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"Buttiamo 89 milioni di tonnellate di cibo. L’Ue ora corre ai ripari", di Bianca Di Giovanni

Ogni anno in Europa si spreca il 50% di cibo sano e commestibile. Ancora: nei 27 Stati membri la produzione annuale di rifiuti alimentari è pari a circa 89 milioni di tonnellate, ovvero 179 chili per abitante, vecchi e neonati inclusi. Contro i 6-11 chili pro capite nell’Africa sub Sasahariana. Basterebbe questa scarna radiografia per spingere il Vecchio continente (anche il nuovo non scherza) a prendere iniziative urgenti contro lo spreco di cibo.Un percorso sistematico è iniziato 6 mesi fa in commissione Agricoltura a Strasburgo presieduta dall’italiano Paolo De Castro.
A lavorarci è stato un altro italiano:Salvatore Caronna. Questa settimana la relazione redatta da Caronna sbarcherà in Aula e sarà sottoposta al voto giovedì. Si prevede un largo consenso, visto che già in commissione il via libera è stato quasi unanime. Nel testo una fitta serie di interventi da mettere in campo per regolamentare uno dei settori più importanti per il destino del pianeta: il cibo. Per ora non ci sono veri gruppi di pressione contrari a un impegno legislativo dell’Unione contro lo spreco alimentare. Quelli si faranno sentire dopo:quando la Commissione Barroso, recependo le linee guida del Parlamento, dovrà varare le direttive. «Dovranno farlo nel giro di un anno, un anno e mezzo», spiega Caronna. Ma allora gli ostacoli si presenteranno eccome. Si faranno sentire i produttori di imballaggi, di cui la relazione Caronna chiede un drastico ridimensionamento. E magari anche quelli di prodotti freschi, su cui compare l’etichetta: da consumarsi «preferibilmente» entro la tale data. «I cittadini devono sapere bene che quel preferibilmente significa che il giorno successivo alla data quel prodotto si può ancora mangiare – continua l’eurodeputato italiano – senza nessun danno per la salute.
Chiediamo che l’Europa faccia chiarezza sul sistema di etichettature ». Un’altra richiesta che potrebbe far storcere il naso a qualche lobbista di Bruxelles è quella di consentire a fine giornata la vendita sotto costo dei prodotti freschi rimasti invenduti.
«In Italia c’è già qualche esperienza in questo senso, per esempio nella distribuzione delle Coop – spiega Caronna – Ma ci sono Paesi dell’Unione che lo vietano».
Qualche ammorbidimento potrebbero richiedere anche i fornitori di servizi di ristorazione, visto che la relazione chiede di inserire tra i parametri delle gare per appaltare le mense anche quella del risparmio e dell’efficienza nella gestione sia del cibo che degli imballaggi.Nonsarebbe poca cosa una direttiva in questo senso, da imporre ai 27 Stati dell’Unione.
L’Italia non parte da zero. Oltre al sistema cooperativo, ci sono stati altri pionieri come i Last minute market di Andrea Segré. Ma il cammino da fare è ancora molto lungo. È una scommessa da vincere assolutamente, vista la posta in gioco. Gli effetti dello spreco alimentare, infatti, influiscono sulla salute, sull’ambiente, sull’utilizzo dell’acqua, e non ultimo rappresentano un vero schiaffo alla disparità di accesso al cibo che si registra nel mondo. A fronte di uno spreco pro capite di
179 chili di alimenti, nell’Unione 79 milioni di persone vivono ancora sotto la soglia di povertà, e di questi 16 milioni hanno ricevuto aiuti alimentari. A livello globale le cifre fanno rabbrividire: 925 persone nel mondo sono a rischio denutrizione (dati Fao), e nulla per ora fa sperare di raggiungere l’obiettivo di dimezzare la fame entro il 2015. Se si resta così le cose peggioreranno soltanto. Secondo altre stime (riportate nella relazione Caronna) entro il 2020 il totale dei rifiuti alimentari in Europa aumenterà fino a circa 126 milioni di tonnellate, ovvero del 40%. Una variabile di peso è legata alla demografia: la sola produzione di cereali è aumentata di 27 milioni di tonnellate all’anno dal 1960 a oggi. Quanti cereali serviranno per sfamare la popolazione mondiale da oggi al 2050? Considerando che dell’intera produzione circa il 14% si perde dopo il raccolto e un altro 15% durante la distribuzione, basterebbe evitare gli sprechi per coprire i tre quinti della domanda. La
Fao stima che il previsto aumento della popolazione mondiale da 7 a 9 miliardi di individui richiederà un incremento minimo del 70% della produzione alimentare: un balzo quasi inarrivabile.
I costi dello spreco alimentare sono alti anche in termini ambientali. Dall’utilizzo dell’energia e di risorse naturali, soprattutto di acqua, nonché di emissioni di gas nell’atmosfera. Si stima che le circa 89 milioni di tonnellate di cibo gettato in Europa producano 170 milioni di Co2 equivalente all’anno. Senza contare i costi per il trattamento e lo smaltimento di tali rifiuti. Sull’uso sbagliato degli alimenti pesano poi conseguenze nefaste perla salute. Se in Africa si deve ancora debellare la malnutrizione, nei Paesi occidentali si combatte contro l’obesità, le malattie cardiovascolari o tumori derivanti da un’alimentazione sbagliata. Per Caronna il problema non è soltanto etico,ma anche di modello di sviluppo.
Le nuove tecnologie devono aiutare a eliminare le produzioni inutili, a risparmiare fonti d’energia, a razionalizzare la produzione alimentare. Ma in ogni caso non si sfugge al risparmio alimentare: questa voce resta ineludibile.
Tra le raccomandazioni che il Parlamento invia alla Commissione c’è quella di dare priorità nell’agenda politica europea proprio a questi temi, invitando contemporaneamente a sensibilizzare l’opinione pubblica. Si chiede di avviare azioni concrete per puntare a dimezzare gli sprechi entro il 2025. Obiettivo ambizioso? Forse. Ma possibile. Certo, serve un’analisi accurata – che si richiede – sui segmenti della filiera in cui lo spreco si concentra. In Europa al momento della distribuzione e
consumo, in Africa nella produzione. Ma oltre all’analisi, occorre anche il “bastone”, cioè politiche coercitive sui fattori inquinanti, secondo il criterio di «chi inquina paga». La relazione chiede anche di definire la sicurezza alimentare un diritto fondamentale dell’umanità, che si concretizza attraverso l’accessibilità al cibo. Si rileva inoltre che lo spreco ha diverse cause; la sovraproduzione, l’errata individuazione del target del prodotto (confezioni troppo grandi), deterioramento dell’imballaggio. Tutto questo va studiato e corretto. Vanno infine favorite quelle politiche di recupero, come appunto il poter vendere prodotti a basso costo quando vicini alla scadenza, o distribuire le rimanenze alle fasce più deboli dei cittadini. La relazione Caronna chiede alla Commissione di imporre agli Stati membri obiettivi specifici di prevenzione.
Insomma, una sorta di Maastricht alimentare peri Paesi dell’Unione. Un altro indirizzo è orientato a accorciare la catena alimentare, spesso troppo lunga e piena di “falle”. Un capitolo importante riguarda la definizione chiara di alcune espressioni: non solo c’è poca chiarezza sulle etichette, ma anche sulla definizione di spreco alimentare. Anche su questo si chiede uniformità tra i Paesi partner.

l’Unità 15.01.12

"Istruzione, riforme sbagliate" di Franco Buccino

Chi pensava a salti di gioia nel mondo della scuola per le dimissioni di Berlusconi e per la conseguente uscita di scena della Gelmini, è rimasto deluso. Non mancavano i motivi per gioire, ma evidentemente sono prevalse le preoccupazioni, l’attenzione, i dubbi per quello che il governo Monti intende fare nel settore. I guasti delle politiche scolastiche dei governi Berlusconi, prima con Moratti, poi con Gelmini, sempre con Tremonti, sono sotto gli occhi di tutti: con tagli fatti passare per pseudo riforme è stato stravolto l’intero sistema scolastico italiano La fondazione Agnelli ha individuato di recente nella scuola media l’anello debole del sistema. Eppure negli anni settanta, ottanta, e anche novanta, era il fiore all’occhiello dell’istruzione pubblica. Perché si elaborarono e diffusero, in questo segmento di scuola, modelli innovativi, prima con le attività integrative di “studio sussidiario e libere attività complementari” e poi con il tempo prolungato: il primo modello con insegnanti diversi tra mattina e pomeriggio, il secondo con gli stessi insegnanti. Entrambi costavano parecchio. La Moratti, quando intraprese, d’accordo con Tremonti, l’opera demolitrice del sistema attraverso l’abbattimento dei costi, prese di mira innanzitutto la scuola media. E, rapidamente, ne ridusse all’osso il tempo scuola e l’organico docenti. Un destino analogo ha colpito poco dopo la scuola elementare. Le novità, per cui era balzata ai primi posti nelle classifiche internazionali, vale a dire una sorta di generalizzazione del tempo pieno attraverso i moduli (tre insegnanti su due classi), le compresenze e gli insegnanti specialisti di lingua straniera, la Gelmini ha provveduto a eliminarle, su indicazione di Tremonti. Purtroppo l’ex Ministro ha fatto in tempo a metter mano anche alla cosiddetta riforma delle superiori. Al posto di mettere a sistema le sperimentazioni che erano proliferate negli anni, le ha semplicemente abolite, con una riduzione generalizzata dell’orario scolastico. E si vedono i primi drammatici effetti: laboratori chiusi, materie scomparse, insegnamenti accorpati. Si aggiunga che, in tutti gli ordini di scuola, nel corso degli anni, è stato aumentato il numero di alunni per classe, in locali spesso non a norma. Non diminuiscono le ore di sostegno, ma solo perché sono imposte da sentenze dei giudici; contro la legge sono invece inseriti ordinariamente più alunni disabili nella stessa classe, numerosa come le altre. In tal modo si sta rendendo problematica l’integrazione degli alunni diversamente abili, una delle poche specificità del nostro sistema per cui siamo ancora considerati a livello internazionale. L’incredibile ristrutturazione, compiuta in gran parte nell’ultimo decennio, è stata realizzata sulla pelle dei precari, in via di estinzione, ma anche del restante personale, al quale sono stati tolti stabilità, autonomia e diritti. Le vere vittime di quest’attentato all’istruzione pubblica sono naturalmente gli studenti, soprattutto quelli più in difficoltà, e le loro famiglie.

Ora, se non si fa un cammino a ritroso per individuare soluzioni alternative a quelle adottate dai precedenti governi, a poco servono le iniziative proposte sulla dispersione scolastica, i progetti sulla matematica e tutti gli altri finanziati con i fondi europei, le idee sul reclutamento dei docenti e l’annunciato concorso. Non voglio dire che non siano importanti e urgenti, o che non siano interessanti nel merito, anche per le personalità che le stanno proponendo. Francesco Profumo e Marco Rossi Doria, persone competenti e colte. Cosa non scontata al ministero della Pubblica Istruzione. La dispersione scolastica è, per esempio, uno dei principali problemi di Napoli e della Campania; una dispersione che avviene troppo presto per troppi ragazzi, e che è annunciata da segnali precisi: ritardo scolastico, risultati insufficienti, demotivazione. Segnali ai quali la scuola assiste impotente, più attenta a classificare gli alunni che ad aiutarli nelle loro difficoltà. La lotta alla dispersione si accompagna, nelle intenzioni del Ministro, all’impegno per la qualità dell’istruzione. Nelle classifiche internazionali siamo messi male, soprattutto per i risultati nelle materie scientifiche: una disaffezione che dura fino all’università, con grave pregiudizio dello sviluppo del paese. Infine, è coraggioso l’approccio pragmatico al concorso. Le interminabili discussioni sul reclutamento, lauree abilitanti e tirocini formativi attivi, stanno facendo invecchiare intere generazioni di precari e di aspiranti docenti. Il solo annuncio del concorso ha riacceso le speranze. Eppure tutte queste belle cose rischiano, nella situazione in cui si trova la scuola pubblica, non solo di fallire ma addirittura di essere controproducenti. La lotta alla dispersione passa, oggi più che mai, attraverso tempo scuola e organici rinforzati. Bisogna recuperare le migliaia d’insegnanti spazzati via dalle scuole, piuttosto che operatori esterni su progetto. Puntare su questi ultimi, a scapito dei primi, sarebbe un grave errore. Potenziare alcuni insegnamenti in un tempo scuola ridotto all’osso, creerebbe solo squilibri senza risolvere il problema di fondo, che rimane quello di un’offerta formativa divenuta sempre più povera e disarticolata. Se il governo vuole ridare all’istruzione pubblica il ruolo strategico che le compete, deve pensare a un impegno economico straordinario e senza precedenti. Certo, dovrà pretendere molto di più dagli insegnanti e dagli altri operatori. Il problema non è di reclutarli daccapo. Al concorso annunciato, ai tfa, ai corsi di abilitazioni e lauree abilitanti, continueranno a partecipare le stesse decine di migliaia di persone che stanno nelle diverse graduatorie e/o che hanno titoli a iosa. Il problema è il recupero di posti stabili che non ci sono. Il problema è la formazione in servizio, l’organizzazione del lavoro da rivedere profondamente, nuove regole, orari e responsabilità: per tutti e non solo per le nuove leve.

La Repubblica 15.01.12

"Il tempo della laicità", di Miguel Gotor

Mario Monti, in occasione della prima udienza ufficiale al cospetto di Benedetto XVI, è apparso attenersi a un invisibile registro di sobrietà e di laicità.Valori che certo appartengono allo stile dell´uomo, ma che sono richiesti anche dallo spirito del tempo e che marcano una netta distinzione dai comportamenti tenuti in analoghe circostanze dal suo predecessore Silvio Berlusconi.
Come ha insegnato la migliore antropologia del Novecento, tutto ciò è rivelato dai gesti, dai riti e dai doni più che dalla sostanza del colloquio privato tra le due personalità o dal comunicato ufficiale della diplomazia che lo imbozzolerà tessendo una serie di prevedibili frasi protocollari. Ma la forma è sostanza e nulla rivela di più che lo scarto esistente tra una plurisecolare cerimonialità e l´inclinazione dell´individuo, il suo personale contributo al teatro della vita.
Anzitutto è l´incontro tra due professori, il teologo tedesco e il più tedesco dei nostri uomini di governo e la sobrietà si esprime nella gestualità che assume la forma di una confidenziale, ma rispettosa riverenza. Monti è solito muovere accademicamente le mani per accompagnare il fluire dei suoi concetti come se volesse rafforzarli. Ora, davanti al Papa, le mani sono immobili sul grembo, accenna un movimento ma le riallunga subito sui braccioli per poi riportarle intrecciate davanti a sé: questa volta non deve spiegare, vuole soprattutto ascoltare.
La laicità e la sobrietà promanano già dal primo incontro col Papa, davanti alla porta della sua biblioteca privata. Un franco sorriso, un reciproco sguardo dritto negli occhi, ma nessun baciamano, alcun inchino, neppure accennato, da parte del premier. Siamo assai lontani dal contegno baciapilesco di Berlusconi che, in analoga occasione, il 6 giugno 2008, si esibiva in un baciamano degno di un vassallo: le mani giunte a ghermire quelle del pontefice, il busto proteso in avanti, il capo esageratamente chino, le labbra irritualmente poggiate sulle mani di Benedetto XVI, come avrebbe fatto con il dittatore Gheddafi, un anno prima della sua fine. I giornali di famiglia subito pronti a riprendere l´immagine per venderla sul mercato elettorale italiano.
Mai come in quella circostanza l´ipertrofia dei gesti denotava l´atrofia della coscienza: Berlusconi avrebbe trascorso quell´estate tra decine «di vergini che si offrivano al drago», come avrebbero rivelato le intercettazioni del lenone Tarantini. Monti, invece, tiene la schiena dritta perché sa di essere, in quel momento, non un privato cittadino o un fedele cattolico in visita al Papa, ma il capo del governo italiano. Non ha nulla da farsi perdonare o da nascondere e dunque non necessita di esibizioni barocche, né si profonde in servili pronunciamenti come quello in cui Berlusconi dichiarava che «l´attività del governo non può che compiacere il Papa e la sua Chiesa».
Anche la presentazione della signora Elsa segue il medesimo misurato registro: a differenza di Veronica Lario, e come già la cattolica Flavia Prodi nell´ottobre 2006, la moglie del premier non porta il velo, obbligatorio soltanto per regine e ambasciatrici, bensì ha il capo scoperto e indossa un «rigorosissimo tailleur nero con gonna sotto il ginocchio», come registrato dall´Avvenire.
Una maggiore sobrietà e senso dell´opportunità, infine, traspaiono anche dal rituale scambio dei doni. Il Cavaliere nel 2008 offrì al papa un pettorale, una croce d´oro e smalti, cesellati per l´occasione. Il premier volle spiegare a Benedetto XVI che ogni tassello aveva un significato legato alla storia della Chiesa e pretese di consegnargli un foglio con le spiegazioni, suggerendogli – così recitano le cronache – «se mai avesse il tempo, di leggerlo». Non è dato conoscere la risposta del Papa, né i suoi reconditi pensieri.
Monti, invece, può permettersi un vero e autentico lusso, quello di regalare al pontefice un suo libro del 1992, che ha definito «una riflessione sull´Italia e sull´Europa molto nello spirito del nostro incontro». E un´edizione antica di mappe geografiche: «anche simbolica» ha commentato il Papa con pronta arguzia perché mai come in questa fase storica l´Italia procede in mare aperto e ha bisogno di ritrovare la giusta rotta, ma sembra finalmente in buone mani.

La Repubblica 15.01.12

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La nuova normalità fra Stato e Chiesa

Il cambio secco dello stile di Governo è stato il mantra ripetuto fin da quando Monti è arrivato a Palazzo Chigi. E anche nei rapporti con il Vaticano il cambio di passo si è visto. L’incontro di ieri tra Benedetto XVI e il Professore è il segno di come i rapporti Stato-Chiesa tornino alla normalità, senza più gli eccessi registrati nell’ultimo triennio, da una parte e dall’altra. Monti sa quanto è importante l’appoggio della Chiesa, specie nei momenti di crisi, e il Papa ha voluto dare visibilità all’attenzione per la «cara Nazione italiana». Un appoggio che assume ancor più valore perché arriva da un tedesco, che nel suo Paese d’origine ha una forte influenza, specie nella Cancelleria federale. Normalità, quindi, da parte di un cattolico liberale come Monti, che non mancherà di fare gli interessi dello Stato se e quando ci si siederà attorno a un tavolo per stabilire se davvero ci sono dei privilegi sul fronte fiscale. L’assenza ieri di ministri cattolici del peso di Riccardi e Ornaghi è proprio il segno di uno scarto rispetto a un passato in cui si tendeva a mischiare i ruoli e le funzioni. Ieri i temi trattati erano internazionali, e la delegazione (composta comunque da persone perlopiù cattoliche, come si è visto dalle immagini televisive) rispecchiava questo approccio.

Il Sole 24 Ore 15.01.12

"Quelle verità scomode e le comode bugie", di Eugenio Scalfari

All´indomani del cosiddetto “tsunami” provocato dall´agenzia di rating Standard&Poor´s ci sono alcuni fatti certi dai quali bisogna partire. Sono i seguenti:
1. Lo “tsunami” non c´è stato. Le Borse hanno registrato modesti ribassi, Piazza Affari ha perso l´1 per cento, le altre Borse europee hanno oscillato intorno al mezzo per cento di perdita, l´Austria, colpita anch´essa dal “downgrade”, ha addirittura chiuso in rialzo.
2. Standard&Poor´s ha declassato nove paesi su diciassette, cioè ha attaccato non un paese specifico ma l´intera economia europea e quindi, indirettamente, anche la Germania che senza l´Europa vivrebbe malissimo. Si è trattato dunque d´un giudizio politico più che economico.
3. Per quanto riguarda l´Italia questo attacco ha avuto come effetto quello di rafforzare il governo Monti, tanto più che la stessa Standard&Poor´s ha apprezzato la politica di Monti nel momento stesso in cui declassava di due punti il nostro debito sovrano mandandolo in serie B.
4. I rendimenti dei nostri Bot e dei nostri Btp alle aste di giovedì e di venerdì sono stati ottimi per i Bot e buoni per Btp triennali.
5. La Bce ha confermato che il valore dei “collaterali” che le banche danno in garanzia dei prestiti loro accordati dalla Banca centrale non subiranno alcun mutamento; la Bce cioè non terrà in nessun conto i giudizi negativi dell´agenzia di rating. Le notizie che davano per certo un peggioramento del valore dei collaterali erano dunque sbagliate o false.
Le aste italiane di giovedì e venerdì hanno comunque confermato che la fiducia nel nostro debito sta tornando e dai Bot si sta gradualmente allargando anche sui Btp ed infatti, confrontando i tassi spuntati alle aste di gennaio con quelli delle aste di novembre si hanno i seguenti risultati: Bot a sei mesi dal 6,5 al 3,2; Bot a dodici mesi dal 5,9 al 3,2; Btp a tre anni da 7,9 a 4,8; Btp a dieci anni da 5,7 a 4,9.
È possibile che nella seduta di domani alcuni di questi tassi peggiorino sul mercato secondario che però, per quanto riguarda gli oneri del Tesoro, non hanno alcuna ripercussione. Per quanto riguarda l´Italia, se ne riparlerà soltanto alle aste di febbraio e marzo che avranno dimensioni imponenti. Il Tesoro tuttavia, come la stessa Bce ha suggerito e dal canto nostro abbiamo raccomandato, dovrebbe aumentare il numero dei titoli in scadenza a breve durata, che il mercato vede con favore. Dovrebbe altresì azzerare il fabbisogno con un´operazione che rientra agevolmente nelle sue attuali capacità.
La prima conclusione che questi dati suggeriscono nel loro complesso è dunque abbastanza rassicurante. I risparmiatori e le banche hanno ricominciato a investire in titoli italiani di breve scadenza ma anche in Btp di scadenza media. Auspichiamo che questo processo si estenda tenendo presente che il 19 febbraio la Bce aprirà un secondo sportello alle banche europee per prestiti triennali di ammontare illimitato al tasso dell´1 per cento e con collaterali a valore invariato. Si tratta di fatto di uno schiaffo sulla faccia dei dirigenti di Standard&Poor´s.

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Il presidente Napolitano ha indirizzato due messaggi pubblici all´Europa con due principali destinatari: la Merkel e Sarkozy, che saranno a Roma nei prossimi giorni. Un messaggio, il giorno precedente al downgrade di Standard&Poor´s, puntava sulla necessità di un governo economico europeo e in particolare dei diciassette paesi dell´Eurozona; il secondo auspicava un ruolo non solo economico ma politico dell´Unione, esteso dunque non solo all´economia ma all´immigrazione, alla giustizia, agli investimenti intraeuropei e a una diversa configurazione della governance.
La Francia continua ad essere riottosa alla cessione di sovranità dagli Stati nazionali all´Unione; la Germania lo è altrettanto, ma ambedue cominciano a rendersi conto dell´urgenza di un nuovo trattato e della necessità di ridurre al minimo i poteri di veto dei singoli Stati. Sullo sfondo ci dovrebbe essere l´istituzione degli eurobond e i poteri di intervento diretto della Bce anche sui debiti sovrani.
Le dichiarazione della Merkel di ieri non dicono granché su questi obiettivi di sfondo ma finalmente puntano anche sulla necessità della crescita oltreché del rigore. Ma soprattutto vogliono sottoporre le agenzie di rating a una disciplina giuridica che vada al di là di un semplice codice etico peraltro inesistente, almeno finora.
Non c´è dubbio che l´esigenza di disciplinare le agenzie di rating con regole oggettive sia a questo punto una necessità senza tuttavia negare ad esse la libertà di esprimere documentati giudizi. L´attenzione va posta soprattutto su quell´aggettivo: documentati. Ma lo spazio pubblico europeo non può esser negato a nessuno. Se le agenzie di rating passano da giudizi strettamente economici a giudizi prevalentemente politici come è avvenuto l´altro ieri, le regole non valgono più ma in compenso l´oggettività del giudizio economico diminuisce di altrettanto.
Se l´onorevole Di Pietro e il senatore Bossi reclamano elezioni a primavera nessuno può né deve metter loro il bavaglio ma ogni persona sensata e consapevole del fatto che durante tutto l´anno ci saranno in Europa 1200 miliardi di titoli pubblici in scadenza non può che giudicarli demagoghi pericolosi o personaggi fuori di testa. Analogo giudizio daranno i mercati se le agenzie di rating attaccheranno l´esistenza d´una moneta e le politiche di un intero continente anziché dimostrare la fragilità dei suoi “fondamentali”.
Da questo punto di vista la Merkel è sulla buona strada quando dice – come ha dichiarato ieri – che il Fondo di intervento sui debiti sovrani opererà comunque, anche se non otterrà la tripla A dalle agenzie di rating e Draghi ha fatto benissimo a mantenere inalterato il valore dei collaterali di garanzia ai prestiti della Bce anche se composti da titoli di debiti svalutati da quelle agenzie.

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Abbiamo già osservato che il downgrade di Standard&Poor´s ha rafforzato la statura di Monti e del suo governo. Soprattutto gli ha dato ottime carte da giocare nei prossimi incontri trilaterali e alla riunione del vertice europeo di fine gennaio. Ma ha rafforzato il governo anche di fronte alle forze politiche e a quelle sociali.
Il programma di liberalizzazioni sarà varato tra pochissimi giorni. Ha già il pieno favore del Pd e del Terzo Polo. Il Pdl manifesta alcune incertezze e le maschera dietro la distinzione tra poteri forti da liberalizzare e poteri deboli (leggi tassisti ed altri) da risparmiare o postergare. La risposta di Monti è ineccepibile: le liberalizzazioni riguarderanno tutte le categorie, poteri forti e poteri diffusi. Tutti nello stesso decreto.
Osservo dal canto mio che i tassisti sono un potere diffuso ma non un potere debole. Come lo sono i camionisti. Come lo sono gli allevatori di mucche inadempienti alle regole comunitarie. Chiamarli poteri deboli è un errore lessicale e alquanto demagogico. Ci sono certamente alcuni punti sostenuti da queste categorie che vanno risolti con equità a cominciare da quello che riguarda le vecchie licenze dei tassisti. Per il resto, il trasporto urbano è un pubblico servizio e va regolato a vantaggio dei consumatori, altrimenti che servizio pubblico sarebbe?
Farmacie, notai, ordini professionali, vanno tutti ripensati alla luce del concetto di tutela della concorrenza. Così sembra formulato il decreto che sta per essere emesso. Gli ordini non vanno aboliti ma debbono avere un solo e fondamentale obiettivo: essere i custodi del canone etico e deontologico degli associati. Gli ordini non sono un sindacato, perciò non possono occuparsi di tariffe e di altre questioni economiche. Debbono occuparsi dell´etica e lo debbono fare nell´interesse della società civile per la quale l´esistenza degli ordini deve essere una garanzia di professionalità dei loro aderenti.

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Il referendum è stato respinto dalla Corte costituzionale. Era previsto e prevedibile. Una democrazia parlamentare non può restare priva di una legge elettorale neppure per un minuto. Il nostro istituto referendario è abrogativo e non propositivo. I referendum elettorali andrebbero dunque esclusi come lo sono quelli relativi ai trattati internazionali e alle leggi di imposta. Questa disposizione non fu messa in costituzione affinché fosse possibile anche un referendum elettorale quando si limiti ad abrogare qualche parola o qualche comma da una legge elettiva esistente trasformandola in una nuova legge attraverso l´istituto referendario. Nel nostro caso però il secondo quesito effettuava sulla legge esistente un´operazione chirurgica di tale complessità da non configurare una nuova legge attuabile e per questo è stato respinto come il primo quesito che si limitava alla richiesta di un´abrogazione pura e semplice.
Si può criticare nel merito la sentenza ma non si può accusare la Corte d´essere diventata un organo politico e fazioso, per di più alle dipendenze del Capo dello Stato. Da questo punto di vista personaggi come Di Pietro e alcuni editorialisti qualunquisti meritano d´esser considerati demagoghi e politicamente scorretti. Hanno evidentemente un disperato bisogno di “audience” e quindi di avere sempre e comunque un nemico sul quale sparare. Prima avevano Berlusconi, adesso Monti e Napolitano. Ed anche il Partito democratico. Usano un fucile a due canne con il quale dirigono i colpi su un duplice obiettivo nella speranza di mantenere e magari di estendere il consenso di un´opinione pubblica dominata dall´emotività e dall´incostanza.
La parola “casta” è così entrata nel lessico qualunquista ed è stata largamente applicata anche per quanto ha riguardato la votazione della Camera sul caso Cosentino.
Quella votazione, come hanno detto giustamente Bersani e Casini, è stata una sorta di suicidio parlamentare. Ma chi ha compiuto quel suicidio e ha lavorato per ottenere quel voto? Il Pdl e la Lega di Bossi (non quella di Maroni). Pd e Terzo Polo hanno votato in massa per l´arresto di Cosentino (285 voti su 295). Dov´è dunque il voto di casta? Perché blaterano contro la politica invece di individuare i comportamenti dei singoli parlamentari e dei singoli partiti? Questo è l´opposto della ricerca della verità e come tale va condannato.
Noi siamo favorevoli alle verità scomode ma contrari alle comode bugie. Trentasei anni di storia di questo giornale (l´anniversario era ieri) lo dimostrano ampiamente.

Post scriptum. Anche se ci hanno messo una pezza a colore nelle ultime ore, la spaccatura tra la Lega di Bossi e quella di Maroni è il fatto di maggiore importanza nella politica dei partiti. È un movimento democratico quello in cui il segretario impedisce con una pubblica deliberazione ad un esponente storico di quel partito di intervenire nel dibattito congressuale? Sembra la Corea del Nord. Ed hanno l´ardire di ridurre il grande Nord italiano alla loro miserabile Padania?

La Repubblica 15.01.12

"Dopo la tragedia, il disastro ambientale", di Mario Tozzi

Dobbiamo constatare con dolore che nell’Italia del terzo millennio non si muore solo per frana o alluvione, ma anche annegati nel mare più frequentato del mondo. Mentre scriviamo sono ancora decine le persone che mancano all’appello, ma le immagini teletrasmesse non mostrano corpi in mare, né ne sono stati raccolti sulla vicinissima riva. Si spera siano stati già tratti in salvo o comunque siano stati già trasferiti, perché sarebbe davvero insopportabile pensare che siano rimasti ancora intrappolati nella nave tragicamente basculata. E non vorremmo scoprire che lo spaventoso incidente della più grande nave da crociera italiana sia dovuto alla volontà di «portare un saluto» agli abitanti dell’isola del Giglio che, siamo sicuri, ne avrebbero fatto volentieri a meno.

Dalla nave non hanno veduto le vicinissime luci di ingresso al porto? E nemmeno quelle del paese? Questa sarebbe già una colpevole mancanza di controlli, anche in caso di guasti, non ci vengano però a raccontare che lo scoglio, parzialmente asportato (a testimonianza di una velocità d’impatto elevata), non fosse segnalato nelle carte nautiche. Primo perché lo è forse dal secolo scorso, e secondo perché è praticamente attaccato alla costa e la rotta di navi come quelle mantiene distanze di almeno tre miglia dall’isola. Non per caso. E ci dicano, per favore, che le esercitazioni a bordo vengono tenute regolarmente e che l’equipaggio sa esattamente cosa fare in caso di pericolo, anche se le prime voci dei turisti scampati fanno sorgere qualche dubbio.

Ma il problema è quello delle grandi navi da crociera, che si sono trasformate in veicolo di turismo di massa (da elitarie che erano), e il cui solo equipaggio supera la popolazione residente dell’isola del Giglio stessa. Il problema è quello di un turismo mordi e fuggi che si accontenta di «toccare» più porti in una settimana, come se avvicinarsi a un’isola significhi averla non dico compresa, ma almeno assaggiata. E senza alcun vantaggio economico per le isole, che spesso non hanno nemmeno i porti adatti per ospitare navi di quel genere.

Speriamo poi che le conseguenze negative, dal punto di vista ambientale, siano limitate all’impatto dell’enorme scafo sul fondale. Impatto violentissimo, e reiterato per centinaia di metri, che certamente avrà compromesso a lungo quel breve tratto di fondale. Speriamo cioè che non ci sia sversamento in mare delle oltre 2000 tonnellate di gasolio marino che la nave portava nei suoi serbatoi. In quel caso l’isola del Giglio sarebbe condannata per alcuni anni a non ospitare quasi più nessun ecosistema marino sano.

È bene non dimenticare che un centimetro cubo di petrolio è in grado di ammazzare il 90% della vita di un metro cubo d’acqua. E sarebbe meglio ricordarlo prima di intraprendere rotte di crociera così vicine ai gioielli del nostro Tirreno: Montecristo, Capraia e Pianosa ospitano equilibri delicatissimi che morirebbero per impatti ambientali così devastanti. Naturalmente ciò vale a maggior ragione per le petroliere che incrociano proprio in quei mari ogni giorno dell’anno e il cui traffico dovrebbe essere bandito da quello che resta pur sempre il santuario europeo dei cetacei.

Il recente naufragio della nave Rena in Nuova Zelanda e questo della Costa Concordia ci rammentano che non è necessario essere petroliere per recare morte e distruzione, basta non avere il combustibile abbastanza protetto da reggere a urti simili. L’obbligo di impenetrabilità dei serbatoi dovrebbe essere un requisito indispensabile alla navigazione in certe acque.

La Stampa 15.01.12

"Un anno in meno a scuola? Le ragioni del sì e quelle del no", di Mila Spicola

Ha provocato un vespaio il semplice accenno del sottosegretario all’Istruzione Marco Rossi Doria all’eventualità di riforma del ciclo d’istruzione, cioè la proposta di diminuirlo di un anno. Attualmente è di 13 anni : i ragazzi rimangono 5 anni alle elementari, cioè la scuola primaria, 3 anni alla scuola media, cioè secondaria di primo grado, 5 anni alle superiori, secondaria di secondo grado. La proposta è di ridurlo di un anno agendo alle medie o alle superiori. Come del resto già avviene in tanti paesi europei, dalla Francia alla Germania, dove la scuola dura meno eppure i profitti dei ragazzi, come testimoniano ricerche nazionali e internazionali, sono di gran lunga preferibili a quelli italiani, per cui la minore durata del ciclo non inficia i livelli cognitivi di quei ragazzi che vengono immessi nel mondo del lavoro o in quello universitario con un anno di vantaggio. La proposta è accompagnata dall’ipotesi di innalzamento dell’obbligo scolastico : dagli attuali 15 anni (prima della Gelmini era di 16 anni: è stato diminuito a 15) ai 18.

Le ragioni del no:

– Si toglie ai ragazzi un anno di istruzione? Non è possibile. Non va nel verso della qualità dell’istruzione tanto invocata in questi ultimi anni di “persecuzione gelminiana” – E conseguentemente si taglia l’organico necessario ad effettuarlo con conseguente perdita di posti di lavoro? Assolutamente no.

– I ragazzi che non abbandonano più la scuola, causa obbligo scolastico, che fanno? Vanno ad aumentare il rapporto docente alunno perpetrando il fenomeno deleterio delle classi pollaio? E dunque aumentando il caos attuale invece di risolverlo?

Le ragioni del sì:

– Allinearsi ai coetanei europei che anticipano di un anno laurea o lavoro è una richiesta che arriva dal mondo spesso inascoltato dei ragazzi – Aumentare l’obbligo scolastico vuol dire “obbligarli” al diploma. Tutti. Non solo i “fortunati”. Oggi la dispersione è massima proprio in coincidenza del raggiungimento dell’età dell’obbligo cioè 15 anni, cioè dal primo al secondo anno delle superiori. Gli abbandoni riguardano soprattutto istituti tecnici o professionali, spesso “settati” in bienni e trienni proprio in virtù degli abbandoni, con conseguente divisione in istruzione di serie A , quella liceale, e formazione di serie B, (tanto la maggior parte poi abbandonano) quella tecnico-professionale. Obbligare tutti al diploma livella le distanze, le differenze di qualità dell’istruzione, non solo tra diplomati e non diplomati, ma anche tra licei e istituti tecnico-professionali. Perché un operaio specializzato, un cuoco, un informatico… non deve avere una ottima istruzione, anche nelle competenze e conoscenze generali, se il fine della scuola non è creare forza lavoro ma favorire “l’effettivo sviluppo della persona umana” e crescere i cittadini?

– Favorire per una volta i più deboli nell’ottica del dare di più a chi ha di meno di Donmilaniana memoria, direi attuale. Nelle aree depresse del paese, meridione e periferie delle metropoli, la dispersione raggiunge il 27% (e si concentra negli istitui tecnico-professionali di cui sopra). Non è possibile. Si deve combattere per motivi etici prima che economico-sociali. L’obbligo scolastico ha avuto il compito di abbattere la dispersione alle elementari e alle medie, così sarebbe alle superiori.

– Innalzando l’obbligo aumenterebbero di conseguenza gli alunni a scuola e dunque la necessità di organici e dunque, con facili calcoli, ne deriva che i due provvedimenti presi insieme non varierebbero l’attuale “parco” organico.

Però.

C’è un però of course: i due provvedimenti non sono la panacea, ma la premessa per “lavorare bene” in una scuola. Insieme a questi sono necessari, indispensabili altri provvedimenti che devono camminare insieme ai primi due di cui sopra e che comunque, a onor del vero, sono stati annunciati dal ministro Profumo (sottolineo “annunciati “per esercizio di diffidenza, che non è “cattiveria” ma la normalità a cui ci hanno abituato anni e anni e anni di attacchi alla scuola e depauperamenti).

Ne elenco i più urgenti:

– la messa in sicurezza delle scuole e la costruzione di nuove nel verso della sostenibilità e dell’innovazione (e questo sì, lo ha detto). Ciò va nel verso della tutela della sicurezza ma anche nel verso della promozione dello studio. Si sta meglio a scuola se ci si sta bene.

– la necessità degli organici funzionali in ogni scuola. Lo spiego a chi è a digiuno di “cose scolastiche”. Oggi il numero di docenti, personale ata lo “decide” l’ufficio scolastico provinciale in base a calcoli e disponibilità economiche e di organico, e sono sempre sottodimensionati, cosa che abbiamo lamentato. Quando manca un docente è la scuola a doverlo richiedere e pagare in base a una somma assegnata che negli anni si è ridotta al lumicino. E dunque classi numerose e quasi impossibilità di sostituzione di docenti assenti. L’organico funzionale discende dall’autonomia scolastica: ogni scuola si autodetermina il numero necessario di docenti (da prendere sempre in modo legittimo dalle graduatorie statali) in base alla sua offerta formativa e dunque non solo lo stretto necessario per la “lezione curriculare”, ma anche quello per le supplenze, come anche per attività a corredo delle lezioni curriculari ma che contribuiscono notevolmente ad innalzare i livelli cognitivi e non solo (teatro, sport, cinema, giardinaggio…). Aumentano l’amore per la scuola oltre che l’educazione alla socialità sana. E di conseguenza per lo studio. Oltre che trattenere a scuola i ragazzi per più ore al giorno. Oggi tali attività sono a “progetto” , in quel caso sarebbero programmabili nel lungo periodo e “istituzionalizzate”. Significa anche che serviranno più docenti. Molti di più. Rassegnatevi: non siamo molti. Siamo pochi in relazione alle necessità.

– “tenere” di più i ragazzi a scuola in senso verticale. Cioè aumentare o diffondere, là dove non c’è, persino alle superiori, il tempo pieno e il tempo prolungato.

– La formazione in servizio per i docenti: a carico dell’amministrazione e obbligatoria. Se la società cambia anche i ragazzi cambiano e anche i docenti. E’ elementare come concetto. Di conseguenza devono adeguarsi, con metodi e mezzi innovativi, che non intaccano i contenuti, i modi di trasmissione delle conoscenze e delle competenze. Non esaurendo o banalizzando la cosa con LIM e Tablets, ma praticando cooperative learning, teaching innovation, didattica sperimentale,…docimologia aggiornata..e altro ancora. Adeguare vuol dire migliorare la formazione in servizio dei docenti , cioè l’aggiornamento. Come accade per ogni professione del resto. Ma nella direzione della qualità e della necessità. Non dell’obbligo formale sganciato da ogni reale ricaduta, come spesso si è verificato negli ultimi anni.

Infine: abbandonare l’idea che tutto ciò si fa senza investimenti. Dimenticarla. Cancellarla. Investire nella scuola vuol dire spendere dei soldi. Investirli nel capitale umano. Lo diciamo da sempre. Servono spazi adeguati e mezzi adeguati. Se serve il macchinario adeguato per la TAC a un oncologo o il software di rendering aggiornato a un architetto mi chiedo perchè ciò non debba valere per l’insegnamento. Posto che abbiamo a che fare con la “materia” più mutevole che esista. Cioè il capitale umano ragazzo in crescita.

Ma il capitale umano della scuola non è solo il ragazzo, è anche l’esercito di pace dei docenti italiani. Io sono disposta a rimanere di più a scuola, tanto lo facciamo già, ma è giusto essere pagati per quello che si fa. E’ giusto dare dignità al lavoro, perchè così facendo ne aumenta in dignità lo studio dei nostri ragazzi. Ho usato la parola dignità e non valore non a caso. La dignità del ruolo la sì difende anche attraverso un trattamento economico meno umiliante.

Meno soldi alle armi e di più alla scuola noi lo ripetiamo da decenni. Oggi per fortuna lo dicono in molti di più. Ma diciamolo non solo perché c’è la crisi. Non solo per fare retorica. Ma perché è frutto di elementare buon senso nello stabilire le priorità tra ciò che è urgente e utile e ciò che non serve ed è inutile. A voi la scelta. A noi la scelta. Un anno in meno? Può essere…

L’Unità 15.01.12