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"Quel naufragio della responsabilità", di Giulio Sapelli

Bene ha fatto il Corriere della Sera di ieri sottolineando in prima pagina le responsabilità personali che sono emerse in merito all’evento drammatico della Costa Crociere naufragata all’Isola del Giglio, con la denuncia della gravità del comportamento del capitano della nave e bene ha fatto Pierluigi Battista a stigmatizzare l’accaduto e a invocare severità istituzionale. E questo perché, ahimè, il fatto è paradigmatico di un comportamento umano associato e non solo individuale terribilmente diffuso in tutte le organizzazioni.
Certo, le conseguenze non sono sempre così drammatiche, ma scavano nel profondo dell’animo e dell’immaginario collettivo e stanno trasformando lo stesso costume sociale degli italiani (e non solo loro). Perché? Di che si tratta? Ma del fatto che sempre più è divenuto normale, ossia socialmente e culturalmente accettato, usare i poteri di comando per soddisfare i propri desideri, ricambiare piccoli e grandi favori con reciprocità collusive, creare catene di complicità dirette a soddisfare volontà non sempre criminali ma sempre, tuttavia, narcisistiche e dettate dal desiderio di dimostrare una onnipotenza che fa gonfiare il petto di soddisfazione.
Un tempo questo comportamento era descritto dagli antropologi che a frotte giungevano, tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, nell’Europa del Sud per studiarne usi e costumi, come «familismo amorale», ossia quell’orientamento all’azione diretto ad anteporre a qualsivoglia altra obbligazione sociale o culturale i bisogni e le ambizioni della società naturale che circonda la persona, ossia la famiglia. I cosiddetti «doveri» si componevano nei comportamenti sociali secondo una sorta di lista delle priorità: prima il dovere verso la famiglia e «gli amici degli amici», poi quelli verso qualsiasi comportamento associato che richiamasse la responsabilità verso il bene comune, la volontà generale.
Come dimostra il comportamento del capitano della Costa, ora i costumi sociali sono assai spesso cambiati in peggio: «l’inchino» che si fa da secoli con le navi che costeggiano più da vicino del solito un porto dove abitano amici dell’equipaggio e che generalmente non ha mai causato disastri di sorta, si trasforma in qualcosa di profondamente diverso. E questo perché si può intrecciare con un familismo amorale allargato, ossia che coinvolge più persone e soprattutto che viene posto in atto da persone che hanno perduto ogni senso di responsabilità verso la collettività.
È questa la novità. Una novità che chiunque viva o abbia vissuto nelle organizzazioni ricoprendo incarichi di responsabilità sente sempre più sorgere accanto a sé. Se poi si urta uno scoglio, poco male, basta porre in salvo se stessi e se si è «bravi», «bravi» secondo i criteri del costume sociale prima evocato, tanto meglio: se ne ricava anche un guadagno, materiale o di credibilità familistica che potrà venir utile in futuro.
Sino al punto che chi si rifiuta di fare «inchini» di sorta, ossia di somministrare favori e di cedere ai riti della reciprocità che ogni inchino comporta, viene indicato come un alieno e un terribile guastafeste. Questa è la nuova solitudine del lavoro e nel lavoro: la solitudine della buona coscienza.
Esistono naturalmente esempi opposti e che anche la vicenda del Giglio e della Costa Concordia hanno reso manifesti in modo splendido. Ma vi assicuro che sempre più si tratta di eccezioni: in genere, tanto più se si hanno responsabilità gerarchiche, fatto l’inchino «si butta la chiave», come si dice in gergo, e ci si ritira nella propria cabina, mentre i telefonini dei passeggeri e dei componenti dell’equipaggio, inermi dinanzi al malcostume (e ogni organizzazione ha passeggeri ed equipaggio), squillano senza risvegliare la coscienza di chi dovrebbe anteporre all’inchino il dovere morale del bene comune.
La tragedia è che sono quelli che «buttano la chiave» che, sempre più spesso, «fanno carriera». Selezione avversa: questo è l’eufemismo usato per segnalare il fenomeno. In poche parole: è una vergogna sempre più diffusa dinanzi alla quale siamo troppo spesso impotenti.

Il Corriere della Sera 17.01.12