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"Il Presidente e gli operai", di Federico Geremicca

Eccoli gli operai, gli antichi compagni, gli amici napoletani di un tempo del Presidente della Repubblica. Evocati anche nel discorso di fine anno, eccoli, ora, nel salone della Fondazione Mezzogiorno Europa (voluta da Napolitano nel 2006) stringersi al «caro Giorgio». Con il Presidente ricordano gli anni della ricostruzione e delle lotte in fabbrica. E per impartire – e soprattutto ascoltare – una lezione su cos’è stata la storia del movimento operaio e del sindacato italiano: la sua visione unitaria, il suo senso di responsabilità nei momenti difficili, la sua difesa di interessi mai corporativi, ma sempre generali e nazionali.
Il Presidente ha voluto dedicare a questi operai una delle sue mattinate napoletane, quasi a ringraziarli della lettera da loro inviatagli nei durissimi giorni della crisi e della nascita del governo Monti. Dice Aniello Borrelli, vecchio operaio delle Officine Meccaniche e Fonderie: «Ti vedevamo in tv ogni giorno più stanco e allora ti abbiamo scritto: grazie Giorgio per quello che stai facendo, ma ora pensa anche a riposare un po’». Napolitano li saluta ad uno ad uno, alcuni non li vede da anni, ripercorre aneddoti e pezzi di storia vissuta, scambia perfino qualche battuta in dialetto, ne ritrova l’affetto: «Te lo ricordi quando, piuttosto che fare politica, aspiravi a fare il regista o l’attore?», gli chiede Nino Di Francia, operaio dell’Ilva (poi Italsider) di Bagnoli. E continua: «Rammento ancora oggi quello che ci dicevi già in quegli anni lì: e cioè che noi dell’opposizione non potevamo dire sempre no, e che dovevamo essere aperti, propositivi…».

E’ una sensazione, solo una sensazione ricavata dalle parole che poi Napolitano dedicherà ai suoi vecchi amici e antichi compagni operai: ma se dovessimo dire, è come se in questi giorni dell’anno che comincia la moral suasion del Presidente sia indirizzata a persuadere lavoratori e sindacati che è il momento di recuperare lo spirito dei momenti difficili (la ricostruzione dopo la guerra, la crisi finanziaria del 1977…), quella visione nazionale che tanto ha contribuito allo sviluppo della democrazia italiana. Anche con i vecchi compagni che stanno ad ascoltarlo – lenti spesse, qualche bastone per sostenersi, gli acciacchi di una vita in fabbrica – Napolitano ricorre a parole di coraggio e verità: «Ci sono cose che cambiano – dice – e dunque cose che non si possono più difendere. Bisogna capirlo, e capirlo per tempo. Quando non ci si riuscì, si subirono sconfitte storiche, come negli Anni 50 alla Fiat. E io le sconfitte non le dimentico…».

Il discorso del Presidente va avanti tra ricordi vivissimi e qualche battuta. La piccola stanza senza finestre della Federazione napoletana del Pci nella quale, dopo le elezioni del 18 aprile 1948, cominciò il suo lavoro di funzionario; l’insistenza di Giorgio Amendola affinché non tralasciasse gli studi e si laureasse; l’elenco delle fabbriche napoletane – il Presidente le ricorda tutte e le elenca con puntiglio – che hanno cambiato nome, che sono state trasferite altrove o che, semplicemente, non ci sono più. Ma tra un ricordo e una battuta, il messaggio comune che esce da questa sala è forte è chiaro: il momento è difficile e le classi lavoratrici e i sindacati devono responsabilmente fare, come in passato, la loro parte.

Napolitano parla seduto tra Umberto Ranieri e Alberto Gambescia – presidente e direttore della Fondazione – e il suo è un discorso anche coraggiosamente autocritico. Ragiona sull’enorme debito pubblico, vera palla al piede per la crescita del Paese, e dice: «Cominciò a crescere per responsabilità di chi governava negli Anni 80, quando si pensò di arginare le tensioni sociali con l’aumento della spesa pubblica: ma noi dell’opposizione non fummo molto attenti, non vigilammo, la riduzione del debito non era una delle nostre priorità». E poi la necessità, non sempre corrisposta, di adeguare le politiche ai cambiamenti e di tener sempre presente l’interesse generale del Paese: un discorso che sembra quasi guardare più all’oggi che a quel che fu…

Napolitano ricorda gli anni del dopoguerra, i velocissimi mutamenti nell’Italia che ricostruiva e rinasceva. Poco prima di lui, Nino Di Francia aveva azzardato: «A quel tempo i cinesi eravamo noi… Lavoro, lavoro, lavoro… Poi sono cominciate le difficoltà». Il Presidente ripercorre alcuni dei momenti difficili per il movimento operaio, per la città di Napoli e per il Paese. Ripensa al 1984 e alla sconfitta nel referendum sulla scala mobile: «Però un leader come Luciano Lama, che pure gestì quella linea, rifiutò di proclamare lo sciopero generale a sostegno del referendum e subito dopo si impegnò per recuperare l’unità sindacale». Oppure alla crisi economica e finanziaria del 1977, già citata come esempio nel discorso di fine anno. Di fronte ai compagni operai di un tempo, Giorgio Napolitano la ripercorre, citando più di un aneddoto.

«Quella volta – ricorda – discussi perfino con Giorgio Amendola… Lui, infatti, era convinto che la classe operaia dovesse affrontare i sacrifici necessari senza chiedere nessuna contropartita. A me, invece, sembrava giusto che si chiedesse, in cambio, l’avvio di una stagione di riforme, almeno in materia di politica industriale e sociale: e infatti nel 1978 fu avviata una grande riforma, quella sanitaria». Oggi, aggiunge, «siamo di nuovo in condizioni di enorme difficoltà, e dobbiamo dire che c’è qualche responsabilità davvero collettiva… Quel che mi auguro, è che il movimento dei lavoratori dia di nuovo prova di saper guardare agli interessi generali e non stia sulla difensiva: a quel tempo lo fece…».

Aniello Borrelli e Antonio Mola, Aedo Violante e Nino Di Francia, Ettore Combattente e Angelo Abenante, volti e nomi noti della sinistra napoletana, operaia e non, si stringono orgogliosamente intorno al compagno di strada di un tempo, diventato Presidente. Mostrano vecchie foto in bianco e nero, cartoline, ritagli di giornale… Napolitano ricorda con affetto tutti, ha un pensiero per chi non c’è più e riandando al tempo passato, annota: «Ho letto – e mi dispiace – quel dice il segretario della Fiom, e cioè che negli Anni 50 la situazione era meno drammatica di oggi. Mi sembra un giudizio poco fondato…». E poi chiude, prima del brindisi di rito, con una nota di speranza ed una annotazione personale.

«Oggi siamo in salita, una salita faticosa: ma quaranta giorni fa la strada era in precipitosa discesa. Io dico che è sempre meglio faticare per salire, piuttosto che precipitare…». E rivolto ai compagni e agli operai preoccupati dal vederlo tanto stanco, non offre rassicurazioni: «Per ora, i miei sei anni al Quirinale sono stati evidentemente faticosi. Ma ognuno è fatto a modo suo, e io non ho l’abitudine di prenderla calma. Del resto, noi dell’opposizione avevamo una certa abitudine a drammatizzare… Ricordate ? Quante volte abbiamo detto “la situazione è drammatica?!” Bene, oggi vi dico solo che siamo in salita. E’ una salita dura, ma tutti assieme ce la possiamo fare».

La Stampa 04.01.12