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"L'etica delle tasse", di Enzo Bianchi

Sono duemila anni che le parole dell’apostolo Paolo rivolte ai cristiani di Roma risuonano con forza per tutti i discepoli di Gesù Cristo. Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse le tasse; a chi il timore il timore; a chi il rispetto il rispetto». Parole che, accostate a quelle che gli evangelisti mettono in bocca a Gesù stesso – «Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» – dovrebbero orientare il comportamento dei cristiani verso le autorità civili, in particolare per quanto riguarda il contributo economico da versare per la gestione della cosa pubblica e per i beni comuni che lo Stato garantisce, non affidabili alla sfera privata dell’economia per il semplice fatto che i «profitti» che se ne traggono sono forzatamente dilazionati nel tempo.

Ma se la risposta di Gesù a un quesito legato specificatamente a un «tributo da pagare a Cesare» è sovente ricordata ogni qualvolta si discute di laicità dello Stato o di atteggiamento da assumere da quanti sono al contempo cristiani e cittadini, non altrettanto si può dire dell’ammonimento di Paolo che viene troppo sbrigativamente relegato tra le indicazioni «datate», connesse a una situazione storica e sociale ormai scomparsa quale quella dell’impero romano.

Eppure credo che possa essere prezioso, non solo per i cristiani, arricchire l’attuale riflessione sulle tasse, con questo concetto anche neotestamentario di «rendere» il dovuto a chi gli spetta, con questo invito al discernimento degli ambiti, al rispetto delle prerogative e dei limiti di ogni «signoria», sia essa politica o religiosa. Tale discernimento infatti mi pare strettamente legato alla consapevolezza o meno della propria appartenenza a una «comunità», del sapersi membra di un determinato corpo, ecclesiale o sociale. Quando, pochi anni fa, uno dei più seri, lucidi e preparati ministri dell’economia che il nostro Paese abbia mai avuto definì «bellissimo» il fatto di pagare le tasse, venne deriso: ormai smarrita ogni etica civile collettiva, chi aveva osato ricordare la bontà di un gesto solidale come il pagare le imposte finalizzate al bene comune non poteva che essere messo alla berlina. Ma il problema oggi come allora è proprio qui, nella mancanza di coscienza collettiva: non si può chiedere un gesto di condivisione a chi non sa più di essere parte di un organismo vivente, come non si può chiedere alle braccia o alle gambe di faticare per un corpo che esse considerano estraneo.

Nel nostro Paese non si rispetta il principio anglosassone del «nessuna tassa senza rappresentanza» (infatti gli immigrati pagano le tasse ma non partecipano alle elezioni), ma nemmeno quello speculare del «nessuna rappresentanza senza tassa» (molti italiani all’estero non sono tenuti a pagare le tasse in Italia ma eleggono rappresentanti in Parlamento) e mi chiedo se uno dei motivi della progressiva disaffezione verso l’Europa non abbia anche a che fare con il fatto che non paghiamo direttamente alcuna tassa per il fatto di essere cittadini europei: cosa ho a che fare con quest’entità superiore che non ha una cassa comune alla quale io contribuisco? Si è infatti disposti a pagare di tasca propria solo per una realtà che ci supera ma che sentiamo nostra: dalle storiche società di mutuo soccorso, all’autotassazione spontanea in vista di un progetto condiviso, alle collette di solidarietà tra colleghi, alla decurtazione del salario conseguente allo sciopero, sempre siamo capaci di uscire dal nostro interesse particolare quando lo riconosciamo presente in un interesse più ampio, capace di includere non solo il nostro presente ma anche una comunità più ampia e il futuro, che speriamo migliore per noi e per le generazioni che verranno.

Questo smarrimento del senso di appartenenza – il Comune non è più «comune» a nessuno, lo Stato non siamo noi, l’Europa è un mostro estraneo, l’umanità è un’entità vaga cui non appartengo – porta a una regressione verso la tribù, il clan, il legame di sangue (non a caso ancora oggi unico criterio per la cittadinanza in Italia), dove l’essere insieme è conseguenza di un dato biologico o di un condizionamento sociale e non di una libera scelta di persone libere che condividono fatiche e speranze, ideali e difficoltà, cultura e visioni del mondo, senso della giustizia e dell’equità, panorami e patrimoni artistici.

È una tentazione presente anche tra i cristiani: ritenere che il corpo ecclesiale sia formato solo da chi ha gusti spirituali e orientamenti teologici simili ai nostri, non ci contraddice mai né ci disturba con i suoi bisogni; perdere la memoria di quanti hanno versato non solo qualche moneta nella cassa comune ma il loro stesso sangue per la vita degli altri; escludere dal nostro orizzonte nuovi compagni di cammino per non dover spartire con loro i nostri beni; sfruttare le risorse di tutti per il profitto di pochi; negare il futuro alle nuove generazioni per soddisfare ogni nostro capriccio… sono mali che attraversano le nostre comunità, civili e religiose.

Le tasse sono un antidoto a questa deriva, sono la possibilità che mi è offerta di donare puntualmente ed equamente qualcosa della mia ricchezza perché possa crescere il bene comune, attraverso servizi, infrastrutture, strumenti educativi, opportunità sanitarie, condivisione allargata ad altri Paesi e popoli. Ormai vent’anni fa un prezioso documento della Cei – «Educare alla legalità», troppo velocemente dimenticato – analizzava con acutezza questa problematica e così concludeva: «Nel costruire una società sempre più autenticamente umana e più vicina al regno di Dio… i cristiani siano esemplari proprio come “cittadini”, sempre ricordando il monito del Concilio: “sacro sia per tutti includere tra i doveri principali dell’uomo moderno, e osservare, gli obblighi sociali”». Anche pagando le tasse.

La Stampa 15.01.12

"Il codice della natura", di Michele Serra

La mole immane della Costa Concordia coricata a ridosso del Giglio, quasi appoggiata all´isola in un estremo tentativo di sostenersi, è una delle immagini più impressionanti degli ultimi tempi. È come se solamente il naufragio, e l´adagiarsi in mare, restituisse a quel palazzo galleggiante la sua natura di nave. Una nave, come tutte le navi, sospesa sul mare.È un mare domestico, quello smagliante di luce dell´arcipelago toscano. Un mare prossimo, che a noi italiani dà un´idea rassicurante e conosciuta, niente affatto esotica, per nulla disorientante. Ma è pur sempre mare: e dunque natura, non solo tecnologia; e caos, non solo economia. Le megastrutture che solcano i sette mari dando ai loro abitanti l´impressione (fallace) di annullare il moto ondoso e il clima, e a qualunque latitudine e longitudine replicano l´orgogliosa sicurezza dell´uomo che ha domato per sempre gli elementi, sono esposte anch´esse – come tutto, come tutti – alla potenza della natura, all´arbitrio del caso e soprattutto agli errori dell´uomo.
Quello del Giglio è un disvelamento tragico: costa morti, dispersi, panico, polemiche, strascichi legali. Ma può avere una sua utilità, perfino una sua severa moralità, se aiuta a capire che la convivenza tra uomini e natura rimane pur sempre soggetta a regole, e avvenimenti, non tutti pacifici, non tutti compresi nel prezzo del biglietto. Basta uno scoglio quasi affiorante, a un miglio appena da un´isola, a squarciare uno scafo costruito da macchine formidabili e da operai sapienti, e progettato da un´orchestra di computer. Basta una distrazione o una sciatteria o un azzardo malcalcolato a portare una città semovente (cinquemila persone!) esattamente sopra quello scoglio e fuori dalla sua rotta, sprofondando nella sciagura e nell´ansia chi era partito per ballare, mangiare e giocare: e in un batter d´occhio si passa dalla luce eterna della crociera al buio invernale, da un dentro ospitale e allegro a un fuori gelido e nero come è il mare d´inverno.
Molto si vocifera, e forse si sa, delle colpe del comandante della nave, che è in stato di fermo con accuse molto gravi; dell´impreparazione dell´equipaggio; del caotico e sregolato sovrapporsi dei soccorritori, forse non sorretti da un coordinamento impeccabile. Ma in attesa di fare i doverosi conti con le responsabilità, le omissioni, perfino le viltà (che in mare sono terribili colpe), quello che vediamo è lo spietato ribaltamento di migliaia di tonnellate di acciaio (pare che la Concordia sia la più grande nave affondata di ogni tempo, e di ogni mare), saloni immensi che perdono l´asse fino a trovarsi con le pareti mutate in pavimento, scialuppe che cozzano l´una con l´altra come birilli, persone sparite da cercare forse nelle cabine sommerse, come nei film catastrofisti e nelle memorie delle grandi tragedie di mare, il Titanic, l´Andrea Doria, l´euforia del viaggio che muta in disperazione, gelo, morte.
I tribunali, i periti, le assicurazioni, le carte bollate: ci sarà tempo per tutto. E il dolore delle vittime e dei loro parenti, appena leggibile nelle interviste concitate, nelle dichiarazioni furenti. Ma prima e dopo tutto questo, al di sopra e al di sotto, le grandi tragedie dei trasporti (di terra, di mare, d´aria) ci ricordano che la grandezza della tecnologia non appaia ancora, e forse non appaierà mai, la grandezza della natura, che va dalla potenza deiforme degli uragani, delle eruzioni, dei terremoti, alla minuta ferocia di uno scoglio invisibile, e alla ancor più minuta imprevedibilità degli errori e delle colpe degli esseri umani.
Proprio in questi giorni, in queste ore, va in onda sulla tivù satellitare un documentario sulla catastrofe (dimenticata) del Concorde, il supersonico francese che nel luglio del 2000, per un dettaglio quasi assurdo – un frammento metallico perduto da un altro aereo di linea, e dimenticato sulla pista – prese fuoco durante il decollo, e precipitò su un albergo. L´eccellenza tecnologica aiuta a diminuire i pericoli, ad accorciare le distanze, ad alleviare i disagi. Non a cancellare i rischi, non a sfrattare l´errore dal novero delle facoltà umane. La quasi omonimia tra l´aereo Concorde e la nave Concordia è ovviamente casuale, e però suggestiva. Li apparenta un destino da fenomeni tecnologici, da meraviglie della cantieristica, poi affossati da una fine cruenta. L´orgoglio umano è legittimo, se si pensa che da Icaro si è passati al volo supersonico e dalle piroghe alle odierne navi da crociera. Ma capita che l´orgoglio accechi, e qualora lo avessimo dimenticato basta uno scoglio a ricordarcelo.

La Repubblica 15.01.12

"Riforma locale: 7 punti per fare sul serio", di Claudio Martini

Il 2012 appena avviato propone scelte importanti sul riordino del poteri locali, parte dell’azione straordinaria di contenimento del debito. Le sole previsioni sul “superamento” delle Province saranno un banco di prova impegnativo per tutti, legislatori e parti sociali. Vale la pena riassumere la logica road map che dovremo seguire per fare interventi organici e non combinare altri pasticci.
Sette punti per fare sul serio.
Primo: decidere finalmente su Senato federale e Carta delle Autonomie, calendarizzando il voto in Parlamento. Non si riorganizza nulla sul territorio senza certezze di ruoli e sedi di integrazione. E così si supera davvero il bipolarismo.

Secondo: un forte dimagrimento degli uffici decentrati dello Stato, tema artatamente offuscato dalla campagna contro il governo locale. Ministeri, parastato, agenzie statali: c`è tanto risparmio da conseguire.

Terzo: superare il “pulviscolo” comunale, favorendo decisamente associazioni, unioni, fusioni. È il vero nodo strategico, quello che darà i maggiori benefici in prospettiva. In termini di costi e soprattutto di qualità dell`amministrazione.

Quarto: costituire effettivamente le Città metropolitane. Un primo riordino sta qui e rimandare ancora non ha senso né giustificazioni. Servono incentivi e disincentivi chiari e consistenti, per premiare chi davvero si muove e non solo chi fa chiacchiere.

Quinto: trasformare le Province in Enti di secondo livello efficaci, non confusi, meno costosi. Se la scelta del non-elettivo è fatta, ora occorre renderla funzionale chiarendo i lati ancora oscuri del decreto governativo. Esempio: il destino delle funzioni pregiate delegate alle Province dalle diverse Regioni, la mobilità del personale tra Enti, il rapporto maggioranze-minoranze, quello tra capoluogo e comuni minori. L’aspetto più dirompente può diventare il possibile contrasto di merito tra un sindaco eletto direttamente ed un presidente di Provincia di secondo livello.

Sesto: tagliare tutti gli Enti amministrativi funzionali legati a Province e Regioni. Sarebbe una beffa se si chiudessero le Province e restassero invece in piedi agenzie, consorzi, autorità d`ambito. Servono scadenze precise entro cui procedere allo scioglimento degli enti e al riassorbimento delle funzioni entro le competenze di Comuni o Regioni.

Settimo: mettere in agenda il riordino del sistema regionale. In una riforma complessiva si impone infatti una riflessione sulla dimensione delle Regioni, sull’attualità del carattere di “specialità”, sull’irrimandabile abbandono delle funzioni amministrative.
C’è dunque molto a fare. Ma ne vale la pena

www.partitodemocratico.it

"Forza Monti: sennò torna B." di Luigi Zingales

L’attuale governo può piacere o meno, ma una cosa è certa: se non vince la battaglia del debito, il Cavaliere scatenerà una massiccia campagna demagogica anti-euro con cui può riprendere il potere l’anno prossimo . Dall’irlandese Cowen allo spagnolo Zapatero, dal portoghese Sócrates, al greco Papandreu, per finire a Berlusconi, la crisi del debito sovrano sta falcidiando i capi dei governi dei paesi coinvolti. Poco importa se di destra o di sinistra, chi governa quando arriva la crisi ne paga le conseguenze.

Uno studio empirico presentato lo scorso fine settimana ai meeting dell’American Economic Association ci dice che queste conseguenze erano facilmente prevedibili. Contrariamente all’opinione prevalente, le crisi finanziarie sono frequenti. Nel periodo 1975-2010 nei 70 principali paesi al mondo ci sono state 448 crisi bancarie e 488 crisi del debito: in media ogni paese ha una crisi bancaria ogni sei anni e una crisi del debito ogni sette. Gli autori sono stati in grado di isolare alcune interessanti regolarità sulle conseguenze politiche delle varie crisi.

Dopo una generica crisi finanziaria, il partito di maggioranza perde in media il 6 per cento dei consensi. A questa perdita si associa in genere una frammentazione del voto, sia nella coalizione di maggioranza sia in quella di minoranza, che rende i governi meno stabili e le riforme più difficili. In questo terremoto elettorale post crisi a perdere sono solitamente i partiti di centro, mentre guadagnano gli estremisti, sia di destra sia di sinistra. Questa radicalizzazione della politica, che vediamo sia negli Stati Uniti sia in Italia, rende più difficile qualsiasi riforma, proprio nel momento in cui un paese ha il maggior bisogno di riforme.

Ma l’effetto è molto diverso a seconda del tipo di crisi. Dopo le crisi bancarie ad aumentare è l’estremismo di destra, mentre dopo le crisi debitorie a guadagnare consensi è la sinistra radicale. Il motivo è molto semplice. Le crisi bancarie tendono a concludersi con una nazionalizzazione delle banche.

L’Espresso 14.01.12

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“”Ministri politici nei posti chiave” Berlusconi studia un rimpasto”, di Francesco Bei

Gli indecisi balzati al record del 43% mentre per il Popolo della libertà crollo al 23,5%. L´idea di un governo di unità nazionale, governo tecnico-politico guidato da Monti
Un Monti-bis «con alcuni politici di peso in settori chiave». Per dare una spinta maggiore al governo e non subirne passivamente le decisioni come è stato finora. Da qualche giorno il Cavaliere è tornato alla casella di partenza, a quell´ipotesi di un governo «tecnico-politico» che resistette appena 48 ore durante le trattative per la formazione del gabinetto Monti. Naufragata allora per il veto del Pd a impegnarsi in una formazione insieme a Gianni Letta o altri ex ministri di Berlusconi come Frattini e Fitto, nelle ultime ore è lo scenario che il Cavaliere sta soppesando attentamente con alcuni consiglieri del primo livello.
Berlusconi è infatti allarmatissimo per il crollo generale di fiducia degli elettori nel sistema dei partiti. Un “downgrading” che (per ora) colpisce il Pdl più di altri. Alla cena romana per i vent´anni del Tg5, due sere fa, l´ex premier ha mostrato al tavolo presidenziale l´ultimo sondaggio riservato di Alessandra Ghisleri. Un quadro drammatico su cui spiccavano due cifre: la percentuale di «indecisi», schizzata al record del 43%, e il crollo del Pdl al 23,5%. Una situazione che impone un cambio di passo. Davanti a Berlusconi, spiega allora uno dei suoi consiglieri più stretti, si distendono tre opzioni. La prima è non fare niente, continuare a sostenere Monti sperando che la crisi finanziaria si attenui. Con il rischio che la curva del consenso del Pdl continui a precipitare verso il basso, sempre più vicina alla soglia psicologica del 20%, «sotto la quale sarebbe il fuggi-fuggi generale». Arrivare in questo modo alle elezioni del 2013 sarebbe un suicidio garantito. E lascerebbe campo libero alle nuove formazioni che banchetteranno sulle spoglie del centrodestra berlusconiano.
La seconda scelta è dunque quella di prendere la palla al balzo: provocare la crisi di governo con qualsiasi pretesto, a partire dal no alle «liberalizzazioni fatte solo contro le categorie che guardano ancora al centrodestra, dai professionisti ai tassisti». Il vantaggio sarebbe la certezza di una rinnovata alleanza con Bossi. Si andrebbe a votare a fine maggio-giugno. Ma ci sarebbe il rischio concreto che la crisi italiana si avviti ancora di più verso la Grecia e, del resto, la stessa Standard&Poor´s ha ieri messo in guardia che «se il governo tecnocratico» dovesse saltare sarebbe inevitabile un ulteriore declassamento che porterebbe il rating del paese al livello «junk», cioè spazzatura. E l´ultima cosa che Berlusconi può permettersi è vedersi gettare nuovamente la croce addosso, essere dipinto come l´irresponsabile» Nerone che appicca il fuoco alla città. La tentazione c´è ma il Cavaliere ha ben presente il costo politico di una crisi di governo per cacciare Monti. «Alla Camera su Cosentino – ha spiegato alla festa del Tg5 – l´altro giorno abbiamo dimostrato di avere sempre noi la maggioranza. E lo stesso è al Senato. Con quei 309 voti pensate se mi presentassi da Napolitano e gli dicessi: eccomi qua, caccia Monti che voglio tornare io a palazzo Chigi. Oppure portaci al voto». Ma «era solo una battuta» e Berlusconi è stato il primo a specificarlo agli attoniti interlocutori.
Ecco dunque affacciarsi di nuovo la terza ipotesi, quella di partenza. Una crisi di governo e un rimpasto sostanziale che consenta la nascita di un Monti-bis. Governo di unità nazionale, governo «tecnico-politico» guidato sempre da Monti, ma con un rapporto stretto con i partiti. Che manderebbero i loro rappresentanti a palazzo Chigi per «metterci la faccia». Per prendersi anche i vantaggi del sostegno all´esecutivo, mentre finora gli elettori hanno premiato Monti nei sondaggi e punito chi ne sostiene in Parlamento l´azione. Si arriverebbe in questo modo alla scadenza naturale della legislatura e la politica potrebbe risalire dall´abisso di sfiducia in cui è precipitata. L´altro valore aggiunto del progetto Monti-bis è che, ridimensionando alcuni dei tecnici che il Cavaliere sospetta abbiano ambizioni politiche, toglierebbe anche ossigeno alle operazioni neocentriste «alla Todi». E non è un mistero quanto il Pdl tenga sotto osservazione speciale le mosse dei ministri Corrado Passera, Andrea Riccardi e Lorenzo Ornaghi.
Per Berlusconi la vera incognita di questo scenario è il rapporto con Bossi. Per un pelo il Cavaliere è riuscito a riagganciare il Senatùr nel voto su Cosentino, di fatto emarginando Maroni, il leader degli anti-berlusconiani padani. Dar vita a una maggioranza politica con Pd e Terzo polo sancirebbe invece una rottura irreparabile con la Lega, per di più alla vigilia delle amministrative. L´unica alternativa sarebbe dunque quella di irretire Bossi, di coinvolgerlo nell´operazione Monti-bis. Magari promettendogli in cambio un sostegno per l´approvazione degli ultimi decreti sul federalismo. Di questi decreti infatti il nuovo governo si è fatto un´opinione pessima. Il ministro che ha aperto i cassetti di Calderoli si è messo le mani nei capelli: «Sono tecnicamente fatti con i piedi». Quel cassetto è stato richiuso e non c´è alcuna fretta di riaprirlo.

La Repubblica 15.01.12

Cento giornali a rischio. Appello a Monti in difesa del pluralismo

La Federazione della Stampa chiede al premier di intervenire subito sul Fondo dell’editoria per evitare la chiusura di oltre un centinaio di testate. Pubblichiamo il testo dell’appello al presidente del Consiglio, Mario Monti, che oggi sarà pubblicato da oltre cento giornali in crisi per i tagli al Fondo per l’editoria

Ci troviamo costretti ad appellarci a Lei per segnalare la drammatica necessità di risposte urgenti per l’emergenza di un settore dell’editoria rappresentativa del pluralismo dell’informazione, un bene prezioso di cui si ha percezione solo quando viene a mancare.
Alla data di oggi, infatti, queste aziende non sono in grado di programmare la propria attività, rischiano di dover a fine mese sospendere le pubblicazioni e anzi alcune hanno già chiuso i battenti. Si tratta dei giornali gestiti in cooperative espressioni di idee, di filoni culturali politici, voci di minoranze linguistiche, di comunità italiane all’estero, no profit per i quali esiste il sostegno previsto dalla legge per le testate non meramente commerciali, ma per le quali oggi non ci sono garanzie sulle risorse disponibili effettivamente per il 2012. C’è inoltre un’urgenza nell’urgenza: la definizione delle pratiche ancora in istruttoria per la liquidazione dei contributi relativi all’esercizio 2010 che riguarda una trentina di piccole imprese.
In assenza di atti certi su questi due punti sta diventando pressoché impossibile andare avanti, mancando persino gli elementi per l’accesso documentario al credito bancario. Nell’ancora breve, ma intensa, attività del Suo Governo, non è mancata occasione per prendere atto della domanda di garanzie per il pluralismo dell’informazione, anche nella fase di transizione verso il nuovo quadro di interventi previsto a partire dal 2014. Siamo decisamente impegnati a sostenere una riforma. Col Sottosegretario in carica fino a pochi giorni fa, Professor Carlo Malinconico, era stato avviato un percorso di valutazione delle possibili linee di iniziative. È indispensabile riprendere questo dossier al più presto.
Il nostro è un vero Sos che riguarda sia le procedure amministrative in corso, da sbloccare, sia la dotazione definitiva per l’editoria durante il 2012.
Il Governo ha già preso atto dell’insufficienza dello stanziamento risultante da precedenti manovre sulla spesa pubblica e ha, perciò, condiviso una norma, approvata dal Parlamento, che include l’editoria tra i soggetti beneficiari del cosiddetto “Fondo Letta” della Presidenza del Consiglio dei Ministri per l’integrazione di questa somma con un prelievo (cifra ancora indeterminata). Ritenevamo e riteniamo che il provvedimento sulle “Proroghe”, divenuto frattanto “proroghe”, possa e debba contenere le misure opportune per stabilire l’impegno finanziario dello Stato durante il 2012. Siamo dell’avviso che sia indispensabile la destinazione da tale Fondo di una somma non inferiore a 100 milioni di euro, al fine di assicurare alle testate del pluralismo dell’informazione non meramente commerciale le condizioni minime di sopravvivenza, nelle more di un riordino del sistema di interventi per il quale ci sentiamo solidamente impegnati.
Si tratterebbe di operare in una linea di equità, analogamente a quanto già fatto dal governo per Radio Radicale, verso l’indispensabile costruzione di un nuovo e più chiaro modello di intervento.
Condividiamo nettamente l’idea che i contributi debbano sempre più essere misurati sulla base dell’impiego dei giornalisti e dell’effettiva diffusione delle testate e che sia davvero “impensabile eliminare completamente i contributi che sono il lievito di quella informazione pluralistica che è vitale per il Paese”, come Ella ha recentemente dichiarato in sintonia con una risposta che il Capo dello Stato diede tre mesi fa a un appello dei direttori dei giornali.
Grati per l’attenzione d’intesa con Fnsi, Sindacati dei lavoratori, Associazioni di Cooperative del settore (come Mediacoop, Fisc e Federcultura/Confcooperative), giornali di idee, no profit, degli italiani all’estero, delle minoranze linguistiche Articolo21, e Comitato per la Libertà dell’informazione vogliamo aver fiducia che una puntuale e tempestiva risposta eviti la chiusura di molte delle nostre testate e la perdita di migliaia di posti di lavoro tra giornalisti e lavoratori del nostro sistema e dell’indotto. Se i nostri cento giornali dovessero chiudere nessuna riforma dell’editoria avrebbe, ovviamente, più senso.

L’Unità 14.01.12

"Norme chiare per evitare altri casi Colosseo", di Matteo Orfini

La questione Colosseo è talmente sensibile che polemiche e strumentalizzazioni vanno messe in conto. Ma se vogliamo evitare di fare un ulteriore danno a uno dei simboli della nostra cultura e ai soggetti coinvolti in questa storia, è bene evitare ricostruzioni fantasiose o di comodo. E magari cogliere l’occasione per fissare alcuni paletti, così da evitare di trovarci in futuro in situazioni analoghe. La prima cosa che
abbiamo il dovere di dire è che è semplicemente una vergogna che lo Stato italiano non abbia le risorse per restaurare non un sito sperduto nelle campagne romane,
ma il Colosseo. Se questo avviene non è per ineluttabilità del fato, ma per precise scelte politiche che portano i nomi e i cognomi dei ministri che si sono succeduti in questi ultimi anni. Spiace dire che, almeno fino a questo momento, non si avverte alcuna discontinuità: la visione della cultura come uno dei pilastri su cui costruire l’uscita dalla crisi non sembra essere propria del governo Monti.
Se oggi ci troviamo nella confusione di inchieste e ricorsi, non è certo colpa di Della Valle e del suo generoso impegno, e tutti crediamo che nelle sue intenzioni non ci sia la volontà di sfruttare commercialmente il Colosseo. Ma questo purtroppo non consente a nessuno, nemmeno a Della Valle medesimo, di sostenere che lo strumento utilizzato non abbia il carattere di un contratto commerciale tra pubblico e
privato. C’è una differenza tra mecenatismo e sponsorizzazione, e questa differenza sta esattamente nella presenza di uno scambio. Se non si è interessati a questo aspetto, si può scegliere di fare una semplice donazione, come previsto dalle norme sulle erogazioni liberali. Se questa era l’intenzione della Tod’s, e non abbiamo ragione di dubitarne, male hanno fatto al ministero a proporre di seguire un’altra strada.
La gestione ministeriale dell’intera operazione ha da subito alimentato in noi qualche perplessità. Non ci siamo mai accodati al coro di sciocchezze sulla privatizzazione del Colosseo e vediamo chiaramente il carattere strumentale di alcuni
esposti e ricorsi, che hanno origine più da insopportabili scontri di potere nei sotterranei del ministero che dalla preoccupazione per le ragioni della tutela. Nessuno di noi ha mai messo in dubbio la correttezza giuridica dell’operazione, anche perché norme articolate e specifiche sulle sponsorizzazioni culturali non ce
ne sono e quindi era oggettivamente complesso per il ministero istruire una operazione di questa rilevanza. Al tempo dell’assegnazione osservammo che ci sembrava lesivo della concorrenza che la natura dello scambio pubblico/privato non fosse stata messa a bando, ma decisa successivamente, e che non vi fosse stata alcuna parametrazione oggettiva e scientifica del valore dello sfruttamento dell’immagine concesso a Della Valle. Viene da chiedersi cosa ci stia a fare una direzione generale per la valorizzazione al ministero dei Beni culturali se nemmeno è in grado di fare questo. Le nostre preoccupazioni sono state sostanzialmente confermate dal parere dell’Antitrust. La vicenda poteva e doveva essere gestita meglio, ma l’importante oggi è trarre insegnamento da quanto accaduto senza reagire in modo scomposto e senza arroccamenti. Lo scrivo al ministro Ornaghi e al
sottosegretario Cecchi: forse ha senso discutere rapidamente di una nuova norma per le sponsorizzazioni che chiarisca modalità, limiti e garanzie per il patrimonio, ma anche per imprenditori e privati che mostrano attenzione e sensibilità apprezzabili. Non possiamo accettare che chi come Della Valle vuole dare una mano si ritrovi in questo tritacarne per mancanza di una normativa efficace. Noi siamo disponibili a discuterne da domani, nella speranza che i vertici politici del ministero si convincano a uscire dalla stanca e un po’ assente gestione dell’ordinaria amministrazione che ha
caratterizzato queste prime settimane a via del Collegio romano.

L’Unità 14.01.12

"Il Governo taglia le auto blu", da lastampa.it

Giro di vite del governo sulle auto blu per gli organi costituzionali e gli enti locali. Con un decreto del presidente del Consiglio, presentato dal ministro Patroni Griffi, il governo ottempera ad una ordinanza del Tar che chiedeva di intervenire in merito, convinto di poter così «conseguire risparmi significativi».

Il nuovo decreto del Governo modifica un precedente decreto laddove si imponeva l’utilizzo alternativo dei mezzi di trasporto pubblico solo quando ne veniva assicurata ‘uguale efficacia’. In pratica, i mezzi pubblici si possono o debbono usare sempre. Così come viene eliminata la norma che concedeva alle amministrazioni un termine di trenta giorni per la comunicazione al Dipartimento della funzione pubblica dell’acquisto o della presa in possesso di un’autovettura.

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Tagli alle auto blu: «Usate il bus», di Alessandra Arachi

Adesso tocca alle auto blu. Parola di governo. Che nel Consiglio dei ministri di ieri ha varato un nuovo decreto per tagliare le auto di servizio delle Amministrazioni centrali, ma anche di Comuni, Province, Regioni. Le auto blu in eccesso potrebbero finire all’asta.
«Il mezzo pubblico dovrà essere utilizzato tutte le volte che ciò determinerà risparmi per la Pubblica amministrazione», avverte in una nota il ministero di Filippo Patroni Griffi, che questo decreto ha proposto. E che di qui a sei mesi ha intenzione di rendere operativo.
«La questione è che bisogna cambiare il punto di vista. Bisogna smettere di pensare alle auto blu come a un privilegio, ma devono diventare un mero strumento di lavoro», dice il ministro Patroni Griffi spiegando che al suo dicastero della Funzione pubblica stanno ultimando un censimento sulle auto blu sparse tutto il territorio italiano.
Poi aggiunge: «Fino a ora abbiamo censito circa 50 mila auto blu in oltre 5.600 amministrazioni (su 8.145). Entro una settimana contiamo di finire la conta e di passare alla valutazione dei tagli. Vogliamo fare un monitoraggio qualitativo e non soltanto quantitativo. Non vogliamo, cioè, tagliare a prescindere, ma individuare gli sprechi e poi tagliare».
I criteri per i tagli alle auto di rappresentanza sono già fissati, per la maggior parte. Alcuni esempi? Il ministro Patroni Griffi non li lesina. Dice: «Pensiamo che l’auto blu debba essere concessa al ministro, ma non al direttore generale. Così come sì al sindaco, ma non agli assessori o al segretario generale. Ai presidenti delle Regioni, ma non ad altri».
Il decreto varato ieri dal governo mira a ottemperare un’ordinanza del Tar del Lazio (la 4139 del 10 novembre 2011) che chiedeva il riesame di un precedente decreto in materia che escludeva dalla sua applicazione gli organi costituzionali, le Regioni, gli enti locali nonché le amministrazioni che utilizzano non più di una autovettura di servizio.
È stato modificato quel decreto. «E adesso è previsto anche che un’amministrazione che compra una nuova auto blu debba darne comunicazione immediata e non entro trenta giorni», dice ancora il ministro Filippo Patroni Griffi, che pensa di mettere a disposizione delle pubbliche amministrazioni automobili condivise.
Spiega infatti: «Ci deve essere un’auto di servizio. Un’automobile a disposizione di un’amministrazione che non deve rimanere ferma, inutilizzata, ma deve servire per un direttore generale come per un funzionario, alla stessa stregua».
Il piano dei tagli dovrebbe quindi essere in vigore entro sei mesi. Ancora non si conosce il numero esatto delle auto blu che verranno sottratte alle amministrazioni, ma di certo dovrebbe essere un numero consistente. Che ne sarà di loro?
Il ministro della Funzione pubblica ha una risposta: «Stiamo ancora valutando le varie ipotesi. Ma l’idea potrebbe essere di mettere queste automobili blu all’asta e di usare poi quei soldi per migliorare la funzionalità degli uffici. Di questi tempi i bilanci delle pubbliche amministrazioni non sono certo floridi».

Il Corriere della Sera 14.01.12