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"Il dramma del Paese:il 30% dei giovani resta senza lavoro", di Anna Livino

L’occupazione è ferma, da settembre non schioda dai suoi numeri e non apre spiragli. La disoccupazione invece aumenta e segna una distanza sempre più ampia tra i giovani e il mondo del lavoro. Il 30,1% di chi ha meno di 24 anni non ha un posto. La stima – diffusa ieri dall’Istat – è per difetto. Considera infatti solo coloro che un lavoro lo cercano attivamente: gli altri, chi ha rinunciato a muoversi perché sfiduciato, non sono registrati.
SENZA SPERANZA È sempre più allarme disoccupazione in Italia. Sono i giovani e le donne i più penalizzati dalla crisi economica che ha colpito duramente il mercato del lavoro. Un giovane su tre, di età compresa tra i 15 e i 24 anni, non ha un’occupazione. E si tratta solo di coloro che cercano attivamente un posto. Se poi si è giovani e donne e si vive al Sud, la situazione si fa drammatica: quattro su dieci sono disoccupate. Non è incoraggiante il quadro tracciato dall’Istat: sono le stime provvisorie di novembre e dati relativi al terzo trimestre del 2011. Arrivano proprio quando i sindacati e il governo si apprestano a mettersi intorno a un tavolo per riformare ancora una volta il mercato del lavoro e, possibilmente , gli ammortizzatori sociali. Cgil, Cisl e Uil chiedono con una sola voce al governo un piano che favorisca l’incontro tra i giovani e l’occupazione. Il tasso di disoccupazione dei ragazzi tra i 15 e i 24 anni è balzato, a novembre 2011, al 30,1% mettendo a segno un record decisamente negativo perché era dal gennaio del 2004, anno in cui sono iniziate le serie storiche mensili, che non si registrava un dato così alto. Al Sud il tasso di disoccupazione delle ragazze, nel terzo trimestre dell’anno scorso, è addirittura al 39%. Il quadro complessivo, comunque, è negativo per tutti: a novembre l’esercito dei senza lavoro conta oltre2milioni di persone, il tasso di disoccupazione sale all’8,6% toccando i valori massimi da lmaggio del 2010, quello di inattività è del 37,8%. Dall’aprile del 2008, cioè da quando è iniziata la crisi, sono stati bruciati 670mila posti di lavoro. Una diaspora che non accenna a diminuire. E colpisce in modo impressionante le donne che è aumentato in modo preoccupante, registrando a novembre il 6% in più rispetto a ottobre e il +5,2% su base annua. Prendendo in considerazione i dati del terzo trimestre del 2011, invece, quello che salta agli occhi è la permanenza nel mondo del lavoro degli over 55 e la contestuale uscita di coloro che hanno meno di 34 anni. Complici i recenti interventi sul fronte delle pensioni, compreso il cosiddetto effetto finestre, i padri restano sempre più a lavoro e i figli escono dal mercato. Dai dati Istat emerge, infatti, che la mancata uscita degli occupati più adulti (+168mila unità nella classe con almeno 55 anni), soprattutto di quelli con contratto a tempo indeterminato, ha più che compensato il calo su base annua di quelli più giovani (-157mila unità nella classe fino a 34 anni).
I FALSI PROBLEMI Dati che, per Savino Pezzotta, dimostrano «che la questione dell’articolo 18 è un falso problema e che insistervi sarebbe un errore e non farebbe altro che accentuare lo scontro sociale, cosa di cui l’Italia non bisogno «. «Il dato record della disoccupazione giovanile impone che la si smetta con slogan e strumentalizzazioni, servono scelte precise che riducano le 46 tipologie contrattuali esistenti». È quanto affermano nota i giovani della Cgil annunciando il lancio della campagna «per svelare trucchi e magie del contratto unico in realtà «inganno unico».

L’Unità 06.01.12

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“Se l’Europa non pensa al futuro”, di IRENE TINAGLI

Il 2012 dovrà essere l’anno dei giovani. Dovrà esserlo per forza, perché non è più tollerabile che Paesi che si sciacquano tanto la bocca con parole come crescita e futuro accettino in silenzio milioni di giovani sempre più soli, senza lavoro, senza protezioni sociali né prospettive. In Italia la disoccupazione tra i giovani sotto i 25 anni ha oltrepassato il 30%. E anche se i sindacati gridano all’emergenza licenziamenti e disoccupazione complessiva, non è così: il problema sta nella fascia giovanile.

Il tasso di disoccupazione degli adulti è più o meno lo stesso di un anno fa. Quello dei giovani in un solo anno è passato dal 26% al 30%. Prima della crisi era al 20%. E spesso non si è trattato nemmeno di licenziamenti, perché la maggior parte di questi giovani non hanno mai visto un contratto a tempo indeterminato, non hanno mai visto indennità di disoccupazione, cassa integrazione, né supporto per maternità o malattia. Si sono semplicemente visti chiudere progetti, scemare le commesse, non rinnovare incarichi.

Nessuna violazione dello statuto dei lavoratori, niente di cui i sindacati abbiano da lamentarsi, tutto regolare. Delle specie di morti rosa, che non fanno rumore, che si consumano nel silenzio dei nuclei familiari e che non mobilitano la piazza. E nessuno ha mai saputo o voluto dare risposta a questo esercito crescente di inoccupati o sottoimpiegati. Come spiega benissimo Pietro Ichino nel suo ultimo libro (Inchiesta sul Lavoro, Mondadori), ha fatto comodo a tanti, a troppi, che ci fosse questa valvola di sfogo: alle imprese come ai sindacati. Per questo è importante che il nuovo governo metta mano ad una vera riforma del lavoro che elimini questo odioso dualismo che c’è oggi nel mercato del lavoro: una parte completamente ingessata e una parte abbandonata a se stessa.

Non possiamo continuare a pensare che i posti per i giovani si creino con i prepensionamtenti. Non solo perché l’ultima riforma non lo consente più, ma perché questa soluzione, ampiamente abusata in passato (in Italia ma anche in altri Paesi europei), ha dimostrato quanto sia fallimentare in un mercato del lavoro rigido e chiuso. Tutto quello che queste politiche hanno generato sono decine di miliardi da pagare in pensioni evitabili e quasi nessun posto di lavoro «buono» creato per i giovani.

Né ci possiamo illudere che semplicemente aumentando il costo del lavoro «flessibile», senza toccare niente del restante mercato, possiamo scoraggiarne l’uso. Tali aumenti non faranno che scaricarsi sui redditi dei giovani (il cui salario di ingresso nel mondo del lavoro continua a calare) e incentivare un ulteriore migrazione da contratti a progetto alle partite Iva (assai più costose per i giovani), come già è ampiamente avvenuto negli ultimi anni.

Quello che è necessario è qualcosa che questo governo sa benissimo, ovvero misure per la crescita attraverso liberalizzazioni e alleggerimento degli oneri (fiscali e burocratici) per far nascere e crescere le imprese, e riforme del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali. Perché è così difficile farle? Perché non tutte sono a costo zero, soprattutto il ridisegno degli ammortizzatori sociali in un modo che includa anche i giovani. Non è impossibile, potrebbe essere fatto rivedendo da un lato gli attuali aiuti alle imprese (circa trenta miliardi di aiuti iscritti a bilancio, molti dei quali di dubbia utilità) e dall’altro gli attuali sistemi di protezione sociale (a partire dalla cassa integrazione a zero ore a fondo perduto). Non c’è quindi bisogno di troppe spiegazioni per capire perché né imprese né sindacati scalpitino per tali riforme. Eppure qualcuno a un certo punto dovrà cominciare a pensare non solo ai propri iscritti, associati ed elettori, ma al Paese tutto intero, incluso coloro che non hanno né voto né tessere in tasca.

Si tratta di un problema che dovrà affrontare non solo l’Italia, ma anche molti altri governi. In molti Paesi, infatti, le politiche economiche e sociali hanno fatto fatica a rispondere adeguatamente ai rapidi cambiamenti internazionali dell’economia e del lavoro degli ultimi anni, non solo per incompetenza, ma spesso perché frenati da forti resistenze interne e interessi di gruppi più o meno grandi. Basta guardare alla Spagna. Un Paese dove la disoccupazione giovanile ha superato il 42%, ma dove tale tema è stato sopravanzato in campagna elettorale dalla questione delle pensioni. E infatti, nonostante il deficit, i tagli alla ricerca e gli aumenti delle tasse, l’unica concessione del nuovo governo è stata fatta ai pensionati, sbloccando le indicizzazioni e rivalutando le pensioni. Ma il problema non è solo in Spagna. La disoccupazione giovanile in Francia è al 23%, in Belgio al 18%, in Svezia al 22%, in Gran Bretagna al 20%. Ovunque si fatica a trovare il bandolo della matassa (nonostante a pochi chilometri ci siano Paesi in cui le cose funzionano assai meglio, ma che, per qualche motivo, sembrano impossibili da seguire).

Mario Monti inizia oggi il suo «tour» europeo: c’è da sperare che oltre a convincere gli altri Paesi che l’Italia sta cambiando e migliorando gli faccia capire che qualcosa dovranno cambiare anche loro, e che dovremo impegnarci tutti insieme se vogliamo che questo continente da vecchio non diventi decrepito

La Stampa 06.01.12

"La concorrenza tra le università non deve sparire", di Guido Tabellini

In questi giorni il Governo Monti si sta mobilitando per liberalizzare i servizi e introdurre più concorrenza nell’economia italiana. Saranno provvedimenti cruciali, perché una migliore allocazione delle risorse è fondamentale per stimolare la crescita della produttività e rilanciare lo sviluppo economico. Sorprendentemente tuttavia, in questi stessi giorni la politica della ricerca sta andando nella direzione opposta: la nuova procedura per l’assegnazione dei finanziamenti alla ricerca universitaria sembra fatta apposta per peggiorare l’allocazione delle risorse, distribuendole a pioggia e annacquando la competizione tra istituti di ricerca.

Le nuove procedure per l’assegnazione dei fondi per la ricerca di base (i cosiddetti Prin) e per l’inserimento dei giovani nelle università prevedono stringenti limiti numerici alle proposte che possono essere presentate da ogni ateneo, in proporzione al suo organico. Inoltre, sono ammessi al finanziamento esclusivamente progetti che prevedono la collaborazione di almeno cinque “unità di ricerca”, cioè almeno cinque distinti gruppi di ricercatori appartenenti a dipartimenti diversi. Sono invece esclusi dal finanziamento i progetti di ricerca individuali o promossi da un numero più basso di ricercatori. Come hanno giustamente osservato Fabio Beltram e Chiara Carrozza sul Sole 24 Ore (3 gennaio 2012), sono norme incomprensibili e che non trovano alcun riscontro nelle migliori prassi internazionali.

Nell’intervista rilasciata ieri a questo giornale, il ministro Francesco Profumo ha osservato che con questa procedura si vuole innalzare la qualità media della ricerca, evitando di sostenere singole eccellenze, e invitando invece gli atenei migliori a mettersi a disposizione e a collaborare su grandi progetti. Purtroppo è facile prevedere come andrà a finire: pur di non essere esclusi i ricercatori saranno costretti a formare cordate che esistono sulla carta e per i burocrati del ministero, ma che poi non interagiranno tra loro se non per dividere il tempo perso a dare l’apparenza della collaborazione. E le risorse saranno distribuite a pioggia indipendentemente da chi sa farne il miglior uso.

Il problema centrale della politica della ricerca in Italia non è che il sostegno va esclusivamente alle singole eccellenze. Il problema è l’esatto opposto: le eccellenze italiane, e ci sono, non sono adeguatamente sostenute, né sono concentrate in modo da creare davvero massa critica. Può essere utile un confronto. Nel 2005 la National Science Foundation americana ha finanziato circa 100 progetti nelle scienze economiche. I vincitori appartenevano a solo 42 università in tutti gli Stati Uniti; cioè, in media ognuna di queste università ha vinto un po’ più di due progetti. Le università migliori quindi hanno fatto la parte del leone. Nello stesso anno e nella stessa area disciplinare, in Italia su 51 progetti finanziati sono risultate vincitrici 54 università. Cioè quasi tutte le università italiane hanno ottenuto un finanziamento.

È probabile che questa ripartizione a pioggia tipica del nostro sistema rifletta due problemi: l’incapacità di selezionare in base al merito; e il fatto che le eccellenze italiane sono spesso disperse in molte sedi diverse, nessuna delle quali è in grado di raggiungere una massa critica. La rilevanza del secondo problema è spesso sottostimata: un bravo ricercatore è molto più produttivo se è circondato da altri talenti, e questa è la ragione per cui molti dei nostri migliori ricercatori oggi sono all’estero. La concentrazione delle eccellenze è un passaggio inevitabile se vogliamo davvero alzare la qualità media della ricerca in Italia. Purtroppo, le nuove procedure per l’assegnazione dei fondi alla ricerca e per i giovani contribuiranno ad aggravare ulteriormente la situazione.

Il ministro Profumo ha implicitamente suggerito una seconda ragione per cui sono state adottate queste nuove norme: per semplificare e accorciare le procedure di selezione tra progetti, in previsione di un numero molto elevato di domande. Questo motivo, seppure comprensibile, rivela in realtà un problema più serio. In Italia i finanziamenti alla ricerca sono erogati dal ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca. Regole e procedure sono scelte dalla burocrazia del ministero, che a sua volta è organizzata secondo criteri arcaici e poco flessibili, e spesso è poco consapevole di quali sono le esigenze e le migliori prassi della comunità scientifica internazionale.
In altri Paesi avanzati, invece, i finanziamenti alla ricerca sono erogati da un’agenzia indipendente, organizzata per settori disciplinari, e con forti legami con la comunità scientifica. Se vogliamo davvero rendere più efficaci le procedure di erogazione dei finanziamenti alla ricerca, la prima cosa da fare è attribuire questo compito a un’agenzia indipendente, lasciando al ministero solo il compito strategico di stabilire gli importi aggregati e la suddivisione per aree disciplinari.
La priorità di questo Governo è affrontare l’emergenza economica, non riformare scuola e università. Tuttavia, evitiamo quantomeno che la politica universitaria faccia passi indietro. C’è bisogno di più concorrenza e di una migliore allocazione delle risorse anche nelle scuole e nelle università italiane, non solo nell’economia privata.

Il Sole 24 Ore 06.01.12

Disoccupazione giovanile ai massimi dal 2004: senza lavoro un giovane su tre

E’ allarme disoccupazione per i giovani in Italia. A novembre, in base ai dati provvisori diffusi dall’Istat, il tasso di disoccupazione giovanile è salito al 30,1%: si tratta del dato più alto dal gennaio del 2004, anno in cui sono iniziate le serie storiche mensili. In sostanza, un giovane su tre di coloro che partecipano al mercato del lavoro, di età compresa tra i 15 e i 24 anni, è disoccupato. Il dato sulla disoccupazione giovanile (fascia 15-24 anni) é il più alto, sottolineano i tecnici dell’Istat, “dal gennaio 2004, quindi dall’inizio delle serie storiche mensili”.
La crisi economica appare essersi poi abbattuta con forza sul mercato del lavoro. Sono 670mila gli occupati in meno in Italia dall’aprile del 2008, inizio della crisi, e novembre 2011. Ad aprile del 2008 gli occupati erano 23.573.000, mentre a novembre 2011 erano 22.906.000.010.
Nel terzo trimestre 2011 il tasso di disoccupazione é pari al 7,6%, un decimo di punto in più rispetto al terzo trimestre 2010.
L’Istat rende noti anche i dati provvisori di novembre, con un tasso di disoccupazione all’8,6%, in aumento di 0,1 punti percentuali su ottobre e di 0,4 punti su base annua: si tratta del dato più elevato da maggio 2010.
In particolare a novembre 2011 gli occupati sono 22.906 mila, in diminuzione dello 0,1% (-28 mila unità) rispetto a ottobre. Il calo riguarda la sola componente femminile. Nel confronto con lo stesso mese dell’anno precedente l’occupazione diminuisce di 67 mila unità pari allo 0,3%.
Quanto al tasso di occupazione si attesta al 56,9%, in diminuzione di 0,1 punti percentuali nel confronto congiunturale e di 0,2 punti in termini tendenziali.
dal Sole 24 Ore del 5 gennaio 2012

“Lavoro, quella trappola chiamata contratto unico”, di Luigi Mariucci

Sul tema del cosiddetto “contratto unico” circolano molte proposte, tra loro radicalmente diverse, il cui solo tratto comune consiste in realtà nell’aggiungere un “contratto in più”. Rimarrebbero infatti in vigore molte altre forme contrattuali, dall’apprendistato al lavoro a termine, dal lavoro in affitto ad altre tipologie di contratti atipici. L’aggettivo “unico” è quindi mistificatorio: viene utilizzato a fini seduttivi. Tanto che da ultimo si usa l’espressione, certo inestetica ma più vera, di contratto“prevalente”
Per ricostruire il senso della proposta occorre quindi risalire alla sua formulazione iniziale, importata in Italia ma dovuta in realtà a due economisti francesi (Cahuc e Kramarz), che ha ispirato in Francia il cosiddetto contratto di “nouvelle embauche”, dichiarato poi illegittimo dalla Corte d’appello di Parigi tra l’altro con la seguente e icastica motivazione: «È paradossale pensare che per aumentare l’occupazione si debbano liberalizzare i licenziamenti».
L’idea originaria, per quanto criticabile, era tuttavia chiara: essa consisteva nello scambio tra un nuovo contratto di assunzione a termine, assistito da varie provvidenze economiche (quali una indennità in caso di cessazione del rapporto) e abrograzione della tutela reale contro i licenziamenti ingiustificati, di cui all’art.18 dello Statuto dei lavoratori. Questa idea era già stata al centro del libro bianco del governo Berlusconi del 2001 e risponde a una filosofia schiettamente liberista: secondo questa impostazione meno vincoli ci sono nell’uso della forza-lavoro meglio è, perché più cresce l’occupazione. Tale impostazione viene reiterata in maniera ossessiva, a dispetto delle controevidenze empiriche: basti dire che il mercato del lavoro americano, tra i più liberalizzati del mondo occidentale, è stato a lungo indicato come modello, salvo scoprire che ora negli Usa ci sono più disoccupati (circa venti milioni di persone) che in Italia.
Il pensiero liberista tuttavia non demorde. Questa idea dello scambio tra abrogazione della legge sui licenziamenti e nuova disciplina delle assunzioni è infatti il cuore delle molteplici proposte da tempo avanzate da Pietro Ichino, il quale tuttavia da ultimo le ha edulcorate: nella più recente versione del suo progetto infatti l’art.18 dello Statuto verrebbe abrogato solo per i nuovi assunti, lasciandolo inalterato per i già occupati. Il che introdurrebbe in realtà un nuovo e inaccettabile dualismo tra quanti sono già entrati nel mercato del lavoro e coloro che aspirano ad entrarci. Si aggiunga che in quel progetto verrebbero liberalizzati per tutti i licenziamenti per motivi economici, proprio quelli che già sono ampiamente attuati nelle molteplici gestioni delle crisi aziendali. Diversa è la proposta avanzata a suo tempo da Tito Boeri, centrata sull’idea di una assunzione a termine, con progressiva acquisizione delle tutele di stabilità. Qui il dubbio principale consiste nel chiarire che cosa accade se al termine del triennio il lavoratore non viene assunto a tempo indeterminato. Si ricomincia da capo, in una sorta di infinito gioco dell’oca?
Infine altri disegni di legge, come quello firmato tra gli altri da Cesare Damiano, ipotizzano un “contratto unico di inserimento”, di tutt’altro tenore, e molto vicino alla figura dell’apprendistato o dei vecchi contratti di formazione-lavoro, il cui senso è legato alla previsione parallela di una forte incentivazione fiscale alle assunzioni a tempo indeterminato. Tutte le proposte qui richiamate si collegano poi, direttamente o indirettamente, alla decisiva questione della riforma

"Il valore dei beni comuni", di Stefano Rodotà

Si può dire che il 2011 sia stato l´anno (anche) dei beni comuni. Espressione, questa, fino a poco tempo fa assente nella discussione pubblica, del tutto priva d´interesse per la politica, anche se il premio Nobel per l´economia era stato assegnato nel 2009 a Elinor Ostrom proprio per i suoi studi in questa materia. Poi, quasi all´improvviso, l´Italia ha cominciato ad essere percorsa da quella che Franco Cassano aveva chiamato la “ragionevole follia dei beni comuni”. E questo è avvenuto perché la forza delle cose ha imposto un mutamento dell´agenda politica con il referendum sull´acqua come “bene comune”. Da quel momento in poi è stato tutto un succedersi di iniziative concrete e di riflessioni teoriche, che hanno portato alla scoperta di un mondo nuovo e all´estensione di quel riferimento ai casi più disparati. Si parla di beni comuni per l´acqua e per la conoscenza, per la Rai e per il teatro Valle occupato, per l´impresa, e via elencando. Nelle pagine culturali di un quotidiano campeggiava qualche mese fa un titolo perentorio: “I poeti sono un bene comune”.
L´inflazione non è un pericolo soltanto in economia. Si impone, quindi, un bisogno di distinzione e di chiarimento, proprio per impedire che un uso inflattivo dell´espressione la depotenzi. Se la categoria dei beni comuni rimane nebulosa, e in essa si include tutto e il contrario di tutto, se ad essa viene affidata una sorta di palingenesi sociale, allora può ben accadere che perda la capacità di individuare proprio le situazioni nelle quali la qualità “comune” di un bene può sprigionare tutta la sua forza. E tuttavia è cosa buona che questo continuo germogliare di ipotesi mantenga viva l´attenzione per una questione alla quale è affidato un passaggio d´epoca. Giustamente Roberto Esposito sottolinea come questa sia una via da percorrere per sottrarsi alla tirannia di quella che Walter Benjamin ha chiamato la “teologia economica”.
Ciò di cui si parla, infatti, è un nuovo rapporto tra mondo delle persone e mondo dei beni, da tempo sostanzialmente affidato alla logica del mercato, dunque alla mediazione della proprietà, pubblica o privata che fosse. Ora l´accento non è più posto sul soggetto proprietario, ma sulla funzione che un bene deve svolgere nella società. Partendo da questa premessa, si è data una prima definizione dei beni comuni: sono quelli funzionali all´esercizio di diritti fondamentali e al libero sviluppo della personalità, che devono essere salvaguardati sottraendoli alla logica distruttiva del breve periodo, proiettando la loro tutela nel mondo più lontano, abitato dalle generazioni future.
L´aggancio ai diritti fondamentali è essenziale, e ci porta oltre un riferimento generico alla persona. In un bel saggio, Luca Nivarra ha messo in evidenza come la prospettiva dei beni comuni sia quella che consente di contrastare una logica di mercato che vuole “appropriarsi di beni destinati al soddisfacimento di bisogni primari e diffusi, ad una fruizione collettiva”. Proprio la dimensione collettiva scardina la dicotomia pubblico-privato, intorno alla quale si è venuta organizzando nella modernità la dimensione proprietaria. Compare una dimensione diversa, che ci porta al di là dell´individualismo proprietario e della tradizionale gestione pubblica dei beni. Non un´altra forma di proprietà, dunque, ma «l´opposto della proprietà», com´è stato detto icasticamente negli Stati Uniti fin dal 2003. Di questa prospettiva vi è traccia nella nostra Costituzione che, all´articolo 43, prevede la possibilità di affidare, oltre che ad enti pubblici, a “comunità di lavoratori o di utenti” la gestione di servizi essenziali, fonti di energia, situazioni di monopolio. Il punto chiave, di conseguenza, non è più quello dell´ “appartenenza” del bene, ma quello della sua gestione, che deve garantire l´accesso al bene e vedere la partecipazione di soggetti interessati.
I beni comuni sono “a titolarità diffusa”, appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive. Devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà. Indisponibili per il mercato, i beni comuni si presentano così come strumento essenziale perché i diritti di cittadinanza, quelli che appartengono a tutti in quanto persone, possano essere effettivamente esercitati. Al tempo stesso, però, la costruzione dei beni comuni come categoria autonoma, distinta dalle storiche visioni della proprietà, esige analisi che partano proprio dal collegamento tra specifici beni e specifici diritti, individuando le modalità secondo cui quel “patrimonio comune” si articola e si differenzia al suo interno.
Se, ad esempio, si considera la conoscenza in Rete, uno dei temi centrali nella discussione, ci si avvede subito della sua specificità. Luciano Gallino ne ha giustamente parlato come di un bene pubblico globale. Ma proprio questa sua globalità rende problematico, o improponibile, uno schema istituzionale di gestione che faccia capo ad una comunità di utenti, cosa necessaria e possibile in altri casi. Come si estrae questa comunità dai miliardi di soggetti che costituiscono il popolo di Internet? Di nuovo una sfida alle categorie abituali. La tutela della conoscenza in Rete non passa attraverso l´individuazione di un gestore, ma attraverso la definizione delle condizioni d´uso del bene, che deve essere direttamente accessibile da tutti gli interessati, sia pure con i temperamenti minimi resi necessari dalle diverse modalità con cui la conoscenza viene prodotta. Qui, dunque, non opera il modello partecipativo e, al tempo stesso, la possibilità di fruire del bene non esige politiche redistributive di risorse perché le persone possano usarlo. È il modo stesso in cui il bene viene “costruito” a renderlo accessibile a tutti gli interessati.
Ben diverso è il caso dell´impresa, di cui pure si discute. Qui è grande il rischio della confusione. Sappiamo da tempo che l´impresa è una “costellazione di interessi” e che sono stati costruiti modelli istituzionali volti a dar voce a tutti. Ma la partecipazione, anche nelle forme più intense di cogestione, non mette tutti i soggetti sullo stesso piano, né elimina il fatto che il punto di partenza è costituito da conflitti, non da convergenza di interessi. Parlare di bene comune è fuorviante.
L´opera di distinzione, definizione, costruzione di modelli istituzionali differenziati anche se unificati dal fine, è dunque solo all´inizio. Ma non rimane nel cielo della teoria. Proprio l´osservazione della realtà italiana ci offre esempi del modo in cui la logica dei beni comuni cominci a produrre effetti istituzionali. Il comune di Napoli ha istituito un assessorato per i beni comuni; la Regione Puglia ha approvato una legge, pur assai controversa, sull´acqua pubblica; la Regione Piemonte ne ha approvata una sugli open data, sull´accesso alle proprie informazioni; in Senato sono stati presentati due disegni di legge sui beni comuni e vi sono proposte regionali, come in Sicilia. Si sta costruendo una rete dei comuni ed una larga coalizione sociale lavora ad una Carta europea.
Quel che unifica queste iniziative è la loro origine nell´azione di gruppi e movimenti in grado di mobilitare i cittadini e di dare continuità alla loro presenza. Una novità politica che i partiti soffrono, o avversano. Ancora inconsapevoli, dunque, del fatto che non siamo di fronte ad una questione marginale o settoriale, ma ad una diversa idea della politica e delle sue forme, capace non solo di dare voce alle persone, ma di costruire soggettività politiche, di redistribuire poteri. È un tema “costituzionale”, almeno per tutti quelli che, volgendo lo sguardo sul mondo, colgono l´insostenibilità crescente degli assetti ciecamente affidati alla legge “naturale” dei mercati.

La Repubblica 05.01.12

"Orari liberi, il “sì però” democratico", di Fabrizia Bagozzi

Le lenzuolate di Monti sono di destra o di sinistra? Ne parliamo con l’ex mister prezzi. In vigore da appena cinque giorni, la deregulation su orari e apertura dei negozi non smette di alimentare polemiche al calor bianco. I commercianti – con la significativa eccezione dei grandi operatori – paventano la sostanziale soppressione dei piccoli e medi. Un agguerrito ed eterogeneo rassemblement di regioni (le rosse Toscana e Puglia, le verdi Piemonte e Veneto) annuncia ricorso alla Consulta per conflitto di competenze.
Per tutta risposta il Codacons fa sapere che denucerà all’Antitrust i governatori che lo faranno. La Cgil tuona: «I nuovi orari di negozi si concordano in regione e nelle città.
Non si decidono a Roma per decreto». Anche i governatori dem discutono. Burlando (Liguria) ritiene che il liberi tutti sia un’opportunità. Rossi (Toscana) che un minimo di regole «a tutela di consumatori, lavoratori e piccolo commercio» sia necessario.
Ma la liberalizzazione del commercio targata Monti porterà più benefici o più problemi? Ed era questo il momento giusto per farla, ammesso che per fare riforme di questo tipo esista un momento giusto? Europa ne ha parlato con Antonio Lirosi, responsabile consumatori e commercio de Pd, già garante per la sorveglianza dei prezzi nel Prodi 2, e uno dei principali collaboratori del Bersani “liberalizzatore” del ‘98 e del 2006. Spiega Lirosi che in realtà il grosso del cambiamento si è verificato a partire dal ‘98, quando Bersani lasciò agli operatori la possibilità di decidere quando aprire (incluso lo stop infrasettimanale), fatto salvo il tetto di 13 ore di apertura giornaliero: «Da allora a oggi il commercio è già cambiato molto, e in positivo, per consumatori e operatori». Le novità di Monti riguardano il superamento del tetto (ora, volendo, si può tenere la serranda alzata h24) e le aperture domenicali e nei festivi senza autorizzazioni di sorta. «Ma dove c’è l’esigenza è già così tant’é che in molte città, turistiche e non solo, la deroga è praticamente la regola: laddove sono state chieste autorizzazioni, sono sempre state concesse». Il punto, quindi, è ragionare con «buon senso», andando a vedere «quali saranno i cambiamenti effettivi», se ci sarà un ricorso smodato all’apertura domenicale o piccoli aggiustamenti, «e con quali convenienze reali». «E se si produrranno scompensi, intervenire per bilanciarli». Fra libertà totale ed eccesso di burocrazia – fra chi tira dritto e chi issa il vessillo della tutela a prescindere dei piccoli – terzium datur.
Fuori dalle ideologie. Osservando anche la congiuntura economica: «In una fase recessiva, l’impatto sulla crescita di una misura come questa rimane comunque da valutare». Non c’è dubbio, nota Lirosi, che «con Monti stiamo assistendo a una positiva ripresa delle liberalizzazioni per dare stimolo all’economia». Ma le prime uscite sono «deboli e timide. Si poteva essere più coraggiosi e farle tutte insieme», toccando tutti i settori in cui l’Antitrust dice che ci sono ostacoli da rimuovere.
Farmaci, professioni, trasporti.
«Aspettiamo un secondo pacchetto di liberalizzazioni che tocchino anche altri settori e che “scomodino” anche altre categorie». E per quanto riguarda il commercio, rimane centrale «salvaguardare il pluralismo distributivo, nell’interesse della concorrenza e del consumatore ». La garanzia dell’offerta, tanta e diversificata. Ma è necessario anche «rispettare il federalismo regionale, e tenere ferme quelle funzioni di programmazione e di impatto sulla comunità che è proprio degli enti locali». Per evitare casi come quello di Roma, quando l’apertura di un punto vendita “Trony” a Ponte Milvio bloccò una parte di città. Perché gli esercizi commerciali non sono una monade. Da questo punto di vista, la deregulation Monti ha archiviato troppo in fretta il ruolo di indirizzo e di coordinamento dei comuni.

da Europa Quotidiano 05.01.12

"Adesso è possibile fare la Maastricht della politica", di Antonio Misiani*

In una fase di sacrifici chi è eletto nelle istituzioni deve essere in prima fila nel dare l’esempio, eliminando ad ogni livello prebende e privilegi non più sopportabili. L’allineamento del trattamento economico dei parlamentari italiani al livello europeo va esattamente in questa direzione. Deve essere attuato senza inseguire l’antipolitica, basandosi sui dai dati reali e ricordando che non si parte da zero. Negli anni più recenti il Parlamento è intervenuto più volte per ridimensionare il trattamento economico dei deputati e dei senatori: dal 2006 l’indennità è stata ridotta del 10%; dal 2007 è congelato ogni adeguamento; dal 1° gennaio 2011 sono stati tagliati diaria e rimborsi (12 mila euro in meno all’anno); dal 1° novembre 2011 i parlamentari pagano un contributo di solidarietà pari al 10% per la parte eccedente i 90 mila euro di reddito imponibile (5 mila euro di tasse in più all’anno).

Di conseguenza, rispetto a cinque anni fa il costo lordo di ciascun deputato e senatore si è ridotto di circa il venti per cento in termini reali. Il lavoro della commissione Giovannini ha il merito di riportare tutti alla realtà, fornendo – pur con tutte le cautele evidenziate nella relazione – elementi utili per decidere in modo rigoroso e razionale, al di là dei titoli cubitali contro i parlamentari con “gli stipendi più alti d’Europa”.

I numeri della relazione – se letti con un minimo di attenzione e di onestà intellettuale confermano infatti ciò che gli addetti ai lavori (ma anche molti giornalisti) sanno da tempo: a) il costo totale lordo dei parlamentari italiani, che tra indennità lorda, diaria e rimborsi vari ammonta a 20.108 euro mensili, non è affatto fuori linea rispetto a quello degli altri Paesi europei. Anzi, è inferiore al costo dei parlamentari tedeschi (27.364 euro) e francesi (23.066 euro), così come – casi non esaminati dalla commissione Giovannini – dei parlamentari inglesi (21.090 euro) ed europei (34.751 euro); b) l’indennità lorda in Italia è più alta rispetto al resto d’Europa ma al netto di tasse e contributi la situazione cambia radicalmente e gli eletti italiani – che percepiscono 4.925 euro mensili per 12 mensilità – si collocano al di sotto dei francesi (5.035 euro) e dei tedeschi (5.110 euro), così come dei parlamentari europei (6.201 euro); c) i parlamentari italiani, a differenza di quelli degli altri Paesi europei, ricevono una serie di rimborsi in forma forfettaria. Su questo tema sono sul tappeto alcune proposte per rendere trasparente l’uso del contributo per il rapporto con gli elettori (che, va ricordato, è destinato all’attività politica e non solo alla remunerazione dei collaboratori dei
parlamentari); d) i vitalizi in Italia erano più favorevoli rispetto agli altri Paesi europei, ma questa anomalia è stata definitivamente superata con la decisione assunta da Camera e Senato di passare al regime contributivo dal 1 gennaio 2012.

I parlamentari del Pd, inoltre, contribuiscono in misura notevole al finanziamento del partito a livello nazionale (ciascun deputato e senatore versa 18 mila euro all’anno) e territoriale (le cifre variano realtà per realtà, ma sono generalmente molto consistenti). Questo sostegno, tanto prezioso quanto misconosciuto, è decisivo per l’attività di molte organizzazioni locali del Pd. Questi sono i dati oggettivi da cui muovere per completare, per quanto riguarda i parlamentari, la “Maastricht dei costi della politica”: la strada maestra, insieme alla modernizzazione delle istituzioni, per restituire alla politica la sobrietà e l’efficacia che i cittadini chiedono a gran voce.

*deputato e tesoriere PD

L’Unità 05.01.12