisi di ruolo che lo porta a fare il relatore parlamentare di un provvedimento che fino a due mesi fa firmava da ministro) e che La Russa per una volta si risparmia, la discontinuità è libera di venire allo scoperto.
Cosa c’è di così diverso, in questo decreto missioni? Molte cose, alcune fondamentali. Innanzitutto una piccola grande formalità: dopo tre anni di frammentazione del finanziamento, che era arrivato a volte a coprire anche solo uno o due mesi, il decreto dà ai militari e ai civili italiani che operano in teatri di crisi – ed ai nostri partner internazionali – un anno di certezze, rifinanziando quel fondo missioni che il governo Berlusconi aveva di fatto abolito. Sembra un dettaglio, ma è un grande segnale di affidabilità e serietà – che, di questi tempi, non guasta. Poi, due grandi affermazioni di principio: da una parte la necessità di un approccio “integrato” alla sicurezza – ovvero non solo militare ma anche e soprattutto diplomatico, civile, attento ai fattori di sviluppo economico e all’affermazione dei diritti umani.
Dall’altro, l’esigenza non più rinviabile di procedere speditamente sulla via dell’integrazione europea nel campo della difesa. Se si pensa alla sufficienza con la quale La Russa trattava questi temi, la discontinuità appare in tutta la sua evidenza. Ma entriamo nel merito: si tagliano quasi duecento milioni rispetto al 2011, facendo delle scelte selettive – l’opposto della logica dei tagli lineari cari a Tremonti. Cresce l’investimento in cooperazione civile, sia nel teatro dell’Afghanistan e del Pakistan sia nelle altre aree di crisi: 22 milioni in più non sono un’enormità, ma in rapporto ai fondi quasi inesistenti della cooperazione non sono pochi e, soprattutto, invertire la tendenza in un anno di difficoltà di bilancio come questo è un grande segale politico. Si rifinanzia, con un incremento, il fondo per lo sminamento. Parallelamente, diminuisce la spesa per la componente militare delle missioni, ma con delle scelte selettive. Cala di circa 200 unità la presenza militare in Afghanistan, coerentemente con il progressivo passaggio di consegne alle autorità afghane in molte zone del paese e con la riduzione degli altri contingenti Isaf; si pone termine ad alcune missioni minori, ormai esaurite dal punto di vista militare – come in Iraq, dove restano in piedi solo progetti di cooperazione civile; in Libano, pur assumendo il comando della missione Onu, si riduce il numero dei militari, ma meno di quanto prevedesse di fare il precedente governo – in virtù della maggiore instabilità dell’area che dal confine Libano-israeliano si estende fino alla Siria.
E poi, si sceglie di aumentare la presenza militare in aree strategiche per l’Italia e per l’Europa, dove il nostro valore aggiunto è riconosciuto sia dagli interlocutori locali sia dalle organizzazioni internazionali, e dove il rapporto costi-benefici è più alto: penso ai Balcani, di cui il precedente governo si era scarsamente occupato, o al sud Sudan.
Infine – last but not least – la Libia. Delle contraddizioni del governo Berlusconi è difficile dimenticarsi, dal baciamano in poi. Il governo Monti non può che avere tra i suoi obiettivi principali quello di ricostruire una credibilità perduta anche qui, nel mediterraneo, con quei paesi oggi impegnati in transizioni difficili e non univoche – dall’Egitto alla Tunisia, passando per la Libia, dove Monti sarà in visita ufficiale domani. Finito, mesi fa, l’intervento militare, oggi è prioritario dare seguito alle altre, successive risoluzioni delle Nazioni Unite: sostenere la nuova Libia nel momento più critico, quello della ricostruzione, della riconciliazione nazionale, della formazione di una struttura amministrativa e delle forze di polizia, dello sminamento del territorio e della bonifica dall’enorme quantità di armi in circolazione nel paese.
Per questo prevedere già per il 2012 un impegno, seppur minimo e ancora molto flessibile, di assistenza civile e militare alla complicata e delicata fase di costruzione della nuova Libia è una scelta saggia e lungimirante, che ben si accompagna alla volontà di recuperare un ruolo credibile e positivo nella regione del mediterraneo.
Dalle prossime settimane, superato il passaggio di ridefinizione della nostra partecipazione alle missioni internazionali, andranno affrontate altre ed altrettanto importanti questioni, a cominciare dalla revisione del sistema di difesa e, conseguentemente, della razionale allocazione delle risorse tra le diverse voci di bilancio, per finire con la rimodulazione di alcune scelte sulla produzione e l’acquisto dei sistemi d’arma – compresi gli f35. Il ministro Di Paola ha giustamente indicato nella prossima riunione del consiglio supremo di difesa prevista per l’8 febbraio un passaggio cruciale per questo processo. Toccherà contestualmente al governo e al parlamento svolgere una revisione del sistema di difesa che sia complessiva, razionale e trasparente.

Limidi, domenica incontro sui temi legati alla manovra economica

Partecipano la parlamentare Manuela Ghizzoni e il coordinatore Pd di zona Alberto Bellelli

Appuntamento domenica 22 gennaio, dalle ore 10.00, al Circolo polivalente di Limidi per parlare delle ricadute economiche e sociali della manovra economica messa a punto dal governo Monti

“Il governo Monti e la manovra economica: le ricadute economiche e sociali, le proposte del Pd”: è questo il titolo dell’incontro che si terrà domenica mattina a Limidi organizzato dal circolo Pd di Limidi e Sozzigalli. Ne discuteranno la parlamentare del Pd Manuela Ghizzoni, membro della Commissione cultura, scienza e istruzione della Camera e Alberto Bellelli, coordinatore Pd dell’Unione Terre d’Argine. L’appuntamento è per domenica 22 gennaio al Circolo polivalente di Limidi a partire dalle ore 10.00.

Ufficio Stampa PD Modena

“Donald Sassoon «È fallito un modello che pareva invincibile»” di Umberto De Giovannangeli

Parla lo storico inglese: in Italia il dibattito è condizionato da un pensiero debole, e quindi subalterno. Tempo fa non sarebbe accaduto, il Pci era più cosmopolita

Le cose vanno chiamate per ciò che sono, e analizzate per la loro portata, evitando di restare prigionieri, sia sul piano politico che su quello culturale, di un pensiero così debole da apparire subalterno. Non c’è dubbio che siamo di fronte alla crisi del capitalismo occidentale, sia nella sua versione americana che in quella europea, e mi riferisco in particolare ai Paesi dell’eurozona. E un pensiero critico deve essere all’altezza di questa crisi». Leggi…