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"Dall´operaio alla commessa i due milioni di lavoratori con le dimissioni in bianco", di Maria Novella De Luca

Colpite soprattutto le donne-mamme. “Ricatto intollerabile”. Le regole distorte

Accade nei cantieri, nei negozi, nei centri commerciali, nelle botteghe artigiane, nelle imprese. Tra le ricamatrici di abiti da sposa di Barletta come tra gli operai metalmeccanici di Terni. Nelle aziende in crisi ma anche in quelle sane. Dove ci sono 10 dipendenti, ma anche 50. Al Sud e al Nord. Si chiamano “dimissioni in bianco”.
Che cosa si può fare oggi concretamente per difendersi da questo sopruso?
Cos´è questa prassi illegale e come si fa ad attuare una distorsione delle regole tanto evidente?

Sono una delle piaghe più sommerse e invisibili del mercato del lavoro in Italia, la clausola nascosta del 15% dei contratti a tempo indeterminato, un ricatto che colpisce due milioni di dipendenti, in gran parte donne.
Ricorda Fabrizio B., meccanico specializzato di 34 anni, oggi a contratto in una grande acciaieria umbra: «Con un´unica penna ho firmato la mia assunzione e le mie dimissioni, la speranza e la condanna, sapevo che era un ricatto, sapevo che era illegale, ma avevo due figlie piccole, un mutuo, e il bisogno, disperato, di uno stipendio. Era il 2003: cinque anni dopo, quando mi sono opposto a turni di lavoro disumani, il mio principale dopo mesi di mobbing ha tirato fuori la lettera e ci ha messo la data. Sono stato cacciato, ma in realtà risultavo “dimesso”. E dunque senza possibilità di oppormi, di avere né disoccupazione né altro… Ho impiegato anni per riprendermi, il mio matrimonio è fallito, ho rischiato di perdere la casa. E oggi ancora ne porto i segni».
Si annida dappertutto il fenomeno delle dimissioni in bianco, rappresenta oltre il 10% di tutte le controversie di lavoro dei patronati Acli, il 5% di quelle degli uffici vertenze della Cisl, spunta come una gramigna cattiva da ogni interstizio produttivo, tra le commesse dei negozi di lusso come tra gli impiegati delle agenzie di servizi, nell´edilizia senza regole che cementifica le nuove periferie, ma anche nelle botteghe artigiane dell´orgoglio made in Italy. E nell´80% dei casi resta un reato impunito e taciuto. Ma che cosa è questa prassi illegale che coinvolge il 60% delle lavoratrici donne e il 40% dei lavoratori maschi, la manodopera operaia, tessile e artigiana, ma si estende anche, e con una percentuale del 25%, al personale impiegatizio di piccole e medie aziende? Come si fa a ricattare così un lavoratore, ma soprattutto una lavoratrice (le donne spesso vengono “dimissionate” non appena tornano dalla maternità) con una distorsione delle regole tanto evidente che il ministro del Lavoro Fornero, su pressione di diversi gruppi di donne, ha annunciato a breve un provvedimento per rendere impossibili le dimissioni in bianco?

La promessa e l´inganno
«In pratica – spiega Pasquale De Dilectis, direttore provinciale del patronato Acli di Napoli – al momento dell´assunzione le aziende fanno firmare al lavoratore un foglio completamente in bianco, o magari una pagina già compilata ma senza una data, in cui il neo dipendente presenta le proprie dimissioni. Questa lettera viene custodita dal titolare che così può decidere, in ogni momento, di mandare via quell´operaio senza doverlo licenziare, e dunque mettendosi al riparo da cause e contenziosi…». Perché è difficilissimo, una volta firmata una lettera autografa, dimostrare che si è stati costretti a quel gesto, e spesso patronati e sindacati non possono fare altro che “raccogliere” la storia di quell´uomo o quella donna ricattati e beffati da padroni senza scrupoli. E si può essere “dimissionati” per decine di pretesti, ma i motivi più frequenti sono la nascita di un figlio, una malattia, l´età, i rapporti con il sindacato. O semplicemente, anzi cinicamente, raccontano ancora alle Acli, «per lo scadere dei benefici della legge 407 del 1990, che permette ai datori di lavoro che assumono a tempo indeterminato di non pagare per 3 anni i contributi al neo-dipendente che viene coperto direttamente dall´Inps». Passati quei mille giorni la lettera salta fuori e il lavoratore diventa carta straccia, avanti il prossimo per poter “rubare” i benefici di legge.

Cacciate dopo la maternità
Ottocentomila donne nate dopo il 1973 hanno raccontato all´Istat di essere state licenziate o costrette a dimettersi dopo la maternità. In quel momento strategico in cui, compiuto l´anno del bambino, le donne non sono più protette dalla legge 1204 del 30 dicembre 1971, sulla “Tutela delle lavoratrici madri”, e dunque le aziende sanno che sia le “dimissioni in bianco” sia i licenziamenti diventano meno attaccabili e sanzionabili. «Il dato è davvero critico – commenta Linda Laura Sabbadini, direttore del dipartimento di Statistiche Sociali e Ambientali dell´Istat – perché questa condizione sta addirittura peggiorando tra le donne più giovani».
«Se penso che in azienda l´abito da sposa me lo sono cucito e ricamato da sola, seta Mikado e fiori di madreperla, e poi la titolare lo ha messo in collezione, ancora mi viene da piangere». Sì, perché Adele Ferri, che oggi ha 30 anni, in quella piccola ditta di alta sartoria nota in tutta la Puglia, aveva cominciato a lavorare a 15 anni, «come succede da noi, a Barletta, mia nonna diceva che avevo le mani d´oro, mi hanno preso come lavorante, nemmeno il corso ho fatto tanto ero brava, ma un contratto vero, anche se a termine, me l´hanno fatto soltanto a 18 anni».
Corre veloce Adele, sacrifica alla “ditta” amici, vacanze e domeniche, ma lo fa con passione, perché, racconta oggi nello studio del suo avvocato, «sapevo che mi stavo creando un futuro, un posto di lavoro, intorno a me c´erano soltanto tanti giovani disoccupati, mi sentivo quasi fortunata». Accade però che a 22 anni Adele si fidanza, e la titolare a sorpresa la convoca. «Mi disse che voleva farmi un regalo, ora che stavo per formarmi una famiglia, io che per lei, così ripeteva, ero come una figlia: un contratto a tempo indeterminato, ma che dovevo anche firmare una lettera in cui mi dimettevo, ma soltanto così, per sicurezza, l´avevano già fatto tutte le altre, e figuriamoci se si sarebbe mai privata di una come me. Accettai, delusa, ma ancora mi fidavo». A 23 anni Adele si sposa, a 25 resta incinta. «Ho lavorato fino all´ottavo mese, quasi non riuscivo più nemmeno a piegarmi per provare i vestiti alle clienti, ero già in maternità e ancora mi chiamavano». Nasce Alex, e Adele cambia. Prende l´aspettativa. Torna in ditta ma non ce la fa più. Chiede di non fare gli straordinari, esige che il contratto di lavoro venga rispettato, chiama il sindacato. «Era febbraio, erano i giorni di Carnevale, e la titolare tirò fuori quella lettera: da domani tu vai a casa, non ti riconosco più, non voglio guai qui… Nove anni sepolti in un attimo e oltretutto con la mia firma… Ho avuto la depressione, ma poi sono riuscita a risollevarmi e sto iniziando una causa, nell´attesa di aprire un atelier tutto mio».

La legge cancellata
Contro la piaga endemica delle dimissioni in bianco, che, stima Luana Del Bino dell´ufficio vertenze della Cgil di Pistoia «riguarda il 15% di tutti i contratti a tempo indeterminato», quindi circa due milioni di lavoratori, il governo Prodi aveva varato una legge illuminata, la numero 188 del 17 ottobre 2007. Titti Di Salvo, oggi nell´ufficio di presidenza di Sel, era stata la relatrice di quella legge, fatta di un solo, ma essenziale articolo. «Ciò che veniva imposto è che le dimissioni fossero presentate su moduli identificati da codici numerici progressivi e validi non oltre 15 giorni dalla data emissione. Per evitare appunto la data “in bianco”. Purtroppo la legge entrò in vigore soltanto all´inizio del 2008, poco prima che si sciogliessero le camere. Eppure l´aver semplicemente annunciato sanzioni e provvedimenti contro la prassi delle dimissioni in bianco aveva già avuto un effetto deterrente. Ma è stato solo un momento, perché il primo provvedimento del governo Berlusconi – dice con amarezza Titti Di Salvo – è stata proprio la cancellazione di quella legge, ad opera del ministro Sacconi».
Un colpo di spugna che unito alla crisi, ricorda Amedeo Contili delle Acli di Terni, ha inabissato il fenomeno ancor di più, «peggiorando le condizioni delle donne dopo la maternità, degli immigrati e di chi lavora nell´edilizia, con l´aggravante che questi lavoratori non possono accedere né alla indennità di disoccupazione, né ad altri ammortizzatori sociali». Ma che cosa si può fare allora per difendersi da questo sopruso, dal ricatto di quelle lettere firmate per bisogno e per disperazione, nell´attesa che il ministro Fornero davvero intervenga contro questa piaga?

Gli 007 della Cgil toscana
All´ufficio vertenze della Cgil di Pistoia, che già nel 2007 raccolse i dati nazionali del fenomeno, alle dimissioni in bianco hanno dichiarato guerra. Vincendo decine di cause contro aziende fuorilegge. «Attraverso un tam tam capillare sui giornali locali, nelle fabbriche, nelle radio, ovunque, cerchiamo di informare i lavoratori, e li spingiamo comunque a venire da noi nonostante abbiano firmato quelle lettere al momento dell´assunzione. Quello che suggeriamo loro – spiega Luana Del Bino – è di inviare con una raccomandata postale una dichiarazione autografa all´ufficio vertenze, in cui denunciano di essere stati costretti a firmare un foglio di dimissioni in bianco, in quel giorno e in quell´azienda. Noi non apriamo queste buste, le mettiamo in cassaforte, ma quando il titolare di un´impresa decide effettivamente di “dimissionare” un proprio dipendente, noi ci presentiamo con quella lettera che abbiamo custodito per anni… E ci vuole poco ai consulenti del lavoro per capire che l´azienda è in torto e il reato è la truffa. Siamo anche arrivati alle perizie calligrafiche. E molti lavoratori hanno così riavuto il loro posto. Ma è sempre e soltanto una goccia nel mare».

I ricattati del Sud
Non gli era sembrato vero ad Antonio P., 45 anni e 4 figli, una casetta condonata in un piccolo comune del Casertano, vent´anni di matrimonio con Anna, di ricevere quella proposta di lavoro a tempo indeterminato. È un buon manovale Antonio, lo conoscono tutti, «per campare la famiglia onestamente non mi sono mai tirato indietro, sempre in lista al collocamento, ho sempre fatto di tutto, i miei figli studiano, sono bravi ragazzi, ma mai nessuno che mi avesse messo in regola, solo impiego a giornata, contratti a termine e spesso scoprivo che erano finti…». Ma questa volta è diverso. Chi lo chiama è il titolare di una nota ditta di manutenzione stabili. «Antò, mi hanno affidato un grosso lavoro di pulizie, questa volta ti assumo». Antonio si fida, è quasi felice, da mesi non guadagna, l´edilizia è in crisi, i cantieri fermi. O sequestrati. Il giorno dell´assunzione però il titolare svela le carte. «Antò, devi firmare anche le dimissioni, senza data, perché quando finiscono i contributi dello Stato, te ne devi andare, mi dispiace, ma io non ce la faccio, però ti conviene, almeno per un po´ guadagni…». Antonio è confuso, deluso, prende tempo, torna al collocamento, parla con i volontari della parrocchia che aiutano i disoccupati a districarsi tra le norme e i contratti.
«Mi consigliarono di pensarci bene, dicendomi sì che era un ricatto schifoso, ma anche che così potevo portare i soldi a casa, con 4 figli non si scherza, finisce che prima poi devi chiedere un favore a qualcuno e allora sì che è un macello… Quella sera ho discusso con Anna, era stanca, sfinita, tutto il giorno a correre per fare le ore nelle case, negli uffici. Abbiamo capito di non avere scelta, meglio questo che la fame o la delinquenza: ho firmato quella lettera scritta al computer e su cui prima o poi il mio principale metterà la data. I mesi di contributi agevolati che lo Stato dà per il mio contratto scadono a giugno: dopo c´è il nulla… No, anzi, c´è la comunione di mia figlia Laura. C´è il vestito, il pranzo, i confetti. Magari trovo un prestito…» .

da la Repubblica

"Sul Fatto vignetta anti Pd con Schettino: è polemica", di Andrea Carugati

Il quotidiano pubblica una vignetta con il comandante della tragedia che tarocca la campagna dei Democratici. I militanti: «Sciacalli».

Una vignetta che non fa ridere. E un piccolo caso politico che si apre. Con i militanti Pd che s’infuriano sul web contro il Fatto Quotidiano. Che stavolta, nella sua furia iconoclasta contro la politica e i partiti, ha ceduto al cattivo gusto. Eccola qui la vignetta incriminata. Fa il verso alla nuova campagna Pd «Ti presento i miei», volti e nomi di iscritti utilizzati come testimonial per la nuova campagna di tesseramento. Una campagna un po’ sfortunata, a dire il vero. Iniziata con una seria di affissioni ermetiche sui muri della Capitale («Conosci Faruk?», Conosci Eva?) e terminata con lo svelamento dei volti titolari dei nomi, quelli di veri iscritti ai democratici. Il Fatto ha deciso di taroccare a modo suo la campagna Pd. E tra i testimonial ha inserito il famigerato Comandante Francesco Schettino, «52 anni, il suo sport preferito è l’inchino», col faccione in primo piano sul finto manifesto. La vignetta è opera di Sarx88, un giovane blogger che collabora abitualmente con il giornale.

IL POST SU FB RIMOSSO DAL “FATTO”
Al Pd l’hanno presa malissimo. «Sciacallaggio», scrivono numerosi militanti sulla Rete. «Voglio sperare che domani il Fatto quotidiano (ma potrebbe anche farlo oggi sulla rete), esca con le scuse al Pd, da rivolgere in particolare ai suoi iscritti ed elettori e ai parenti delle vittime della tragedia della Concordia. Ciò che ha pubblicato oggi era francamente offensivo e di cattivo gusto», ha scritto su Facebook il Responsabile comunicazione Stefano Di Traglia. Una militante, Anna Rita Leonardi, ha scritto un post sulla pagina Fb del Fatto, che però è stato rapidamente rimosso: «Complimenti per il cattivo gusto della vignetta. Per quale motivo associare la figura di un possibile assassino a un partito politico? Chi vi dà il diritto di offendere milioni di persone in questo modo?». Anche un’altra internauta, Mariapaola Bono, denuncia la “censura” da parte della pagina del Fatto. E Nicola Ucciero ironizza: «Hanno già cancellato il post di Anna Rita, complimenti a questi partigiani della democrazia».

Cristiana Alicata, blogger e militante nel Pd di Roma, fortemente critica sulla campagna promozionale del suo partito (soprattutto per le affissioni abusive avvenute nella Capitale), stavolta prende le difese del Pd. E arriva a proporre una querela per diffamazione: «Il Fatto raggiunge soglie indegne del giornalismo, e che mi fanno profondamente schifo. Non è satira, è un accostamento volgare. Per me è diffamazione». Concetto condiviso dal segretario del circolo Pd di Roma Carla Bono, che parla di «vergogna, codardia, vigliaccheria», e invita il partito a intentare un risarcimento oneroso ai danni del Fatto, per poi devolvere il ricavato ai familiari delle vittime della nave Concordia.

Su Facebook c’è addirittura chi, come Andrea Canali, propone una class action degli iscritti Pd contro il quotidiano. Anche il profilo Fb dell’autore della vignetta, Sarx88, è preso di mira dalle critiche. Non manca chi solidarizza con l’autore e con il Fatto. Come Nico Pisanelli, che ironizza: «E quanto siete permalosi, è satira. Tutti emuli di D’Alema che denunciò Forattini?». Alcuni militanti Pd rendono pan per focaccia al vicedirettore del Fatto Marco Travaglio. E lanciano un nuovo finto manifesto con il volto del giornalista e la scritta: «Marco, giornalista, si dichiara di destra… Il suo sport preferito? Parlare male del Pd. Quelli come lui non li vogliamo». Se non ci fossero di mezzo Schettino e una immane tragedia, ci si potrebbe persino ridere su…

da www.unita.it

"Il paradosso dei partiti nella rete delle lobby", di Carlo Galli

VIVIAMO il tempo della politica dei paradossi. Quello di Monti è un governo espresso dalle élites che si sono sganciate dalla miscela di populismo e corporatismo, vera fonte di legittimazione dell´esperienza berlusconiana. Eppure, questo governo è il più qualificato a operare in nome della salus populi, della salvezza di tutto il popolo. Élites e popolo non stanno su opposte barricate, quindi; nonostante le furiose proteste di influenti lobby e di parti non piccole della popolazione davanti alle ipotesi di intervento sui mali sociali che la politica ha lasciato incancrenire (evasione, corruzione, particolarismo corporativo), il governo gode (ancora) di una popolarità maggiore di quella che lo stesso premier si aspetterebbe. Così, l´esecutivo – che fisiologicamente dovrebbe essere di parte, ossia l´espressione di un preciso orientamento politico – è oggi un´istituzione relativamente universale, mentre il parlamento è la rappresentanza di una frammentazione sociale e civile che i partiti non riescono a ridurre.
Un ulteriore paradosso è che, a fronte del rispetto che ancora circonda il governo, i partiti siano invece investiti da un´ondata di astio contro la Casta, che è alimentata sia da errori dei politici sia da campagne che giungono ormai al qualunquismo. Eppure, sono proprio i partiti a cercare di salvaguardare – chi più, chi meno: il Pdl sembra più aderente del Pd alle ragioni di piccole e grandi lobbies – gli interessi della propria base elettorale. Insomma, nonostante i partiti sostengano il governo – ma l´impegno che vi mettono non è identico in tutti: qualcuno (il Pd) in questa fase ha guadagnato posizioni, e qualcun altro (il Pdl) le ha perse –, non sembra stia lì, per ora, la sostanza della politica italiana. Che non sta neppure nei partiti di opposizione: si pensi alla Lega, che dà la dimostrazione della massima secondo cui il potere logora chi non ce l´ha.
Quella sostanza, per esile che sia, sta, invece, proprio nel governo; che ha una legittimità formale (ha la maggioranza in Parlamento, a parte i recenti incidenti); che ha una legittimità davanti al momento presente, cioè davanti a quella particolare contingenza che è l´emergenza economico-finanziaria (il “caso di necessità”, che non può azzerare ma che può tentare di gestire); e che può avere una legittimità rivolta al futuro, se riuscirà a sbloccare l´Italia, a civilizzare le corporazioni, a bonificare la società. È evidente a tutti, infatti, che questi compiti fanno parte essi stessi dell´emergenza: che non nasce solo dai conti in rosso, ma anche dalla semiparalisi di una società disuguale, frammentata, statica. Come è anche evidente che per fare dell´emergenza un´opportunità il governo non ha in sé sufficiente energia, e ha bisogno dei partiti; i quali dovrebbero assecondare di fatto i provvedimenti governativi; il che, se avverrà, attirerà ancora di più su di loro la rabbia dei cittadini, e li delegittimerà ancora di più. D´altra parte, la tentazione di far saltare il governo e andare alle elezioni (forte nel Pdl) è tenuta a freno dalle conseguenze catastrofiche che questa scelta potrebbe generare. Insomma, in questa fase, i partiti sono destinati – che abbiano comportamenti altruistici o particolaristici – a essere il bersaglio della frustrazione dei cittadini.
Ora, senza partiti, o con partiti allo sbando, si riprecipita nel populismo, della cui dannosità come forma di governo ormai noi italiani dovremmo sapere qualcosa. Ma per recuperare credibilità a breve non c´è che una strada, per i partiti: che anch´essi si sottomettano a sacrifici, e che anch´essi si adeguino all´esigenza di sbloccare la vita del Paese. Anziché ipotizzare una palingenesi del ceto politico, è più realistico pensare che la Casta rinunci a qualcuno dei privilegi; ma ciò è in parte già avvenuto e non è sufficiente, e in ogni caso tocca i politici in quanto singoli. Il vero sacrificio strutturale, la vera liberalizzazione che potrebbe anche essere una liberazione d´energie civili e politiche, è un´altra: è la riforma della legge elettorale, ovvero la rinuncia dei partiti al privilegio corporativo di nominarsi il parlamento. Una rinuncia che oltre ad essere un passo verso la democrazia – cioè verso la restituzione ai cittadini del diritto di scegliersi i rappresentanti –, avrebbe il significato simbolico di mostrare agli italiani che anche i partiti si sentono parte del problema generale del Paese, e lavorano anch´essi alla sua soluzione. Che così non graverebbe tutta sulle spalle dei lavoratori e dei pensionati, e – forse – neppure dei tassisti, dei farmacisti e dei benzinai; ma anche sugli apparati del potere politico.
Sarebbe, questo, l´ultimo, e il più virtuoso, dei paradossi di questa delicatissima fase politica: facendo la loro quota di sacrifici, e rinunciando a una fetta di potere, i partiti potrebbero riacquistare un po´ di legittimità e d´autorevolezza. Del resto, come spesso succede, questo (molto eventuale) comportamento altruistico sarebbe in realtà egoismo differito. Un atto di lungimiranza che potrebbe salvare i partiti dal baratro in cui li potrebbe far cadere la loro veduta corta. Un messaggio al Paese, da mandare ora; prima che sia troppo tardi.

da La Repubblica.it

"Due milioni di ragazzi rassegnati. Disoccupati, ma non cercano lavoro", di Francesco Semprini

48.5 per cento. Quasi un disoccupato su due, a un anno dalla perdita del lavoro non ne ha ancora trovato un altro

Giovani, senza lavoro e con una scarsa attitudine agli studi. È la fotografia scattata dall’Istat nel rapporto «Noi Italia: 100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo». Quello in cui viviamo è un Paese in cui nel 2010 più di 2 milioni di giovani, ovvero 1 su 5 tra 15 e 29 anni, era fuori dal circuito formativo e lavorativo. L’Italia si assicura così un triste primato in ambito Eurozona mentre nella Ue è seconda dietro alla Bulgaria. In gergo statistico si chiamano «Not in Education, Employment or Training», o Neet, senza arte né parte, rassegnati a essere senza lavoro tanto che non lo cercano nemmeno più, la cui incidenza è tornata a crescere a causa della crisi, colpendo di più le donne degli uomini, il Sud rispetto a Centro e Nord. I Neet sono in parte il corollario di un altro fenomeno, l’abbandono degli studi per il quale l’Italia si aggiudica di nuovo un triste primato in ambito europeo. La quota di giovani che ha ha disertato le scuole prima del tempo si aggira intorno al 19%, con una incidenza maggiore tra i maschi rispetto alle femmine. Del resto nel nostro Paese, il 45,2% della popolazione tra i 25 e i 64 anni ha conseguito come titolo di studio più elevato la licenza di scuola media. Preoccupa anche il mercato del lavoro con il 48,5% dei disoccupati italiani senza un posto da oltre un anno. Dal 2009 al 2010, la disoccupazione di lunga durata, è aumentata del 4% facendoci guadagnare la sesta posizione in ambito europeo, senza contare che la quota di unità di lavoro irregolari è del 12,3%. Nel Mezzogiorno può essere considerato irregolare quasi un lavoratore su cinque e nel settore agricolo circa uno su quattro. Il risultato è che le famiglie in condizioni di povertà relativa sono l’11%, mentre la povertà assoluta coinvolge il 4,6% delle famiglie. Nonostante tutto però l’Italia «ha le potenzialità e le capacità per potercela fare», dice il presidente dell’Istat, Enrico Giovannini, nel corso della conferenza stampa per presentare il dossier e la nuova veste Istat che da questa primavera inizierà a fornire anche previsioni macro sull’Italia. Il timoniere dell’istituto cita dati confortanti, come le esportazioni e la capacità di creare posti di lavoro all’estero da parte delle nostre multinazionali. «Fino a due anni e mezzo fa stavo all’estero – conclude – poi ho deciso di tornare in Italia: o non ho capito niente o credo in questo Paese».

da www.lastampa.it

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“Due milioni non studiano e non lavorano”, di Luisa Grion

Allarme giovani in Italia record di inattivi in Europa ci batte solo la Bulgaria. Rapporto Istat: nel nostro Paese aumentano gli asili nido mentre è in calo la violenza

ROMA – Troppi ragazzi a spasso e troppe giovani donne che ancora non sanno cosa fare della loro vita. Tanti disoccupati che restano al palo per mesi e mesi prima di trovare un´altra occupazione; un 12,3 per cento di lavoratori sommersi che produce e vive completamente «in nero» e una media esorbitante di abbandoni scolastici – quasi il 19 per cento – che ci relega agli ultimi posti della classifica europea. In Italia non tutto è disastroso, qualcosa di buono è rimasto (la capacità di esportare) e su qualcos´altro stiamo migliorando (aumentano gli asili nido e diminuisce la violenza). Ma guardando al ritratto in cento statistiche appena pubblicato dall´Istat due aspetti balzano all´evidenza: il dramma generazionale e i dirompenti effetti della crisi.

UN FUTURO DA NEET
Hanno fra i 15 e i 29 anni, non lavorano, non studiano, non fanno formazione: nel migliore dei casi, quindi, sono a spasso. Si tratta dei Neet (not in education, employment or traing), un fenomeno ormai conosciuto che “Noi Italia”, il rapporto dell´Istat, dà però in netta crescita. Sono oltre due milioni di giovani che si trovano in queste condizioni, il 22,1 per cento del totale (che diventa 24,9 nelle femmine) e la tendenza – dopo una leggera regressione fra il 2005 e il 2009 – è in netta crescita. Peggio di noi, in Europa, fa solo la Bulgaria (media del 23,6 per cento), la Francia si ferma al 14,6, la Germania non arriva all´11. Il dato, letto assieme a quello sulla disoccupazione giovanile (27,8 per cento), lascia pochi dubbi: è da qui che bisogna ripartire, magari puntando all´istruzione. Oltre che per l´alto tasso di abbandono scolastico l´Italia si distingue infatti anche per il basso livello di studi: fra i trenta-trentaquattrenni solo uno su cinque è laureato. Il 19,8 per cento del totale contro una media Ue del 33,6.

LA DISOCCUPAZIONE LUNGA
Se i giovani sono scoraggiati i disoccupati non sono da meno perché, perso un lavoro, per trovarne un altro devono attendere mesi e mesi e non è affatto detto che trovino risposta. In Italia, certifica l´Istat, la disoccupazione di lungo periodo sta aumentando: oltre il 48,5 per cento dei “senza lavoro” resta tale per più di un anno. Se la crisi ha reso le condizioni più difficili per tutti e molti altri Paesi stanno sopra la media del 40 per cento (Germania compresa), in Italia il peggioramento è stato più evidente: fra il 2009 e il 2010 la disoccupazione di lungo periodo è aumentata di oltre quattro punti.

I SOMMERSI
Al dramma del lavoro che non c´è, segnala l´Istat, va aggiunto quello del lavoro nero. In Italia c´è una quota di lavoro irregolare pari al 12,3 per cento. Ma guardando al Sud, ben un occupato su 5 è fuori da ogni regola (uno su 4, limitando l´analisi all´agricoltura). L´economia sommersa, precisa il presidente dell´Istat Enrico Giovannini ,«viene stimata al 17 per cento del Pil, quota che arriva al 20 se non calcoliamo la Pubblica Amministrazione, settore dove praticamente non c´è lavoro nero». Ma in alcuni settori – come alberghi, pubblici servizi (leggi bar) e assistenza alla persona (badanti, lezioni private) – il sommerso arriva al 57 per cento.

da la Repubblica

"L´amaca", di Michele Serra

La giornalista del tigì che insegue trafelata il comandante De Falco e gli chiede (gridando per farsi sentire): «lei è un eroe?», mentre quello, giustamente, fugge e preferirebbe sprofondare piuttosto che risponderle (perché quale persona al mondo accetterebbe di rispondere a una domanda del genere senza sentirsi ridicolo o stupido?); quella giornalista, dicevo, è a sua volta un´eroina, perché accetta di incarnare fino in fondo, fino allo stremo, il ruolo assurdo che il dovere le assegna. Che è quello di confezionare la realtà come uno spettacolo facile facile, commestibile per tutte le bocche, uno spettacolo con i buoni e i cattivi, gli eroi e gli infami, i vincitori e i vinti. Senza le sfumature, le ambiguità, i margini di dubbio, uno spettacolo fatto solo di chiari e di scuri, che lo capiscano anche i bambini, oppure quegli adulti ridotti a bambini che la tivù amerebbe noi fossimo.
Una volta vidi Benigni sistemare le luci prima di una sua apparizione televisiva. Tenne ai tecnici una breve lezione: «Mi raccomando levatemi ogni ombra. Il comico deve apparire sempre in piena luce o nel buio fondo, perché il comico è come un cartoon: non ha psicologia, dunque non ha sfumature». È esattamente per questo che la domanda «lei è un eroe?» suona, alle nostre orecchie, come una domanda comica.

da la Repubblica del 20.01.2012

"Italiani più sensibili ai doveri", di Luigi La Spina

È sempre azzardato collegare segnali che sembrano arrivare da più parti nella società italiana per cercare di cogliere nuovi sentimenti e nuovi bisogni. Eppure, notizie e reazioni alle notizie che si sono succedute in queste ultime settimane paiono indicare la necessità, ma anche il desiderio, di ritrovare nella responsabilità individuale, nell’impegno personale al rigore dei comportamenti, nella consapevolezza dei doveri oltre che dei diritti, la strada più sicura, forse l’unica, per un riscatto nazionale. Per uscire da una specie di depressione psicologica collettiva, umiliata per un confronto negativo da parte degli stranieri che riteniamo ingiusto, ma che non sappiamo contrastare. Come se fosse frutto di una inesorabile congiura del destino. Quello che conferma, con l’ostinazione dei fatti e delle opinioni, vecchi pregiudizi e vecchi sospetti verso l’Italia e verso gli italiani.

Perché, nonostante le furiose opposizioni delle categorie colpite dalle annunciate liberalizzazioni del governo e dopo i duri tagli imposti ai bilanci familiari, il premier Monti mantiene un così elevato consenso popolare in tutti i sondaggi? Perché i richiami secchi del capitano De Falco ai doveri di un comandante suscitano così clamorosi brividi di ammirazione e sentimenti di riconoscenza nazionale?

Perché il blitz delle «Fiamme gialle» a Cortina, al di là delle locali reazioni, è stato accolto con unanime soddisfazione? Perché a quella tolleranza, complice e ammiccante, verso le piccole e grandi furbizie individuali, pare si sia improvvisamente sostituita una generale intransigenza, quasi giacobina? Perché appare così insopportabile persino quella nube di linguaggio, ipocrita, demagogica e incompetente, tipica di certa classe politica che ha ammorbato, fino a poco tempo fa, i nostri giornali e le nostre tv?

Domande alle quali non è facile rispondere, ma che meriterebbero qualche non inutile riflessione. Anche perché sorgono pure dalla conoscenza di proposte inusuali, persino provocatorie, che, in altri tempi, avrebbero suscitato non solo sorpresa, ma sconcerto e, probabilmente, indignazione. Nel clima di questi giorni, invece, paiono giustificate e opportune, sintomo e conseguenza di un ritrovato senso di consapevolezza individuale verso i doveri collettivi, verso i doveri nei confronti dello Stato.

Ci riferiamo, solo come un esempio, magari marginale ma significativo, all’intenzione, da parte di alcune Regioni, di comunicare al paziente, dopo la cura, il costo sostenuto dal servizio sanitario per la prestazione fornita. Non si tratta, evidentemente, di aggiungere alla sofferenza del malato l’afflizione del senso di colpa per l’esborso a cui lo Stato è stato costretto per guarirlo o alleviare i dolori della sua vita. Né di «mercificare il valore della salute», come, con un gergo tardosessantottino, alcuni si affretteranno a bollare l’iniziativa. Ma l’invito a prendere coscienza di come le tasse che si impongono ai cittadini siano usate e di quale delitto si macchino coloro che le evadono. Insieme all’appello, implicito ma evidente, a medici, industrie farmaceutiche, dirigenti ospedalieri perché le singole responsabilità di fronte a sprechi e inefficienze non permettano di affossare un bene prezioso che l’Italia è riuscita a conquistare e che sarebbe un delitto perdere: il nostro servizio sanitario nazionale.

Chiunque abbia avuto la sfortuna di dover ricorrere alle cure in un Paese extraeuropeo, soprattutto negli Stati Uniti, sa come le discriminazioni di censo siano alla base delle possibilità di guarigione del malato e, comunque, di un trattamento adeguato. Proprio per conservare questa condizione di vantaggio, però, si impongono scelte chiare e urgenti. In futuro, l’allungamento delle speranze di vita, l’arrivo alle soglie della vecchiaia di classi molto numerose, i progressi nelle tecnologie e nelle terapie imporranno maggiori spese per garantire un’assistenza paragonabile a quella attuale e, augurabilmente, anche migliore.

Occorrono, perciò, comportamenti personali responsabili. Perché non ci possiamo più permettere quella mentalità, falsamente democratica, che ritiene inesauribili le risorse dello Stato e, contemporaneamente, insopportabili le tasse. Sempre le proprie, naturalmente. Il risultato dell’illusione alimentata dall’idea che si possa «dare tutto a tutti» sarà quello di una feroce selezione classista tra chi potrà far ricorso alla sanità privata e chi dovrà subire l’inevitabile degrado della sanità pubblica. A questa opera di educazione alla disciplina e alla consapevolezza individuale potrà servire anche un piccolo segnale come questa comunicazione, dopo la cura. E’ vero che la vita di una persona non ha prezzo, ma è vero anche che ha un costo. Ed è bene che tutti lo sappiano.

da www.lastampa.it

Istat: il 4,6% dei nuclei in condizioni di povertà assoluta

L’Istat ha presentato oggi l’edizione 2012 di Noi Italia – 100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo

Roma – Il 4% delle famiglie italiane e’ in condizione di poverta’ assoluta. È quanto dice l’Istat che ha reso note 100 statistiche ‘per capire il Paese in cui viviamo’. Nel 2010, “le famiglie in condizioni di poverta’ relativa sono l’11% delle famiglie residenti; si tratta di 8,3 milioni di individui poveri, il 13,8% della popolazione residente. La poverta’ assoluta coinvolge il 4,6% delle famiglie, per un totale di 3,1 milioni di individui”. Nel 2009, spiega ancora l’Istituto, “circa il 58% delle famiglie residenti in Italia ha conseguito un reddito netto inferiore all’importo medio annuo (29.766 euro, circa 2.480 euro al mese)”. In Sicilia l’Istat “osserva la piu’ elevata diseguaglianza nella distribuzione del reddito e il reddito medio annuo piu’ basso (oltre il 25% in meno del dato medio italiano). Inoltre, in tale regione, in base al reddito mediano, il 50% delle famiglie si colloca al di sotto di 18.302 euro annui (circa 1.525 euro al mese)”. Nel 2010 “il 15,7% delle famiglie residenti in Italia presenta almeno tre delle difficolta’ considerate nel calcolo dell’indice sintetico di deprivazione. Il panorama regionale mette in evidenza il forte svantaggio dell’Italia meridionale e insulare, con un valore dell’indicatore pari a 25,8%”. Nei primi mesi del 2011 “la percentuale di persone di 14 anni e piu’ che si dichiara molto o abbastanza soddisfatta della propria situazione economica e’ di circa la meta’ (48,5%). Il livello di soddisfazione per la situazione economica decresce dal Nord al Sud del Paese, presentando una forte variabilita’ regionale”.
Solo la Germania e’ piu’ ‘vecchia’ dell’Italia. L’indagine ha infatti evidenziato che al 1 gennaio 2011 nel nostro Paese “ci sono 144,5 anziani ogni 100 giovani” e che in Europa “solo la Germania presenta un indice di vecchiaia piu’ accentuato”. Ma non solo. L’Italia “e’ il quarto paese per dimensione demografica: con il 12% degli oltre 500 milioni di abitanti dell’Unione europea”.
Dal 2001 la popolazione “riprende a crescere con un tasso di poco inferiore all’1% annuo per effetto della crescita delle nascite e, soprattutto, dell’immigrazione: al 1 gennaio 2011 ci sono 144,5 anziani ogni 100 giovani”. Il rapporto tra popolazione giovane e anziana e popolazione “in eta’ attiva supera il 52% (2010). L’Italia e’ ai primi posti nella graduatoria europea”. L’Istat dice anche che “la vita media degli italiani e’ di oltre 84 anni per le donne e di poco piu’ di 79 anni per gli uomini, ai primi posti nell’Unione europea. L’Italia si colloca tra i paesi a bassa fecondita’, con 1,41 figli per donna secondo le stime del 2010. L’eta’ media al parto continua a crescere, attestandosi a 31,3 anni”.
Si celebrano “3,8 matrimoni ogni mille abitanti, piu’ nel Mezzogiorno che nelle regioni settentrionali (2009). Le regioni dove oltre la meta’ delle unioni e’ celebrata con rito civile appartengono al Centro-Nord. L’Italia e l’Irlanda sono i paesi Ue con la piu’ bassa incidenza dei divorzi (circa 0,9 e 0,7 ogni mille abitanti). Tra il 2000 e il 2009 il numero di separazioni in Italia e’ aumentato del 19,4% e quello dei divorzi del 44,9%”.
Nel nostro Paese la spesa per ricerca e sviluppo incide per l’1,26% del Pil (anno 2009). Tale valore e’ distante dai paesi europei piu’ avanzati, ma non lontano dall’obiettivo fissato a livello nazionale per il 2020 (1,53%).
La spesa per ricerca e sviluppo nell’Ue27 assorbe il 2,01% del Pil (anno 2009), rimanendo sensibilmente inferiore a quella degli Stati Uniti (2,77% nel 2008) e del Giappone (3,44 per cento nel 2008). Solo la Finlandia, la Svezia e la Danimarca hanno superato la soglia del 3% gia’ fissata come obiettivo comune dei paesi Ue, seguite da Germania e Austria, per le quali l’indicatore e’ pari a 2,82 e 2,75%, rispettivamente.

L’abstact della ricerca

Il sito di Noi Italia – Istat

da www.partitodemocartico.it da Dire Redattore Sociale