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"L´Europa non è un Panopticon", di Barbara Spinelli

Non è del tutto chiaro come mai Monti, che tanto ha insistito sullo sguardo lungo e l´Europa, abbia deciso di frenare lo scatto iniziale. per dire d´un tratto ai tedeschi, in un´intervista alla Welt dell´11 gennaio: «Gli Stati Uniti d´Europa non li avremo mai. Non foss´altro perché non ne abbiamo bisogno». Forse è la prudenza a produrre un´affermazione così perentoria, che chiude orizzonti possibili. La battaglia contro gli egoismi di Berlino reclama compromessi. Forse è quella deferenza che lui stesso aveva stigmatizzato, il 26 giugno sul Financial Times: una sorta di virus che affligge i capi europei quando si compiacciono di sé per custodire apparenti sovranità. Nell´immediato e a casa i governi ne profittano – il potere degli esecutivi aumenta – ma in Europa quel che accampano è un diritto all´impotenza. O forse Monti non è un federalista, cosa senz´altro legittima se al diniego non aggiungesse la glossa un po´ stupefacente: della federazione «non c´è bisogno».
Non ce n´è bisogno, spiega, perché l´utopia di Ventotene è già realizzata, grazie alla sussidiarietà (quel che gli Stati non sanno fare da soli è delegato all´Unione sovranazionale, e viceversa). La sussidiarietà tuttavia dà risultati negli Stati compiutamente federali, non nell´Europa di oggi: se uno Stato affida incarichi a un´Unione senza statualità e di continuo paralizzata da 27 governi con diritto di veto, quando mai l´impresa funzionerà? Monti dice che il rimedio già c´è, ma nega la necessità dei mezzi per renderlo operante. Giunge addirittura ad annunciare che non ci saranno mai: per un Premier che nell´Unione è tra i più europeisti, e col coraggio dell´impolitico sta reinventando la politica, presumere con certezza un futuro ignoto è scommessa quantomeno azzardata.
Quel che è stupefacente, è l´ora storica in cui il federalismo viene sconfessato. I tempi bui sono sempre momenti di verità, e la verità la vediamo: l´alternativa alla federazione è una confederazione, che esclude un governo politico europeo, che dà il primato a finti Stati sovrani – limitandosi a migliorare coordinamento e reciproca sorveglianza – e che sta franando penosamente. La sorveglianza fa dell´Europa un panopticon, un Controllore: non prelude a un´azione comune, e di conseguenza non presuppone nuove competenze attive, non solo ispettive, degli organi sovranazionali (Commissione, Parlamento europeo). Non implica neppure la tutela delle democrazie: la prevalenza della concertazione economica, in nome dell´euro, aiuta paradossalmente gli autoritarismi – quello di Berlusconi ieri, quello ungherese oggi – a sopravvivere. Non così prima dell´euro: le terribili crisi dei cambi sempre provocavano cadute di governi. Non vorremmo che l´euro divenisse il garante di una Europa fondata sul doppio sacrificio del welfare e della democrazia.
Ernesto Rossi scriveva sin dal ´52: «Federazione è l´arrosto; Confederazione è soltanto il fumo dell´arrosto. Coloro che dicono di volere un´unione confederale, in verità non vogliono niente; vogliono lasciare le cose come stanno, perché non sono disposti ad accettare alcuna limitazione delle sovranità nazionali». Il nome che Monti dà alla confederazione, denunciando il duopolio franco-tedesco, è «un´Europa dai molti centri (tra cui l´Italia)». L´arrosto ancora non c´è. C´è il fumo che avvolge i brancolanti superstiti degli Stati-nazione, consegnandoli alle furie dei mercati.
La tesi di Monti è la seguente: alcune economie europee vacillano, ma non l´euro. Basta dunque che ci si coordini meglio, e la solidarietà verrà. In parte il ragionamento tiene: oppressi dalla crisi, gli europei hanno sempre finito col fare qualche progresso, tanto grande in tutti è la paura dello sfascio. Quel che tiene di meno è l´analisi della crisi: venendo dagli Usa, essa «non è in alcun modo legata a un difetto del modello europeo (…) In Europa questa crisi non sarebbe mai potuta succedere. L´Europa è virtualmente in ottima posizione». Anche qui, la sicurezza è tanta. Sia l´Europa sia l´euro sono nati con imperfezioni gravi. La Banca custode della moneta è federale, ma ha le mani spesso legate (Monti l´ha detto a chiare lettere, ieri sul Financial Times). Le manca il rapporto dialettico con un governo egualmente sovranazionale, che le consenta di divenire prestatore di ultima istanza, come negli Usa, condividendo i rischi con il potere politico.
Questi non sono piccoli, ma grandissimi difetti di costruzione. Lo pensarono coloro che sin dall´inizio ammonirono contro l´«euro senza Stato». Lo afferma un rapporto sulla moneta unica, appena pubblicato per il Peterson Institute for International Economics: «Crediamo che la crisi europea sia politica, e in larga misura di presentazione», scrivono Fred Bergsten e Jacob Funk Kirkegaard. I due economisti americani appoggiano l´euro e l´unione fiscale decisa il 9 dicembre, ma aggiungono: «Fin dalla sua creazione negli anni ´90, quel che è mancato nella moneta unica sono le istituzioni cruciali per assicurare il ripristino della stabilità finanziaria in tempi di incertezza acuta e di volatilità del mercato. Per questo il compito dei leader dell´eurozona va ben oltre i salvataggi (…) Essi devono riscrivere le regole dell´eurozona e completare una casa fatta solo a metà. Devono combinare misure finanziarie creative, per risolvere la crisi immediata, con un´ondata di nuove istituzioni».
Il federalismo non è subito attuabile, ma come orizzonte resta: «La maggiore sfida consiste nell´usare l´opportunità politica offerta dalla crisi per creare le basilari istituzioni (comuni), e completare nel lungo termine la casa lasciata a metà». Questo comporta, per Bergsten e Kirkegaard (anche per i federalisti europei), «revisioni aggiuntive e sostanziali dei trattati e delle istituzioni». L´Europa va ripensata sapendo che la via multicentrica-confederale non funziona. Quale via davvero alternativa tentare, se non quella federale?
Se il difetto di costruzione è l´euro senza Stato, lo stesso vale per le misure di rigore nazionali: anch´esse difettose, perché non compensate da un´Europa politica che generi crescita comune quando gli Stati non possono farlo. Domenica, su La Stampa, Enzo Bianchi ha detto una cosa illuminante: «Mi chiedo se uno dei motivi della progressiva disaffezione verso l´Europa non abbia anche a che fare con il fatto che non paghiamo direttamente alcuna tassa per il fatto di essere cittadini europei: cosa ho a che fare con quest´entità superiore che non ha una cassa comune alla quale io contribuisco? Si è infatti disposti a pagare di tasca propria solo per una realtà che ci supera ma che sentiamo nostra». Pagare un po´ meno tasse agli Stati e un po´ più tasse all´Europa, perché essa abbia un bilancio forte e investa in una crescita diversa (energie alternative, ricerca, trasporti, difesa, politiche mediterranee indipendenti dagli Usa). Questo è spendere meno e meglio, e dare una prospettiva al nostro mondo divenuto angosciosamente bidimensionale.
Molti ritengono che l´Europa federale abbia perso senso, ora che non è più questione di pace e guerra. Ma non meno drammatiche sono le crisi d´oggi: il welfare rattrappito, l´ineguaglianza, la miseria (dalla primavera scorsa negli ospedali greci mancano medicine). Per chi suona la campana della solidarietà, degli eurobond, dei debiti sovrani smorzati in comune, se non per noi che paghiamo il prezzo dell´Europa incompiuta? Non rischiamo più guerre fra Stati, ma il movente degli anni ´40 rimane.
L´Europa non si edifica per creare il Bene (l´Identità e la Prosperità, secondo Monti): del Bene ognuno ha una sua idea, personale o identitaria. L´Europa serve per scongiurare insieme le sciagure: ieri la guerra, oggi la contrazione economica, la povertà, il clima, le possibili guerre civili. Compito nostro è evitare che naufraghi come la nave Concordia, con tutti i comandanti che fuggono per salvare solo se stessi, alla maniera del capitano Schettino, dopo aver condotto il bastimento alla rovina.

La Repubblica 18.01.12

Gabaglio: lavoro giovani e donne sono le priorità

La decisione di CGIL,CISL e UIL di elaborare una piattaforma unitaria in vista dell’imminente confronto con il Governo, attraverso la riunione congiunta delle segreterie confederali come non avveniva da molto tempo, segna un significativo sviluppo della convergenza tra le maggiori organizzazioni sindacali, sempre auspicata dal PD, e rappresenta il miglior viatico per una trattativa che possa portare in tempi brevi, a scelte condivise, all’altezza dell’emergenza occupazionale che il paese sta vivendo e di cui ci sono tutte le ragioni per temere l’aggravamento nei prossimi mesi.

Nell’intento di contribuire a questo approdo e senza mettere in forse il ruolo di primo piano che in questo campo spetta alle parti sociali, il Forum Lavoro ha voluto nei giorni scorsi puntualizzare gli orientamenti del PD sulla base delle deliberazioni dell’Assemblea Nazionale del maggio 2010 e delle conclusioni della Conferenza di Genova del giugno 2011 nonché delle numerose proposte presentate in sede parlamentare.

Lo ha fatto con il duplice obiettivo di creare nuova occupazione specie per i giovani e le donne (sono noti in proposito i nostri differenziali con le medie europee) e di rendere il mercato del lavoro italiano certo più dinamico e meno diseguale ma allo stesso tempo più sicuro. Obiettivi questi che si intrecciano tra loro e che vanno sicuramente perseguiti nell’ottica della “flexicurity” europea avendo ben presente però che nel nostro paese la flessibilità si è tradotta fin qui in una insopportabile precarizzazione dei rapporti di lavoro, in particolare per le giovani generazioni, e che quindi un riequilibrio è necessario innanzitutto sul versante della “security”.

Muovere in queste direzioni significa adottare una pluralità di misure volte, in via prioritaria, a: ridurre drasticamente le tipologie contrattuali atipiche anche eliminando gli attuali vantaggi di costo per le imprese in modo da favorire i rapporti di lavoro a tempo indeterminato; estendere l’utilizzo del contratto di apprendistato come canale di primo ingresso dei giovani al lavoro potenziando gli incentivi per la sua trasformazione in contratto a tempo indeterminato; prevedere per le figure deboli del mercato del lavoro il ricorso ad un contratto di inserimento particolarmente agevolato; sostenere l’occupazione femminile incentivando il part-time, aumentando i servizi per conciliare lavoro e maternità e le detrazioni fiscali per i reddito delle lavoratrici con figli; avviare sulla base della delega legislativa del 2007 la riforma in senso universalistico della cassa integrazione e dell’indennità di disoccupazione; potenziare le politiche attive del mercato del lavoro, della formazione, della riqualificazione e della ricollocazione professionale.

Resta invece fuori dall’orizzonte del PD come del resto dell’intero movimento sindacale ogni ipotesi di rimessa in discussione dell’art 18 dello Statuto dei lavoratori. Non certo per una impuntatura nominalistica e tanto meno ideologica quanto sulla base della constatazione che non esistono prove empiriche che dimostrino una evidente correlazione positiva tra la riduzione delle protezioni per i licenziamenti e l’aumento delle assunzioni.
Non è senza significato che indagini recenti anche di fonte imprenditoriale non segnalino questo tra gli ostacoli rilevanti per nuovi investimenti.

D’altra parte la stessa richiesta della Banca centrale europea relativa alla revisione delle regole sull’ingresso e sull’uscita dal lavoro è strettamente collegata all’esistenza di un impianto adeguato di ammortizzatori sociali e di politiche attive del lavoro, condizione questa che è ancora lungi dal realizzarsi nel nostro paese. In altri termini l’art 18 non è il primo problema da affrontare (tanto meno nell’ attuale situazione del mercato del lavoro) ma, semmai, l’ultimo, a valle di un complessivo ridisegno delle tutele del lavoro.

Non si tratta del resto di un’anomalia italiana come si usa dire dato che l’istituto del reintegro sul posto di lavoro esiste anche in altri ordinamenti sia pure con modalità applicative diversificate. Caso mai è sul versante della riforma del processo del lavoro che si dovrebbe intervenire fin d’ora per dare maggiori certezze sia alle imprese che ai lavoratori.
Da ultimo ma non per ultimo è importante sottolineare che la creazione di maggiore e migliore occupazione dipende in primo luogo da una ripresa dello sviluppo e che quindi le riforme del mercato del lavoro, a cui si accingono Governo e parti sociali, sono solo una componente delle politiche che è urgente mettere in atto per promuovere una nuova stagione di crescita dell’economia italiana. Il che giustifica pienamente la richiesta dei sindacati che anche di questo si discuta al tavolo del confronto.

Emilio Gabaglio – Forum lavoro Pd

L’Unità 17.01.12

"Quel naufragio della responsabilità", di Giulio Sapelli

Bene ha fatto il Corriere della Sera di ieri sottolineando in prima pagina le responsabilità personali che sono emerse in merito all’evento drammatico della Costa Crociere naufragata all’Isola del Giglio, con la denuncia della gravità del comportamento del capitano della nave e bene ha fatto Pierluigi Battista a stigmatizzare l’accaduto e a invocare severità istituzionale. E questo perché, ahimè, il fatto è paradigmatico di un comportamento umano associato e non solo individuale terribilmente diffuso in tutte le organizzazioni.
Certo, le conseguenze non sono sempre così drammatiche, ma scavano nel profondo dell’animo e dell’immaginario collettivo e stanno trasformando lo stesso costume sociale degli italiani (e non solo loro). Perché? Di che si tratta? Ma del fatto che sempre più è divenuto normale, ossia socialmente e culturalmente accettato, usare i poteri di comando per soddisfare i propri desideri, ricambiare piccoli e grandi favori con reciprocità collusive, creare catene di complicità dirette a soddisfare volontà non sempre criminali ma sempre, tuttavia, narcisistiche e dettate dal desiderio di dimostrare una onnipotenza che fa gonfiare il petto di soddisfazione.
Un tempo questo comportamento era descritto dagli antropologi che a frotte giungevano, tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, nell’Europa del Sud per studiarne usi e costumi, come «familismo amorale», ossia quell’orientamento all’azione diretto ad anteporre a qualsivoglia altra obbligazione sociale o culturale i bisogni e le ambizioni della società naturale che circonda la persona, ossia la famiglia. I cosiddetti «doveri» si componevano nei comportamenti sociali secondo una sorta di lista delle priorità: prima il dovere verso la famiglia e «gli amici degli amici», poi quelli verso qualsiasi comportamento associato che richiamasse la responsabilità verso il bene comune, la volontà generale.
Come dimostra il comportamento del capitano della Costa, ora i costumi sociali sono assai spesso cambiati in peggio: «l’inchino» che si fa da secoli con le navi che costeggiano più da vicino del solito un porto dove abitano amici dell’equipaggio e che generalmente non ha mai causato disastri di sorta, si trasforma in qualcosa di profondamente diverso. E questo perché si può intrecciare con un familismo amorale allargato, ossia che coinvolge più persone e soprattutto che viene posto in atto da persone che hanno perduto ogni senso di responsabilità verso la collettività.
È questa la novità. Una novità che chiunque viva o abbia vissuto nelle organizzazioni ricoprendo incarichi di responsabilità sente sempre più sorgere accanto a sé. Se poi si urta uno scoglio, poco male, basta porre in salvo se stessi e se si è «bravi», «bravi» secondo i criteri del costume sociale prima evocato, tanto meglio: se ne ricava anche un guadagno, materiale o di credibilità familistica che potrà venir utile in futuro.
Sino al punto che chi si rifiuta di fare «inchini» di sorta, ossia di somministrare favori e di cedere ai riti della reciprocità che ogni inchino comporta, viene indicato come un alieno e un terribile guastafeste. Questa è la nuova solitudine del lavoro e nel lavoro: la solitudine della buona coscienza.
Esistono naturalmente esempi opposti e che anche la vicenda del Giglio e della Costa Concordia hanno reso manifesti in modo splendido. Ma vi assicuro che sempre più si tratta di eccezioni: in genere, tanto più se si hanno responsabilità gerarchiche, fatto l’inchino «si butta la chiave», come si dice in gergo, e ci si ritira nella propria cabina, mentre i telefonini dei passeggeri e dei componenti dell’equipaggio, inermi dinanzi al malcostume (e ogni organizzazione ha passeggeri ed equipaggio), squillano senza risvegliare la coscienza di chi dovrebbe anteporre all’inchino il dovere morale del bene comune.
La tragedia è che sono quelli che «buttano la chiave» che, sempre più spesso, «fanno carriera». Selezione avversa: questo è l’eufemismo usato per segnalare il fenomeno. In poche parole: è una vergogna sempre più diffusa dinanzi alla quale siamo troppo spesso impotenti.

Il Corriere della Sera 17.01.12

""Pagai le vacanze a Formigoni" l´ultimo scandalo della Regione", di Francesco Merlo

Da 17 anni governa la Lombardia mettendo d´accordo Dio e mammona. E adesso che gli arrestano il fido Ponzoni, anche lui all´estero “per lavoro” come Lavitola, di nuovo Roberto Formigoni è in guai imbarazzanti, da pio vanesio. Secondo l´ennesimo imprenditore lombardo “pentito”, che Formigoni dice di non conoscere nemmeno, il governatore, che dai suoi fedelissimi è chiamato senza ironia “il celeste”, è stato l´utilizzatore finale di tangenti che non sono più i soldi della vecchia politica e neppure i tesoretti infilati nel pouff di Lady Poggiolini o gettati nel gabinetto di De Lorenzo ma barche di lusso, alberghi a 5 stelle, aperitivi, accappatoi a bordo piscina, una fuffa vip a conforto della sua nuova identità di diva cattolica e pazzerella.
Di sicuro in 17 anni di potere Roberto Formigoni da Lecco, cresciuto in Comunione Liberazione, da casto e puro è diventato esibizionista devoto e fedele sfacciato. E da 17 anni galleggia su una schiuma di faccendieri, appalti, società corruttrici, ville abusive, buchi di bilancio, false fatturazioni, finanziamenti illeciti, reati contro il patrimonio, bancarotte fraudolente…: un´orgia affaristica dentro la sua Regione Lombardia dove fanno capolino anche la ‘ndrangheta e la criminalità organizzata.
Ai tempi della Dc Formigoni definiva De Mita «un traffichino senza Dio» e contendeva a Buttiglione la palma del pensatore cattolico: «Rocco è professore di filosofia ma è laureato in Legge. Il filosofo qui sono io, laureato alla Cattolica e summa cum laude». Oggi invece, in camicie a fiori dal gusto eccentrico e cravatte sgargianti, si definisce «presidente pop» ed è alla ricerca di un Andy Warhol che lo dipinga.
Da giovane sbandierava, in nome di Cristo, un voto di castità che è poi passato per amorazzi e paparazzi, baci e liti con una bruna focosa, atteggiamenti immortalati dal fotografo di Novella 2000: la débauche scandalistica come contrappasso alla paralisi sessuale. Ma poi si è spinto più avanti, e ora è diventato il re dell´ammiccamento, del sottinteso, il signore dell´irrisolto, ospitato in tutte le barche degli scandali, quella di Mazarino de Pedro, l´amico di Saddam, e quell´altra di Piero Daccò, lo spericolato cassiere di don Verzè nonché suocero del suo assessore alla Cultura, Buscemi. E siamo arrivati alle barche di oggi, quelle che Formigoni nega e smentisce.
Ma c´erano le barche alle sue spalle quando, l´estate scorsa, scelse Porto Santo Stefano per farsi intervistare dal Tg3 sulla necessità per l´Italia di diventare austera. Una predica sulla nuova povertà da uno dei posti più sgargianti della goduria italiana: successe il finimondo e ancora una volta fu un gioco di rimando, perché le barche non sono mai sue, come per esempio quelle di D´Alema, ma lui, berlusconiano suo malgrado, ne è l´utilizzatore finale.
La Lombardia di Formigoni è la stessa di Penati, che è a piede libero pur essendo stato il cuore di una gigantesca macchina d´affari a partire dal caso classico dell´area dismessa della Falck che gli avrebbe fruttato 4 miliardi di lire (era il 2000). Ed è lombardo quell´Abelli, uomo di fiducia di Formigoni e Bondi, detto “il faraone” per il jet privato e la Porsche 911. C´è poi il sindaco di Buccinasco, Loris Cereda, che faceva brum brum sulle Ferrari “in prestito”.
La regione italiana, che il luogo comune identifica come la culla della modernità e dell´efficienza sempre più si rivela come la Padania gretta delle tangenti, ma anche di quella estetica micragnosa, da ‘tinello marrone´ direbbe Paolo Conte: le barche a sbafo e i soldi dentro le custodie dei dvd distribuite nei municipi dall´architetto Ugliola (a Milano Milko Pennisi, che stava nella giunta Moratti, li nascondeva invece dentro i pacchetti di sigarette).
In 17 anni di potere, non su Milano dove non lo hanno mai lasciato signoreggiare ma sulla provincia di bocca buona, Formigoni si è esibito sul trapezio degli scandali senza mai precipitare. Ora è aggrappato alla fune di Ponzoni, senza rete.
Ma il catalogo è nutrito. Andando a casaccio ricordo qui l´inceneritore, Prosperini, un altro suo assessore, il razzista che diceva «i clandestini salgano sul cammello e tornino a casa loro» ed è stato arrestato perché si era beccato tangenti prima per 230mila euro e poi per 10mila… E ancora i rapporti strettissimi con don Verzé, la sponsorizzazione della Minetti, Oil for Food e la raccolta di firme false nel listino elettorale scoperta e denunziata dai radicali, e poi gli arresti di Franco Nicoli Cristiani e del dirigente dell´Arpa, Giuseppe Rotondaro, con il primo che dice al telefono «il Formigoni sa tutto». Ad ogni arresto e ad ogni scandalo Formigoni parla di «comportamenti individuali» ma sempre gli monta addosso questa schiuma che lo sporca ma non lo unge. È un altro unto, non dal Signore ma dalle procure.
E la Lombardia, la sua Lombardia, al di la delle responsabilità penali di Formigoni, sempre più somiglia maledettamente alla Sicilia, alla Calabria, alla Camapania, al sud delle clientele e delle parrocchie. E infatti anche in Lombardia la voce di bilancio più ghiotta e più sporcata e più formigoniana è la sanità.
E sempre più Formigoni si atteggia a diva, ma una diva che ha invertito il destino: invece di aspettare i capelli bianchi per vagheggiare il convento Formigoni l´ha frequentato da giovane scoprendo solo da anziano la vita dissipata che Gloria Swanson invece ripudiò. Puro da ragazzo e pazzerella da vecchio. Si è lasciato alle spalle le occhialute compagne di ‘Gs´, la gioventù studentesca di don Giussani, e si è fatto vamp attempato, una Wanda Osiris che invece di scendere le scale, le sale. E finisce non tra le braccia dei boys ma sulla barca di Ponzoni il governatore della Lombardia dei noleggi a sbafo, il credente appariscente dell´Italia dell´arraffo.

La Repubblica 17.01.12

"Liberalizzazioni al via, comincia la guerra", di Gianni Del Vecchio

Ormai è ufficiale: entro questa settimana, probabilmente già giovedì, il decreto sulle liberalizzazioni verrà approvato dal consiglio dei ministri. È lo stesso Mario Monti che lo ha annunciato al termine dell’incontro col presidente del consiglio europeo, Herman Van Rompuy. Intanto è già cominciata la guerra fra le corporazioni che vogliono difendere la propria rendita e chi cerca invece di eroderla, ma anche fra le stesse categorie colpite.
Quest’ultimo è il caso della liberalizzazione del mercato dei carburanti, presa in maniera molto diversa dai sindacati dei benzinai. Da una parte ci sono quelli di Figisc, Anisa e Assopetroli che sono totalmente contrari, tanto da annunciare ben sette giorni di sciopero contro il decreto governativo. Secondo loro, l’apertura del mercato delle pompe di benzina finisce per «realizzare un esproprio odioso, fatto d’imperio per obbligarci a vendere i nostri impianti che sono il frutto di lavoro di una vita».
Di diverso avviso invece Faib e Fegica, che giudicano lo sciopero «precipitoso e intempestivo». Per le due sigle infatti è più che giusto rivoluzionare il sistema attuale, che «spinge fuori mercato e strozza le decine di migliaia di piccole imprese di gestione» a causa «delle politiche di prezzo adottate dalle compagnie petrolifere, a cui le regole attuali e i vincoli esistenti consentono una assoluta dominanza dell’intera filiera, dalla culla dell’estrazione del petrolio alla tomba della distribuzione dei carburanti».
Nel settore della vendita di medicinali, invece infuria la tradizionale lotta fra farmacisti e parafarmacisti. I titolari di farmacie non vedono di buon occhio il decreto che dovrebbe portare all’apertura di altri cinquemila esercizi, che andrebbero a fare concorrenza ai 18mila già esistenti. Federfarma, l’associazione di categoria, si preoccupa di mettere subito in chiaro le cose: gli speziali «non possono subire interventi che avrebbero un impatto destabilizzante sul servizio farmaceutico, oggi efficiente ed estremamente apprezzato dai cittadini».
I parafarmacisti invece non hanno nulla in contrario a un aumento delle concessioni, e anzi sono pronti a sostenere una maggiore concorrenza.
A patto però – sostengono tutte le associazioni di rappresentanza – di poter essere messi nelle condizioni di farlo. «Abbiamo bisogno che ci sia una liberalizzazione completa dei farmaci di fascia C, in modo da poter competere sugli sconti con le farmacie vecchie e nuove – dicono Mnlf, Anpi e Forum –. Altrimenti è tutto inutile: si rafforzerà una corporazione già fortissima e si condanneranno alla chiusura tante delle 3.800 parafarmacie esistenti».
Compatti invece i tassisti: oggi ci sarà l’incontro a palazzo Chigi, ma la categoria è già pronta a uno sciopero a oltranza.

da Europa 17.01.12

"La crisi strangola le aziende:+62% di fallimenti in un anno", di Valerio Raspelli

Cresce il numero dei fallimenti aziendali e aumenta quello delle società in perdita. Ben il 37 per cento delle aziende italiane ha il bilancio in rosso. Il dato arriva dalle ultime dichiarazioni dei redditi delle società disponibili, 2010 e 2011 sull’anno di imposta 2009. E nel diffondere i dati è lo stesso Dipartimento delle Finanze del ministero dell’Economia a parlare della «profonda crisi economica » che «produce effetti su tutte le grandezze dichiarate dalle società ». Più aziende in rosso ma anche più crac e più imprese costrette a chiudere le serrande. Reddito medio in calo, sia per le grandi imprese che per autonomi e Pmi che rispondono agli studi di settore. Una fotografia, quella che emerge dalle dichiarazioni dei redditi, che non sorprende ma che conferma in ogni caso le difficoltà che il Paese ancora sta vivendo. In un anno le società in perdita sono aumentate di 2 punti percentuali. Sempre più aziende, poi, dalle dichiarazioni fiscali risultano fallite o estinte: «La crisi economica può spiegare il forte incremento delle dichiarazioni presentate da società in situazione di fallimento (+61,7%) o e s t i n t e (+52,08%)», spiegano ancora le Finanze. Il reddito medio delle società – secondo quanto risulta dalle ultime dichiarazioni Ires disponibili – è pari a 256.980 euro, e segna un calo del 6,7% rispetto a quello dell’anno d’imposta 2008. «Nel 2009 le società di capitali hanno dichiarato un imponibile di 126.482 milioni di euro rispetto ai 137.244 milioni di euro nel 2008» e «la riduzione di quasi 8 punti percentuali è attribuibile primariamente alla grave crisi economica», ribadisce il ministero dell’Economia. Non va meglio alle società più piccole o a coloro che esercitano l’attività di impresa in forma autonoma. I redditi dichiarati dai soggetti che applicano gli studi di settore nel 2009 erano pari a 99,3 miliardi di euro, in calo (-8,7%) rispetto al 2008. La diminuzione è «molto forte» per il settore manifatturiero (-37%), ma si registra anche nel commercio e nei servizi (-7%); il settore dei professionisti sembra, invece, subire la crisi in misura più lieve (-1%). Calano poi i contribuenti che pagano le tasse attraverso gli studi di settore; ma in questo caso ad incidere è la migrazione di parte della platea alla tassazione più agevolata riservata ai cosiddetti ‘minimì. Per quanto riguarda la ripartizione geografica dei profitti societari, anche nel 2009 si conferma la prevalenza del Nord. Il reddito d’impresa si conferma infatti «fortemente concentrato», rileva l’amministrazione finanziaria, nelle Regioni del Centro e del Nord: nel Sud e nelle Isole viene dichiarato solo l’8,5% del reddito d’impresa totale.❖

L’Unità 17.01.12

Pensioni, sindacati e Pd «Le risorse ci sono, la partita va riaperta», di Massimo Franchi

Sindacati e Pd ribadiscono al governo che il capitolo pensioni non è chiuso. Del resto, ieri è scaduto il termine per la presentazione degli emendamenti al decreto Milleproroghe e la stragrande maggioranza delle modifiche proposte riguarda proprio questo argomento e la piattaforma che oggi sarà sul tavolo delle segreterie unitarie di Cgil, Cisl e Uil avrà un capitolo apposito dedicato alla previdenza.
LA PRIORITÀ L’emergenza, la priorità è quella delle migliaia e migliaia di persone che dopo la riforma delle pensioni contenuta nel decreto SalvaItalia si trovano senza lavoro né pensione. Si tratta essenzialmente di due categorie di persone: quelle in mobilità dopo la chiusura della loro azienda e quelle che hanno firmato un accordo collettivo accettando di dimettersi, di lasciare il lavoro, in cambio di una buonuscita, attendendo la tanto agognata pensione (che invece ora è lontana anni). In gergo si chiamano “esodati”. La Cgil li stima in circa 65mila. Cui vanno ad aggiungersi altre diverse migliaia tra coloro che hanno firmato accordi individuali con la loro (ex) azienda. E proprio questo tema è stato fra i più discussi nell’incontro che ieri ha visto di fronte il ministro per i Rapporti con il Parlamento Piero Giarda e i relatori al Milleproroghe, Gianclaudio Bressa (Pd) per la commissione Affari costituzionali e Gioacchino Alfano (Pdl) per la Bilancio, i presidenti delle due commissioni Donato Bruno (Pdl) e Giancarlo Giorgetti (Lega), il sottosegretario Giampaolo D’Andrea. «Noi – spiega Gianclaudio Bressa -ma anche Terzo Polo e Pdl consideriamo una condizione politica fondamentale il riaprire i termini del confronto politico sulle conseguenze della riforma delle pensioni. Il ministro Giarda domani (oggi, ndr) dovrà darci delle risposte per quantificare e trovare le coperture». Il nodo è quello della copertura finanziaria di questi emendamenti e per questo alla riunione hanno partecipato anche alcuni tecnici del Tesoro. Sul tema Cesare Damiano, capogruppo Pd in commissione Lavoro alla Camera e firmatario tutti gli emendamenti in materia è molto fermo: «Sarebbe un atto grave se il governo desse parere contrario agli emendamenti per mancata copertura. Quando il decreto SalvaItalia è stato approvato, il governo aveva dato parere favorevole ad alcuni ordini del giorno che rimandavano la soluzione delle conseguenze proprio su questi lavoratori e quindi non può fare marcia indietro. In più – continua Damiano – le risorse economiche per coprire i nostri emendamenti si può benissimo trovare utilizzando i risparmi derivanti dalle varie riforme delle pensioni che si sono succedute dal 2004 in avanti e che nel 2015 porteranno quasi 30 miliardi nelle casse dello Stato».
LE PROPOSTE DEI SINDACATI Il tema è sempre stato in cima alla mobilitazione che, unitariamente, è andata avanti fino a Natale. Camusso, Bonanni e Angeletti hanno sempre ribadito che «la partita pensioni non è chiusa». E lo faranno ulteriormente nella piattaforma che oggi sarà varata dalla segreterie che si incontreranno nella sede della Cgil in Corso Italia. Cgil, Cisl e Uil sono stati i primi ad individuare l’emergenza di chi da oggi «non ha né lavoro, né pensione» e hanno già chiesto al governo di prevedere nel Milleproroghe di eliminare e ridurre le penalizzazioni per chi ha decide di andare in pensione prima dei termini e di mantenere per donne e uomini 41 anni e un mese di contribuzione per andare in pensione anche nel 2012. Nella piattaforma invece si chiederà maggiore gradualità per evitare lo scalone fino a 6 anni che molti lavoratori dovranno ora superare prima di andare in pensione. In più si chiederà al governo di riaprire il capitolo dei lavori usuranti che dovranno rimanere fuori dalla nuova riforma. Infine si chiederà un confronto sull’istituzione del nuovo ente previdenziale unico.

L’Unità 17.01.12