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"Equitalia, il cane lupo e i cittadini", di Massimo Gramellini

La guerra di sguardi lividi e carte bollate che gli italiani hanno ingaggiato da anni con Equitalia non ha nulla a che spartire con i gesti criminali di chi in questi giorni, nonostante le smentite della Storia, vuole farci credere che le ingiustizie si guariscano evocandone la madre: la violenza. La guerra di cui ci occupiamo qui è una guerra fra poveri, anzi, fra impoveriti (le finanze individuali contro quelle pubbliche) ed è il sintomo di un’emergenza nazionale che precede e spiega tutte le altre: il rapporto fra i cittadini e lo Stato.

Secondo il manuale di educazione civica che prende polvere da decenni nelle nostre librerie, i cittadini sono lo Stato. E le tasse, di conseguenza, lo strumento per finanziare se stessi. Non pagarle rappresenta un atto di masochismo. Ma in Italia non è così. Per un italiano lo Stato è altro da sé, è un vampiro arrogante da buggerare più che si può. Di solito viene identificato con la casta costosa, pletorica e inefficiente dei politici, con il treno sporco e perennemente in ritardo dei pendolari, con il funzionario pubblico che digrigna i denti al di là dello sportello, complicandoci le cose facili e non semplificandoci quelle difficili.

D’altro canto, per un funzionario pubblico il cittadino italiano non è il suo datore di lavoro, ma un postulante. Non il comproprietario dello Stato, ma un suddito. L’effetto di questa estraneità reciproca, rimasta grosso modo inalterata dai tempi delle invasioni barbariche, si riverbera sulla relazione cruciale fra chi paga le tasse e chi le riscuote. Il contribuente considera Equitalia un taccheggiatore. Equitalia considera il contribuente un evasore.

Equitalia detesta il contribuente perché sa che egli farà o ha già fatto di tutto per fregarla. Perciò gli starà addosso con i metodi dell’inquisitore, applicando senza un briciolo di buon senso quelle leggi che le consentono di pignorare la casa e l’auto a chi non possiede nient’altro per lavorare e quindi per pagare le tasse. L’agenzia agirà come se avesse sempre ragione e quando la giustizia le darà torto si rifiuterà di riconoscerlo fino all’ultimo grado di giudizio, confidando nella stanchezza del cittadino, che pur di non spendere altri soldi in tribunale accetterà di pagare in forma scontata una somma che non avrebbe dovuto pagare affatto.

A sua volta il contribuente ritiene che Equitalia si accanisca contro di lui perché è piccolo e nero, mentre i grandi patrimoni vengono risparmiati e coloro che portano i soldi all’estero o mettono le proprietà immobiliari all’ombra di società di comodo non correranno mai alcun rischio. E’ portato a considerare veniali le sue colpe, anche quando ci sono, e sproporzionata la reazione della controparte.

Questo stato d’animo è aggravato, o forse addirittura determinato, dalla mancata percezione dell’interesse comune. La maggioranza degli italiani è convinta che le tasse riscosse da Equitalia non serviranno a pagare i servizi essenziali, ma a ingrassare i soliti noti, perciò vive l’evasione come una forma di autodifesa invece che come una diserzione sociale. In realtà i servizi, anche se pessimi, ci sono e ce ne stiamo accorgendo adesso che cominciano a scarseggiare. E ci sono anche gli evasori: quelli grandi, certo, ma pure i piccini, che la latitanza dei grandi non rende meno colpevoli.

Quando si parla di cartelle esattoriali ogni italiano diventa doppio. La sua parte A applaude all’irruzione delle Fiamme gialle negli alberghi di Cortina durante le festività natalizie, a caccia di ricconi esentasse. Ma la parte B solidarizza con gli abitanti di Cortina che dal prossimo Capodanno rischiano di perdere la clientela e quindi il lavoro. In genere questa parte B è particolarmente sviluppata quando l’azione invasiva dello Stato lambisce le nostre tasche. Quando invece tocca quelle degli altri, rifulge al massimo splendore la parte A. Una schizofrenia che raggiunge livelli di autentico interesse scientifico in una certa sinistra radicale a cui ha appena dato voce Beppe Grillo. Quella che invoca uno Stato cane lupo, da aizzare addosso agli evasori, tranne poi lamentarsi se il cane lupo Equitalia sbrana tutto ciò che fiuta.

La Stampa 04.01.12

"Assistenti e forfait: ora è chiaro dove intervenire", di Luca Landò

Ora è tutto chiaro. La politica ha nelle mani da ieri uno strumento efficace per rendere più efficienti le risorse pubbliche. Basta volerlo, ovviamente. Il dossier sugli stipendi dei politici redatto dalla commissione Giovannini, che ha messo a confronto i compensi di cariche elettive e organi istituzionali di sette Paesi europei, compreso il nostro, non è affatto incompleto e insufficiente come scritto nella relazione. Certo, se lo scopo era individuare una media europea – oggettiva e indiscutibile – a cui riferirsi, l’obiettivo è ancora
lontano: le differenze tra un Paese e l’altro sono tali e tante da rendere impossibile anche a un esperto come Giovannini, presidente dell’Istat, di trovare un criterio scientifico di comparazione. Che la commissione abbia chiesto altri tre mesi di tempo è dunque meritorio e comprensibile ma del tutto ininfluente. Anche nella sua incompletezza, il dossier costituisce una base solida per intervenire.
È però indispensabile leggere le tabelle con attenzione ed evitare conclusioni affrettate. Dire che l’indennità lorda di un
parlamentare italiano sia la più alta d’Europa è corretto dal punto di vista dei numeri ma non aiuta a capire i costi della politica, dove l’indennità è solo una delle otto voci analizzate nella comparazione. Perché è vero che un deputato francese prende meno di un collega italiano (7100 euro contro i nostri 11.283) ma in compenso riceve quasi il doppio come “spese di segreteria e rappresentanza” (6412 contro 3690). E se andiamo al costo dei collaboratori, scopriamo che Oltralpe esiste un assegno di 9138 euro mentre da noi rientra nella voce “segreteria” appena citata. Chi prende di più alla fine?
Un onorevole parigino o un deputato di Roma? Per non parlare del passaggio dal lordo al netto che varia di Paese in Paese a
seconda delle norme. Dal dossier Giovannini emergono alcuni dati incostestabili su cui sui può puntare fin d’ora per migliorare l’efficienza. L’abolizione dei vitalizi, in questo senso,
rappresenta una misura concreta che pone fine a un privilegio
ormai anacronistico. È dunque auspicabile che la cancellazione
proceda spedita e senza ripensamenti: si potrà discutere di come riconoscere i diritti acquisiti, ma non certo del carattere definitivo di un simile intervento. A cui andrebbero aggiunte altre due iniziative. La prima dovrebbe toccare le voci forfettarie che riguardano i trasporti (1331 al mese) e la cosiddetta “diaria” che dovrebbe coprire i costi di vitto alloggio
dell’onorevole (3503 al mese): anziché prevedere una cifra fissa
che nel totale sfiora i 5000 euro, sarebbe il casi di stabilire un tetto massimo e coprire solo le spese realmente sostenute. Giusto rimborsare i costi di chi viene da Pordenone, molto meno quelli di un deputato di Roma con casa e famiglia nella capitale.
La seconda misura dovrebbe riguardare i famosi “portaborse” per i quali ogni deputato riceve 3690 euro al mese come “spese di segreteria e rappresentanza”: voce generica e senza controlli che permette il mal costume, purtroppo diffuso, di assunzioni precarie e pagamenti in nero. Una possibile soluzione sarebbe assegnare i rapporti di lavoro dei collaboratori, non ai singoli deputati e senatori, ma al gruppo di appartenenza. Si otterrebbero solo vantaggi: come rendere più trasparenti i rapporti di lavoro e favorire economie di scala (il gruppo gestisce gli assistenti nel loro insieme nel modo che riterrà più utile e opportuno). Infine, liberi tutti di cambiare idea e bandiera – come avvenuto con grande frequenza di recente – ma sapendo che i collaboratori restano al gruppo. Non si porrà fine al trasformismo, ma almeno si terrà fermo un principio: che la politica è una cosa seria.

L’Unità 04.01.12

"Il coraggio della verità", di Barbara Spinelli

Dire il vero: sulla gravità della crisi italiana, sulla nostra seconda cosa pubblica che è l´Europa, sui sacrifici, sul guastarsi dei partiti. Sembra essere una delle principali ambizioni di Monti, da quando è Presidente del Consiglio. Basta questo, per smentire chi decreta – con l´aria di saperla lunga – che il Premier non è che un tecnico, ammesso a sostituire fugacemente il politico detronizzato. La deturpazione funesta delle parole, lo stratagemma d´illudere il popolo imbellendo la realtà e inventandosi, per decerebrarci, un´attualità del tutto sfasata rispetto a ciò che davvero è attuale, cioè urgente, emergente: per decenni ci eravamo assuefatti a questo, e abbiamo finito col chiamarlo «politica». È ora di restituire, a quest´ultima, il severo verbo vero che le si addice.
Ogni volta che Monti viene descritto come un tecnico, entrato per effrazione in un teatro non suo, c´è da avere i brividi. Vuol dire che i politici di ieri ritengono il Premier un impolitico, e il suo sapere scientifico qualcosa di superfluo, se non dannoso, nell´arte di governo. Che giudicano impolitica anche la vocazione a non nascondere quel che è doloroso, dunque profondamente attuale, nell´oggi che viviamo. Da poche settimane sentiamo parlare di Italia e Europa con accenti inediti (un primo assaggio, ma breve, si ebbe nell´ultimo governo Prodi). I cittadini per ora approvano, conoscono una sorta di sollievo.
Si sentono anche confortati, nel loro rigetto cupo della politica? Può darsi, ma c´è un che di nefasto in questa visione duale: da una parte i politici, dall´altra un Premier che ha tutte le doti dello statista, che interiorizza al massimo la rappresentanza democratica, e tuttavia è percepito come tecnico, estraneo ai giochi nazionali. Essere impolitici in una democrazia smagliata ha le sue virtù: impolitico è chi non possiede le furbizie del professionista politico. Ma prima o poi le due figure vanno congiunte (già si congiungono nel Premier) per depurare la politica ed evitare che senza soluzione di continuità, senza memoria di quest´intermezzo, ci venga restituita domani la politica di ieri.
Le parole dette con franchezza, che Monti usa con metodo nelle conferenze stampa, hanno una lunga storia nella democrazia. Ne discussero i filosofi dell´antichità greca, e diedero al dire-tutto il nome di parresia: un vocabolo che torna negli Atti degli apostoli (Pietro e Giovanni rischiano la morte, pur di testimoniare il vero e la libera coscienza del cristiano). Chi parlava senza blandire o mimetizzarsi era chiamato parresiasta. Senza parresia, scrive Foucault, «siamo sottomessi alla follia e all´idiozia dei padroni»: la pòlis ha bisogno di verità, per esistere e salvarsi.
Monti è all´altezza di tale compito? Per come tratta i giornalisti, per come li considera messaggeri dei cittadini – quasi il coro di antiche tragedie – si direbbe di sì. Non tutti i suoi ministri sono parresiasti: l´apprendimento del parlare-vero è lento, sempre scabroso. Si perdono privilegi, ci si espone alle critiche dei sofisti (gli economisti). Nella democrazia ateniese, secondo Socrate e Demostene, si rischiava la vita. Ha parlato-vero il ministro Fornero, quando tremò, il 4 dicembre in sala stampa, nell´annunciare i sacrifici: non perché volesse celarli, ma perché tremando li confermava penosamente veri.
Anche in Europa il Premier è parresiasta, come nessun collega dell´Unione: ai suoi pari come alla stampa, fa capire che c´è emergenza per tutti, che questa è l´attualità dentro cui i leader non guardano. In due occasioni ha osato bandire le deferenze – che già condannava da mesi. Prima è accaduto a Strasburgo, nel vertice del 24 novembre con la Merkel e Sarkozy, quando ha ricordato i peccati di chi oggi vitupera i dilapidatori del Sud: «Una buona parte della perduta credibilità del Patto di stabilità è stata dovuta al fatto che, quando Germania e Francia nel 2003 entrarono in conflitto col patto, i due governi dell´epoca, francese e tedesco, con la complicità del governo italiano che presiedeva il consiglio Ecofin (il governo Berlusconi, ndr), sono passati sopra queste deviazioni. Credo sia stato un grosso errore». Non solo: ha ricordato che fu proprio lui, commissario a Bruxelles, a battersi perché la Commissione denunciasse il Consiglio dei ministri di fronte alla Corte di giustizia, e a ottenerlo.
La seconda occasione è stata la conferenza stampa di fine anno. Aprendo un dialogo con Tobias Piller, corrispondente a Roma della Frankfurter allgemeine Zeitung, il Premier ha fatto una piccola lezione sui tempi lunghi e corti in politica, biasimando l´incapacità tedesca di ritrovare la veduta lunga del passato.
Ci vuole coraggio per firmare le proprie parole, parlando-vero. Chi lo possiede non ha la vita facile, deve esser cauto se non vuol ricadere nel parlar-falso. Alcuni barcollano, tra chi sta accanto a Monti. Per esempio il potente ministro Passera (responsabile dello Sviluppo economico, delle Infrastrutture, dei Trasporti). Nei giorni scorsi è inciampato malamente, su un caso rievocato dalla stampa: segno che la parresia latita nei partiti, ma un po´ anche nel governo.
Il caso è la mancata vendita di Alitalia e il suo presunto salvataggio: è una delle grandi menzogne dell´era Berlusconi, e su questa pietra Passera ha incespicato. Criticato da Milena Gabanelli e Giovanna Boursier (Corriere della Sera, 30-12) ha replicato: «L´operazione Nuova Alitalia fu del tutto trasparente e rispettosa delle regole, comprese quelle della concorrenza. Con capitali privati si sono salvati almeno 15 mila posti di lavoro ed è stato drasticamente ridotto l´onere che lo Stato avrebbe dovuto sostenere se fosse avvenuto l´inevitabile fallimento dell´intera vecchia Alitalia».
Ricordare è forse difficile per Passera, ma Monti certo sa come andarono le cose. È vero che l´operazione Fenice salvò posti di lavoro e ridusse, per lo Stato, i costi di una bancarotta. Ma il fallimento non era affatto inevitabile. Il governo Prodi aveva stretto un accordo con Air France, che fu sabotato – complici i sindacati – dall´alleanza fra Berlusconi e l´odierno ministro dello Sviluppo (allora amministratore delegato di Banca Intesa). Formalmente è vero che furono rispettate le regole della concorrenza. Ma solo perché il governo Berlusconi modificò con un decreto ad hoc le norme antitrust relative alla tratta Milano-Roma, consentendo a Alitalia-Air One di ottenere il monopolio su tale rotta.
Le cifre parlano chiaro, e un governo che dice il vero non può occultarle. Il piano francese prevedeva 2.120 licenziamenti. Nuova Alitalia, assorbendo la fallimentare Air One di cui Banca Intesa era creditrice, ne licenziò 7.000. L´integrazione con Air France sarebbe stata ben più benefica: minori costi per lo Stato (per i contribuenti), minori costi per azionisti e obbligazionisti Alitalia, nessun cambiamento “in corsa” delle regole per favorire cordate italiane, inserimento di Alitalia in una promettente rete internazionale.
In tempi di crisi, la parola del parresiasta si accosta a quella profetica, o del saggio. I tempi s´allungano, il futuro lontano è incorporato come compito nel presente, la scadenza elettorale non è il cannello d´imbuto che inchioda i governanti alla veduta corta ma è un uscire all´aperto di cittadini bene informati.
Milena Gabanelli e Giovanna Boursier hanno chiesto a Passera di liberarsi dei suoi ingombri. Ma alla domanda viene da aggiungere: guardi al Presidente del Consiglio, signor Ministro, al suo linguaggio. Esca non solo dai conflitti d´interesse, ma dalle tante bugie dette ai cittadini: la bugia su Alitalia l´hanno pagata gli italiani, come contribuenti e lavoratori. La pòlis ha bisogno di verità, sugli sbagli di ieri. La pòlis ha bisogno di verità, sugli sbagli di ieri. Un ministro del governo Prodi parlò-vero, all´inizio del 2008, quando disse che avevano «ripreso sopravvento gli impulsi di autodistruzione presenti nella società italiana e nella classe politica», e criticò proprio l´offensiva pregiudiziale di Passera contro l´accordo Air France. Passera è un tecnico, non meno di Monti. Non basta esser tecnici per liberarci della malapolitica che ci ha portati nella fossa.

La Repubblica 04.01.12

"Lotta alla Casta, non antipolitica", di Rudy Francesco Calvo

Il rapporto sul costo del parlamento aiuterà l’autoriforma? Ne parliamo col vicepresidente dei senatori pd. Chi si aspettava risultati clamorosi dall’indagine della commissione presieduta da Enrico Giovannini sui costi della politica è rimasto deluso. I parlamentari italiani guadagnano sì più dei loro colleghi europei, ma dal dettaglio delle voci esaminate emergono particolari che rendono difficile parlare di uno scandalo. Come precisa una nota pubblicata ieri dagli uffici della camera, «il costo complessivo sostenuto per i deputati italiani in carica è inferiore rispetto a quello sostenuto dalle assemblee dei paesi europei con il Pil più elevato ». E soprattutto, se si considera la cifra percepita al netto delle varie ritenute, «l’importo dell’indennità parlamentare, che è corrisposta per dodici mensilità, è pari mediamente a 5mila euro», ossia «inferiore a quello percepito dai componenti di altri parlamenti presi a riferimento».
Le cose da cambiare, certo, ci sono. E gli uffici di camera e senato sono già al lavoro per introdurre le prime novità già entro questo mese: il primo obiettivo è cambiare il regime di retribuzione dei collaboratori, che dovrebbe essere sottratto al controllo dei singoli parlamentari per passare sotto la responsabilità diretta di Montecitorio e palazzo Madama.
«Sarà il primo punto all’ordine del giorno della prossima riunione dell’ufficio di presidenza», spiegano alla camera.
La maggior parte dei parlamentari preferisce non intervenire sull’argomento. C’è imbarazzo a parlare dei propri stipendi, ma soprattutto c’è la consapevolezza della difficoltà di riuscire a distinguere la difesa della dignità delle istituzioni da quella, più spicciola, della propria busta paga. Ci prova con Europa il vicepresidente dei senatori dem, Luigi Zanda: «Viviamo una fase della storia in cui si avverte un declino dei principi democratici, compresa la continua mortificazione del parlamento e della sua funzione.
Per questo, sono colpito dalla sproporzione della campagna che si sta conducendo sui compensi dei parlamentari, rispetto al disinteresse per lo svilimento del parlamento».
Una preoccupazione condivisa anche da Pier Luigi Bersani, che si rivolge soprattutto ai media per evitare di «creare una situazione che approfondisce un distacco già pesantissimo tra il paese e la politica».
«L’antipolitica è giustificata, se si tiene conto degli insuccessi e delle pratiche vergognose di alcuni politici – prosegue Zanda – io stesso a volte mi vergogno a partecipare ad alcune sedute del senato. Ma non si può trasferire sulla democrazia il discredito che proviene dai comportamenti di alcuni parlamentari. Dobbiamo avere i nervi saldi nel difendere il parlamento». E gettare un occhio, come farà la commissione Giovannini nella seconda parte del proprio lavoro, sugli sprechi che provengono anche da altri enti e istituzioni, che in questi anni hanno moltiplicato sedi e personale. Il vicepresidente dei senatori del Pd, pur dicendosi «pronto ad accettare qualsiasi decisione sulla mia indennità», ricorda: «Prima di entrare a palazzo Madama ho avuto per molti anni retribuzioni molto più alte di quella attuale, nonostante ritenga il lavoro da parlamentare, se svolto con coscienza, più impegnativo di qualsiasi altra attività».
Per coniugare la riduzione dei costi con criteri di efficienza e di sostenibilità del lavoro parlamentare, è possibile intraprendere un’altra strada: «È da tre legislature che presento una proposta di riduzione del numero dei parlamentari – ricorda Zanda – non perché siano troppi in rapporto alla popolazione (dal ’48 a oggi sono rimasti invariati, mentre gli italiani sono passati da 46 a 60 milioni), ma perché lo sviluppo della legislazione europea e regionale ha oggettivamente modificato il carico di lavoro delle camere nazionali».

da Europa Quotidiano 04.01.12

Parlamento, scontro sugli stipendi "Non è vero che sono i più alti", di Claudio Tito

I costi della politica non possono essere confusi con i costi della democrazia. Ogni sistema politico maturo e democratico comporta una spesa per il suo mantenimento. La collettività è chiamata a farsi carico di quei costi e a coltivare anche economicamente la difesa di un modello istituzionale che continui a rispondere – nel nostro caso – ai principi della Costituzione.
Al di là del giudizio sulla congruità degli stipendi riservati ai parlamentari italiani, però, nessuno può nascondere che in questa fase tutti – anche i deputati e i senatori – sono chiamati ad accettare i sacrifici che vengono imposti al Paese. Se il Parlamento ha votato e approvato a larga maggioranza la pesante manovra varata dal governo Monti, allora anche chi ha trasformato in legge quei provvedimenti deve dare il buon esempio. E accogliere per primo le ristrettezze che la crisi economica reclama. Se i lavoratori andranno in pensione più tardi, se per i prossimi due anni gli assegni previdenziali sopra i 1.500 euro non verranno rivalutati, se il peso del fisco nel complesso aumenterà anche nei confronti di redditi ben inferiori a quelli dei parlamentari, a maggior ragione chi ha ricevuto un mandato elettorale deve prendere per primo in considerazione la necessità di tollerare un disagio.
Nessuno quindi può nascondere che l´indennità degli onorevoli sia la più alta in Europa. Gli 11.283 euro al mese che spettano ai deputati e gli 11.555 dei senatori rappresentano un unicum all´interno dell´Unione europea. Basti pensare che i Paesi Bassi, piazzati al secondo posto in questa speciale classifica, sono distanziati di ben tremila euro al mese. E a nulla può valere la differenza tra la retribuzione lorda e netta. Per due ordini di motivi: il costo per la collettività non cambia; la qualità e la quantità della tassazione italiana rientra in quelle leggi che sempre il Parlamento ha approvato.
Ma il rapporto Giovannini non può essere valutato solo per la cifra riguardante lo stipendio di Montecitorio e palazzo Madama. Un altro discorso va fatto per le spese complessive connesse a ogni singolo parlamentare. In questo caso il “totale italiano” non è molto diverso da quello dei partner più grandi a livello europeo. Le nazioni il cui pil è paragonabile al nostro, come Germania, Francia o Spagna, spendono per i propri rappresentanti quanto e più di noi. Se si confrontano la diaria – ossia le spese di soggiorno -, gli importi per la segreteria e quelli per i collaboratori, si capisce che a Parigi o a Berlino il “fabbisogno parlamentare” non è affatto inferiore. Un membro del Bundestag tedesco, ad esempio, ha a disposizione oltre 14 mila euro al mese per retribuire i suoi collaboratori e un componente dell´Assemblea nazionale francese oltre 9 mila. I nostri deputati possono contare invece su 3.500 euro. Anche in questo caso, però, esiste una vera e intollerabile peculiarità per Camera e Senato: la possibilità per onorevoli e senatori di non dimostrare in alcun modo di aver impiegato quella cifra per la destinazione d´uso prevista. Insomma, ognuno – se vuole – può metterseli in tasca senza fornire alcuna giustificazione. Così come non si può nascondere che in questa fase storica viaggiare gratis in aereo, treno e autostrada può determinare un unico rischio: alimentare il distacco dei cittadini e la già crescente ondata di antipolitica. Che colpisce senza distinguere tra costi della politica e costi della democrazia. Che attacca ignorando quel “sottobosco” di malaffare e corruzione, di poltrone e incarichi, spesso legato ai “politici” e non al Parlamento. Nessuno, però, può permettersi il lusso di assecondare una valanga di moderno giacobinismo. A meno di non volere un sistema politico definitivamente riservato ai “super-ricchi”, a quelli in grado di sostenere autonomamente lo sforzo economico del loro impegno, o ai “disperati” senza alternative professionali capaci solo di approfittare di una legge elettorale che nomina dall´alto i parlamentari.
Deputati e senatori hanno quindi il dovere di dare una risposta all´opinione pubblica e di persuaderla affrontando gli aspetti distorsivi della loro retribuzione e dei loro benefit. Per non perdere ulteriormente credibilità e far crollare per lungo tempo il loro indice di popolarità.

La Repubblica 04.01.12

"Il Presidente e gli operai", di Federico Geremicca

Eccoli gli operai, gli antichi compagni, gli amici napoletani di un tempo del Presidente della Repubblica. Evocati anche nel discorso di fine anno, eccoli, ora, nel salone della Fondazione Mezzogiorno Europa (voluta da Napolitano nel 2006) stringersi al «caro Giorgio». Con il Presidente ricordano gli anni della ricostruzione e delle lotte in fabbrica. E per impartire – e soprattutto ascoltare – una lezione su cos’è stata la storia del movimento operaio e del sindacato italiano: la sua visione unitaria, il suo senso di responsabilità nei momenti difficili, la sua difesa di interessi mai corporativi, ma sempre generali e nazionali.
Il Presidente ha voluto dedicare a questi operai una delle sue mattinate napoletane, quasi a ringraziarli della lettera da loro inviatagli nei durissimi giorni della crisi e della nascita del governo Monti. Dice Aniello Borrelli, vecchio operaio delle Officine Meccaniche e Fonderie: «Ti vedevamo in tv ogni giorno più stanco e allora ti abbiamo scritto: grazie Giorgio per quello che stai facendo, ma ora pensa anche a riposare un po’». Napolitano li saluta ad uno ad uno, alcuni non li vede da anni, ripercorre aneddoti e pezzi di storia vissuta, scambia perfino qualche battuta in dialetto, ne ritrova l’affetto: «Te lo ricordi quando, piuttosto che fare politica, aspiravi a fare il regista o l’attore?», gli chiede Nino Di Francia, operaio dell’Ilva (poi Italsider) di Bagnoli. E continua: «Rammento ancora oggi quello che ci dicevi già in quegli anni lì: e cioè che noi dell’opposizione non potevamo dire sempre no, e che dovevamo essere aperti, propositivi…».

E’ una sensazione, solo una sensazione ricavata dalle parole che poi Napolitano dedicherà ai suoi vecchi amici e antichi compagni operai: ma se dovessimo dire, è come se in questi giorni dell’anno che comincia la moral suasion del Presidente sia indirizzata a persuadere lavoratori e sindacati che è il momento di recuperare lo spirito dei momenti difficili (la ricostruzione dopo la guerra, la crisi finanziaria del 1977…), quella visione nazionale che tanto ha contribuito allo sviluppo della democrazia italiana. Anche con i vecchi compagni che stanno ad ascoltarlo – lenti spesse, qualche bastone per sostenersi, gli acciacchi di una vita in fabbrica – Napolitano ricorre a parole di coraggio e verità: «Ci sono cose che cambiano – dice – e dunque cose che non si possono più difendere. Bisogna capirlo, e capirlo per tempo. Quando non ci si riuscì, si subirono sconfitte storiche, come negli Anni 50 alla Fiat. E io le sconfitte non le dimentico…».

Il discorso del Presidente va avanti tra ricordi vivissimi e qualche battuta. La piccola stanza senza finestre della Federazione napoletana del Pci nella quale, dopo le elezioni del 18 aprile 1948, cominciò il suo lavoro di funzionario; l’insistenza di Giorgio Amendola affinché non tralasciasse gli studi e si laureasse; l’elenco delle fabbriche napoletane – il Presidente le ricorda tutte e le elenca con puntiglio – che hanno cambiato nome, che sono state trasferite altrove o che, semplicemente, non ci sono più. Ma tra un ricordo e una battuta, il messaggio comune che esce da questa sala è forte è chiaro: il momento è difficile e le classi lavoratrici e i sindacati devono responsabilmente fare, come in passato, la loro parte.

Napolitano parla seduto tra Umberto Ranieri e Alberto Gambescia – presidente e direttore della Fondazione – e il suo è un discorso anche coraggiosamente autocritico. Ragiona sull’enorme debito pubblico, vera palla al piede per la crescita del Paese, e dice: «Cominciò a crescere per responsabilità di chi governava negli Anni 80, quando si pensò di arginare le tensioni sociali con l’aumento della spesa pubblica: ma noi dell’opposizione non fummo molto attenti, non vigilammo, la riduzione del debito non era una delle nostre priorità». E poi la necessità, non sempre corrisposta, di adeguare le politiche ai cambiamenti e di tener sempre presente l’interesse generale del Paese: un discorso che sembra quasi guardare più all’oggi che a quel che fu…

Napolitano ricorda gli anni del dopoguerra, i velocissimi mutamenti nell’Italia che ricostruiva e rinasceva. Poco prima di lui, Nino Di Francia aveva azzardato: «A quel tempo i cinesi eravamo noi… Lavoro, lavoro, lavoro… Poi sono cominciate le difficoltà». Il Presidente ripercorre alcuni dei momenti difficili per il movimento operaio, per la città di Napoli e per il Paese. Ripensa al 1984 e alla sconfitta nel referendum sulla scala mobile: «Però un leader come Luciano Lama, che pure gestì quella linea, rifiutò di proclamare lo sciopero generale a sostegno del referendum e subito dopo si impegnò per recuperare l’unità sindacale». Oppure alla crisi economica e finanziaria del 1977, già citata come esempio nel discorso di fine anno. Di fronte ai compagni operai di un tempo, Giorgio Napolitano la ripercorre, citando più di un aneddoto.

«Quella volta – ricorda – discussi perfino con Giorgio Amendola… Lui, infatti, era convinto che la classe operaia dovesse affrontare i sacrifici necessari senza chiedere nessuna contropartita. A me, invece, sembrava giusto che si chiedesse, in cambio, l’avvio di una stagione di riforme, almeno in materia di politica industriale e sociale: e infatti nel 1978 fu avviata una grande riforma, quella sanitaria». Oggi, aggiunge, «siamo di nuovo in condizioni di enorme difficoltà, e dobbiamo dire che c’è qualche responsabilità davvero collettiva… Quel che mi auguro, è che il movimento dei lavoratori dia di nuovo prova di saper guardare agli interessi generali e non stia sulla difensiva: a quel tempo lo fece…».

Aniello Borrelli e Antonio Mola, Aedo Violante e Nino Di Francia, Ettore Combattente e Angelo Abenante, volti e nomi noti della sinistra napoletana, operaia e non, si stringono orgogliosamente intorno al compagno di strada di un tempo, diventato Presidente. Mostrano vecchie foto in bianco e nero, cartoline, ritagli di giornale… Napolitano ricorda con affetto tutti, ha un pensiero per chi non c’è più e riandando al tempo passato, annota: «Ho letto – e mi dispiace – quel dice il segretario della Fiom, e cioè che negli Anni 50 la situazione era meno drammatica di oggi. Mi sembra un giudizio poco fondato…». E poi chiude, prima del brindisi di rito, con una nota di speranza ed una annotazione personale.

«Oggi siamo in salita, una salita faticosa: ma quaranta giorni fa la strada era in precipitosa discesa. Io dico che è sempre meglio faticare per salire, piuttosto che precipitare…». E rivolto ai compagni e agli operai preoccupati dal vederlo tanto stanco, non offre rassicurazioni: «Per ora, i miei sei anni al Quirinale sono stati evidentemente faticosi. Ma ognuno è fatto a modo suo, e io non ho l’abitudine di prenderla calma. Del resto, noi dell’opposizione avevamo una certa abitudine a drammatizzare… Ricordate ? Quante volte abbiamo detto “la situazione è drammatica?!” Bene, oggi vi dico solo che siamo in salita. E’ una salita dura, ma tutti assieme ce la possiamo fare».

La Stampa 04.01.12

"Poco media, molto inferiore", di Marina Boscaino

Il Rapporto della Fondazione Agnelli sulla scuola in Italia, appena pubblicato, conferma dati noti: ad alimentare la dispersione scolastica è la media. Da sempre anello debole del sistema di istruzione, la secondaria di primo grado registra e spesso rende definitiva la correlazione tra condizioni socio-culturali ed esiti, ancora contenuta nella primaria: gli studenti con genitori con la licenza media rischiano un ritardo scolastico infatti quattro volte più dei figli di laureati.

È tradito il mandato che la Costituzione affida alla scuola: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. È sconfessata la grandiosa idea di scuola come ascensore sociale, concepita nel 1962 con la “media unica”, termine dell’obbligo scolastico, per garantire a tutti lo stesso diritto all’apprendimento fino a 13 anni. Qualcosa non ha funzionato, invece: le carenze che diventano incolmabili nelle superiori hanno origine proprio in una fascia di età – la pre-adolescenza – che richiederebbe il massimo di cura.

Nel 2007, ultimo anno del giudizio sintetico alle scuole medie (ottimo, distinto, buono, sufficiente) la somma delle prime due valutazioni era inferiore al numero di sufficienti. Con evidenti conseguenze sui più “vulnerabili”: i ragazzi italiani in ritardo sono l’ 11,6 % della popolazione scolastica, i migranti il 42,5 %. Il maggior ritardo alle superiori, con il 24,4 % degli italiani e ben il 71,8 % degli stranieri. Il 40,7 % dei giovani migranti è nell’istruzione professionale, il 37,6 % in quella tecnica, mentre gli italiani sono rispettivamente il 19,9 % e il 35 %: la scuola media sembra aver rinunciato a ogni funzione orientativa per traghettare nei vari segmenti delle superiori destini socialmente determinati – quando ciò avviene. Gran parte dei sufficienti, migranti o no, sono confluiti nella zona più debole della scuola superiore, dove si concentrano condizioni sociali più svantaggiate e si accumula il ritardo maggiore.

La primaria è caratterizzata da metodi didattici e pedagogici fondati su esperienza, tempi distesi, costruzione di rapporti sociali e affettivi significativi, alla base di ogni apprendimento. Alle medie, cambiamento repentino: parcellizzazione in materie, prevalenza di lezioni frontali, indebolimento della relazione affettiva per il moltiplicarsi delle figure di riferimento. Considerati efficaci in Europa, negli ultimi dieci anni si sono diffusi anche da noi gli istituti comprensivi, idea fertile e promettente di unire istituti di ordinamenti contigui – scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di I grado – concepiti come luogo di consistenza/convivenza di identità culturali/professionali diversificate: unico POF, organi collegiali unici, unica dirigenza. I comprensivi possono essere la massima espressione di autonomia didattica e organizzativa, sperimentazione, sviluppo e ricerca, sinergie con il territorio.

Sono una tipologia di scuola nata per esigenze gestionali, che può avere però anche importanti valenze metodologiche e introdurre curricula davvero verticali. È una prospettiva che non può essere ridotta a manovra di risparmio, come invece prevede la L. 111/11 “Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria”: tutte le istituzioni scolastiche del 1° ciclo dovranno essere accorpate; nuovi e vecchi istituti comprensivi dovranno avere almeno 1000 alunni; le istituzioni scolastiche con meno di 500 alunni non potranno avere un dirigente titolare e un direttore amministrativo, ma saranno affidate in reggenza. Contrazione di circa 3.180 posti per i presidi (-30 %), 1.130 per i direttori amministrativi (-11 %) e 1.100 per gli assistenti amministrativi. Riduzione di spesa per la rete scolastica: 200 milioni l’anno. In novembre la legge di stabilità ha alzato da 500 a 600 il numero di alunni che garantisce un dirigente di ruolo. Salgono così a 3.138 dalle 1.812 previste dai precedenti parametri le scuole da accorpare (dati Tuttoscuola).

La Scuola della Repubblica non può ridurre l’equità all’accesso, deve garantire il successo formativo; e la crisi della media non può essere risolta a suon di tagli. Tanto più che i suoi docenti sono i più vecchi: 52,1 anni l’età media. E sono anche i più instabili: il 35 % non resta per più di due anni sulla stessa cattedra. Annunciando i prossimi concorsi, Profumo ha detto: «Voglio riaprire la scuola ai docenti giovani ed evitare di bloccare una generazione di neolaureati che oggi non ha alcuna possibilità di ottenere una cattedra», ma intanto l’unica cosa certa a norma di legge è l’innalzamento dell’età pensionabile del personale.

da Il Fatto Quotidiano 03.01.12